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Aristotele, Chiesa e Potere Politico: La Fondazione Laica del Potere Statale, Sintesi del corso di Storia Delle Dottrine Politiche

Come aristotele ha fondato la sua scienza politica attraverso l'analisi della famiglia e della casa, e come il papato ha legittimato la sua pretesa alla piena autorità politica durante l'età gregoriana. Viene inoltre esplorata la lotta per le investiture e la neutralizzazione sovrana nella francia moderna, con particolare riferimento a voltaire e alla sua vasta produzione politica.

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

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Scarica Aristotele, Chiesa e Potere Politico: La Fondazione Laica del Potere Statale e più Sintesi del corso in PDF di Storia Delle Dottrine Politiche solo su Docsity! SINTESI COMPLETA DI C. Galli, Manuale di storia del pensiero politico Esame di STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE (Università del Salento) 1. Parte prima – l’ordine tradizionale Il pensiero politico Greco Un’immagine emblematica del modo con cui i greci percepirono il loro spazio politico è quella del cerchio: esprime quel processo che fra Solone e Clistene ha consentito di porre il potere (l’archè) in mezzo al centro della polis e dei cittadini ovvero di fare del potere una questione politica, una cosa pubblica che riguardava tutti. Dopo la riforma istituzionale di Clistene ad Atene, la politica intesa come spazio comune a tutti i cittadini, assume una consistenza e un’autonomia prima sconosciuta. Clistene pone la città e la cittadinanza al centro della vita degli individui. Che la decisione politica stesse in mezzo significò che era disponibile alla volontà dei cittadini, alle loro ragioni e argomentazioni che eroso il sacro carattere delle leggi, il comando poteva essere esercitato nell’interesse di tutti e che a tutti doveva rendere conto del proprio operato. Lo spazio circolare della politica come spazio dell’eguaglianza è ricavato tramite l’esclusione: quello fra liberi e schiavi,tra uomini e donne, ricchi e poveri. La politica è resa instabile dalla minaccia della guerra esterna e dalla guerra interna. La riflessione politica in Grecia deriva dal fatto che è in questo ambito che per la prima volta l’ordine politico deve legittimarsi non per analogia terrena rispetto all’ordine cosmico, non per gerarchie di saperi, non per arcani principi ma per la sua funzione sociale capace di assorbire le dinamiche provenienti da tutte le componenti della società e di costituire al centro di questo ideale circolo sociale il luogo del la loro composizione. A dividerci dai greci c’è la loro concezione della democrazia come partecipazione attiva dei cittadini ai processi di formazione della volontà politica comune. Dal punto di vista pratico il primato della politica e della sfera pubblica era reso possibile dalla presenza del lavoro schiavistico che risolveva in parte i problemi relativi alla sopravvivenza; l’utilizzazione della manodopera degli schiavi consentiva alla dimensione pubblica di essere praticata e percepita come quella più importante per gli uomini liberi e liberava tempo per un esercizio prevalentemente diretto della democrazia. L’economia era poco e mal vista in quanto grazie alla guerra la facilità del procurarsi schiavi era alta. Infatti la città era composta da cittadini soldati che spesso facevano propria l’etica aristocratica anche nelle fasi democratiche della politica antica: un’etica che impediva loro di guardare all’economia al di fuori dell’ oikos (casa dove vigevano i rapporti tra capo e servi) e li spingeva a valutare l’arricchimento o la tutela dell’interesse. I nuclei di questa analisi politica saranno: - Il passaggio storico ideale dall’ideale aristocratico della virtù guerriera a quello della virtù civile - L’invenzione della politica e il sorgere al suo interno del problema della giustizia e dei suoirapporticon la legge delle singole città - L’emergere della filosofia come sapere in grado di dare risposta razionale ai problemi dell’assetto della vita associata. Bella descrizione di Euripide nel descrivere la società come non governata se non dal suo popolo e così elenca i suoi principali vantaggi: La signoria della legge cioè l’isonomia (egualità davanti alla legge) e l’isegoria(eguale libertà di parola e di voto). Ma il vero manifesto del pensiero democratico è costituito dall’epitaffio funebre per i morti del primo anno della guerra del Peloponneso, fatto pronunciare da Tucidide a Pericle. Si tratta di una difesa della democrazia ateniese messa a confronto con la condizione pol itica di Sparta – antagonista. Atene è per Pericle la Scuola della Grecia anche se non poteva fornire una descrizione della struttura e del funzionamento delle istituzioni democratiche. La democrazia poi adottò la legge dell’ostracismo che consentiva di allontanare dalla città per dieci anni qualsiasi persona sgradita. L’ekklesia così diventa il cuore: assemblea di tutti i cittadini maggiorenni che si riuniva normalmente quaranta volte ‘anno per deliberare su tutta l’attività politica di governo su un ordine del giorno preparato dalla boulè. La democrazia non amava i lunghi incarichi di governo quindi era molto propensa alla libera rotazione nelle cariche. La partecipazioneera così resa possibile attraverso al sua retribuzione. Il demos era così il popolo in generale quanto la cerchia dei non abbienti. L’avversione degli scrittori oligarchici per la democrazia è antica e assai radicata nella cultura greca, come una critica attribuita a Senofonte dove si vede una visione squalificante della democrazia veden dovi una premeditata macchinazione per portare la “canaglia” alla guida dello stato. Il popolo insomma vuole governare per essere sfamato e saziato. È per raggiungere questo intento che il popolo di Atene costringe i popoli sottomessi a venire in città per celebrare i processi, assicurandosicosìisalari di giudice per tutto l’anno. L’esperienza storica della tirannide era ormai un ricordo intorno al 400. Ma quando ebbero una certadiffusione sembrava che nessuno negasse una certa distinzione tra la buona tirannide contro quella cattiva. Per un certo punto di vista le tirannidi hanno permesso di porre fine alle guerre civili e alle tensioni tra famiglie aristocratiche ma non riuscirono mai ad arrivare al livello di Roma. Così la tirannide, nel tempo, lasciò una sua immagine immersa nella violenza e nella guerra tanto da permettere a Solone di non rivolgersi alla dura tirannide istituendo così fra questi concetti un’associazione indissolubile per la storia del pensiero politico. Dovrà arrivare Platone al quale di deve la distinzione tra il potere buono – del monarca – con quello arbitrario e dispotico – del tiranno. Legge e natura Rispetto alla valutazione delle leggi che proveniva dal vecchio Oligarca, che le vedeva comeilfondamentodella convivenza in grado di risolvere i conflitti e come dotate di una loro neutralità, col passare del tempo la lotta politica e ideologica si era concentrata sul concetto stesso di legge, mettendone a nudo le interne debolezzee la natura parziale mostrate da Sofocle e dalla sofistica. Sofocle con l’Antigone si focalizza sul tema dell’estensione e della validità della legge umana che si confronta con altre forme di imperativi, legge di natura, i comandi etici, le convinzioni religiose cioè quello che noi oggi chiameremmo il diritto positivo. Nel dramma rimane il contrasto tra natura e diritto che mette all’ordine del giorno il problema della convenzionalità dei nomoi e del loro rapporto con la natura. I sofisti erano convinti che il diritto fosse pienamente plasmabile e infatti furono proprio loro – i professionisti della retorica–tramite i dissoi logoi a difendere una tesi e quella direttamente contraria. Metodo caro a Protagora che sfocia nel cinismo di Gorgia. Secondo i sofisti la natura dovrebbe dettare le regole del giusto e queste si compendiano nell’utile del più forte. La politica con loro si svincola dalla sera del sacro e si presenta come un campo pienamente disponibile alla direzione razionale. Questo primato della ragione non s’identificaperòcolprimato di valori universali ma con la volontà umana di servirsi strumentalmente della ragione per manipolare grazie ad essa la politica. Tucidide Al centro viene la guerra del Peloponneso cioè lo scontro tra Atene e Sparta, capitolazione di Atene e instaurazione del regime oligarchico dei Trenta. Eliminati dalla storia sia il mito che gli dei si concentra sulla storia politica che è per lui integralmente razionalizzabile. Al centro c’è l’origine e l’utile cioè la Potenza. I caratteri che rendono Tucidide unico nel suo periodo storico sono due: - La capacità della narrazione di individuare le cause vere dietro quelle apparenti - Conseguente inclusione della politica nell’ambito non del caso ma della necessità storica e logica Tucidide ritiene che il motivo più vero della contesa tra le parti sia il crescere della potenza ateniese e il suo incutere timore ai lacedemoni i quali entrano in guerra spinti dalla necessità di contenere l’impe rialismo ateniese che altrimenti li avrebbe minacciati. Vera categoria principale della politica secondo Tucidide è la potenza: se infatti la ricerca dell’utile passa attraverso la potenza, quando quest’ultima supera certi limiti genera una necessaria reazione di chi ne teme gli effetti. E poiché la logica della potenza non è un’opzionema una necessità la guerra risulta necessaria perchè assicura l’accrescersi della medesima. Di fronteaquestalogica cadono le tradizionali remore di carattere etico. Senofonte Atene perde nella guerra del Peloponneso e si inginocchia di fronte al governo dei trenta che verranno allontanati solo col ritorno degli esuli guidati da Trasibulo. Normale in questo clima che i critici dellaaristocrazia riprendessero forte vigore. Il rappresentante più noto è Senofonte nella cui attività di cavaliere siconiuganole critiche alla democrazia ateniese quanto la prefigurazione di uno stato ideale fosse anche quello di Sparta. Le sue critiche riguardano il problema della democrazia che permette a chiunque di dirigersi alla vetta delpotere pur non avendo nessuna qualità o virtù politica. Figlio di un’educazione tecnica, postula la creazione di uomini capaci di farsi obbedire. È chiaro l’apprezzamento per l’ordine educativo e politico di una città come Sparta dove non vi è mai interruzione del comando e conseguentemente interruzione dell’ubbidienza. L’ubbidienza derivata dalcomandodiventaquindi il principio del buon ordine politico. Individua in Ciro – re di Persia – il modello da seguire. La sua capacità di farsi ubbidire senza problemi era connessa con la sua saggezza mista a virtù superiore che si incarnava nell’enkrateia. Il re che dominava se sesso poteva dedicarsi totalmente alla realizzazione del bene pubblico. Platone Si propone di restaurare la misura e la giustizia fondandole su basi certe, capaci di resistere agli attacchi e alle critiche della sofistica. La politica poteva essere rifondata cl recuperare la virtù e la giustizia portando una misura nella disordinata volontà delle passioni individuali grazie alla filosofia intesa come conoscenza dell’essere. Platone assegna alla politica un valore tecnico: essa era l’arte egemonica che comanda su tuttele altre e che consente di applicare bene i risultati dei singoli saperi tecnici perchè è guidata dal sapere filosofico che conosce il bene in generale e quindi anche il bene dell’intera città. La città per Platone è malata perchè malato è l’apparato oligarchico dei trenta che l’ha rovesciata. La filosofia dunque è preliminare rispetto alla politica ed è la sola capace di indicarle finalità e tecniche di risanamento e di assegnare fini e ruoli ai cittadini. La volontà di venire a capo della quesitone della natura della giustizia, la virtù politica per eccell enza, sta alla base della repubblica. La città quindi nasce come luogo in cui i produttori si incaricano della soddisfazione dei bisogni tramite la divisione del lavoro e si afferma presto l’esigenza che la città sia non solo sana ma anche capace di soddisfare esigenze che vanno oltre ciò che è meramente necessario. Oltre ai produttori,diventando sempre più grande, la città ha bisogno di guardie. Ultimi tra tutti sono gli arconti, veri e propri governantiscelti tra i migliori dei guerrieri. I governanti dovranno conoscere la verità delle singole scienze ed essereprividiogni forma di proprietà privata. Per Platone la giustizia è il collante tra le caratteristiche qualitative dell’animo umano con legerarchiepolitiche: i tre principi presenti dell’uomo – desiderio aggressività e ragione – devono trovare armonica ricomposizione sia in ciascun uomo sia nella città. Così negli uomini in cui prevale il desiderio saranno produttori, quelli in cui prevale l’aggressività saranno i custodi e quelli della ragione saranno gli arconti. Per spiegare come i filosofi conoscono il vero e il bene, Platone usa il mito della caverna. È il mito fondativo della filosofia politica occidentale sia perchè dà forma definitiva alla distinzione tra apparenza ed essenza,sia perchè assegna alla filosofia il compito, il diritto e il dovere di liberare l’umanità dall’ignoranza. I filosofisono coloro che riescono a liberarsi dalle catene che tengono prigionieri gli uomini nella caverna costretti a vedere le ombre che essi scambiano per le cose vere. Se la giustizia è il governo dei filosofi, capace di assicurare unità e armonia alla città, il suo contrario è la ribellione di una singola parte alla totalità dell’animo o di una singola classe alla totalità dello stato. Platone così analizza l’ingiustizia nella pluralità delle sue forme perchè se il bene è uno, il male e il vizio si presentano sotto molte forme. Appunto per questo la degenerazione dell’ottimo stato avviene secondo un ciclo che percorre quattro tappe: timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide. Coinvolge sia la morale che la città. Il processo degenerativo comincia dai governanti che corrompono la loro natura filosofica. Venuta meno l’egemonia della ragione essi abbandonano il loro comunismo e si divideranno le terre e se ne attribu iranno proprietà. Questo porterà al governo dei pochi – oligarchia – dove quella parvenza di virtù che ancoraresisteva nella timocrazia cede il passo al mero computo delle ricchezze. La classe oligarchica verrà così spazzata via da una rivoluzione dei poveri. Questa rivoluzione porterà all’anarchia. Il popolo così cadrà nel più totale asservimento per proteggersi e così si finirà nella tirannide, peggiore dei regimi in quanto è un dominiosenza leggi nè freni. Platone si occupa anche delle realtà politiche esistenti. Nel politico emerge il tema della legge cioèquelloacui è politicamente possibile e non solo a ciò che è necessario. Il tema della legge non trova posto nellarepubblica perchè non è concepibile un sistema normativo che guidi e condizioni l ’attività dei governanti perchèappunto ottimi. Una svolta su questo terreno si avrà nell’opera più complessa della vecchiaia intitolata leggi. Platone concede all’idea che la politica sia retta da leggi, che sono il segno della fragilità ma anche il mezzo piùpotente per rimediare agli effetti negativi di essa. Le leggi trattano di un ordine politico di secondo gradovicinoallivello perfetto, ma non coincidente. Si tratta dell’esplicito riconoscimento delle necessità della mescolanza del principio di autorità con quello di libertà. Platone mostra così la disponibilità a riconoscere la rilevanzadeltema della partecipazione e del consenso verso il quale manifesta una certa sensibilità anche con la sua scelta difar precedere le leggi da un preambolo. Così infatti cerca di dimostrare la rilevanza del tema della partecipazione e del consenso verso il quale manifesta una certa sensibilità anche con la sua scelta di far precedere le leggida un preambolo capace di spiegarne la natura e di renderle con ciò più accette ai governati. Lo scopo della repubblica è quindi quello di formare la società e di evitare il dualismo entro la città tra ricchi e poveri con la conseguente nascita di fazioni, capaci di sfigurare un’unità che è politica solo in quanto siaanche etica e in un certo senso economica. La completa inclusione dell’individuo nell’ordine politico dellacittàriceve una ultima sanzione nel Timeo. In quest’opera Platone ipotizza che il demiurgo, l’artefice divino, strutturi i fenomeni fisici secondo i principi d’ordine e d’armonia facendo del cosmo stesso qualcosa come una cittàben ordinata. Da questa concezione Platone sembra immaginare una teoria dell’ordine politico sia attraverso il richiamo al principio gerarchico che anima un tale ordine sia attraverso la tesi che fa del demiurgo la figura centrale per la produzione dell’ordine inteso come ordinamento. Aristotele Per Aristotele la giustizia è una virtù che si manifesta nell’universo politico: diverso è però il modoincuilavirtù è definita e realizzata. La politica fa parte delle scienze pratiche che sono distinte da quelle teoretiche. Aristotele non segue Platone nel pensiero di un bene radicato in se stesso e separato dai singoli, ma guarda con maggiore attenzione a questi ultimi e alla loro molteplicità. Radicata nell’ambito delle cose umane, dove regna il contingente e il non necessario. La politica è studiata all’interno dell’ambito del problema più vasto della vita associata. La ragione funge da guida in attività il cui fine è esterno al soggetto o interno al mondo delle relazioni umane. La prudenza segna il passaggio alle virtù pratiche in senso stretto o virtù etiche che Roma Roma si affaccia, dopo l’Italia, sul mediterraneo con la guerra punica. Era da poco passata da monarchia a repubblica. Il senato raccoglieva i capi delle famiglie nobili alla fine del cursus honorum cioè della carriera pubblica che era l’unica attività di un nobile in quanto detentore dell’autorità e della potestas cioè il potere politico vero e proprio. Il senato, incapace di esprimere autorità e continuità delle classi dirigenti romane, esprime meglio di ogni altra istituzione la specificità della città rispetto all’esperienza istituzionaledellepoleis greche i cui ceti nobiliari non furono mai in grado di esercitare così a lungo come la nobilitas romana un’influenza stabilizzante sulla vita politica. A giudizio di Cicerone la caduta della Grecia fu causata dalla libertà senza freno e dalla licenza delle assemblee che decidevano secondo il capriccio del momento. Al contrario a Roma la libertà ruotava attorno allaauctoritas senatoria, il centro da cui traeva legittimità la potestas ed esercitata dalle numerose magistrature. In concreto il Senato ha il diritto di ratifica delle decisioni prese nelle assemblee, amministra il tesoro, decide i tributi. Il senato è il custode della continuità stessa della città capace di attribuire ai magistrati le forme e i gradi deiloro poteri, questo significa che i magistrati sono agenti della città. La potestas invece passerà nel corso della repubblica grazie alle lotte fra patrizi e plebei. Mentre la potestas connessa con la titolarità d’ogni magistratura esprime la capacità di imporre prescrizioni obbligatorie e di esercitare una certa forma di coercizione, l’imperium esprime invece la capacità di comandare le truppenelle campagne militari. Potestas Censori, questori, edili Imperium