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Manuale di regie teatrali, Fazio, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Sintesi del manuale scritto dalla Fazio per l'esame di Teatro contemporaneo

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 22/03/2019

PietrooB
PietrooB 🇮🇹

4.6

(127)

25 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Manuale di regie teatrali, Fazio e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! REGIE I. La messinscena prima del regista La regia e la figura del regista si affermano stabilmente in Europa a partire dal 1870. La figura del regisseur - un attore d’esperienza che gestiva la situa - esisteva già in teatri come il Burgtheater di Vienna e la Comedie Française, e il processo che ha portato alla figura del metteur en scene - tipicamente borghese - era già cominciato verso la fine del Settecento. La regia nasce quindi dalla sostituzione dell’uno con l’altro. Prima della regia, era d’uso il sistema dei ruoli e del repertorio: ogni attore recitava un insieme di ruoli della stessa categoria, per i quali erano necessari determinate caratteristiche. Ognuno si esercitava per conto proprio. Nel Seicento, in Francia, vennero addirittura suddivisi i generi; la spettacolarità e la scenografia divennero appannaggio dell’opéra, il teatro musicale, e vennero banditi dal teatro di prosa - dove venivano rappresentate commedie e tragedie, gestite da un capocomico che talvolta coincideva con l’autore (Moliere), con una messinscena relativamente statica. Fino a metà Settecento, il pubblico era addirittura ammesso sulla scena al fianco degli attori; nel corso dello stesso secolo, però, sempre più frequente è la presenza dell’autore alle prove e si tende verso un’interpretazione più individualistica del testo. Interessante il caso di Voltaire, che si interessava oltre che al testo anche alla messinscena, dando esempio di proto-regismo. Forzato all’esilio nel 1726 in Inghilterra, affascinato dal grande movimento spettacolare dei drammi shakespeariani, Voltaire aveva cominciato a sostituire al récit e alla conversazione un incremento dell’azione e didascalie dettagliate: vennero eliminati i lampadari sull’avanscena per creare l’effetto notte, e nel 1759 venne bandito il pubblico dal palco. Anche Beaumarchais s’interessava della rappresentazione delle proprie opere - Eugenie (1767) cominciava con una lunga didascalia descrittiva, che metteva in pratica le idee diderotiane dei tableaux. Altro regista ante-litteram fu a suo modo il direttore del Teatro di corte di Weimar, ovvero Goethe: d’altra parte, tutto quel teatro dipendeva da lui. Cercò di reintrodurre l’abitudine di recitare in versi, sostituendo il giambico d’ispirazione shakespeariana agli alessandrini. Nel diventare proto-regista, Goethe fu influenzato dalle proprie idee estetiche: armonia, lavoro corale, Zusammenspiel (affiatamento), evitando la staticità. La scena doveva essere un quadro festivo: chiamò poi ad affiancarlo Schiller, che nel 1799 si trasferì a Weimar, con l’obiettivo di istituire una nuova drammaturgia idealistica che fondava la sua forza anche sulla messinscena - unire alle parole danza e musica. Nel 1798 era stato inaugurata la nuova sede di quel Teatro, e si ricorda la rappresentazione del Wallenstein Lager di Schiller perchè il proto-regista Goethe, in quel caso, tentò per la prima volta di mettere in scena le masse in movimento. Inoltre, congiuntamente, i due cercarono di spiegare agli attori il metodo della recitazione tramite immedesimazione. Negli stessi anni, nei teatri popolari francesi, Pixerecourt - inventore del melodrame, genere d’infinito successo in quel periodo - agiva come proto-regista. Il melodrame era volutamente esagerato, pieno di colpi di scena e rivolto ad un pubblico ingenuo, sciocco; Pixerecourt tra l’altro mostrò al pubblico ciò che solitamente veniva solo detto nel recit, comprendendo l’importanza dell’effetto. La scenografia era fondamentale, e doveva mostrare luoghi assurdi e tenebrosi, dove il movimento degli attori doveva esplodere al massimo per catturare l’attenzione. Tutto ciò era gestito da lui. Scena per scena indirizzava gli attori. La spettacolarità