Consoli, pretori La forma politica romana assunse presto a modello lungo l’arco della sua durata grazie anche a pensatori che condivisero i valori di base: la libertas della città e dei suoi ordini, capaci di dare ai romani la virtus, la forza d’animo e la lealtà civica che li ha messi in grado di dominare il mondo rappresentando insieme le ragioni del diritto, della forza e della civilizzazione contro le barbarie. La giuridicizzazione della politica è il lascito dell’impero romano ovvero il riconoscimento che la politica assume la forma del diritto. Si tratti di rapporti privati, pubblici, internazionali Roma impresse la propria forma mentis alle categorie della politiche che attinsero la loro legittimazione. Il diritto romano riposa sulla distinzione tra ius publicum che riguarda ed emana dalla città e lo ius privatum che scaturisce dalle norme che i privati cittadini danno al negozio giuridico. In entrambi i campi il diritto romano distingue tra Lex approvata dalle assemblee che risulta erga omnes e le sentenze che invece risultano vincolanti solo per le parti che siano ricorse in giudizio. Seppure in formaspuria e talvolta contradditoria, tutta la ricchezza del diritto romano rivivrà nel Digesto – Pandectae – pubblicato da Giustiniano come immensa raccolta delle opere e delle idee dei giuristi antichi. Su di esso nascerà l’università di Bologna, si formeranno gli intellettuali moderni al servizio del principe, della chiesa o del popolo e anche così Roma non smetterà di durare. Polibio La storia è la migliore palestra per allenarsi alla vita politica. Si interroga sulla doppia novità del suo tempo: la prima è la rapidità dell’ascesa di Roma e la seconda è la creazione di una storia che è diventata universale. Per ripercorrere il processo dell’unificazione della storia e della drastica riduzione della sua complessitàderivante dal consistente sfoltimento del numero die suoi soggetti, Polibio volge lo sguardo alla costituzionediRomache per lui è la causa vera e profonda della sua superiorità, la sola in grado di spiegare sia la rapidità sial’estensione della sua egemonia. Convinto che Roma sia una forma mista di poteri dove il senato è aristocrazia, popolo democrazia e consoli oligarchia crede che la costituzione romana non è il segno di una confusione. Polibio crede infattiinunprocesso di naturale trasformazione per senescenza e decadenza delle forme di governo l’una nell’altra secondo una direzione che va dalla monarchia alla tirannide per concludersi infine con l’instaurazione della democrazia e del suo scivolare nella sua forma estrema. Cicerone Cicerone è importante perchè è il più grande mediatore culturale. Gli elementi di questa romanizzazione del pensiero politico greco sono soprattutto due: - La forte opzione per l’impegno politico che indica al saggio un’altra via rispetto a quella puramente contemplativa - La presenza di elementi giuridici che guardano alla legge e al diritto come a elementi da includere nel pensiero politico Per il primo punto si pensi al Somnium Scipionis che chiude i libri del De Republic e che contiene l’invito più elevato e più noto all’impegno politico considerato come l’azione che guadagna i maggiori meriti e chemeglio viene ricompensata nell’aldilà. Qui le civitates venivano considerate come riunioni di uomini associati nel diritto. In molteplici occasioni Cicerone aveva ribadito la sua convinzione che le città non fossero un qualsiasi agglomerato di uomini riuniti in un modo qualsiasi, ma una riunione di gente associata per accordo nell’osservare la giustizia e la comunanza d’interessi. A Cicerone interessa la centralità del diritto nella vitadi un ordine politico. È il diritto che ha il merito di avere realizzato l’uscita dalla situazione di violenzaedibarbarie ferina. Il diritto è iustum – accoglie in sé la giustizia naturale degli stoici – sia iussum – oggetto di comando positivo da parte di un potere. In Cicerone il diritto viene invece identificato con la stessa repubblica, inoltreil diritto è anche il potere cioè non è solo l’idea della giustizia ma ne è anche l’applicazione cogente: legge effettiva. Così Cicerone costituisce un ordine politico in cui legge e potere, come le due facce, determinano le gerarchie politiche: egli pone infatti al primo posto le leggi che stanno al di sopra dei magistrati quindi i magistrati che come una legge parlante stanno al di sopra del popolo. Le magistrature sono al di sotto della legge e la leggeè positiva che è subordinata alla giustizia, cioè alla legge di natura. Contrario alla tirannide e agli avvenimenti che nell’ultima crisi hanno portato Roma a sprofondare, Ciceroneè contrario alle libertà greche e di conseguenza è contrario anche alla libertà non ordinata rifiutando qualsiasi potere deliberativo all’assemblea popolare e preferendo ad essa una istituzione corporata formata da ordini sociali, classi che in ordine approvava e respingeva proposte. Voleva insomma una costituzione mista che già riconosciuta da Polibio come la causa della supremazia romana nel mondo, egli interpretò come forma di necessario temperamento delle pretese al potere di patrizi e plebei. Augusto Ottaviano assume il titolo di Augusto nel 27 a.c., il quale tentò sempre di presentarsi come il restauratoredella tradizionale costituzione repubblicana e non come l’autore e l’interprete di un profondo rivolgimento costituzionale. Il tratto fondamentale di Augusto rimane la volontà di presentarsi come colui che fattecessare le guerre civili restituisce la repubblica al senato e al popolo diventando principe superiore a tutti nell’autorità ma pari come potere a colleghi della magistratura. La sostanza del politica del suo potere stava però nel fatto che egli era anche titolare di anno in anno della tribunicia potestas da cui traeva il diritto di veto su tutte le decisioni delle altre magistrature oltre che dell’esercito. Se i romani – sempre antimonarchici – accettarono il principato di augusto era perché erano stanchi delle guerre civili ed amavano la pace ma anche perché la loro ostilità maggiore era nei confronti del re come persona e non nei confronti del potere regio in quanto tale. La centralità del principio di autorità che emerge anche nell’invocazione ciceroniana di un princeps e la propensione dei romani a una temporaneasospensione delle garanzie costituzionali in momenti di pericolo per lo stato erano fattori che li mettevano in grado di metabolizzare il nuovo sotto l’apparenza dell’antico. Seneca Precettore di Nerone che si prefisse di ricondurre il potere del principe ad un ambito di civilt à attraverso un tragitto teorico che può indicarsi come quello che va dal de Ira al de Clementia. Con lui inizia una tradizione di pensiero destinata a un’enorme fortuna perchè constatata l’impossibilità della prassi politica. Quindi affidail controllo del potere all’etica. Il pensiero politico si ritrova così ad argomentare in modo esortativo e pedagogico come unica via percorribile per recuperare un rapporto positivo tra autorità e società tra il capo e le sue membra. Punto di partenza dell’analisi di Seneca è il riconoscimento di una sorta di onnipotenza del principe simile a quella divina che appunto deve essere ricondotta alla funzione benefica e conservatrice della provvidenza. Questa metamorfosi deve avvenire perché il potere del principe è terribile: è infatti arbitra della vita e della morte dei singoli e di intere nazioni, fonda i regni e riduce in schiavitù, distrugge o eleva uomini e città. Questo potere può essere a seconda delle fasi buono o cattivo; si tratta quindi di dirigerlo verso la sua natura provvidenziale. Il principe deve esercitare la clemenza cioè il rapporto sbilanciato e non reciproco non politico. È una virtù di un superiore che si mostra indulgente verso un inferiore a cui può comminare una pena. Definita la clemenza come virtù regale e paterna, provvidente e pastorale che provvede alla salute di ciascuno e di tutti. La filosofia stoica è lo strumento principale di Seneca il quale descrive il principe come un soffio vitale e come ragione, contrapponendo alla sua razionalità benevolente. Il principe è uno spirito vitale che conferisce essenza al popolo. Il potere insomma è più tutela che asservimento. Notare che Seneca consiglia al principe la clemenza utilizzando la forma dello specchio del principe. Una autoriflessione che era indirizzata a Nerone per potersi compiacere da sé medesimo e quindi diventare un buon principe. È l’inizio della introspezione. Plinio il Giovane Lo schema di Seneca ebbe seguito. Anche per Plinio il princeps è un padre provvidente e clemente e ricco di una pluralità di virtù che vanno dall’humanitas alla fortitudo anche se sono un dovere e che sarà il giudizio della storia a discriminare tra l’ottimo ed il pessimo principe. L’elemento di moderazione del potere è collocato nell’istituto dell’adozione grazie alla quale un princeps sceglieva il proprio successore. Il criterio dell’adozione comporta due importanti conseguenze: - In primo luogo è il riconoscimento della virtù - In secondo luogo implica che la virtù vada ricercata fra tutti e riconosciuta da tutti Plinio invoca come garanzia per un corretto esercizio del potere il governo della legge, ovvero una legge che governi i cittadini ma che renda lo stesso imperatore concittadino dei suoi sudditi, come appunto già avviene. Questo diritto ora restaurato assicura ai sudditi qualcosa di simile alla libertà, ma questa autolimitazione del potere apporta concreti vantaggi anche al principe capace di limitarsi: la sicurezza che gli procura, l’amore dei cittadini e soprattutto la comunanza di interessi che lega l’imperatore ai propri sudditi e i cittadini a lui. Ma l’evoluzione dell’impero andava in tutt’altra direzione: da principe si passa a imperatore. Si arriveràaldominus. Sarebbe bello saperne il significato Oikos meteci Metabolè politeion Metabolè Politeion cosmopolis theorein aristè politeia politeia stasis eunomia dikayosine Timocrazia Oligarchia philia koinonia Apologia poiesis episteme Democrazia tirannide Agone Fronimos archontes tyche Boulè Dokimasia Probuli esuli didonai dissoi logoi enkrateia phylakes ekklesia nomoi Archè Aropago Erinni Epos Hybrys Politeiaphysis isonomia eris dikayosine dike Polis nomoi Oikos Paideia Bia Ghenos Timè In papa Gelasio comunque la teoria operante è l’agostinismo politico che implica l’esigenza e la collaborazione dei due poteri universali, la chiesa e l’impero ma anche l’assorbimento all’interno del diritto eccl esiastico, caratterizzato da essenza e finalità più alte del diritto e della politica laici. È implicita una concezionepastorale del potere: una concezione che giustifica il potere politico in quanto strumento per correggere i vizidelgregge dei sudditi e per condurlo con ogni mezzo alla salvezza. La donazione di Costantino Il papato in età gregoriana poteva legittimare la propria pretesa alla plenitudo potestatis: i sovrani temporali sono semplici concessionari del potere politico che legittimamente era stato conferito dall’imperatore alla Chiesa; tale documento poteva inoltre legittimare la presenza di un vero e proprio stato della Chiesa che alla metà dell’ottavo secolo si andava costituendo mediante l’alleanza coi franchi interpretandolo come la restituzione al patrimonium petri di quello che gli spettava. Lotta delle investiture Il processo di temporalizzazione della Chiesa era parallelo al processo imperiale che cercò di inquadrare i vescovi nel sistema feudale. L’assegnazione ai vescovi della titolarità dei feudi consentiva infatti all’imperodi riportare sotto il proprio controllo vaste zone di territorio che i feudatari laici gli avevano praticamente sottratto soprattutto dopo che con il capitolare di Quierzy si era riconosciuto il diritto dei feudatari maggioridi lasciare in eredità il proprio feudo ai discendenti. Gregorio VII sostiene che il papa può liberamente deporre l’imperatore e sciogliere i sudditi dal vincolo di ubbidienza verso gli iniqui. La superiorità del pontefice emerge anche da una diversa argomentazioneesposta da Gregorio in una lettera a Ermanno: la tesi della successione petrina. All’origine del potere papale non vi è l’elezione da parte del concistoro dei cardinali ma la successione del primo papa: Pietro. Questa posizione molto superiore agli altri viene chiamata plenitudo potstatis. L’ordine giuridico Medievale I problemi relativi alla natura e alla struttura della respublica cristiana cioè l’ordine universale capace di stringere in un unico nesso la molteplicità diorganismi politici esistenti attraverso una direzione insieme politica e religiosa non sono esauriti nell’agostinismo politico. L’altro fattore molto importante è il diritto. Al medioevo non si possono attribuire le logiche moderne. Il medioevo conosce una società intimamente pluralistica sia per la molteplicità di ordinamenti sia per la pluralità di fonti del diritto. Ne sono esempi il principio della personalità del diritto e la convivenza accanto al diritto del principe di un diritto canonico. Conseguenza di un tale pluralismo è un tipo particolare rapporto tra re, legge e ordine. Per il pensiero medievale il re non esprime una esigenza ordinativa che si impone dall’esterno ma esprimeun ordine dall’essere che è già presente nella società e questa è un tutto sempre articolato in parti cioè in ambiti organici dotati di autonomo rilievo giuridico. La funzione del re è per il medioevo la iurisdictio cioè il rendere giustizia, il ripristinare l’ordine qualora infranto. Ma accanto a questa la regalità del medioevo è giustificata anche da una vera e propria teologia politica che tende alla divinizzazione del re anche mediante il suo svincolamento dai legami sociali e comunitari. Questa via dunque non coincide con al precedente a dimostrazione della complessità dell’ordine giuridico medievale. Giovanni da Salisbury Scrive il policraticus opera che si potrebbe tradurre con l’uomo di governo che Giovanni pubblicò nel 1159che si presenta come un trattato di scienza politica intriso di morale ma privo di cadute nel moralismo. La discussione dei problemi politici viene qui affrontata affiancando i patrimonio della cultura classica a quello della cultura cristiana. Egli continua a proclamare la legittimazione religiosa del potere politico dato da Dio in concessione ai re della terra; ma la concentrazione del potere nelle mani del re non esprime per lui il dominio del superiore e dell’inferiore quanto piuttosto il rapporto fra capo e membra che rinvia alla collaborazione delle parti che alla loro gerarchia. Il tema della giustizia è centrale e comincia ad avere autentico significato politico sia rispetto al poterelaicosia a quello ecclesiastico. Rispetto al primo giovanni afferma che il principe deve riconoscersi vincolato alle leggi poiché la sua autorità dipende dall’autorità delle leggi, il sottomettere il suo governo ad esse è cosapiùgrande del semplice comandare e quindi egli non si riterrà libero di fare nulla che sia in contrasto con l’equità della giustizia. Giovanni crede nella superiorità del potere spirituale su quello temporale, e designa il principe e la sua spada come una sorta di ministro del potere sacerdotale come colui che esercita quella parte dell’ufficio sacro che è ritenuta indegna del sacerdozio. Tommaso d’Aquino La grazia non annulla la natura ma la perfeziona. In un’espressione come questa la vicinanza alla natura, già rappresentata dai fisici di Chartres, assume proiezioni etico-politiche dovute alla riscoperta di Aristotele. Rispetto alla volontà di affermare l’inferiorità assoluta della natura nei confronti dello spirito, che emergeva nell’agostinismo politico e nella sua tesi di fondo: la natura peccatrice dell ’uomo non poteva essere lasciata libera ma doveva essere guidata da un potere coercitivo e correzionale. La natura umana, in quanto razionale deve creare un ponte verso la fede e la grazia, ma queste non annullano quanto le precede e lo conservano portando alla perfezione. Secondo Tommaso esiste una Lex naturalis che tiene assieme in un sistema normativo tutti il Creato discendendo dalla lex aeterna e fornendo un quadro generale da cui deriva a sua volta la legge umana.Lalegge naturale è cerniera tra ordine divino e quello umano rappresentato dagli ordinamenti politicipositivi,èl’ordine razionale dell’essere che l’uomo può conoscere grazie alla sola ragione naturale e indica il fine delle creature consentendo loro di collocare all’instaurazione dell’ordine naturale e umano voluto da dio. Egli afferma in fondo l’idea della naturale e sostanziale bontà della natura umana. È anzi merito della natura umanasel’uomo è capace di compiere il cammino che dal singolo, dai suoi bisogni e dalla sua ragione, conduce alla societàeda questa al potere politico. La tendenza associativa che è alla base della politica è radicata in due elementi della natura umana: - La non autosufficienza - Tendenza allo sviluppo La molteplicità dei bisogni umani che non possono essere soddisfatti dal singolo, spinge infatti gli uomini ad associarsi per scopi di cooperazione, allo stesso tempo anche la tendenza allo sviluppo delle facoltà razionali spinge l’uomo nella stessa direzione. Il potere è connaturato all’associazione di perseguire il bene comune. Il bene comune è il tema centrale in Tommaso, è ciò che interessa tutti ed è anche il bene proprio dell’associazione politica e del suo governo che consente a tutti il perseguimento dei propri fini. Il criteriodel bene comune funge da legittimazione del potere politico e quindi della stessa legge civile e consente a Tommaso di classificare le forme di governo congiungendo il criterio quantitativo del numero dei governanti con il criterio qualitativo del bene comune. Tommaso capita la necessità del governo dalla necessità dell’associazione fra gli uomini, deduceanchelaforma migliore del governo stesso. Dato che il fine del governo sta per lui nell’unità e nella pace non c’è dubbio che il governo dell’uno sia più idoneo alla produzione del fine unitario rispetto a quello dei molti. È possibile scorgere nella summa teologica una ripresa del discorso costituzionale che una direzione: Afferma che la volontà politica degli uomini ha valore di legge solo in quanto discende dalla legge naturale perché si colloca all’interno della giustizia come ordine razionale dell’essere. La legge così non deve esprimerel’arbitrio di un singolo ma deve orientarsi al bene comune. Il governo quindi deve essere limitato nel legiferare e nell’agire, sia dal bene comune del gruppo politico sia dalla più generale considerazione dellagiustiziachevieta di ledere il bene comune. Tommaso poi accetta il diritto di resistenza l tiranno per un governo migliore che sia principato di tutti sia perché tutti possono essere eletti sia perché tutti sono eletti da tutti. Il principato elettivo è una forma misa che riprende il giudizio positivo sulla monarchia in esigenze aristocratiche. Nel complesso quindi il potere politico è inserito nell’ordine divino ma non cessa per questo di essere umano. Tommaso trovò una felice mediazione fra tutte le esigenze che gli stavano a cuore con la formula Omnis potestas a Deo per populum. Il tardo medioevo Nessun teorico politico metteva in discussione l’unità della respublica Christiana nella dualità di funzioniincui si strutturava. Chiesa e impero si dibattevano da tempo ma si muovevano comunemente sotto l’aspetto valoriale di riferimento reciproco. Ma dal trecento si registra il volere di quei piccoli stati moderni ravvisabili nei regni che nella loro volontà di esistenza politica sono pronti a fronteggiare chiesa e impero. Civitates e Regna reclamavano per sé un’autonomia e una completezza che li ponevano in aperto conflitto con l’universalismo che aveva caratterizzato il pensiero politico da Costantino a Bonifacio. Egidio Romano Scrive il de regimine principum dedicata al re di Francia e si inserisce negli specula grazie al suo realismo ealla sua attenzione politica. Questa trattazione, ispirata ad Aristotele, si ispira al concetto di guerra giusta e siapre con considerazioni tecniche relative alla scelta dei soldati al tempo e alle modalità del loro addestramento. Scrive anche il de ecclesiastica potestate a favore di Bonifacio dove si nota un fondamento tratto dall’agostinismo politico che sfocia in una ierocrazia: governo dei sacerdoti. Il fulcro era la legittimazione pastorale del potere a causa del peccato e della sua redenzione. Egidio proclamava che ogni regno che non fosse stato istituito dal sacerdozio doveva essere considerato come un latrocinium. Quest’affermazione è sostenuta da una metafisica dell’ordine e della gerarchia che afferma la necessità di ricondurre ciò che è inferiore – la politica – al superiore – la dimensione spirituale – grazie al potere intermedio: la chiesa. La superiorità ontologica dello spirito vuole che anche la teoria delle due spade vada ridiscussa mettendoleinun rapporto gerarchico. Ricondotto ogni potere al papa egli ne deriva l’attribuzione della plenitudo potestatis che rappresenta lo spiritualis impersonando Cristo che giudica tutti senza essere giudicato. Egli poi continuerà ad estendere il potere anche sopra il dominio dei re estendendo il raggio d’azione clericale . Dichiara che tutti i beni temporali vanno messi sotto la potestà della chiesa. Giovanni da Parigi Le idee della corrente regalistica sono riassumibili nella tesi della respublica cristiana e in quella della sua intrinseca struttura gerarchica incarnata sotto il profilo politico dall’imperatore e dal suo riconoscimentodella supremazia pontificia. più dovuta l’obbedienza; si doveva anzi adottare come il criterio di misura del potere i classiciesidovevaquindi delimitare il potere considerandolo sì come rimedio al peccato ma anche una possibile fonte di peccato. La tirannide, il male insuperabile connesso con la natura del potere e con la fragilità dei suoi detentori, era secondo lui in agguato nella storia del mondo presentandosi come una continua tentazione cui andavano soggetti tanto i governanti secolari quanto coloro che sedevano sul soglio di pietro. Allontanare questi ultimi era necessario e doveroso. Il principio che identifica la legge evangelica con la legge della libertà rappresenta l’elemento centrale della politica di Ockham. Dato che la legge evangelica comporta non una maggiore ma una minore servitù rispetto a quella mosaica non si deve tentare di opprimere i cristiani con un giogo tanto pesante e duro da ricacciarli nella condizione di schiavitù da cui essi sono stati liberati. La libertà del cristiano si oppone alla pienezza del potere pontificio che consentendo al pontefice di fare ciò che gli piacesse imporrebbe una servitù incomparabilmente maggiore di quella della vecchia legge. Ockham sottolinea l’impossibilità logicadiquesto tradimento della scrittura e rivendicando l’irrinunciabile libertà naturale dell’uomo ribadisce che nell’ipotesi della plenitudo potestatis papale tutti i cristiani sarebbero servi. Ockham considera i fedeli titolari di una libertà naturale che viene confermata da quella cristiana. Sonocapaci di rivendicare i propri diritti. Quella paura che aveva Paolo dell’asservimento oggi viene eretta a fondamento dell’autonomia politica del cristiano. L’opzone per la povertà evangelica spinge Ockham a sottolineare come Cristo non fosse stato signore o giudice del mondo e non avesse dunque inteso trasmettere a pi etro una signoria che Egli non aveva mai avuto La proprietà privata e l’impero così acquisiscono un’autonomia sconosciuta, ma questa autonomianondiventa per Ockham fonte di nuove egemonie per due motivi: - La politica resta per lui legata alla necessità di punire la malvagità e i reati e non porta con sé speranze e progetti di piena realizzazione umana. La società politica non è un tutto migliore delle persone che la compongono - La politica non assorbe la dimensione religiosa ma continua a istituire con e ssa un rapporto necessariamente dialettico: la difesa dei diritti della politica laica rispetto alle tesi dei curialisti non implica una cancellazione dell’autonomia della chiesa che è depositaria della Verità rivelata. Il movimento Conciliare Il governo della chiesa potesse essere meglio assicurato da una gestione collegiale. Questa idea della superiorità del collegio sul singolo rispondeva ad almeno due tendenze: - La volontà di trasporre anche al governo della chiesa quei moduli democratici sperimentali nella gestione della vita del comune - Intenzione di indebolire attraverso il ricorso alla volontà dei più l’assolutezza del governo pontificio L’unificazione di queste tendenze vede il conciliarismo trasformarsi da arma polemica in ipotesi ricostruttiva dell’unità e del potere della Chiesa fino alla sua sconfitta dovuta all’affermarsi dell’assolutismo pontificoalla metà del 400. All’inizio del conciliarismo si colloca il grande scisma succeduto nell’ultimo ventennio del 300 alla fine della cattività avignonese del papato del 1377. La compresenza di due o tre papi sul territorio gettògli animi nella confusione e nello sconforto mentre si faceva strada con intenti ricostruttivi dell’unità dellachiesa la teoria della superiorità del concilio sul pontefice. Una volta risolto lo scisma anche grazie a Martino V. non si potevano mettere tra parentesi le idee e le proposte che avevano contribuito alla soluzione dei problemi della chiesa e di quelli dell’assetto verticistico di potere da essa incarnato. Nicola Cusano Scrive il de concordantia catholica dove sostiene l’idea di una fondamentale struttura gerarchica del creatoin cui l’umano si congiunge col divino mediante il sacerdozio e mediante il suo interno ordinamento a gradi che vanno dal laicato fino al sommo pontefice. La chiesa per lui è la comunità dei fedeli nell’articolazionedellesue componenti. Il principio dell’unità vivente del tutto è destinato ad avere la meglio su quello puramente gerarchico e sulle sue logiche rigidamente verticali. Dalla sua riflessione emerge la passione per il principio di maggioranza. Egli afferma che vi è una identità tra verità e maggioranza dei fedeli al punto che si può affermare che i cristo è con loro e non con coloro che si separano dalla chiesa. La funzione del pontefice romano viene riconosciuta in modo sostanziale. L’aspetto di forte novità è lo svincolamento del pontefice dalla successione di Pietro e la sua inclusione nellalogicaelettiva cioè di conferimento del potere dal basso. Negate le differenze ontologiche nel corpo della chiesa tra capo e membra e ridotte le differenze,Cusanofonda sull’assioma della naturale libertà degli uomini il principio che fa derivare la sottomissione e l’obbedienzadel consenso: siccome tutti gli uomini per natura son liberi, ne consegue che ogni potere sovrano si fondasoltanto sull’accordo e sul consenso espresso nella volontaria sottomissione. Il potere di un uomo sui molti deve bassarsi sull’elezione e non sul consenso. Bisogna vedere il capo come parte del tutto costituito dal concilio. Sarebbe bello saper anche queste cose metanoia ierocrazia 2. Parte seconda – Il mondo moderno e le sue forme L’umanesimo politico Per "Umanesimo", si intende quel vasto movimento culturale che, iniziato negli ultimi decenni del Trecentoe diffusosi nel Quattrocento, ha come caratteristica principale la riscoperta dell'uomo attraverso la ricerca e la letteratura dei classici latini e greci: humanae litterae o studia humanitatis , da cui appunto trae origine il termine "Umanesimo". Questa riscoperta è un'indispensabile premessa culturale del Rinascimento, con la quale la generazione dell'età umanistica sottolinea una netta distanza tra il mondo medioevale, caratterizzato da una visione della vita, che poneva Dio al centro dell'Universo e imponeva all'uomo una totalesottomissione al volere e al potere della Chiesa e la loro visione in cui l'uomo è posto al centro dell'Universo ed è considerato artefice, padrone del proprio destino. Una corrente repubblicana veicolata dall’umanesimo è stata a lungo identificata dagli studiosi con la produzione dei primi cancellieri della repubblica di firenze: bruniesalutaticon la polemica da loro condotta nei confronti delle mire espansionistiche di Milano. L’ars dictandi in questo tempo incontra la politica e intervenne per perfezionare strumenti di propaganda dell’autonomia delle singole città e della salvaguardia ideologica del valore della libertà, alla quale tutte si richiamavano. La retorica si trasforma a semplice strumento adatto a più usi fino a diventare idea principale nell’umanesimo fiorentino. L’eccellenza della vita politica, il suo valore e la sua dignità rispetto ad altri e concorrenti ideali della vita furono così potentemente difesi sulla scorta del messaggio ideologico che l’antichità aveva lasciato. Cicerone fu l’artefice di uno dei maggiori concetti della politica: quello della nobiltà politica e della natura quasi divina dei reggitori o dei riformatori degli stati. Coluccio Salutati nei suoi trattati morali indicò il modello dell’intellettuale impegnato. La concezione preliminare di quest’impegno era l’adesione e la difesa di un modello di vita attiva e politica contro il tradizionale privilegio accordato alla vita contemplativa e solitaria. Salutati argomenta che mentrelamedicina si prende cura degli individui, le leggi si preoccupano del benessere delle città, dei regni e di tutto il genere umano, rendendo così possibile anche la libertà. Questo programma di difesa della libertà repubblicana fu proseguito dopo la morte di Salutati da Leonardo Bruni. L’esaltazione della libertà nella duplicità deisuoisensi si accompagnò negli umanisti che amano il vivere libero all’apprezzamento delle virtù specificamente repubblicane. La virtù repubblicana consiste nella dedizione alla patria e al bene comune e nella sua difesa attraverso le armi. La filosofia della virtù aveva profonde ripercussioni sull’ordine politico; la nobiltà del sangue e del denaro perdeva la propria posizione di privilegio nella scala del prestigio sociale, mentre cresceva la valutazionedichi sapesse coltivare il proprio spirito in senso filosofico, ma anche pratico. L’umanesimo con i suoi presupposti teorici si trovava così associato all’ascesa di nuove classi in grado di scuotere le gerarchie consolidate dell’ordine sociale e dei suoi valori in grado di esprimere individui capaci attivi padroni di sé e desiderosi di riconoscimento mondano, di gloria. Si inizia anche a delineare l’aspetto privato inteso come intimità e distanziamento dal pubblico, si afferma insomma come un valore capace di fronteggiare in un rapporto dialettico la dimensione pubblica. Per Salutati poi la tirannide rimaneva il contrario di ogni valore politico e civile. Dà inoltre grande tema per il consenso, concentrando la propria analisi sulle trasformazioni delle istituzioni repubblicane in vere e proprie signorieo principati, fondati sul consenso popolare. Machiavelli Scrive due grandi opere: discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e il Principe. La logica delle cose del mondo è tutta interna alle cose stesse. E questa logica è l’ineliminabile presenza della contingenza nelle vicende umane: gli uomini agiscono e cercano di avere successo in un mondo intrinsecamente ostile o indifferente all’uomo e in mezzo a uomini intrinsecamente malvagi ed egoisti. ingegni e della loro virtù. Lo stato non è ben formato se non darà a tutte le sue parti la loro satisfazione cioè di trovare una via per rendere politicamente produttivo quel desiderio di essere stimati e onorati che spinge l’ambizione dei migliori verso pensieri ed azioni onorevoli. La necessità di un bilanciamentonascedall’esigenza di tutelare le esigenze e di trovare quasi il suo modello nella procedura per l’elezione delgonfalonierechiamato ad esprimersi su una rosa di candidati scelta e votata in precedenza dal senato. Qui Guicciardini si concentra molto al particolare, al contingente nella sua incapacità di stabilireregolegenerali e razionali del pensiero e dell’azione politica. Qui sta il peso elevato della fortuna: nelle cose umanelafortuna ha grandissima potestà. La prudenza impigliata nella forza della contingenza risulta comunque indebolita. La prudenza da sola non basta, ma unita alla forza e alla fortuna può giocare qualche ruolo. Su queste premesse Guicciardiniricostruisce i principi di una sapienza politica secondo la quale gli uomini generalmente hanno una bussola per orientarei loro interessi. Il principio di interesse come movente dei singoli e degli stati è talmente cospicuo all’interno dei ricordichesi potrebbe pensare che grazie a questo abbia ricostruito una sia pur tenue possibilità di previsione politica. Impigliata tra possibilità della previsione razionale e logica del caso per aso la prudenza non riuscirà così maia strutturarsi secondo una regola ma sarà sempre presentata insieme al caso e alla fortuna cioè nelle vesti di comprimaria e mai di protagonista degli eventi politici. La riforma Lo sviluppo dell’umanesimo in Europa agli inizi del cinquecento colpisce per la varietà di forme e di sensibilità che esso ispirò. Negli stessi anni in cui il primo sognava un principe nuovo – il Machiavelli – il secondo–Erasmo – sognava un principe dedito alla pace e intimamente cristiano. Erasmo Dominò la scena culturale del primo ventennio del cinquecento fino a quando la rivoluzione luterana e le sue conseguenze posero fine al suo programma di evangelismo politico. Era convinto che fosse possibile operare una mediazione fra i tesori della saggezza pagana e quelli della fede cristiana ravvivando entrambe le culture tramite il reciproco contatto. Questo giudizio critico sul mondo spinse Erasmo a formulare una vera e propria teoria critica della società e dello stato, una proposta di totale renovatio che partiva dalla messa in dubbiodei valori del tempo. Erasmo così produce un elogio della povertà e dell’umiltà della modestia dei natali e del consapevole rifiuto della gloria, ma attacca anche i valori decaduti della nobiltà ormai ridotta all’enumerazione di antiche ascendenze della regalità passata da servizio a mero esercizio di potere tirannico. L’amore per l’unità dei cristiani gli appare unificabile e la volontà di fondare una politica evangelica loportano a stigmatizzare la guerra come emblema del male assoluto e radiale. La Querela pacis si presenta come una vera e propria summa di un ragionato pacifismo, di un netto rifiuto di ogni atteggiamento pronto alla giustificazione della guerra. Erasmo è totalmente contro il concetto di guerra giusta in quanto crede che la guerra non è solo orrore materiale ma è anche trasmutazione dei valori che porta necessariamente ad apprezzare il brigantaggio il fratricidio e il disprezzo delle leggi. La guerra genera indifferenza religiosa e l’inosservanza delleleggi,l’audacia e la disponibilità ad ogni crimine. La guerra è un affare che riguarda i principi desiderosi di aumentare i propri possessi a ogni costo così invece di essere giustificata dalla giustizia, dall’altezza dei suoi motivi, la guerra viene accusata per la bassezza degli intenti dei suoi promotori tra i quali vi sono alcuni che proclamano per una sola ragione: perché in questo modo possono imporre più facilmente la loro tirannide ai sudditi. Si dovrà dare a questo pacifismo e a questo irenismo cristiano e questo sguardo critico sull’esercizio tirannico del potere da parte dei principi ilgiustopeso se si vogliono comprendere alcuni dei presupposti dell’institutio. Il principe va legittimato dai titoli che hanno caratterizzato il suo esercizio del potere. Questo criterio è una legittimazione a posteriori dove Erasmo sembra voler accettare la casualità del potere, ma al contempo sottolineare il fatto che sul suo esercizio grava il giudizio sia degli uomini che di Dio. Avendo di mira sempre l’interesse comune il principe sarà cristiano non a parole ma con un fare operoso e retto che lo renderà infine figura terrena dello stesso iddio. Martin Lutero La divisione tra chiesa e impero, con Erasmo, non era ancora avvenuta perché lui stesso voleva rimanere interno alla chiesa. Ma con Lutero tutto cambia. Egli crede che è la fede che produce salvezza e non le opere. Le opere da sole non sarebbero riuscite a esprimere altro che la natura non libera dell’arbitrio umano. Viene comunque scomunicato da Leone X. Lutero risponde creando la vera riforma del 600. La frattura tra Lutero e papato, nonostante i molti tentativi di mediazione da parte di molti cardinali umanisti si rivela inevitabile a partire dal ruolo assegnato alle opere. La prima e più alta e più nobile opera buona è la fede in Cristo con ilsuo corollario dell’uguaglianza delle opere nella fede, Lutero smantella la centralità del sacerdozio nella Chiesae della funzione sacerdotale di mediazione tra uomo e Dio come dispensatore di grazia attraverso i sacramenti . La salvezza consiste nell’azione di dio che irrompe senza mediazioni nella coscienza del credente giustificandolo con la propria potenza e presenza. Ma la soggettività moderna è il fattore di destabilizzazione, la libertà del cristiano è per Lutero accompagnata dal dovere dell’obbedienza alle autorità politiche esteriori; anzi per lui questa obbedienza raffigura e simboleggia tutte le opere buone che il cristiano può compiere. La consapevolezza che la riforma potesse realizzarsi solo grazie all’alleanza dei principi tedeschispinsebenpresto Lutero a rivolgersi a re, principi e nobiltà con la speranza che essi comincino ad avviare la cosa. La duplice natura del cristiano celeste e terreno mostra il credente libero grazie alla fede perlasuapermanenza nel mondo e nella carne. Questa dialettica è presente anche nello scritto “sull’autorità secolare”percorsodalla teoria dei due regni entrambi presenti nello stesso tempo e nello steso spazio ispirati a principi diversi ed opposti. Lo scritto impone al cristiano l’obbedienza esteriore all’autorità: la differenza fra i due regni, quello della libertà interiore e quello della obbedienza esteriore è insuperabile . La riforma ha due potenti mezzi: la teoria del sacerdozio universale e la traduzione in tedesco della bibbia. La libertà del cristiano insomma non poteva essere recintata dentro la teologia; ma attraverso la riforma si dava voce alle aspirazioni di riforma sociale alla speranza di scalzare le servitù terrene e la più odiosa di tutte,quella della gleba. Lutero prese le distanze in modo netto dalle agitazioni dei contadini mentre c’erano persone cheprocedevano ad annullare le differenze tra mondo temporale e quello spirituale. La necessità di prendere le distanze da Muntzer ebbe l’effetto di spingere a consumare la dialettica tra i due regni e a risolverla inunsensonettamente opposto a quello del suo antagonista. Calvino Calvino fu la forma istituzionale del protestantesimo. La funzione del potere