era la base; in quel periodo si erano svolti degli scavi a Pompei, ed era eruttata la moda per il Vesuvio, che Pix prontamente rappresentò in modo infernale in Tete de mort. Era inoltre molto autoritario, pretendeva la massima disciplina. Fu il primo a teorizzare apertamente la necessità di un’unità teatrale, di una figura che facesse tutto. L’espressione mise en scene appare per la prima volta nel 1821 in una critica di un dramma di Pix: la sua concezione nasce quindi nei teatri popolari, a causa della dura bacchetta della Comedie Française; solo negli anni Venti Taylor, l’amministratore generale, capisce che per salvare il teatro bisogna scostarsi dai classici, e indirizza il Theatre Français in quella direzione. Nello stesso periodo, Hugo e Dumas sognavano di possedere un proprio teatro. Nel ’37 Dumas diresse personalmente la mise en scene del suo Caligula, legittimando quindi queste nuove particolarità sulla scena che fu di Corneille e Racine - la Comedie (eliminate quinte laterali, 100 comparse, 6 nuove scene molto complesse, effetti d’illuminazione). La battaglia romantica combattuta nel teatro di prosa invece è perdente: l’Ernani, vittoria di Pirro, apre ad una stagione molto breve. Così Hugo e Dumas si spostano nei teatri secondari, dove possono fare meglio. Nel tempo la situazione si evolve: in seguito alla polemica tra fautori dell’Arte e fautori dello spettacolo, aumentano verso la fine del secolo le didascalie - che imbrigliano i personaggi. In Italia, invece, resta viva la tradizione del “grande attore” individualista, con scene dipinte e oggetti di scena approssimativi e prove limitate. Mancava, insomma, la coralità: eppure la cura meticolosa nel proprio lavoro applicata da Tommaso Salvini (notato anche da Stanislavskij) apre ad un capitolo riguardante lo studio del personaggio e la sua psicologia. In Inghilterra Henry Irving, primattore/direttore del Lyceum Theatre di Londra, curava personalmente gli spettacoli caratterizzandoli con effetti di luce, figurazioni pantomimiche e scene di massa. Il contributo più esplicito al riconoscimento della regia come arte viene, però, dal mondo della lirica. Wagner teorizza immediatamente il bisogno di unità e il teatro come spettacolo d’arte totale: con lui il teatro serio smette di avversare lo spettacolo, e prova anzi ad inglobarlo. Contrario all’attore virtuoso, il teatro di Wagner prevedeva anche un attore-cantante: secondo lui, il piacere dello spettatore derivava dalla percezione simultanea del tutto. Grandi teorie, povere pratiche: nasconde l’orchestra, spegne le luci, ma non è ancora in grado di inventare una nuova scenografia e suo malgrado si ritrova a seguire la prassi dell’opera. Contemporaneamente a tutto ciò, nell’ambiente della lirica italiana, si diffonde l’uso delle “disposizioni sceniche”, basate sul livret de mise en scene: la loro funzione era di canonizzare ogni genere, stabilendo norme da applicare ad ogni spettacolo riguardanti gestualità etc. Chiaramente, con la nascita della regia, la disposizione scenica fu costretta a tramontare in quanto limitante. II. Il duca di Meiningen e il Giulio Cesare di Shakespeare Il primo vero regista fu il duca di Meiningen, uomo abituato al comando che sin da giovane aveva volontariamente lasciato che il padre lo escludesse dalla politica. Creò una compagnia di circa 70 attori che lavorò nel Teatro di Corte, per poi fare una abbandona il teatro, dopo essere stato il primo ad aver intellettualizzato il lavoro dietro le quinte, rompendo una routine secolare. IV. Stanislavskij dal Gabbiano di Cechov al “sistema” 1877-1887: attore e coordinatore del Circolo Alekseev. 1888-1898: attore principale e direttore della Società d’arte e letteratura. 