per lui è la stessa della chiesa: rendere manifesto il patto che Dio ha stretto con il popolo degli eletti. La vita del cristiano risulta così scandita dal riconoscimento dell’assoluta onnipotenza divina, e dal conseguente completo assoggettamento tramite l’obbedienza al potere al volere e alla provvidenza. La critica alla chiesa cattolica gerarchia è condivisa con Lutero: è solo la grazia divina a produrre la salvezza dell’uomo. Benchè la volontà di Dio si compia necessariamente l’umo deve agire in questo mondo per compierla. L’agire umano non produce e non merita salvezza, ma è in grado di dimostrare che il singolo è assistito dalla grazia di Dio. Sono tesi calvinistiche l’imperscrutabilità del disegno divino anche riguardo alla salvezza o menodeisingoli,sia la ricerca del successo mondano come certificazione non certo per il raggiungimento della salvezza. Da quest’aspetto deriva anche un’etica sociale: il principio della rinuncia a se stessi in modo tale da preferire gli altri a noi, sia per quanto riguarda l’onore sia per quanto riguarda l’utilità. Non è tuttavia a dispostoadissolvere l’unità della chiesa nella molteplicità delle singole azioni dei singoli credenti anzi, purlottandocontroilpapismo e la sua gerarchizzazione della vita della chiesa egli impone al credente un doppio gioco: quello del suoufficio mondano e quello della pietà e della religione condivisa dal credente con la sua comunità e con la sua Chiesa. La sua chiesa non conosce le suddivisioni gerarchiche di quella romana; non conosce dunque l’autorità che media fra cielo e terra. Le modalità di scelta dei pastori sono quelle che qui più ci interessano perché restaurando il sistema che prevedeva l’elezione del pastore da parte delle singole comunità dicredenti Calvino introduceva forti elementi di democrazia nella vita religiosa e politica del suo tempo come gli esitiradicalidella riforma in Inghilterra mostreranno. Il dovere dell’obbedienza è esteso anche agli ordini dei magistrati iniqui; per i privati cittadini deve valere tuttavia una riserva, quella che tale obbedienza non ci deve distogliere dall’obbedire a Colui alla cui volontà tutti gli editti regi debbono attenersi. Basandosi sul passo di Pietro che ricordava la necessità di obbedireaDio piuttosto che agli uomini Calvino pone dunque il limite all’obbedienza nel rispetto delle norme morali e religiose da cui il fedele crede che la sua salvezza dipenda. In questo caso è disobbedienzapassiva. Nelpensiero di calvino ci sono quindi elementi contro il potere motivata da cause religiose: il giusto, il santo non può farsi imporre comandi ingiusti. Riforma e tolleranza La riforma pretese per sé la libertà religiosa, il diritto cioè all’esercizio di un culto diverso da quello generalmente professato. Grazie a Calvino la riforma assunse un aspetto istituzionale che la portò a confondere la funzione dei pastori con quella dei magistrati. Forti di queste convinzioni i riformati non pensarono dunque né che fosse auspicabile n che fosse possibile che su uno stesso territorio convivesseropiù fedi o che vi fosse dissenso rispetto a quelle dominanti o che lo stato proclamasse la propria neutralità in materia religiosa. Principi come questi accomunavano il cattolicesimo al fronte protestante nella intolleranza verso gli eretici. Anche le chiese riformate condividono il nesso che collega Verità e autoevidenza e praticano la costrizione a credere. Costituzione, rivoluzione, repubblica e utopia Il costituzionalismo La libertà è pianta dalle molte radici e una di queste è da individuare nelle libertà e nei privilegi tipici del rapporto feudale. Se il mondo romano e il suo diritto imperiale potevano essere riassunti nel principio ciòche piace al principe ha valore di legge, secondo il dettato della lex regia de imperio danno più peso all’altro protagonista: il popolo. L’humus germanica del feudalesimo e la concezione medievale della legge furono particolarmente favorevoli allo svilupparsi del costituzionalismo medievale. La legge andava più scoperta e promulgata che artificialmente costruita; essa non era mai insomma in pieno possesso del legislatore come uno strumento forgiabile a piacere, ma costituiva piuttosto la trama di rapporti razionali e giuridicamente fondati sull’anteriorità della giustizia rispetto alla legge. La legge quindi era concepita come giustizia al contrario di comando. Il medioevo è caratterizzato dall’assenza di uno stato ma dalla presenza di un diritto che non è espressione di una sovranità politica quanto piuttosto della società e della molteplicità degli ordinamenti in essa presenti. Insomma, si è parlato del carattere pluralista del diritto medievale e del fatto che al suo interno il potere politico costituisse solo una fonte tra le molte chiamate alla edificazione di quell’ordine. Il caratterenegoziale e pattizio del diritto e della libertà intesa non come possesso individuale ma come privilegio accordato a collettività e a città emerge con chiarezza nella magna charta libertatum concessa da Re Giovanni senza terra. - Egli insinuava il dubbio che coloro che si servivano del diritto naturale come di un grimaldello nei confronti degli attuali assetti di potere non si sarebbero più fermati nelle loro richiese nemmeno dinnanzi al principio della proprietà I livellatori Il movimento fu fondato da Lilburne, Overton, Walvyn e fu interessato al diritto e alla politica identificando i propri avversari dapprima con i privilegi nobiliari poi con il parlamento. Il movimento prevede l’illegittimitàdi qualsiasi anche futura proposta di livellare i beni degli uomini, abolire la proprietà privata o introdurre la comunità dei possessi. È chiaro che ciò che si intendeva livellare ed eguagliare era il peso politico dei cittadini. I Livellatori (Levellers) furono un movimento politico, guidato da John Lilburne, che si sviluppò durante la Rivoluzione Inglese, alla fine della prima guerra civile (nell'estate del 1646). Il movimento, cheprevedevatra i suoi punti fondamentali la tolleranza religiosa, l'uguaglianza di fronte alla legge e l'ampliamentodelsuffragio, influenzò attraverso i suoi principi e le sue battaglie numerose correnti politiche che si affermarono, successivamente, nel resto dell'Europa, come, ad esempio, il socialismo. Forse ciò che spaventava gli oppositori, era il radicalismo politico e l’insistente ricorso al diritto di natura. Coniugando questi due elementi i livellatori difesero un coerente programma politico ispirato ai principi del radicalismo democratico. Essi pensano che la legittimazione dell’esercizio del potere politicoediqualsiasialtra autorità solo sulla base della rappresentanza eletta a suffragio maschile sia valida. Gli Zappatori Affianco ai livellatori un gruppo più radicale si presenta: gli zappatori. Winstanley fu il leader col problema di potare avanti la rivoluzione e di spingerla fino al suo completo compimento che sarà realizzato solosesieviterà che un potere si sostituisca a un altro. Fare della rivoluzione il grimaldello con cui sovvertire gli attualirapporti di potere economico e politico significa azzerare i rapporti di proprietà e provocare una netta cesura tra il tempo del re e le leggi del presente. Se si vuole una libera repubblica deve liberarsi dei vecchi fardelli . Il comunismo di Winstanley consiste in questa ridistribuzione della terra. La convinzione che la rivoluzione potesse dare origine a una completa renovatio capace di cancellare il peccato originale dell’appropriazione della terra da parte dell’antico conquistatore normanno e dei suoi regali discendenti si traduceva nella speranza di poter tornare indietro nel tempo fino al punto in cui era ignoto il peccato originale della società. Assertore di una concezione piena di libertà Winstanley la definisce come quella condizione capace di dare a tutti gli uomini nutrimento e sostentamento. Analizza vari tipi di governo dividendole secondo le modalità con cui è gestita la terra - Governo regale fondato sulle categorie del vendere e del comprare - Governo repubblicano fondato sulla libertà che vuole organizzarsi secondo logiche comuniste Per Winstanley è centrale il problema della proprietà e dei rimedi ai disastrosi effetti prodotti dalla sua ineguaglianza. È importante il fatto che le terre demaniali con i connessi usi civici comuni come il diritto di pascolo vengano appropriate individualmente attraverso il sistema delle enclosures cioè delle recinzionicon cui antichi e nuovi proprietari sottraggono le terre all’uso comune. La reazione pubblica fu duplice di fronte a queste novità: - Da un lato la cultura approvò i processi di appropriazione individuale della terra e diffuse un nuovo atteggiamento nei confronti dei poveri - Dall’altro espresse la nostalgia del mondo antico e il sogno della redenzione dei mali del presente e sperò in un ritorno dell’età dell’oro Il repubblicanesimo I membri di questo gruppo erano accomunati da un’opzione repubblicana che faceva del Commonwealthnon solo una forma di governo non monarchica, ma quel tipo di convivenza capace di realizzare valori qualilalibertà personale, la partecipazione diretta e appassionata alla vita politica e l’autogoverno collettivo. Nelcomplesso questi valori indicavano un’accezione di liertà come assenza di dominio quindi autogoverno e a livello istituzionale si esprimevano nell’apprezzamento del governo misto come garanzia della partecipazioneditutti e nella fortissima avversione alla tirannide contor la quale teorizzavano la resistenza fino al tirannicidio. Per perorare la causa repubblicana e renderla credibile gli autori procedono attraverso due opzioni teoriche: - Cercando di annullare le differenze che una lunga tradizione di pensiero aveva costruito tra la forma regale e la sua degenerazione tirannica - Mostrando l’incompatibilità tra la libertà e la monarchia così intesa e l’eccellenza della repubblica come unica forma politica che consente l’esplicarsi della libertà nella molteplicità delle sue sfere e il suo coincidere con l’autogoverno. Milton Il pensatore che legò alla propria vita e i propri scritti alla difesa della libertà repubblicana. Difende le ragioni filosofiche ed eticopolitiche della tolleranza e della libertà contro un decreto del parlamento che istituiva la censura sulla stampa. Egli è animato da due profonde convinzioni: - Fiducia che la verità abbia bisogno del dialogo del confronto e dell’errore per crescere e per manifestarsi - Non c’è vita senza la pluralità delle opinioni, senza la tensione individuale verso il bene ed il meglio. L’accento posto sulla tensione etica, sulle modalità con cui nel mondo si intrecciano il bene e il male, serve a giustificare anche eticamente la libertà di parlare e di discutere liberamente secondo coscienza e serveanche a combattere quella pietrificazione della vita morale e politica che scaturirebbe da una società di santi. L’idea centrale di Milton è la rivendicazione di una originaria appartenenza del potere al popolo, che quando decideva di trasferirlo al re non lo alienava ma lo affidava nella forma di un rapporto fiduciario, cioèlodelegava a un commissario che era tenuto a rendere conto del proprio operato e della sua conformità alle indicazioni del committente. Questa concezione porta Milton a ridurre molto la distanza e la differenza tra re e tiranno. Tiranno non è solo il re che si macchia di delitti ma è il re come tale perché la stabilizzazione della monarchia attuata nella successione ereditaria trasforma quello che dovrebbe essere un funzionario dello stato nel padrone dello stato. Il problema non è costituito dall’involuzione tirannica della regalità madallostessoistituto monarchico che si rivela non necessario e dannoso. La repubblica non solo realizza la giustizia e l’equità ma induce alla nobiltà d’animo, all’abolizione ella servitù e del servilismo. L’istituto che a suo parere è in grado di incarnare i principi di un buon governo libero è un consiglio generale degli uomini capaci scelti dal popolo perché si occupino di volta in volta dei pubblici affari in vista del bene comune cioè una sorta di senato o di aristocrazia delle capacità. Harrington Pubblica La repubblica di Oceana in cui esprime con pienezza quell’adesione al governo misto che costituisce uno degli aspetti più rilevanti del repubblicanesimo coniugato con una certa dose di utopia. Per comprendere quest’opera occorre isolare il suo nucleo teorico che sta nella convinzione che l a struttura politica rispecchia la struttura sociale, la forma della divisione e dell’organizzazione della proprietà terriera. Il fatto che la repubblica sia presentata come una necessità a causa dell’estensione dei processi di uguagliamento sociale, non significa che per Harrington essa non incarni anche un valore. L’eguaglianza non rappresenta solo un prodotto dei tempi ma anche il valore politico che meglio d’ogni altro sorregge il valore della libertà. Convinto del fatto che la disuguaglianza dei possessi si traduca politicamente nella soggezionee nel servaggio dei meno abbienti e anche del fatto che la libertà politica esiste se vi è autosufficienzaeconomica. La forma che la libertà deve assumere per un popolo che come quello inglese sia già in possesso dei suoi prerequisiti che non abbia cioè un solo uomo signore è quella mista. Se la mistione nell’antichitàdovevaservire a superare le cause di debolezza interna di certe realtà politiche, essa assume in Harrington un altrosignificato. Non bisogna infatti dimenticare che se il processo dell’eguagliamento delle ricchezze e la legge agrariahanno sconfitto quella grandezza, la repubblica ha bisogno di una certa grandezza solo politica. Il punto di partenza del suo sistema è quindi costituito da una legge agraria capace di fissare un limite ai possessi, non orientatain senso radicalmente ugualitario ma anzi graduata senza che ciò pregiudichi l’attribuzione della cittadinanza. La coincidenza della cittadinanza con la titolarità della proprietà terriera e quindi con l’autosufficienza non introduceva elementi permanenti di scissione nell’interesse e nelle aspirazioni del corpo sociale che era costituito da cittadini tutti proprietari e tutti armati. Era il popolo a scegliere i virtuosi e i sapienti come propri rappresentanti e il meccanismo della rotazione sembrava consentire un buon livello di circolazione delle elite. L’aristocrazia è per il popolo come l’animaper un corpo essendo in possesso di ricchezze usate per gli affari pubblici. Il popolo armato costituisce la materia dello stato: il suo compito non è però quello di selezionare con il voto la classe dirigente ma quello di costituire la guardia della libertà attraverso l’approvazione o il rifiuto delle proposte legislative precedentemente approvate dal senato. se la repubblica poteva dirsi ben saldagraziealla presenza di organi monocratici, il classico elemento necessario alla forma mista era il decentramento amministrativo cioè promuovere l’autogoverno locale e di introdurre il gusto per la partecipazioneel’abitudine di obbedire alle decisioni pubbliche. Moro Il nome di utopia è indissolubilmente a un piccolo libro pubblicato a Lovanio da Tommaso Moro. Il termine utopia indica un luogo che non esiste in cui però esiste ciò che nella società moderna non esiste più ovvero il benessere. Il segreto della felicità di questo mondo risiede proprio nella mancanza della proprietàprivataedel denaro, che ha però come contropartita una vita trascorsa nell’abbondanza di tutto ciò che è necessario. Il legame tra utopia e modernità è doppio: l’utopia esprime da un lato il disagio della modernità e dall’altro le caratteristiche meno accidentali della modernità stessa. Un’altra e diversa contraddizione dell’uotopia sta nel fatto che essa da una parte si concepisce come realistica cioè come analisi concreta del presente e dei suoi mali; dall’altra le soluzioni che essa prospetta periproblemi che individua sono sì razionali negli obiettivi ma non nei mezzi per raggiungerli: semplicemente un’analisinon c’è. L’utopia non è un progetto politico ma l’espressione di un’esigenza che non si sa come realizzare. Animata da un’insolubile contraddizione tra sogno e realtà concreto progetto politico e fuga in avanti tanto da sfiorare una società completamente pianificata e perciò completamente illiberale nella varietà delle sue forme. La fortuna dell’utopia in Europa fu davvero impressionante come testimonia la sua presenza nelle varie aree culturali. A livello politico quest’idea si realizza nell’immaginare una repubblica dove tuttoèincomuneeniente può essere appropriato individualmente. Questa lotta all’appropriazione individuale rappresenta a livello politico la forza del principio metafisico verso l’unità, e il conseguente disprezzo verso tutto ciò che si oppone all’inclusione totale della molteplicità nell’unità. Il primato metafisico dell’unità si unisce all’antica opzione morale a favore della comunità e al disprezzo per la scellerata brama di possesso e per l’amor proprio. Althusius Se Bodin rappresenta la teoria dello stato accentrato tramite la teoria della indivisibilità della sovranità, Althusius sembra rappresentare una alternativa federale rispetto alla scelta unitaria della repubblica. La profondità del suo pensiero sta nella rivendicazione dell’appartenenza della sovranità al popolo cheinnessun caso potrebbe rinunciare a tale diritto né trasferirlo definitivamente ad altri. In tal modo la scienza politica di Althusius riflette e giustifica la rivolta dei paesi bassi contro il re di Spagna come un giusto tentativodisottrarre al re e di restituire agli olandesi i loro diritti di sovranità. La realtà politica è contrassegnata da un primato dell’associazione mediante cui gli uomini si obbligano reciprocamente alla mutua comunicazione di ciò che è utile e necessario alla vita sociale. Althusius afferma che il primato delle associazioni sui singoli privati che ne fanno parte è tipico delle associazioni minori. Per questo non vede ragione per il quale non si possa applicare a uno stato i medesimi principi che valgono per regolare la vita delle associazioni minori. La sovranità dello stato è in realtà federale perché si nutre del patto fra associazioni minori. Alla sommità della piramide amministrativa pone non un potere ma due: quello del sommo magistrato e quello degli efori. Gli efori sono eletti attraverso i suffragi di tutti e devono eleggere il sommo magistrato a loro volta. Essi rappresentano il corpo sociale di fronte al magistrato. Nel caso in cui il magistrato infranga le leggi fondamentali del regno gli efori hanno il potere di deporlo inquantorappresentanti del popolo stesso. Le ragioni che legittimano l’esistenza della stato e l’obbedienza ai magistratidebbanoessere verificate di volta in volta e non assunte una volta per tutte. I libertini e Pascal Il libertinismo che si espande in Europa si presenta unificato da una volontà di rinnovamento e di liberazione che lo rendono moralmente sospetto agli occhi delle ideologie. Se i libertini avessero dovuto scegliersi un maestro, non avrebbero certo esitato a indicare Montaigne. Egli immette nella modernità una soggettività strutturata intorno alle categorie del movimento e della transizione e che scettica ha la propria sola certezza nella percezione dell’unicità e irripetibilità della vita terrena. La politica non è più la destinazione più alta fondata sulla attività umana atta a salvaguardare la possibilità puramente