1898: Stanislavskij fonda con Nemirovic Dancenko il Teatro d’Arte di Mosca. Negli anni precedenti si era avvicinato alla regia, ma non era ancora un luminare: l’incontro con Cechov sarà fondamentale, e potrà sperimentare la sua idea di regia come arte di narrare, illustrare la vita degli uomini. In questo stesso anno va in scena Il gabbiano: se Cechov aveva sostanzialmente inventato una nuova drammaturgia corale, Stanislavskij adatta al suo dramma una regia necessariamente sinfonica, mettendo però al centro dell’analisi gli attori e la recitazione. Il quaderno di regia da lui steso è dettagliatissimo: risulta essere una sceneggiatura proto-cinematografica. Nel foglio: a sinistra la scena, a destra le annotazioni che prendono circa 10 volte lo spazio della scena. I suggerimenti del teatro di Cechov vengono ampliati, ipertrofizzati, dando grande importanza sì agli attori, ma anche alla presenza scenica degli oggetti - che si moltiplicano sul palco. All’epoca, in Russia, gli attori declamavano e recitavano come tenori; stupito dai Meininger, Stanislavskij crea invece una trama visiva in perenne movimento, somigliante più al vissuto che al teatro convenzionale. Gli attori recitano in modo inedito. Parlano, ridono, piangono, ma nel contempo fanno cose, gesti necessari nella quotidianità. Gli umori sono volubili, le espressioni minimaliste: è la stagione del realismo. Anche ai suoni viene data particolare attenzione, in quanto parte integrante della rappresentazione. Questo metodo viene poi applicato anche agli altri capolavori cechoviani: Zio Vanja, Tre sorelle, Il giardino dei ciliegi. Come l’autore, anche il regista aspira alla sincerità, allo smascheramento della menzogna teatrale. Sarà proprio la morte di Cechov a chiudere un capitolo della vita di Stanislavskij. Non scrive più quaderni di regia: vuole che sia l’attore stesso, col suo impegno, a diventare creatore di immagini. Nasce così il “sistema”: non è più un regista despota, bensì un regista pedagogo. Alla base di questo sistema pone la differenza tra il mestiere dell’attore e l’arte attoriale: l’attore di mestiere ha l’aria di soffrire/gioire, mentre l’attore artistico prova psicologicamente e fisiologicamente il dolore/la gioia, ignorando il pubblico, cominciando un lavoro che parte dall’interno, dall’anima, da un lavoro su se stessi molto preciso. Rilassamento muscolare e concentrazione, assorbimento dei caratteri ed immedesimazione: essere il personaggio, concentrarsi al punto di percepire sentimenti analoghi a quelli del personaggio e renderli propri - poterli ricreare: ecco le “emozioni affettive”, derivanti quindi da una “memoria affettiva”, che va a creare un teatro della revivescenza. Con gli anni, questa passione da laboratorio surclassa l’impegno registico: è il periodo degli Studi. 1912: fonda Primo Studio, e lo affida al poliedrico Sulerzickij. 1916: Sulerzickij muore e viene sostituito da Vachtangov. Fondato il Secondo Studio. 1918: Terzo Studio, nato dal laboratorio indipendente di Vachtangov. Studio Bol’soj, che dopo il ’26 diventerà Studio Stanislavskij. Nei primi anni Venti il nostro eroe si reca in tournee in America e in Europa, riscuotendo un successo pazzesco. Se l’America resta affezionata a quello Stanislavskij, lui non si ferma. Dopo il 1930, mette a punto un nuovo metodo di costruzione del personaggio: il fine è lo stesso, ma il fulcro ora è il corpo - e, quindi, diventa il “metodo delle azioni” (cosa farei se fossi al suo posto? La risposta è l’azione). Fondamentale rimane l’interazione fra fisico e psichico. Questo secondo Stanislavskij diventerà feticcio russo, mentre l’altro americano: la guerra fredda accentuerà la separazione. V. Appia e il Tristano e Isotta di Wagner Appia, attraverso la riflessione sul Wort-ton-drama di Wagner, legittima la concezione di regia. A vent’anni, nel 1882, assiste al Parsifal diretto dallo stesso Wagner e riconosce in quello spettacolo il futuro; viene stupito anche dal teatro di Bayreuth e dalla sua orchestra nascosta. Non era però convinto dai costumi, dalle scene e dalle luci, nei quali identifica la difficoltà di accettazione nei confronti del dramma wagneriano. Quest’ultimo doveva rappresentare luoghi mitici, sublimi, e aveva dunque bisogno di un apparato scenico appropriato per creare l’illusione: erano molto apprezzabili gli effetti da grande spettacolo e i cambi di scena a vista che mantenevano intatta l’unità temporale, ma la pittura rendeva il tutto statico. Inoltre era incongruente il modo di essere dei wagneriani cantanti all’italiana, che secondo Appia stonavano col contesto. Gli aspetti fenomenici e crudi della scenografia stridevano con lo