biologica della vita e del singolo. Il potere dunque deve conservare la pace tra gli uomini e per rivitalizzare un potere indebolito si mette in campo una strategia che è insieme innovatrice e conservatrice.Si tratta di legittimare l’obbedienza in presenza di una soggettività moderna che vuole esaminare e criticare tutto. In Montaigne la desacralizzazione delle motivazioni delle azioni dei principi procede di pari passo conlacritica della presunta intrinseca razionalità delle leggi. Nega ogni possibilità di fondazione razionale alle leggi riconducendo le loro fonti ai costumi, alle usanze. In tal modo Mointainge si capisce che la teoria dell’assolutismo nascente fa nascere dal propri seno i soggetti moderni sottomessi al potere ma che lo legittimano a loro volta dato che al potere chiedono la propria salute e il proprio benessere. Dedicando la propria vita alla costruzione di un’apologetica cattolica capace di confrontarsi con la modernità e dunque lontana tanto dal tomismo e dal naturalismo, anche Pascal incontra il problema dell’ordine e si confronta con Montaigne di cui condivide lo sguardo critico nei confronti del tasso di giustizia realizzabilenello stato. Eppure accetta il diritto e lo stato riconoscendoli necessari alle logiche del mondo, alla sua sopravvivenza. Che essi siano essenziali non significa però che siano pienamente razionalmente giustificati; essi conservano la propria follia, che consiste nel dovere obbedire a un re bambino o nel ricevere le sentenze da uomini coperte di toghe. La corte Rispetto all'immagine medievale del re e del Parlamento in conflitto o in collaborazione, e a quella moderna della sovranità statale e dell'individuo che si fronteggiano, anche un'altra nuova coppia sembra oraaffermarsi: il re e la su corte. Ciò che questa novità rappresenta è l'assoluta centralità che all'interno c ciascuno Stato assume la corte con il suo gravitare intorno al sovrano e al suo consiglio «privato», con il peso che alsuointerno riescono a ottenere i sue «favoriti», con le dinamiche di ascesa sociale o di subitanea rovina che lì si realizzano. Era naturale che un pensiero politico consapevole dei mutamenti intervenuti con il rafforzamento delle monarchie, e consapevole di non avere più cc me oggetto possibile quello di fondare o di riformare le repubbliche, volgesse la propria attenzione al problema costituito dalla vita di corte. Era lì che si giocavano infatti i destini degli uomini e che si costruivano le fortune dei potenti. Castiglione Scritto da Castiglione come rappresentazione di una corte reale, quella del duca d'Urbino, Il Cortegiano vuole dettare le regole per la migliore formazione dell'uomo di corte, assegnando come precipua professione diun uomo di tal fatta «quella dell'arme; la quale sopra tutto voglio che egli faccia vivamente» (I, XVII). Connesse con l'esercizio delle armi e perciò altrettanto vigorosamente consigliate sono la lotta e la caccia, svago e passatempo quest'ultimo che unisce il piacere con l'utile, visto che «ha una certa similitudine di guerra» (I, XXII). Dopo avere elencato gli utili esercizi ginnici cui il cortigiano deve essere versato, Castiglione, prendendo massimamente le distanze su questo punto dalla schiera di scrittori che avevano messo al primo posto la sola vigoria fisica, unisce a questa la grazia. La capacità cioè di procurarsi un'eccellenza senza affettazione e, per usare una parola nuova, «usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e si dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi» (I, XXVI). Naturalezza e grazia nell'esibire virtù e arte hanno anche, secondo Castiglione, un altro importante risultato: fanno sembrare il sapere, o le potenzialità,di chi compie una qualsiasi azione «molto maggior di quello che è in effetto; perché negli animi delli circunstanti imprime opinione che chi così facilmente fa bene sappia molto più di quello che fa, e se in quellochefaponesse studio e fatica potesse farlo molto meglio» (I, XXVIII). Questa considerazione sulla logica del sembrare, del costruire artificialmente la propria potenza, svela l'intrinseca «politicità» del Cortegiano -. Mentre Castiglione ne idealizza la figura, facendone un virtuoso letterato rinascimentale, dedito agli ozi e al culto della bellezza, indica anche la logica del dominio come suo naturale destino. Dal Cortegiano nacque una letteratura capace di guardare alle relazioni politiche non soloa partire dal macrocosmo dei rapporti tra gli Stati e delle loro politiche di potenza, ma anche dal microcosmo di quelle relazioni concorrenziali fra singoli, che generalmente si instauravano all'interno di una corte. Graciàn Chi si addentra nelle sue massime vede ben presto quanta strada, in più di un secolo, abbia percorso il riferimento di Castiglione al 'sembrare', che in Gracian viene quasi a essere il vero tratto caratteristico della saggezza del cortigiano e dell'«uomo di mondo». La prudenza delle massime dell'Oracolo consiste in una doppia strategia: la segretezza che impedisce agli altri di penetrare nell'intimo della volontà e dei pensieri dell'uomo prudente, e la consapevole costruzione artificiale di una parvenza di verità. Nel rapporto concorrenziale con gli altri occorre, infatti, assicurarsi tutte le posizioni di vantaggio possibili, purché queste siano compatibili con la propria rispettabilità e onorabilità. Da questo presupposto discende dunque l'imperativo di non scoprirsi mai del tutto, per non rendere i propri comportamenti prevedibilidaparte degli altri. Gracian raccomanda di costruire una verità apparente e artificiale. Ma la legittimazionedell'inganno e della simulazione non equivale a fare del comportamento simulato quello più consigliabile;enonsoloperché Gracian è memore del motto evangelico che esorta ad «alternare l'astuzia del serpe con il candore della colomba». Più che un invito alla menzogna, il vero significato della prudenza di Gracian è dunque un invito all'innovazione, a comportamenti accorti e adatti di volta in volta al mutare delle circostanze. Questaprudenza è solo pallido ricordo dell'energica virtù di Machiavelli in aperto conflitto con la Fortuna; e non a caso Gracian raccomanda al lettore di aspettarsi dalle sue massime non una ragione politica e nemmeno una economica, «ma una Ragion di Stato di te medesimo». Così egli rendeva omaggio alla nuova razionalità che nel frattempo era entrata fin dentro le relazioni umane, costituendo il fronte più avanzato raggiunto dalla scienzapoliticadel tempo: la Ragion di Stato. La ragion di Stato Una delle ultime grandi dottrine politiche elaborate in Italia, capace di estendere la propria egemoniasututta l'Europa, è la trattatistica della Ragion di Stato, vasta corrente intellettuale unificata ai suoi esordidallavolontà di mediare tra due istanze insopprimibili dell'età barocca: che la politica non abbandoni il riferimentoaiprincipi etico-religiosi, ma anche che da questo suo legame con la religione non tragga motivi di debolezza, ma anzidi forza e di efficacia pratica, sapendo unire l'interesse con l'onestà, il successo con la giustizia. Il problema all'ordine del giorno per molti intellettuali cattolici, ancora prima che Giovanni Botero desse ilvia al discorso sulla Ragion di Stato, era infatti la constatazione del divorzio tra l'utile e l'onesto che percorrecome un filo rosso la trattatistica politica del Cinquecento. Queste nuove regole di successo puramente mondano ponevano alla cultura cattolica parecchi problemi costringendola a tentare di riconquistare il terrenoperduto. Il primo grande nemico era ovviamente Machiavelli, che aveva dissociato la politica dalla morde cristiana, e aveva lanciato un'inedita sfida, affermando che il cristianesimo impediva strutturalmente il successomilitare. Su questo terreno occorreva reagire, e non a caso alcuni autori cattolici sostengono che la felicità terrena è la giusta ricompensa del comportamento religioso dei regnanti e dei popoli. La messa all'indice delle opere di Machiavelli nel 1559 non chiuse però la questione, perché nel frattempo era nata una corrente storico-politica di pensatori che commentavano Tacito. Botero Campione della reazione contro la cattiva Ragion di Stato machiavelliana, e codificatore di una sua versione buona e lodevole, fu Giovanni Botero. Botero, volendo riconnettere il valore mondano della potenza militare con quello ultraterreno della fede, sostiene che questa, portando a disprezzare la morte, è in gradodiprodurre miracoli in battaglia, garantendo un'intrinseca superiorità delle milizie cristiane su quelle pagane. Gli stessi obiettivi polemici e apologetici sembrano animare, qualche anno dopo, il suo libro più fortunato, Della Ragion di Stato, pubblicato a Venezia nel 1589 in prima edizione e rivisto nell'arco di un decennio fino alla sua redazione definitiva, apparsa ancora a Venezia nel 1598. Nella dedica dell'opera si polemizzavaancora contro la «barbara maniera di governo» desunta da Machiavelli e da Tacito, capace di sottrarre «alla conoscenza la sua giuridittione universale di tutto ciò che passa tra gli huomini, sì nelle cose pubbliche come nelle private»; ma l'opera trascende le motivazioni polemiche presentandosi come una vera e propria nuova scienza politica. Il libro si apre con una definizione dello Stato come «dominio fermo sopra popoli», dove sembra presente un'eco di Bodin, e della Ragion di Stato come la «notizia di mezzi atti a fondare, conservare, e ampliare un Dominio così fatto». Rovesciando le tesi machiavelliane relative alla facilità della conservazione dello Statoe alle difficoltà del suo accrescimento, Botero presenta la conservazione come un obiettivo difficile, non solo perché essa deve lottare contro la tendenza naturale alla decadenza, insita nelle cose umane, maancheperché «s'acquista con forza, si conserva con sapienza; e la forza è comune a molti; la sapienza è di pochi . La sua opera avrà pertanto l'obiettivo di individuare le specifiche tecniche necessarie al principe per il mantenimento del suo dominio. Se nulla di nuovo appare nei suoi consigli vòlti a cercare di procurarsil'affetto dei sudditi attraverso il ricorso alle virtù e in particolare alla giustizia, virtù regale per eccellenza, bastaarrivare alla liberalità per accorgersi della presenza di un'importante novità. Se la tradizionale valutazione della liberalità sembrava, infatti, esemplata sulla letteratura degli specula principis, e sul suo valore morale, in La scolastica spagnola Il pensiero politico del Cinquecento e del Seicento ha - in Francia, in Germania e in Inghilterra - il propriocentro nella Riforma e nei problemi sollevati dalle guerre civili di religione. Ma in altri contesti, come quello italianoe spagnolo, i problemi all'ordine del giorno erano diversi. Grande fortuna ebbero sia in Italia sia in Spagna il tacitismo, la Ragion di Stato e l'antimachiavellismo, ma la Spagna dovette fronteggiare una sfida del tutto particolare. La scoperta dell'America e la colonizzazione delle Indie impose alla cultura iberica temi imprevisti che trovarono una vigorosa risposta nella scuola di Salamanca e nella tradizione, da essa ravvivata, della «seconda» Scolastica. È difficile anche solo immaginare con quanta radicalità la scoperta del Nuovo Mondo abbia sfidato la cultura europea del Cinquecento. Essa pose all'ordine del giorno, ad esempio, il problema se gli indigeni americani discendessero da Adamo o se invece si dovesse riconoscere legittimità al poligenismo, alla nascitadell'umanità da capostipiti distinti; un'altra questione riguardava il valore universale, anche per gli indigeni, della predicazione di Cristo e della redenzione resa possibile dalla Sua incarnazione. Oltre a questi interrogativi religiosi, altri se ne ponevano di più specificamente politici. Infatti una volta avvenuta la scoperta e stabilito che gli indigeni e la loro terra entravano a far parte dei domini spagnoli - solo in parte minore portoghesi, nel Brasile -, restava aperto il problema di legittimare l'accaduto o di limitare i danni di quegli eventi che, comela riduzione in schiavitù, turbavano le più sensibili coscienze cristiane. Su tali questioni furono per lunghi anni in contrasto, ad esempio, Juan Ginés de Sepulveda (1490-1573), umanista spagnolo traduttore di Aristotele e il padre domenicano Bartolomé de Las Casas (1474-1566); il «rumore» della loro contesa spinse l'imperatore Carlo V a convocare nel 1550 una commissione di teologi edi giuristi incaricata di dirimere la controversia. La commissione concluse i suoi lavori con un nulla di fatto. Per Sepulveda, infatti, nel comportamento selvaggio degli Indios, homunculi «nei quali a stento potrai riscontrare qualche traccia di umanità», erano ravvisabili parecchi motivi per considerarli fondamentalmente 'diversi' dall'umanità europea, e per proclamare contro di loro la «guerra giusta». Las Casas invece, convinto del mostruoso anticristianesimo del comportamento degli Spagnoli verso gli indigeni, affidò nel 1552 alla sua Brevissima relation de la destruycón de las Indias il compito di perorare la causa dell'abolizione dellaschiavitù per gli Indios. Las Casas rovescia 2 senso dei dati antropologici che avevano consentito a Sepulvedadimotivare la conquista, sia insistendo sulla naturale mitezza e onestà di quelle popolazioni che sembrano create da Dio «senza malvagità, e senza doppiezza», sia descrivendo la bontà di tutti i loro costumi. Gli indigeni infatti, contenti della loro povertà, sono per lui esenti dalle malattie morali degli europei, come la superbia, l'ambizione, la cupidigia, mentre sembrano in possesso della ragione naturale e di un'intelligenza libera e vivace adatta «a ricevere la nostra santa fede cattolica, e ad acquisire costumi virtuosi». Vitoria Si mostra attento ai temi politici e pensatore originale in un gruppo di relectiones tenute all'Università di Salamanca negli anni dal 1528 al 1539 e dedicate al potere civile, a quello ecclesiastico, al diritto di guerra e alla questione degli Indios. Fin dall'inizio della sua trattazione Vitoria dichiara di volersi confrontare con il problema giuridico della legittimità del dominio esercitato dagli Spagnoli sugli Indios. Egli comincia ad affrontare la questione chiedendosi se questi popoli fossero, prima dell'arrivo degli spagnoli, «veri domini», veri e legittimi possessori del loro paese. Vitoria si impegna nell'analisi citando il principio tomista che«gratia non tollit filatura naturam sed perficit» - la grazia non abolisce la natura ma la perfeziona. Ne deriva che né la fede né la grazia conferiscono titolo di legittimità al possesso, ma questo deriva solo dal diritto naturale e da quello umano, che non tollerano che si spoglino dei loro beni né i musulmani, né i giudei, né gli altri infedeli, considerando questo nient'altro che «furto e rapina». Quindi gli Indios, benché infedeli o in peccato mortale, erano per diritto naturale e anche senza bisogno di grazia divina veri padroni dei loro beni, e vivevano in vere strutture politiche. Quest'attenzione alla natura che ha i propri diritti, anche se non è stata toccata dalla grazia, mette Vitoria in rotta di collisione con quanti facevano del territorio degli Indios una «res nullius» - un bene di proprietà di nessuno - legittimandone così la conquista mediante il 'diritto del primo occupante'. Ribadito che gli Indios sono autosufficienti per natura, che non sono irrazionali homunculi come credeva Sepùlveda, e chenonè vero che si trovino nell'impossibilità di gestire se stessi a causa del peccato originale, Vitoria passa in rassegnaaltre tesi, come quella secondo cui il dominio sugli Indios è stato conferito agli Spagnoli dall'imperatore, vero sovrano del mondo, o dal papa, sovrano spirituale e di conseguenza civile «totius orbis», di tutta la terra. Con non poco coraggio egli sostiene che né per diritto naturale, né per diritto divino, né per diritto umano esiste un sovrano del mondo, e che tale non è l'imperatore, e nemmeno il papa. Non solo Vitoria distingue nettamente, contro i canonisti, tra potestà spirituale e temporale, ma non vuole nemmeno dedurre dal primato della dimensione spirituale immediate conseguenze nell'ambito temporale, arrivandoadirecheanche se gli Indios si fossero rifiutati di riconoscere la sovranità di Cristo «non si può per questo far loro guerra, né causare loro alcuna molestia». Il diritto degli Spagnoli alla conquista e al domino delle Americhe è però legittimato da Vitoria per altra via; e proprio a partire dalla sua idea di un'unità di fondo dello spazio mondiale e del genere umano, che è tutto coinvolto in quella sorta di diritto internazionale di cui egli è considerato l'inventore. È il diritto internazionale o il diritto delle genti che per Vitoria legittima il primo «contatto» tra gli spagnoli e gli Indios; è in virtù di tale diritto che gli spagnoli lecitamente percorrono quei territori e commerciano con i loro abitanti senza recare loro danno. Fondata sul diritto naturale la possibilità del commercio nella pluralità dei suoi sensi - scambio di beni ma anche rapporto tra uomini, tutti naturalmente imparentati tra di loro, Vitoria legittima poi l'impossessamento spagnolo della terra degli Indios sulla base del fatto che questi avrebbero ingiustamente ostacolato il commercio spagnolo e anche la giusta appropriazione spagnola dei beni americani - ad esempio, oro e perle - che a differenza del territorio non sarebbero proprietà dei 'selvaggi'. Il dominio spagnolo in America nasce da una «guerra giusta» contro gli Indios per salvaguardare il diritto naturale al commercio da loro minacciato. Benché Vitoria sembri restaurare, alla fine del De Indis, se non la forma certo la sostanza della conquista, nella conclusione del trattato è presente anche la tesi che per completare la legittimazione del potere del re di Spagna sulle Americhe ci dovrebbe essere un attovolontario, in base al principio secondo cui uno Stato può costituire il proprio sovrano «attraverso il consenso della maggior parte». Vitoria, commentando il passo della Lettera ai Romani di Paolo sull'origine divina del potere, avevaindividuato in Dio la sua causa efficiente, ma nella società e nella comunità politica la sua causa materiale. Se il potere viene da Dio, in quanto necessario al mantenimento di quella società che Dio stesso ha voluto, non è peròDio che sceglie i governanti: la concreta individuazione della forma e dei titolari del potere compete solo alla comunità. Prima di entrare in società e nell'ambito del potere, nessuno era superiore agli altri; è solo a partire dall'accordo di tutti, ma Vitoria preferisce parlare di quello della maggioranza, che si costruisce il potere pubblico. Ma il processo attraverso cui il potere si costituisce non è per Vitoria una delega temporanea e condizionata di autorità da parte dei cittadini verso i governanti; è anzi una vera e propria alienazione: infatti, un re «è superiore non solamente a ciascuno dei cittadini, ma anche allo Stato tutto intero, cioè all'insiemedi tutti i cittadini». Insomma, il grande ruolo assegnato alla volontà della maggioranza all'atto di fondazionedello Stato, o addirittura nell'ipotesi di un mutamento costituzionale, per la cui effettuazione la semplice maggioranza sembra sufficiente, viene meno quando il potere è stato già costituito. Tale oscillazione di pensiero può essere compresa a partire dall'esigenza di Vitoria di combattere il recente diffondersi di teorie radicali e democratiche che, veicolate dagli anabattisti o dai seguaci di Hus, erano portatrici di una pericolosa «ostilità nei confronti di ogni autorità e di ogni potere». Suarez Francisco Suarez non ha più al centro dei propri interessi il problema del Nuovo Mondo, ma quellodellavecchia Europa scossa dalla Riforma e divisa tra il calvinismo e l'anabattismo, tra l'anarchia e i rischi di una nuova teocrazia. È per fronteggiare tali rischi che Suarez, sviluppando il discorso di Vitoria, si volge alla politica per dedurne i principi da una teoria generale dell'ordine e del diritto di natura. Nella Defensio catholicae fidei cantra anglicanae sectae errores (1614), Suarez assume una posizione ancora più netta di quella di Vitoria a proposito della volontà della maggioranza e del diritto naturale qualifondamenti dello Stato. Contro la monarchia di diritto divino difesa da Giacomo I d'Inghilterra, Suarez esalta e radicalizzail ruolo giocato dal diritto naturale come fondamento dell'autonomia originaria delle comunità politiche,conun chiaro intento ostile all'assolutismo monarchico. Suarez si presenta come un teorico dello «stato di natura», inteso come una situazione originaria di assoluta libertà ed eguaglianza degli uomini: «per la natura stessa delle cose gli uomini nascono liberi e pertanto nessuno ha giurisdizione politica o potere sull'altro, come non ne ha il dominio». Suarez deve a questo punto dare una giustificazione del fatto che da questa libertànaturale si passa alla condizione politica, fondata sul comando e sull'obbedienza, dove si è perduta, insomma,lalibertà. Suarez ricostruisce il processo razionale in virtù del quale è avvenuta la transizione dalla società naturale a quella politica, sostenendo che la legge di natura da un lato prevede l'originaria libertà dell'uomo, dall'altro spinge l'uomo, per il motivo razionale dell'autoconservazione, a entrare coscientemente all'interno della comunità, alla cui conservazione è poi essenziale l'esistenza del potere, che realizza il Bene di tale comunità umana: infatti, dato che «i singoli uomini difficilmente conoscono ciò che produce il Bene comuneeraramente da soli vi mirano», sono necessarie leggi umane capaci sia di provvedere al Bene comune, indicando la viaper il suo perseguimento, sia di costringere gli uomini a realizzarlo. Per natura si è quindi liberi, ma si è anche condotti razionalmente a obbedire al potere; di questa ambivalenza della legge di natura, Suarez si mostra ben consapevole, affermando che in forza del solo diritto naturale l'uomo nasce libero, né può senza un titolo legittimo perdere la sua libertà. Tuttavia il diritto di natura non comanda che ogni uomo rimanga sempre libero, ossia - il che è quasi lo stesso - non proibisce in modoassoluto che l'uomo si assoggetti, ma solo prescrive che ciò avvenga non senza suo libero consenso, o senza legittimo titolo o potere. Essenziale è quindi la coesistenza della necessità di trascendere l'originaria libertà e del principio del libero consenso, presupposto indispensabile a legittimare tale trascendimento; questoprincipio è più volte ribadito in modo inequivocabile, anche nel caso di un governo monarchico. Nell'analizzare le modalità attraverso le quali si manifesta questo consenso alla formazione della comunitàe alla sottomissione al potere, Suarez capisce che c'è una contraddizione tra il fatto che, da una parte,ilconsenso è dato da individui singoli, e che, dall'altra, dalla somma delle loro volontà particolari debba derivareunasorta di volontà politica generale, cogente per tutti. Per risolvere questa difficoltà Suarez deve presupporre che lo Stato che viene prodotto come unità politica sia esso stesso il frutto di una precedente unificazione morale, che fa della moltitudine di individui che si trovano in natura «un solo corpus mysticum». Insomma,lacomunità politica che nasce dal consenso è titolare del potere universale su tutti i propri membri, solo in quanto è già unificata come corpo morale. La debolezza del presupposto individualistico nel giustificare la nascita dello Stato è quindi superata da Suarez facendo del popolo non una indistinta moltitudine atomistica, come era naturale che fosse se equiparata a una societas, nome che allude sempre alla pluralità dei soci, ma una universitas, dotata di una propria personalità giuridica e di una propria volontà in grado di produrre l'unificazione politica e il potere sovrano in grado di conservarla e di tutelarla. Strutturato e reso autosufficiente dalla sovranità, ogni Stato è «comunità perfetta», destinata,secondoSuarez, a permanere indipendente e a non essere inglobata all'interno del potere universale dell'Impero: una posizione, questa, non facile da prendere, nella Spagna di Carlo V e di Fi lippo II. Il riconoscimento della legittimità della pluralità degli Stati e delle loro sovranità non significa però che il genere umano, dal puntodi vista politico, equivalga per Suarez a un puro nome. Il diritto delle genti - il diritto internazionale -, pur nato dalla urgenza di problemi pratici non avrebbe però trovato la propria fonte nella sola pratica, ma piuttosto in Suarez come nel Grozio del De iure belli ac pacis (1625), sarebbe stato ricondotto alla natura razionaleesociale tanto dell'uomo quanto degli Stati. 3. La modernità dispiegata Il soggetto e lo stato Le dinamiche storico-politiche che nel 1600 secolo fanno uscire l'Europa dalle guerre civili di religioneruotano attorno alla formazione dello Stato assoluto e all'esercizio della Ragion di Stato. È lo Stato - non la Chiesa, l'Impero, le Città, le Signorie – il protagonista principale della politica moderna, a partire dalla politica internazionale che, dalle paci di Vestfalia del 1648-49 oppure dal Trattato di Utrecht del 1714, è in Europa la Per Hobbes il conflitto avviene fra singoli individui, che sono gli unici attori primari e originari della politica; inoltre, il conflitto è interpretato come una lacerazione dell'ordine dell'essere a cui si può rimediare reprimendo i malvagi (cattolici o protestanti, il re o i puritani, secondo i punti di vista). La natura, per Hobbes, è infatti assenza di ordine, morale o politico, presente o finalistico. Egli sostienequesta tesi con gli strumenti della fisica materialistica del suo tempo, cioè attraverso l'atomismo (la teoria di origine epicurea che pensa i corpi come meri agglomerati di atomi) e attraverso una teoria della conoscenza che fa della ragione solo l'elaborazione intellettuale delle sensazioni materiali esercitate dai corpi esterni sul corpo umano. La parola, poi, non esprime un 'essenza metafisica della cose, ma è solo un segno convenzionale che un uomo associa a certe sue sensazioni, e che comunica agli altri previo accordo sul suo significato. Anche le passioni, oltre che la ragione, sono movimenti interni all'uomo, che precedono i suoi movimenti fisici verso l'esterno, indotti nell'uomo dalle cose: quando un uomo vuole andare verso qualcosa o la vuole evitare,prima sente al proprio interno amore o avversione, desiderio o repulsione. Perfino la volontà umana è determinata solo dal desiderio o dalla repulsione, non da un fine metafisico o morale. L'uomo è una parte particolarmente disordinata della natura, e questo disordine è dato appunto dall'uguaglianza naturale degli uomini. In natura non ci sono né armonie prestabilite né gerarchie stabilifragli esseri umani, che dal punto di vista sia fisico sia intellettuale sono anzi sostanzialmente uguali, e cheperdipiù sono tutti ugualmente animati da un'energia vitale circa equivalente in tutti: cioè dal potere o diritto naturale (jus), che si può anche definire libertà. Questo potere è l'insieme dei mezzi che ciascuno ha per soddisfare i propri desideri e si estende su tutte le cose che servono all'uomo per rimanere in vita. Quindi l'uomo è non solo naturalmente uguale, ma cerca anche sempre di esercitare il proprio diritto, cioè di appagare il desiderio di «ricchezze, onore e comando». Insomma, l'uomo non ha fini suoi propri, raggiunti i quali possa trovare la quiete; strutturalmente incompleto, proietta angosciosamente la propria incompletezza nel futuro.Comedice Hobbes, è affamato non solo nel presente, ma si immagina con sofferenza anche la propria fame futura (fame futura famelicus); così, è «inclinazione generale di tutta l'umanità un desiderio perpetuo e senza tregua diun potere dopo l'altro, che cessa solo nella morte». Quindi l'uomo è anche naturalmente conflittuale: dalla sua condizione naturale, infatti, nasconocompetizione, inimicizia e guerra tra uomini che sono tutti uguali in natura, e che dunque non sono mai al sicuro l'uno dall'altro. Hobbes afferma che l'uomo è lupo per l'altro uomo (homo homini lupus): dal che si generadiffidenza reciproca. Infine gli uomini sono naturalmente in preda al la vanagloria, cioè vogliono sempre essere valutati dagli altri più di quanto questi siano disposti a fare. Attraverso la competizione, la diffidenza e la vanagloriala natura ha dunque «dissociato gli uomini», che «non hanno piacere nello stare in compagnia»: anzi, fra di loro in natura c'è sempre guerra -la guerra di tutti contro tutti, che discende dal diritto di tutti su tutte le cose - almeno come possibilità sempre presente. In natura sono impossibili un potere stabile e una vitacivileevoluta, fondata sull'agricoltura, l'industria, il commercio, la scienza, le tecniche, le arti: anzi, «c'è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell'uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve». Con Hobbesè quindi tramontata l'immagine antichissima, di origine aristotelica, dell'uomo come animale razionaleesociale, il che implicava che il potere politico fosse pensato come una dimensione naturale della vita associata, da orientare verso il bene. Per Hobbes, la natura umana è animale, ma a differenza di quella di certi animali non è sociale; anche il bene, come il male, non ha alcuna consistenza oggettiva, ma è solo il nome soggettivo dei diversi e mutevoli desideri di ciascuno. Quindi anche i comportamenti asociali dell'uomo non sono una co lpa né un reato, perché in natura non c'è alcuna legge efficace, e quindi non ci sono né Giustizia, in quanto ordine dell'essere, né ingiustizia: per Hobbes la giustizia è solo il rispetto dei patti validi, che in natura non ci sono Questa razionalità è la legge naturale; all'opposto del diritto naturale di ciascuno, che è potere e libertà, cioè un diritto di fare, la legge naturale è un comando della ragione «che vieta ad un uomo di fare ciò che è lesivo della sua vita» (cap. XIV, p. 124): «lex e jus sono tanto differenti quanto obbligazione e libertà». In questa sua forma generica, la legge naturale della pace è il comando morale che costituisce il quadro entro cui si legittima la politica: come la ricerca della virtù e della gloria era il presupposto 'morale', e insieme l'obiettivo, della politica di Machiavelli, così invece in Hobbes la politica fa riferimento a un nuovo comando 'morale', appunto a quello che obbliga alla conservazione della vita umana e quindi alla costruzionedell'ordine politico. Grande è quindi la distanza che separa queste due filosofie politiche; eppure Machiavelli e Hobbes, pur tanto distanti fra loro - il primo è il filosofo del conflitto, il secondo dell'ordine -, hanno in comune l'abbandono del tradizionale terreno della morale cristiana quale fondamento e legittimazione della politica. La legge naturale si specifica in parecchie leggi, in tutto diciannove, le più importanti delle quali sono leprime tre; queste dicono rispettivamente che ogni uomo deve ricercare la pace, che a tal fine ogni uomo deve lasciar cadere il proprio diritto su tutte le cose in misura pari a tutti gli altri uomini, e che tale mutua cooperazione è un patto che va rispettato, dato che solo nel rispetto dei patti c'è giustizia. Le altre leggi sono tutte orientatea far sì che l'uomo abbandoni le proprie passioni violente, al fine di conservare la propria vita; e sonoriassumibili nella massima «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». L'obiettivo della politica è costruire le condizioni che consentono a tutti di obbedire alle leggi dinaturaequindi di vivere in pace; si tratta cioè di ricondurre a unità la «moltitudine» degli uomini dispersi nello statodinatura, ovvero di costruire un'unità politica artificiale, e a tal fine Hobbes introduce i concetti di attore, autore e rappresentanza. Egli sostiene che i singoli uomini nello stato di natura devono autorizzare (cioè devono conferire la propria autorità, lo jus inteso come naturale facoltà di agire individuale) un attore che agisce per conto loro, come loro rappresentante. Che un uomo solo (o una sola istituzione) rappresenti e impersoni i molti autori, e agisca per loro, da loro autorizzato, produce appunto l'unità ricercata, l'ordine artificiale che segna l'uscita degli uomini dallo stato di natura. Quell'uomo, o quella istituzione, è il sovrano. Il Patto II problema di come costruire il sovrano è risolto da Hobbes nel XVII capitolo, il primo della seconda parte del Leviatano. L'obiettivo di dare vita a un potere irresistibile e capace di conferire stabilmente sicurezza agli uomini - cioè di costringerli a rispettare i patti - si raggiunge per Hobbes, attraverso la logica del patto della rappresentanza politica moderna , che nel Leviatano trova il proprio fondamento: qui la rappresentanza - un istituto medievale, nel senso della rappresentanza di interessi particolari, di corporazioni o di entitàterritoriali - subisce una trasformazione radicale, divenendo lo strumento grazie al quale si rappresenta e si costituisce efficacemente l'interesse universale di tutti e di ciascuno, cioè la volontà generale di vivere in pace. Ilconcetto hobbesiano di 'patto' (pact, covenant) - l'accordo politico in senso proprio - è distinto da quello di 'contratto' (contract) perché il secondo è solo il «mutuo trasferimento del diritto», e in questo semplice atto esaurisce i suoi effetti, mentre il primo si proietta avanti nel tempo e implica l'instaurazione della fiducia reciproca. La rappresentanza si realizza quindi attraverso un patto di tutti con tutti, il cui contenuto è la cessione del diritto naturale di ciascuno (eccetto il diritto all'autodifesa) a un terzo, esterno al patto e creato dal patto, che si trova così a essere l'unico depositario del diritto naturale di ciascuno, ovvero il rappresentante sovrano di tutti. La formula di questo patto è: «io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest'uomo, o a questa assemblea di uomini, a condizione che tu gli ceda il tuo diritto e autorizzi tutte le sue azioniinmaniera simile». Il prodotto del patto è il Leviatano, il Dio mortale, che rappresenta tutti, che ha in sé il potere di tutti e che quindi è il più alto potere concepibile sulla terra, il cui «fine è di procurare la sicurezza del popolo»: il Leviatano è l'artificio che rende possibile la vita associata in forma stabile, unitaria e pacifica. Si noti che quello di Hobbes è un patto 'orizzontale' fra uguali, dal quale nasce l'obbedienza a un terzo (il Leviatano) che è sì generato dal patto, ma non vi ha preso parte; quello di Hobbes è quindi un pactum unionis, non un pactum subjectionis di tipo feudale. Si mostra qui che secondo la logica della rappresentanza politica moderna il rappresentante è signore dei rappresentati, appunto perché senza di esso quelli non hanno esistenza politica. L'irresistibilità del potere sovrano non deriva pertanto da una sua 'superiorità', naturale o metafisica, sui sudditi, ma dal fatto che ubbidendo al sovrano si ubbidisce in realtà a colui che noi stessi abbiamo creato per farci esistere come corpo politico; solo lo «stolto» può essere così incoerente da far nascere il sovrano e non obbedirlo. Il significato di questa 'narrazione' dell'origine razionale econtrattualedella politica è in primo luogo che la politica è la «sola via» grazie alla quale i 'lupi' vengono trasformati in uomini civili, gli uomini naturali in cittadini; e ciò significa che la politica è il potere costruito razionalmenteperessere irresistibile - cioè rappresentativo di tutti - che, solo, rende possibile agli uomini avere fiducia reciproca,vivere insieme e cooperare. Questo potere è, per Hobbes, costruito da tutti secondo ragione: padre del razionalismo politico moderno, Hobbes fa quindi della politica una scienza applicata, una tecnica che ha come fine la costruzione della sovranità, ed esclude che la politica possa legittimarsi altrimenti che con la ragione, checioè possa fondarsi sulla trascendenza o sulla tradizione. In Hobbes, infatti, il concetto di auctoritas - che pure egli utilizza - risulta capovolto: non è più l'istanza - ad esempio la Chiesa - che legittima la politica mettendo in relazione il Cielo e la Terra, ma è il sommo potere, la sovranità, 'autorizzata' dal patto di ognuno con ciascun altro, che raccoglie in sé l'originaria facoltà di azione che pertiene a ogni uomo nello stato di natura. È da Hobbes che nasce uno dei tipici problemi della politica moderna: la scomparsa di una fondazione 'superiore' del potere politico rende questo del tutto razionale, ma fa anche sì che non sussista più la tradizionale differenza fra autorità (come fondamento del potere) e potere, fra Giustizia e legge positiva. Pertanto «non c'è nulla che un sovrano possa fare a un suddito che possa essere chiamato ingiustizia, poiché ogni suddito è l'autore di ogni atto che fa il sovrano» «nessuna legge può essere ingiusta. Le leggi di uno Stato sono come regole del gioco: qualunque cosa su cui si accordino tutti i giocatori non è ingiusta per nessuno di essi». Di conseguenza, Hobbes sostiene anche che non c'è differenza fra regno legittimo e tirannide, giungendo, in opposizione alle teorie sia cattoliche sia calvinistiche del tirannicidio, a equiparare la loro «tirannofobia» all'idrofobia. Come si vede deriva dal patto hobbesiano l'impossibilità del diritto di resistenza: la struttura delpattodiunione fa sì che non ci si possa opporre al Leviatano, che del patto è il risultato ma che al patto non ha preso parte così che non potrà mai essere accusato di esservi venuto meno. Insomma non ci si può rifiutare di obbedire allo Stato, appellandosi ai patti - che non ci sono mai stati - fra lo Stato e il cittadino: questo infatti non esiste prima di esso. La disubbidienza, la resistenza non sono quindi un diritto a cui un popolo oppresso possa appellarsi: contro il calvinismo Hobbes afferma che non ci sono patti diretti e immediati fra gli uomini e Dio; tuttavia, la disubbidienza - di cui Hobbes dà un giudizio fortemente negativo anche in un'opera tarda, Behemoth - è di fatto possibile e, se è molto estesa, distrugge lo Stato, facendo ritornare gli uomini allo stato di natura. Dunque, la pace ordinata, la salvezza della vita, la fine delle guerre civili, si 'pagano' al prezzo della alienazione irreversibile – per costruire appunto la sovranità rappresentativa - del diritto naturale, della piena libertàche in natura è di ciascuno; tutta l'energia politica, tutta la capacità di agire che ciascuno ha in natura devono essere lasciate cadere perché possa affermarsi la consapevolezza della necessità dello Stato. Benché fondata sull'individuo, la politica di Hobbes ne prevede l'alienazione quasi completa; in ciò sta la differenza fondamentale di Hobbes rispetto a Locke. In parallelo, il popolo non esiste autonomamente se non grazie all'unità del