stato d’animo che doveva essere espresso: realismo e metafisica non andavano d’accordo. Tra 1890 e 1900 Appia gira tra Dresda e Vienna (Burgtheater), studiando sul campo le possibilità sceniche: in questo decennio produce moltissimo, scrivendo e disegnando moltissime messinscene per i drammi wagneriani, insistendo sulla differenza tra regisseur e metteur en scene. Specialmente con lo studio del Tristano e Isotta, Appia cerca di risolvere le contraddizioni: come raffigurare il dramma interiore, mantenendo però il ritmo della narrazione? La soluzione, a suo avviso, risiede nella luca: nel primo atto, ambientato sulla tolda di una nava, quando Isotta si nasconde al mondo dentro la sua tenda, la penombra di quest’ultima diventa simbolo della separazione tra spettacolo esteriore e espressione interiore. Nel secondo atto, che si svolge nel castello di re Marke, Isotta deve spegnere la fiaccola come segnale concordato con Tristano per fargli capire che può raggiungerla: i due vengono poi sorpresi da Melot, che si è portato dietro re Marke e i cortigiani. L’atto dello spegnere la fiamma è simbolico: come i due eroi, anche noi vogliamo immergerci nel buio dell’interiorità e venirne cullati. Non c’è bisogno di “vedere” l’amore che provano. La penombra che la fiaccola dava al palcoscenico cede dunque il passo all’oscurità: ma ecco che la luce riaffiora, portata da Melot e re Marke (luce: triste realtà; buio: interiorità passionale). Il ragionamento portante è che la scena non debba apparire come un elemento isolato: era però troppo avanti coi tempi, e i suoi progetti vennero respinti dalla stessa Cosima Wagner (moglie). Col tempo, Appia percepisce anche la somma importanza della danza, della ginnastica gestuale corporea dell’attore. Assiste nel 1906 ad uno spettacolo di ginnastica ritmica di Dalcroze, nel quale riconosce ciò a cui aveva pensato: il corpo dell’attore diventa a sua volta mezzo espressivo, grazie ad una scioltezza anormale che consente di esprimere il ritmo artigianalmente. Ispirato, produsse una serie di disegni detti “spazi ritmici” nel 1909, che spinsero Dalcroze a chiedergli di seguirlo a Hellerau, dove concepì L’opera d’arte vivente (concetto caro anche ai Greci) nel 1921. Nel 1923 venne invitato alla Scala: poteva finalmente rappresentare il suo Tristano e Isotta. Giunto sul posto, si rese tristemente conto che i mezzi di cui poteva servirsi era approssimativi, e che i compromessi pragmatici ai quali sarebbe dovuto scendere erano degradanti - scrisse a Craig, avvertendolo. La critica milanese accolse con grande riserbo la scenografia severa di Appia: fu un episodio per lui duro. Nel 1928 moriva in una clinica psichiatrica: come gli aveva scritto Chamberlain, era di 75 anni in anticipo sui tempi. La luce sarebbe diventata nel corso del Novecento la prerogativa dello spettacolo. Altra cosa importante: Appia ha lasciato un’eredità che porta a non temere l’autore, ma ad averne rispetto in modo creativo per poter elevare il suo testo a opera d’arte completa. VI. Craig e il Didone e Enea di Purcell Figlio della più grande attrice della compagnia di Irving - Ellen Terry - Craig nasce e cresce sul palcoscenico. Per 9 anni fa l’attore, prendendo dimestichezza con l’aspetto più pratico del teatro: lo spirito del Lyceum Theatre, in teoria, era quello di seguire il Naturalismo, ma nei fatti si risolveva in un’accozzaglia di elementi incongrui. Concluso il suo contratto, nel 1897, Craig abbandona il lavoro attoriale e inizia un percorso registico. “1900: data del mio risveglio intellettuale”. Come Appia, parte subito da un’opera musicale: Didone e Enea di Purcell, del Seicento, perchè secondo lui più che le parole e l’intrigo era importante la musica. Aveva a disposizione una sala da concerto; piantò un palcoscenico, limitato da teloni dello stesso colore del fondale e sormontato da un impianto di luci che ne illuminava la scena, servendosi di 60 dilettanti - avversando lo star system materno, e confidando nella duttilità dei dilettanti. La cura del dettaglio (tre mesi di prove per solo tre repliche) dimostrava che non si trattava di teatro commerciale. La sua conoscenza artigianale riempiva pagine su pagine di