rappresentante, dell'istituzione sovrana; e sulla presenza o sull'assenza di questa si misura la distanza di Hobbes rispetto a Rousseau. È decisivo sottolineare che con la costruzione della sovranità il pensiero moderno abbandona l'antichissima idea che la politica consista nel governo del diverso sul diverso, del migliore sul peggiore, all'interno di un quadro di ordine dell'essere: d'ora in poi la politica è sovranità, dominio impersonale e razionale della legge universale e artificiale, che si applica agli uguali. Così stabiliti l'origine, i fini e le modalità della costruzione della sovranità, che è anima e vita dello Stato, si tratta ora di capire quali sono le caratteristiche e i meccanismi di funzionamento di questa «persona civile» che è un «uomo artificiale», di questa prima moderna figura dello Stato che realizza il «monopolio dell'uso legittimo della forza fisica» di cui parlerà Weber come caratteristica del potere statale. Hobbeselaboralateoria di uno Stato che è assoluto in senso logico, ma è ben più razionale e coerente degli Stati assoluti storici, e può quindi affermare che il sovrano rappresentativo, in quanto ha il potere di tutti senza avere stretto patti con nessuno, è titolare di un potere indivisibile, incondizionato, irresistibile. E ciò è vero sia nella monarchia, sia nell'aristocrazia, sia nella democrazia, cioè a prescindere da dove risieda la sovranità. Concentratosull'esigenza di unità e di pace all'interno dello Stato, e nemico di ogni separazione del potere sovrano, del parlamentarismo e del ruolo autonomo della magistratura, Hobbes esclude ogni possibilità di separazione dei poteri. Dentrolo Stato nessuno, oltre il sovrano, è titolare di un potere politico indipendente: i partiti sono definiti «vermi intestinali», e i «corpi politici» intermedi (assemblee rappresentative di interessi parziali) hanno sempre un potere limitato, perché «il potere illimitato è solo della sovranità assoluta». Tanto radicale è in Hobbes la convinzione che il sovrano sia la condizione stessa di possibilità dell'esistenza della vita civile associatacheegli affida alla decisione del sovrano anche l'instaurazione della proprietà privata, la quale non è pernullaundiritto naturale - in natura vige il diritto di tutti su tutte le cose - ma un'istituzione resa possibile dalla, e reputa causa di dissoluzione dello Stato la pretesa che il diritto di proprietà valga in assoluto, anche contro il sovrano. Ma il sovrano è soprattutto legislatore e le leggi che elabora non traggono legittimità dal loro contenuto, dal fatto che incorporino un Bene preesistente, ma solo dall'essere prodotte dall'unico che ha titolo a legiferare, cioè appunto dal sovrano, che per fare le leggi è stato istituito. regnerà con un «regno civile» su questo mondo, ma non ora, sì invece nel futuro (così Hobbes interpreta l'affermazione di Cristo «il mio regno non è di questo mondo»). L'intento anticattolico è visibile soprattutto nel XLII capitolo del Leviatano, il più lungo dell'opera,dedicatoalla confutazione delle posizioni di Bellarmino sulla potestas indirecta. Questa è la teoria secondo cui il pontefice pur non avendo diretto potere politico sui cristiani, ha però un potere sulle anime e può fare appello alle coscienze dei fedeli per incitarli a disobbedire a leggi emesse dai sovrani, se queste sono contrarie alleleggidi Dio. Questa posizione è inaccettabile per Hobbes, il quale a lungo usa la propria spericolata periziadiinterprete della Bibbia per confutare la pretesa della Chiesa cattolica di essere stata fondata da Cristo come unagerarchia che detiene il monopolio del rapporto con la trascendenza, mentre invece è solo l'insieme dei fedeli che credono che Gesù è il Cristo. In realtà la Chiesa come gerarchia, per Hobbes, ha avuto da Cristo solo il compito «magistrale» di insegnare agli uomini le verità di fede (p. 491), e di obbedire - con riferimento alla Lettera ai Romani di Paolo - al sovrano. L'universalismo cattolico è per Hobbes solo uno spettrale residuo dell'Imperodi Roma. E tuttavia il cristianesimo è la fonte del potere politico degli Stati: dopo essersi convertiti al cristianesimo, facendo convertire anche tutti i loro sudditi, i re sono infatti «supremi pastori» del gregge cristiano, il che significa che «il potere civile e il potere religioso sono la stessa cosa». Infatti quando i sudditi sono cristiani, solo essi sono davvero obbedienti al potere politico: solo chi crede e affermapubblicamenteche «Gesù è il Cristo» è consapevole della radicale assenza del sacro dal mondo - fino a quando Gesù ritornerà,per regnare sugli uomini - e quindi della necessità di obbedire, intanto, al sovrano, se si vuole davvero la pace. Lo Stato razionale del Leviatano è quindi «cristiano», perché i sudditi sanno che il sovrano è l'unico luogotenente pubblico di Dio, colui attraverso il quale la legge di Dio si realizza. E quindi i predicatori cristiani sono pubblici funzionari, il cui insegnamento, controllato dallo Stato (cap. XLII, p. 534), deve essere coerente con questa interpretazione del cristianesimo, che fa dello Stato il luogotenente di Dio. Nella quarta e ultima parte del Leviatano intitolata Del regno delle tenebre - l'unica che non sviluppi una sezione del De cive -Hobbes non fa che ribadire, con linguaggio causticamente polemico, la propriaavversione alle interpretazioni sbagliate delle Scritture, tanto cattoliche quanto protestanti, all'idolatria pagana della Chiesa cattolica, alle «vane filosofie» aristoteliche. Avversato dagli illuministi come teorico dell'assolutismo e dai tradizionalisti come ateo, filosofo politicopoco amato - un po' come Machiavelli - Hobbes è stato riscoperto nel Novecento come il cruciale pensatore del rapporto ineludibile fra Stato e individuo, come teorico del nesso fra sovranità, legge, cittadinanza,einsomma come colui nel cui pensiero si racchiudono molte delle ragioni e delle contraddizioni caratteristiche della stagione politica dello Stato nella piena modernità. Locke Locke si colloca all'interno della sintassi individualistica e contrattualistica, ma rispetto a Hobbes vi instaura importanti variazioni sul tema della legittimità e dei limiti del potere politico. Ciò è dovuto al diversoobiettivo politico: mentre quello di Hobbes era la costruzione dello Stato assoluto capace di neutralizzare le guerrecivili di religione, quello di Locke è invece la rivoluzione antiassolutistica. Locke costruisce un modello di ordine politico che consenta di limitare il potere, a beneficio del cittadino e della società; a questo fine introduce sia la partizione delle funzioni del potere, sia il rispetto dei diritti naturali degli uomini, ovvero i concetti chiavedel costituzionalismo moderno e del liberalismo, la filosofia politica per la quale l'ordine politico ha il soggettoe le sue libertà come propria origine, come proprio centro e come proprio f ine. Locke scrive il Primo trattato sul governo contro il Patriarca (1680, postumo) di sir Robert Filmer (1588-1653), che era il manifesto del partito regio, dato che teorizzava il diritto divino dei re, l'opzione politica alternativaa quella whig. A queste pretese regie il partito whig oppose argomentazioni fondate sul costituzionalismo inglese, sui privilegi del Parlamento, sull'antica legge del regno. Fu Locke a ritrascrivere questetesinellasintassi del patto e della sovranità popolare, fornendo così il primo esempio di liberalismo moderno. L'obiettivo polemico di Locke è quindi duplice: prima di tutto colpire la modernità cattolica, estranea al contratto, di Filmer; in secondo luogo rendere le dottrine moderne del contratto, avanzate da Hobbes con e siti assolutistici, adatte a ospitare le libertà individuali e sociali. Il Primo trattato risponde al primo obiettivo di battere l'assolutismo cattolico, il Secondo trattato all'altro di sconfiggere i possibili esiti assolutistici del contrattualismo. Il Primo trattato è la 'teologia politica' di Locke, l'analogo funzionale del XLII capitolo del Leviatano; quelloche Hobbes aveva detto contro Bellarmino a proposito della potestas indirecta del papa è ripreso di fatto daLocke contro Filmer a proposito del potere assoluto del re, legittimato da Dio. Locke insomma in questo testo sostiene contro Filmer l'interruzione di ogni comunicazione, ontologica e politica, fra Cielo e Terra. La tesi di Filmer è che nessun uomo nasce naturalmente libero, ma sempre e solo soggetto alla monarchia assoluta di un re; e questo a sua volta trae il proprio titolo di legittimità da due principi: dall'autorità paterna che Dio ha dato ad Adamo sul genere umano e dalla proprietà di tutte le cose del mondo conferita da Dio ad Adamo. L'autorità del re da Adamo si è poi propagata attraverso i primi grandi Patriarchi biblici fino ai re di Israele, ed è il titolo grazie a cui regna ogni re. Contro la tesi di Filmer, esposta nel cap. II, Locke intende dimostrare che Adamo non ebbe da Dio alcun potere sugli uomini, né sulle cose. Attraverso una serrata contro interpretazione del testo biblico, conosciuto anche nell'originale ebraico, Locke sostiene che Adamo non è sovrano, nelsenso proprio e diretto di 'padre-padrone', né per creazione, né per donazione divina, né per paternità: la creazione diede ad Adamo solo l'esistenza, non gli diede dominio politico sui figli (la paternità non è potere assoluto), né sulla moglie, né possesso esclusivo delle cose del mondo, da Dio donate all'intera umanità. Nei capp. VII-XI, e particolarmente in quest'ultimo che conclude il Trattato e che è il capitolo più lungo di tutti, Locke prende poi in esame la questione dell'eredità di Adamo, mostrando che - anche se Adamo fosse stato sovrano assoluto degli uomini, il che non è - questa regalità per grazia di Dio sarebbe stata trasmissibile aisuoi eredi; infatti ogni figlio di Adamo, ogni uomo, avrebbe dovuto goderne, alla pari coi propri fratelli, amenoche Dio non abbia donato il potere assoluto a qualcuno, facendolo re sui propri fratelli. «Il mondo, nellacondizione in cui è attualmente, è irrimediabilmente ignaro di chi sia l'erede di Adamo»: la regalità di diritto divino,posto che sia mai esistita, non è trasmissibile, e anche se fosse stata trasmessa, la discendenza di Adamo è ormai irriconoscibile; nel complesso, la comunicazione diretta e immediata fra Cielo e Terra, se mai c'è stata, è interrotta. Così sgombrato il campo dal nesso fra religione e politica, Locke nel Secondo trattato può passare alla costruzione dell'ordine politico razionale. Locke inizia, come già aveva fatto Hobbes, dallo stato di natura,che egli descrive come una condizione naturale dell'uomo di «perfetta libertà» e di «uguaglianza», «governato dalla legge di natura, che obbliga tutti»; e il contenuto di questa legge razionale è che gli uomini non devono nuocersi a vicenda, né considerarsi subordinati o sovraordinati gerarchicamente gli uni agli altri. Soprattutto, ciascun uomo è giudice ed esecutore della legge di natura, e può punire chi la trasgredisce, perché il colpevole è nemico di tutta l'umanità; a questo diritto generale di punire si affianca poi il diritto specifico della parte offesa di «chiedere riparazione». Rispetto a quello di Hobbes, quindi, lo stato di natura lockeano è più complesso, caratterizzato com'è da una Giustizia che in linea teorica potrebbe da sola trovare applicazione pratica, e che non la trova solo per motivi contingenti, dovuti alla parzialità e alla passionalità degli uomini in quanto giudici naturali, da cui può facilmente nascere il disordine. Infatti, benché - contro Hobbes - siano rigorosamente distinti dal punto di vista logico (l'uno è di pace, l'altroè di conflitto), lo stato di natura può facilmente trasformarsi in stato di guerra, essendo questo il risultato del diritto di autodifesa, a cui ogni uomo può ricorrere quando subisce ingiustizia da qualcun altro e quando-come appunto avviene nello stato di natura - non c'è nessuna autorità superiore, a parte Dio che è nei cieli, a cui appellarsi per ottenere giustizia. Una volta iniziata, la guerra ben difficilmente trova soluzione o termine. Locke sostiene che il singolo uomo, lavorando, diviene unico ed esclusivo proprietario di ciò che ha lavorato, anche senza consenso esplicito degli altri uomini. L'uguaglianza di natura è così naturalmente modificata dal lavoro, che fornisce alle cose lavorate valore differente «è il lavoro che pone in ogni cosa ladifferenzadivalore» e che consente la disuguaglianza fra gli uomini, proprio a causa della diversa quantità di lavoro che ciascuno mette in opera. Nel VI capitolo Locke sostiene poi che in natura gli uomini sono sottoposti a una sola autorità, quella dei genitori, e che questa si esercita sui figli minorenni e non può essere lesiva della loro libertà e razionalità; nel VII Locke afferma anche, a differenza di Hobbes che ne teorizzava la parità, la superiorità del marito sulla moglie. Tuttavia Locke crede che le naturali gerarchie familiari valgano nell'ambito privato, ma non nellasfera pubblica: anticipando quanto Kant dirà dell'illuminismo, Locke afferma che il potere politico nonpuòprendere ad esempio quello paterno e maritale, perché a differenza di questo si rivolge a maggiorenni liberi. L'antropologia di Locke è quindi più moderata e meno negativa di quella di Hobbes. Anche nella sua più importante opera filosofica, il Saggio sull'intelligenza umana, perfettamente coevo al Secondo trattato,Locke sostiene infatti che lo spirito umano è in grado di «tenere in sospeso l'esecuzione di un atto e la soddisfazione di un suo qualunque desiderio»: questo controllo della ragione sulle passioni - possibile già in natura - rende lo stato naturale di Locke diverso e più complesso di quello di Hobbes, dominato da automatismi e contrapposizioni più schematiche. Per Locke, così, già in natura vige una legge morale e razionale di reciproco rispetto degli uomini e delle loro proprietà, e quindi già in natura è teoricamente possibile una qualche coesistenza: pertanto il patto di cui Locke si serve ha lo scopo di costruire un ordine politico artificiale chenon è l'opposto dello stato di natura, com'è invece il Leviatano per Hobbes, ma che serve a garantire meglio idiritti naturali dell'uomo. Insomma il contratto razionale non azzera la natura, ma la migliora. Da questo punto di vista il patto di Locke è meno innovativo, rispetto allo stato di natura, di quello hobbesiano; eppure, al tempo stesso, per Locke il patto è veramente necessario per generare l'ordine politico razionale. Lo stato di natura, infatti, presenta tre difetti che lo rendono «scomodo»: non vi è legge certa, perchégliuomini interpretano la legge di natura in modo troppo soggettivo e passionale; non vi è «un giudice riconosciuto ed imparziale»; infine non vi è un potere esecutivo. Quindi Locke sostiene che, per difendere la propria «vita, libertà e beni», ciascun uomo può liberamente «rinunciare al proprio potere naturale» di punire le infrazioni alla legge di natura e rimetterlo «nelle mani della comunità», che così diviene arbitra di tutte le controversie: queste saranno decise d'ora in poi da magistrati autorizzati dalla comunità sulla base di leggi certe e imparziali, decise dalla comunità stessa. Questa comunità (II, 87; X, 133) è un Commonwealth, ossia una 'repubblica'; ma a volte Locke - oltre che body politic, «corpo politico» - la definisce «società civile», o anche «societàpolitica». Per comprendere le caratteristiche del corpo politico creato per patto, secondo Locke, si deve sottolineareche per lui l'uomo quando entra in società aliena sia il proprio diritto alla vita, libertà e proprietà, sia il diritto a giudicare e ad applicare la legge naturale, ovvero il diritto di fare giustizia da sé: ma solo quest'ultimo èdatutti veramente ceduto al corpo politico, mentre i singoli cedono ciascuno i propri diritti naturali alla vita,allalibertà e alla proprietà solo per vederseli restituiti, garantiti dalla legge comune, trasformati in diritti civili e politici: l'unico modo con cui uno si spoglia della sua libertà naturale e assume i vincoli della società civile consiste nell'accordarsi con altri uomini per riunirsi in una comunità, per vivere gli uni con gli altri con comodità, sicurezza e pace, nel sicuro possesso delle proprietà, e con garanzia maggiore contro chi non vi appartenga. È da notare che per Locke tutta la storia sacra e profana dell'umanità, rettamente intesa, dimostra chegliordini politici nacquero da contratti di questo tipo, orientati cioè a salvaguardare la libertà naturale degli uomini associati. Con ciò si rende manifesta la già menzionata differenziazione di Locke rispetto a Hobbes - il cuipatto presenta molto più radicali caratteristiche di novità, di 'nuovo inizio' - e soprattutto rispetto a Rousseau, il quale pensa ad un contratto sociale capace di correggere radicalmente i 'cattivi' ordini politici che, precisamente a partire dalla instaurazione della proprietà privata, si sono susseguiti nella storia. Egli afferma, lo si è già visto, che il potere legislativo risiede presso il popolo sovrano, il quale di solitolodelega ai suoi rappresentanti eletti che, riuniti in un Parlamento, possono legiferare in permanenza o anche solo periodicamente. Sottolinea inoltre che il potere legislativo non può essere in contraddizione con i diritti naturali degli uomini nello stato di natura, cioè coi diritti di libertà e di proprietà di ciascun uomo; che il legislativo non può essere arbitrario, ma deve essere universale, imparziale e non assoluto; in particolareche non può violare la proprietà e deve dare formalmente il proprio assenso ad ogni tassazione del popolo. Nel complesso il liberalismo moderno inaugurato da Locke si presenta come un radicale aggiornamento del tradizionale costituzionalismo inglese: la tradizionale limitazione giurisdizionale del potere politico è qui ritrascritta in termini di diritti naturali inalienabili dall'uomo, e indisponibili per il potere. Per Locke sono: il legislativo, come potere supremo ma non assoluto; l'esecutivo, cioè il governo che ha il potere di applicarele passioni fanno parte integrante della natura umana ed è assurdo pensare che l'uomo possa totalmente liberarsi da loro: anche su questo punto Spinoza viene dunque a occupare una posizione peculiare in un contesto come quello seicentesco, in cui - attraverso molteplici mediazioni (dal cristianesimoallarinascitadello stoicismo) - il problema di fondo era quello del ferreo governo delle passioni da parte della ragione. Famosaè la polemica spinoziana contro coloro che attribuiscono «la causa dell'impotenza e dell'incostanza umana non al comune potere della natura ma a un presunto vizio della natura umana, e perciò la compiangono, la deridono, la disprezzano, o, più comunemente, la detestano». Identificata la natura dell'uomo nello sforzo che il corpo e la mente umani fanno per conservare il proprio essere (il conatus sese servandi), Spinoza distingue due grandi classi di affetti, che si determinano a seconda che questo conatus sia assecondato o ostacolato: nel primo caso, che conduce a un incremento della potenza individuale, si hanno gli affetti assimilabili alla Letizia (o Gioia), nel secondo quelli assimilabili alla Tristezza.Il conatus e la cupiditas, il desiderio in cui esso si esprime, sono dunque all'origine di un movimento espansivo, dinamico. Per quanto Spinoza definisca «schiavitù l'impotenza umana nel moderare e reprimere gli affetti»,la