note di regia: doveva molto a Irving e alla sua compagnia, ma procedeva nel verso opposto rispetto al trompe l’oeil, e anzi professava la “totale inesattezza dei dettagli”. Ispirato dal simbolismo e dall’arte giapponese, riempì di suggestioni colorate in chiaroscuro la scena inglese, prevalentemente grigia. Segnava le annotazioni sullo spartito, accanto alle note: la musica era il fulcro dell’operazione. La scenografia era dunque molto interessante: l’interno del palazzo reale era restituito con un semplice traliccio intrecciato di rampicanti, con teloni violacei che circondavano il palco. La scena finale, che si svolgeva nello stesso punto, cambiava la luce in giallastra e i cuscini da scarlatti a neri - utilizzo dei colori simbolico. Nel 1901 rappresentò l’opera al Coronet Theatre di Londra, con qualche modifica: l’atmosfera era grandiosa, la regina soffriva come soffrono i grandi, in modo epico. Il regista si avvicina molto al diventare un’artista, in questo caso. La scena non doveva più raccontare, ma suggestionare: l’attore ne usciva più che ridimensionato, subalterno rispetto all’insieme. Lavorò poi con i teatri professionali londinesi, che lo delusero: su invito del conte Kessler si spostò a Berlino, dove incontra Isabella Duncan - travolgente fiamma amorosa. Nel 1904 una sua esposizione di disegni fa il giro della Germania, principi di Mejerchol’d, con gli attori che facevano economia di gesti. Quando andò in scena Nora divenne evidente la sua tendenza a subordinare gli attori alla propria concezione pittorica, fatto che rendeva di fatto impossibile la convivenza con la Kommissarzevskaja e puntava sull’immobilità. Riscoprì il proscenio, nel tentativo di fiondare l’azione in mezzo al pubblico, e riscoprì in parte il teatro teatrale, condito da una concezione della marionetta viva e mobile. Si spostò al Teatro imperiale Alexsandrinskij, dove restò dal 1908 al 1914: famosa la rappresentazione del Don Giovanni di Moliere, riguardo il quale si concentrò prevalentemente sull’atmosfera piuttosto che sul testo, utilizzando il proscenio per catturare l’attenzione. Proprio quest’utilizzo del proscenio riportò Mejerchol’d alla tridimensionalità: colore, maschere, travestimento, burattini indemoniati. Velocità e futurismo venavano il suo teatro. Nell’Arlecchino sensale di matrimonio, gli attori che non erano di scena erano liberi d’improvvisare - subordinandosi però alla partitura musicale, fondamentale. Quando poi scatta la Rivoluzione, ci si lancia: combatte il teatro professionale - abbandona infatti l’Alexandrinskij - in favore di un’arte più proletaria. Al primo anniversario (novembre 1918) mise in scena per la prima volta il Mistero buffo di Majakovskij, che come lui si era lanciato nella Rivoluzione: il Diluvio veniva associato alla Rivoluzione, e il Mistero era ciò che essa aveva di grande, mentre il Buffo ciò che aveva di ridicolo. Il luogo scenico era la calotta di un enorme emisfero, dove 7 coppie di Puri (borghesi) e di Impuri (proletari) si issavano, con quest’ultimi che costruivano un’arca e raggiungevano la terra promessa, il paradiso proletario. Ai politici sovietici non piacque, e fu il preludio delle accuse di formalismo. Cominciò poi una nuova fase: in Russia i costruttivisti stavano eliminando l’Arte per l’Arte, rendendola funzionale alla società. Mejerchol’d cominciò a far recitare gli attori sullo sfondo di mattoni del teatro, come in Il magnifico cornuto (testo lontano dai temi politici cari alla rivoluzione, che nella sua paradossalità diventava un esercizio virtuosistico per gli attori, i quali interpretavano il proprio personaggio prendendone le distanze, tipo straniamento brechtiano, vestiti con uniformi da lavoro caratterizzate da strani accessori). Lo spettacolo fece sensazione: la “biomeccanica” di Mejerchol’d, basata sull’insegnare all’attore le attitudini basilari per muoversi con agilità sulla scena, fece molto colpo, contrapposta all’utopia e al dinamismo di quei tempi. Comincerà, dalla metà degli anni Venti, la fase del grottesco: sinistra clowneria, diavolerie da racconti di Hoffmann. Il capolavoro fu Il revisore di Gogol, al Teatro Mejerchol’d nel 1926: l’obiettivo non era più la distruzione delle forme teatrali borghesi, bensì la creazione di uno spettacolo puramente teatrale, con alla base un linguaggio scenico originale e indipendente. Contrapposizioni e contrasti portavano lo spettatore a sdoppiarsi, a slittare continuamente tra le varie posizioni e personaggi (trama: Chlestakov, squattrinato funzionario, giunge nell’alberghetto di una cittadina russa che aspettava l’arrivo di un revisore, per il quale viene scambiato. Viene dunque adulato, lusingato, fino a fidanzarsi con la figlia del governatore. Infine se ne parte, e si scopre una lettera nel quale raccontava di questo impiccio: arriva quindi la notizia dell’arrivo del vero revisore, e tutti restano sbigottiti). Il testo era stato modificato e depurato dai clichè: sulla locandina, Mejerchol’d era coautore di Gogol. Come col pretesto del Don Giovanni aveva parlato di Moliere e del Re Sole, qui aveva parlato di Gogol e del tema di Anime morte, ovvero l’apparenza della vita e l’abisso di vuoto che vi si trova dietro, oltre che della Russia in generale. Il testo diventava di bruciante attualità: la commedia veniva divisa non in 5 atti ma in 15 episodi, e venivano aggiunti personaggi corali. Sul palco erano posizionate diverse piattaforme, che rimandavano ai primi piani del cinema: uno spazio scenico così piccolo richiedeva grandi doti attoriali. Due erano i piani narrativi: le scene d’insieme erano una satira dell’impero russo, mentre gli altri episodi scendevano a un livello più personale, che mostrava lo sbandamento della società. Gli oggetti avevano una funzione simbolica e di supporto per l’attore. L’egocentrismo ottocentesco lascia il posto, per l’ennesima volta, a una prova sinfonica, con le battute che “vanno da un pianissimo a un forte fragoroso”, e ogni personaggio ha un suo motivetto personale. La scena finale: palco vuoto, gendarme annuncia l’arrivo del vero revisore. Da tutte le porte spuntano persone con una faccia sbigottita, ma a guardare meglio sono in realtà manichini. Il grottesco drammatico di Gogol si fa scenico. Il successo fu impensabile. Lo spettacolo rimase in cartello fino al 1938 (12 anni, nel frattempo fece anche Le cimici e Il bagno di Majakovskij), quando il suo teatro fu chiuso in seguito alla sua rinuncia ad abiurare il formalismo cosmopolita del quale era stato accusato. Nel 1939 fu invitato nuovamente a fare autocritica, e rifiutò: venne arrestato, e ucciso con un colpo di pistola nel 1940. IX. Piscator e Oplà, noi viviamo! di Toller A lungo considerato solo per Teatro politico, uno scritto edito per difendersi dalle accuse di formalismo, oggi Piscator ci interessa per l’apparato tecnologico e multimendiale che ha messo in scena, il quale funzionava per le masse proletarie di ieri come anche per la società di massa di oggi. Il suo periodo più interessante è nel cuore degli anni Venti: la trasformazione della società richiedeva adattamenti, la visione necessitava di superare la parola, e fu così che Piscator inserì il cinema nel teatro. Tramite l’uso del collage e del montaggio il ritmo divenne rapido, a scatti. Nel 1918 aveva fatto amicizia con gli inventori del fotomontaggio (Grosz e Heartfield), e si era iscritto al Partito Comunista: questi due fatti furono fondamentali. Nel 1921 dà vita al Proletarische Theater, col la collaborazione di Heartfield scenogrado, e viene inizialmente avversato dalla Rote Fahne (organo del Partito Comunista contro ogni avanguardia). Nel ’24, col piano Dawes, comincia a dilagare l’americanismo: Piscator mette in scena Fahnen di Paquet, che aveva drammatizzato lo sciopero degli operai anarchici di Chicago e il processo contro di loro del 1886. La messinscena diventa una sorta di reportage su un pezzo di vita reale: i personaggi non comparivano sul palcoscenico, e venivano proiettati i loro ritratti uno dopo l’altro - sostituendo la realtà con la riproduzione. La proiezione continua di titoli di giornale, slogan e frasi telegrafiche faceva spostare continuamente lo sguardo degli spettatori, che venivano bombardati dall’aspetto mediatico. Non ebbe particolare successo, e venne accusato di aver contaminato l’anarchia col dramma tradizionale: Piscator rispose difendendo questo “terreno intermedio”. Sempre nel ’25, su incarico del partito (KPD) va in scena Revue Roter Rummel: Piscator mette in scena una rivista vera e propria, incollando tra loro scene legate solo dal tema - la società borghese deve morire. Il testo era stato composto con la collaborazione di Felix Gasbarra, e definito “senza pretese”, e favoriva l’improvvisazione. Grande successo. L’anno successivo, al Grosses Schauspielhaus - nato dalle ceneri dello Zirkus Schumann reinhardtiano - va in scena Trotz alledem, rivista storica sulla storia del movimento operaio incentrata sul periodo dall’inizio della guerra a Liebknecht e Luxembourg. Il titolo, anche qui, era il filo conduttore: la classe operaia “nonostante tutto” non poteva essere fermata. La scenografia di Heartfield e le musiche di Meisel, appena convertitosi alla musica nera, si intersecavano di continuo, con la proiezione di pezzi di reportage dagli archivi di stato che mostravano ogni genere di crudeltà: l’effetto che il passaggio tra video e scena recitata aveva era una grande presa del pubblico. A partire dal ’27, finalmente Piscator ha un teatro tutto suo grazie al finanziamento di un magnate della birra: la Piscator-Buhne, nel cuore dei quartieri eleganti di Berlino, fornito di quattro impianti di proiezione e assistito da Brecht, Gasbarra, Toller e altri. Lo spettacolo inaugurale andò in scena in settembre: Oplà, noi viviamo era tratto da un omonimo testo di Toller, con il protagonista Thomas che veniva graziato nel 1919 dalla condanna a morte per aver partecipato alla rivoluzione del 1918 e usciva nel 1927 dalla casa di cura in cui era stato ricoverato, trovando una Germania irriconoscibile, dove regnava il compromesso e gli ideali erano decaduti. Alla fine si uccideva. Per la prima volta Piscator utilizzò un enorme libro di regia, nel quale a ogni pagina del testo corrispondevano 6 colonne con tutte le indicazioni per la messinscena: il lavoro del regista corrispondeva al frutto del montaggio simultaneo fra tutte le diverse componenti. La scenografia era un impianto costruttivista, con un’impalcatura di ferro e tubi metallici per il gas, divisa verticalmente in 3 parti; la parte centrale era alta 3 metri, e quelle laterali erano tagliate orizzontalmente in modo da formare 6 spazi cubici. Vi erano quindi 7 spazi complessivi, che diventavano un dispositivo a scacchiera atto alla combinazione. Il primo film riproduceva una sommossa e la sua soppressione, e infine l’interno di una prigione; il secondo, che illustrava gli anni di detenzione di Thomas, era caratterizzato dalla mescolanza di spezzoni di documentari degli archivi di stato e roba girata dai suoi collaboratori - effetto discordante; durante il terzo atto, gli spazi cubici diventavano stanze di un hotel, in ognuna delle quali avveniva qualcosa di particolare. La presenza del film, che lacerava l’illusione di continuo, rese difficile il lavoro degli attori, che dovevano apparire duri, sì, ma anche genuini. In generale, Piscator utilizzava 3 tipi di filmati: quelli didattici, che comunicavano dati obiettivi; quelli drammatici, che si inserivano nell’azione; quelli di commento, che avevano la funzione del coro greco. A tutto ciò si associava poi il fotomontaggio di Heartfield e il montaggio di Ejzenstejn: comparazione e confronto sono fondamentali, secondo lui, e portano all’idea. Il movimento e il ritmo, come per Mejerchol’d, erano importanti. Sempre nel ’27, anniversario della Rivoluzione, Rasputin, i Romanov, la guerra e il popolo: Rasputin appariva su una gigantesca sfera metallica rotante, come la torretta di un carrarmato. Il film venne utilizzato per mettere a confronto le varie situazioni dei personaggi, elevando lo spettatore al di là del tempo che vivevano la zarina o chi per lei. Il film sa tutto. Nel 1928, Le avventure del buon soldato Svejk (romanzo incompiuto di Hasek). Era un insieme di episodi riguardanti la vita del protagonista, che veniva sballottato da tutte le parti fino a diventare ridicolo. Sul palcoscenico, dei tapis roulants: utilissimi per raggiungere la fluidità epica del romanzo. Nello stesso anno fu costretto a
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