ragione, a cui è assegnato il compito di indicare «il modo, o la via che conducono alla libertà», non è per lui una facoltà sovraordinata al corpo, in grado di subordinare alle proprie norme il 'disordine' degli affetti: essa nasce piuttosto dall'interno stesso di tale 'disordine', e il controllo che permette all'uomo di conseguire su di esso, ovvero la comprensione razionale degli affetti e delle loro cause, non può essere che relativo. È questa complessa trama di relazioni fra «affetti» e «ragione» che costituisce la filigrana del rapporto tra natura e politica istituito da Spinoza. Quel «diritto naturale» che egli continua a mantenere «integro» anche all'interno della civitas viene esplicitamente equiparato alla potentia di ciascun individuo, è dunque determinato e definito non da una saggia razionalità, bensì dalla propria cupidigia (cupiditas) e dalle proprie possibilità; [...] ne segue che ogni individuo [nello stato di natura] ha un diritto sovrano su tutto ciò che cade sotto il suo potere, ossia che il diritto di ciascuno si estende fin là dove giunge la sua particolare potenza. Entro questo stesso scenario, tuttavia, agisce pure, secondo Spinoza, una spontanea tendenza degli uominiad associarsi: intatti, si può ben constatare che «gli uomini possono procurarsi molto più facilmente ciò di cui hanno bisogno con il reciproco aiuto, e che non possono evitare i pericoli che incombono se non con l'unione delle forze». Da ciò può sorgere un potere comune che trae la propria forza da una dinamica di composizione delle potenze individuali. La dinamica compositiva che fa nascere il potere sovrano ha come modello il processo, descritto nell’etica della reciproca comunicazione del moto fra corpi molto vicini, che li porta a comporre «un sol corpo, ossia un Individuo». Nel Trattato teologico-politico (ma non tuttavia nel Trattato politico) quella dinamica viene descritta, come si vedrà, attraverso il lessico e i concetti del contrattualismo: ma, contrariamente a quel che accade in Hobbes, la 'ragione sociale' che presiede all'associazione politicanon ha in Spinoza caratteri costruttivistici, e non immette in un ordine artificiale in cui siano neutralizzate le coazioni esercitate dalle passioni. La summa potestas spinoziana radica il proprio diritto in un aggregato collettivo di potenze individuali che la costituiscono attraverso un movimento percorso dalla persistenzadegli antagonismi 'naturali' e sempre aperto alla possibilità della trasformazione: «nella natura delle cose non c'è alcuna cosa singola della quale non ve ne sia un'altra più potente e più forte da cui quella data può essere distrutta». La dimensione collettiva del «bene comune» lungi dal definirsi come totalità chiusa, in cui le singolarità si annullano, si presenta piuttosto come prodotto di un processo costitutivo sempre aperto, in cui entrano in gioco le passioni, l'immaginazione e la ragione degli uomini. Proprio al ruolo politico dell''immaginazioneèin buona parte dedicato il Trattato teologico-politico. Proponendosi di criticare «i principali pregiudiziriguardanti la religione, cioè a dire i segni del nostro antico servaggio», l'opera di Spinoza istituisce un nesso strettissimo da una parte fra il «timore» (metus) e la «superstizione», dall'altra fra questa coppia concettuale e il «regime monarchico», il cui «segreto più grande» e il cui «massimo interesse» consistono «nel mantenere gli uomini nell'inganno e nel nascondere sotto lo specioso nome di religione la paura con cui essi devono essere sottomessi». Di contro a tale regime si pone la «libera comunità» democratica, che assume a proprio fondamento la «pubblica libertà» e il «libero giudizio del singolo». Per Spinoza, e ciò lo differenzia da Hobbes e Locke, la paura, di per sé, non è sufficiente a sostenere nessun regime politico, neppure quello più dispotico (è opportuno ricordare che proprio nella paura Montesquieu avrebbe successivamente individuato il principio del dispotismo). L'ordine politico, in realtà, non può prescindere dalla condivisione di un comune 'orizzonte di senso' da parte di coloro che sono ad esso soggetti, non può evitare di stringersi in un rapporto costitutivo con Inanimo delle masse». Nella continua produzione e riproduzione di questo orizzonte di senso consiste il decisivo ruolo dell'immaginazione; secondo Spinozala funzione centrale della parola profetica nella storia del popolo ebraico nasce dal fatto che i profeti, i quali «hanno colto le rivelazioni divine solo con l'ausilio dell'immaginazione», hanno poi saputo farne il raccontoin una forma tale da suscitare l'immaginazione del popolo e da motivare l'animo «all'obbedienza e alla devozione». La grande narrazione teologica contenuta nelle Scritture assume così - nella radicale critica operata daSpinoza - l'aspetto di un dispositivo politico, orientato a produrre l'obbedienza e la soggezione delle masse. Svuotata di ogni verità essenziale e ridotta a conoscenza di grado inferiore rispetto a quella naturale o razionale, la parola profetica si presenta tuttavia capace di tessere la trama immaginaria che sostiene e sola rendepossibile una forma politica determinata, la «teocrazia» ebraica. Insomma l'analisi critica delle Scritture diviene un'analisi delle passioni del corpo sociale, svolta sul terreno storico in funzione della politica. Questa analisi teologico-politica - in un'accezione pressoché opposta a quella di Hobbes, eppure con essaconvergentequanto al metodo secolarizzante - porta alla luce un nesso tra la politica, l'immaginazione e l'«animo dellemasse»,che ci mostra come il problema politico assuma, nell'opera di Spinoza, una qualità nuova: per lui, la ragione deve sciogliere dalla tirannia della paura e ricondurre continuamente a un terreno in cui un progetto laico di emancipazione faccia della 'salvezza' un'opera genuinamente umana. L'immaginazione collettiva del popolo è per Spinoza elemento costitutivo della stessa democrazia. Nonacaso il suo giudizio sulla «teocrazia» è ambivalente, poiché Spinoza critica, sì, la superstizione, ma notalastrutturale affinità della teocrazia con la democrazia. La differenza è che la «superstizione» religiosa pone le masse nella soggezione a potenze esterne, la cui origine è sconosciuta agli uomini, mentre la critica della religione che Spinoza prospetta, e che gli valse la fama di 'ateo', libera gli uomini dall'immaginazione mistificata e rende possibile un uso politico collettivo dell'immaginazione liberata: appunto, la costituzione della democrazia. Anche su questo punto si può misurare a pieno la distanza da Hobbes, la cui critica della profezia è invecevolta a neutralizzare le rivendicazioni rivoluzionarie delle sètte puritane radicali e a definire teologicamentel'epoca moderna come il 'tempo dell'attesa' in cui al posto della trascendenza divina si costituisce la ferrea sovranità del Leviatano. La grande cesura prodotta dal cristianesimo è così valorizzata da Spinoza nella misura in cui essa rende possibile un definitivo superamento della superstizione. La venuta di Cristo innesca un duplice movimento: l'universalizzazione della fede (la «legge divina» pretende ora di valere non più per una sola «nazione»,quella ebraica, ma per la totalità degli uomini) e la sua interiorizzazione (la legge divina non è più affidata alla parola profetica ma è iscritta nel cuore di ciascun individuo); è così resa impossibile la teocrazia. E questo duplice movimento fa anche dell'esteriorità della legge, in tutte le sue possibili accezioni, un elemento residuale, retaggio di un passato che può e deve essere superato. In termini politici, il cristianesimo rende possibile la realizzazione della democrazia, in cui «tutta quanta la comunità deve tenere collegialmente il potereinmodo che tutti in ultima analisi obbediscano a se stessi e nessuno sia tenuto ad obbedire al suo uguale»: di quella forma politica cioè che Spinoza oppone a tutte le altre forme di Stato, fondate sulla persuasione del popolo che chi comanda («pochi o uno solo») abbia «qualche qualità superiore alla comune natura umana». Il capitolo XVI del Trattato teologico-politico presenta il regime democratico come «quello che più si accosta all'ordinamento naturale e che meglio corrisponde a quella libertà che la natura concede a ciascuno. Inregime democratico, infatti, nessun individuo aliena il proprio diritto a favore di un altro, in modo da precludersi la facoltà di prendere nuove decisioni; bensì aliena il suo diritto a favore della totalità del corpo sociale dicuiegli costituisce una parte. Ed è appunto perciò che tutti gli individui restano uguali, come lo erano primanellostato di natura» (Trattato teologico-politico, XVI, pp. 652 s.). Il lessico contrattualistico impiegato in questo capitolo per render conto della genesi della comunità politica rischia di occultare la distanza del modello teorico proposto da Spinoza rispetto alla tradizione di pensiero inaugurata da Hobbes. Questa distanza, che non esclude la condivisione di alcuni presupposti teorici e soprattutto di un comune orizzonte problematico (quello segnato dal crollo di ogni idea di ordine finalistico e gerarchico dell'essere), emerge tuttavia nel modo più limpido laddove si consideri che quella democratica è per Spinoza la forma politica per eccellenza, non perché compiutamente risolta nello spazio dell'artificio ma, al contrario,perché«è quella che maggiormente si avvicina allo stato di natura». Assai più che su un trasferimento di diritti - secondo il modello 'giuridico' dell'alienazione - l'assolutezza del potere democratico si fonda su uno 'spostamento' delle potenze individuali - secondo il modello 'fisico' precedentemente indicato -a comporre, attraverso la mediazione della ragione, un'unica potenza collettiva.Il potere sovrano non istituisce cioè alcuna cesura rispetto al principio dell'identità naturale di dirittoepotenza, limitandosi a esprimere lo spostamento dell'ambito di validità di quel principio dal piano individuale al piano collettivo. E tale potere sarà conseguentemente tanto più potente, assoluto e autonomo quanto più ampio sarà l'aggregato di potenze individuali in cui il suo diritto si radicherà: quanto più esso sarà democratico. Sorto per contrastare le passioni antisociali degli uomini - in primo luogo «le forme deteriori della cupidigia» -eper mantenere la loro condotta, «per quanto è possibile, entro i confini della ragione, perché vivanopacificamente e in concordia», l'imperium comune vive altresì del dispiegamento delle stesse potenze individuali che lo costituiscono, progressivamente liberate dalla paura e arricchite nella cooperazione sociale. La «libertà di pensiero e di espressione» in cui consiste secondo Spinoza l'elemento caratteristico di una «libera comunità politica» (XX), assai più che un elemento proto liberale, è piuttosto l'indice di questo processo di continua produzione e riproduzione dell'ordine politico, che pur non potendo prescindere dalle passioni libera progressivamente l'«animo delle masse» dalla schiavitù in cui esse tendono a ridurlo se non sonoguidatedalla ragione. Nel Trattato politico questa origine integralmente laica e fisico-materiale del potere politico dall'unionedelle potenze individuali si traduce in primo luogo nella programmatica rivendicazione (in cui risuonanochiaramente echi machiavelliani) di una metodologia realistica, contro le «costruzioni chimeriche» a cui i filosofi sono sospinti per la loro tendenza a concepire gli uomini «non così come sono, ma come vorrebbero che fossero»: e già il modo in cui questa rivendicazione si svolge -riconducendo l'origine della politica alla «tendenza universale di tutti gli uomini alla propria conservazione, che si manifesta in ogni uomo, ignorante o sapiente che sia», a quella natura che, anche in questo caso machiavellianamente, è «una sola ed è comune a tutti» - comporta una significativa amplificazione delle valenze egualitarie della dottrina di Spinoza. È quindi incoerente la difesa, che pure Spinoza avanza, della «potestà maritale» a cui sono soggette le donnesullabase di una loro supposta inferiorità naturale rispetto agli uomini. Ma il materialismo politico spinoziano trova poi la propria definizione più precisa nel principio percui«ildiritto di sovranità o dei sommi poteri non è altro che il medesimo diritto naturale determinato dalla potenza, non già dei singoli, ma della massa, che viene guidata come da una mente sola». Spinoza, per indicare il soggetto della potenza collettiva che determina il diritto di sovranità, usa qui il termine multitudo, che in Hobbes rappresenta, come si è visto, il termine di riferimento negativo per il chiarimento del concetto di «popolo» (mentre Machiavelli aveva scritto che «la moltitudine è più savia e più costante che uno principe»: Discorsi, I, 58). E non a caso: l'assenza del principio rappresentativo, che già caratterizzava il Trattato teologico-politico,è infatti rafforzata, nel Trattato politico, dalla mancata riproposizione dello stesso lessico contrattualistico,ilche ha portato diversi studiosi del pensiero politico di Spinoza a postulare una differenza fra i due trattati e uno sviluppo dall'uno all'altro. Ancora una volta la democrazia si mostra non solo il regime più adatto a realizzare quella sintesi, ma la 'verità' di ogni forma politica. Perseguitato dai calvinisti, maledetto dagli ebrei, definito da Bayle nelDizionariostorico- critico «un ateo sistematico» il cui sistema «è l'ipotesi più mostruosa che si possa immaginare, la più assurda e la più diametralmente opposta alle nozioni più evidenti dello spirito nostro», non a caso, Spinozaneidecenni successivi alla sua morte ha esercitato un'influenza soprattutto sotterranea. La si può cogliere, ad esempio,in uno dei primi manifesti dell'illuminismo radicale, anticristiano e anti-assolutistico, il Trattato deitreimpostori. La vita e lo spirito del signor Benedetto de Spinoza. Anche quando l'importante dibattito tra Mendelssohn e Jacobi determinò in Germania una forte rinascita di interesse per Spinoza, la sua eterodossia non poté essere cancellata. Essa fu al contrario pienamente colta e valorizzata da Herder e Goethe, che nell'Olandese videroil filosofo capace di dare compiuta fondazione alla filosofia del romanticismo. Fu poi Hegel - benché anch'egli Lo scontro è tra un'idea di monarchia rappresentativa e una proposta di società corporativa, quale tentativo di creare un sistema di organizzazione politica e sociale alternativo. Tuttavia, in entrambi i casi l'idea di rappresentanza che si sostiene è quella di Antico regime, secondo la quale si distingue tra repraesentatio in toto (che è quella della Corona, il monarca nella sua persona rappresenta tutta la nazione, funzione che però non è istituita per contratto) e repraesentatio singulariter (quella propria dei ceti, che rappresentanolesingole parti del corpo della nazione). La rappresentanza d'Antico regime è perciò strettamente legata al territorio ed è forma visibile di ciò che storicamente esiste: si rappresenta l'assetto costituzionale del regno. Si distingue pertanto radicalmentedalla moderna forma della rappresentanza, che è una e indivisibile, portatrice di una volontà generale che esiste solo nel momento in cui è rappresentata nella forma della legge universale e razionale emanata dal potere sovrano. Ciò che l'Ancien regime non riesce a superare e che ne determinerà il crollo è l'intreccio,emblematico nei Parlamenti, tra funzioni giudiziarie e funzioni politico-amministrative, che inficiava da sempreleistituzioni della rappresentanza in Francia. Solo con la proposta di Sieyes di eleggere un'Assemblea nazionale, diversae opposta rispetto agli Stati Generali, si avrà la prima moderna assemblea parlamentare, non più con funzionidi cooperazione con il governo, ma con funzioni di rappresentanza della sovranità della nazione, depositariadel potere legislativo. L'Assemblea nazionale pensata da Sieyes costituirà perciò una rivoluzione sia dal punto di vista istituzionale sia da quello teorico-politico, poiché essa sarà un'assemblea che va ad occupare quello che era lo spazio del re, non dei Parlamenti, e che non rappresenta più i ceti, ma il popolo come insiemediindividui, di singoli cittadini. Collocato in questo modo il legislativo nella rappresentanza del popolo, la rivoluzione, decretò nel 1789 la separazione dei poteri, e nel 1790 la separazione delle autorità, provvedimento grazie al quale i tribunali, le corti di giustizia, da allora non avrebbero più partecipato all'amministrazione dello Stato. Bossuet Principale teorico dell'assolutismo monarchico e del diritto divino dei re in Francia fu il vescovo Jacques - Bénigne Bossuet. La teoria politica di Bossuet si inserisce nell'ambito dell'interpretazione teologicadellastoria da lui delineata nella Storia universale. Protagonista della storia è la provvidenza di Dio, che guida il destino degli uomini; Bossuet si basa sulla profezia delle quattro monarchie universali narrata nel libro di Daniele del Vecchio Testamento, in cui si prevede la successione, nella storia dell'umanità, dei grandi regni mondani: gli Imperi egiziano, assiro-persiano, greco-macedone e romano; quest'ultimo, in particolare, ha visto sorgere il regno di Dio, ospitando la venuta di Cristo. In questo quadro che fa della storia una 'storia sacra', il Sacro romano impero di Carlo Magno, con il quale si conclude la storia secondo Bossuet, è giustificato in quanto attua la renovatio dell'Impero romano. La monarchia francese, per Bossuet, è stata istituita per volontà divina al fine di conservare l'eredità romano-carolingia, e ha ereditato dal Sacro romano impero la missione di realizzare pienamente la volontà di Dio. Bossuet nella Politica nega il diritto di resistenza all'autorità, che ha una legittimazione provvidenziale, e afferma che l'autorità non può che essere ereditaria, regia e assoluta. Grande difensore dell'ideadi monarchia assoluta, a partire dal passo paolino della Lettera ai Romani in cui si sostiene che il potere deriva da Dio, Bossuet afferma l'impossibilità per l'uomo, naturalmente soggetto, di resistere alla volontà di Dio e alla Sua emanazione, la regalità. La monarchia è infatti la forma di governo migliore e più naturale, in quanto esprime il governo di Dio sugli uomini e del padre sui figli. La monarchia ereditaria esercita un'autorità, che Bossuet definisce maestà, consistente nel fatto che nel monarca c'è l'immagine della grandezza di Dio; è un'autorità sacra, paterna, ma anche razionale e assoluta. Bossuet infatti aggiunge alle attribuzioni tipiche della regalità medievale anche la moderna caratterizzazione assoluta del potere, con argomentazioni non molto distanti da quelle di cui si era servito Bodin. Nella figura del monarca si concentri quindi tutta la potenza dello Stato: il re ha il più alto diritto di giudicare, e poiché impossibile resistere alla sua volontà, ne risulta legittimato l'uso della forza da pane della Corona nonsolonei confronti del popolo, ma anche verso i Grandi del regno-da cui più facilmente - come aveva mostratoallametà del XVII secolo la Fronda no biliare. La teoria della maestà regale di Bossuet fu lo strumento teorico attraverso il quale la monarchia di Luigi XIV perseguì la propria strategia di assolutizzazione del potere. Bayle Il concetto di ragione emerge con forza nel pensiero di Pierre Bayle che le contrappone a quello di autorità, politica o religiosa. Contro ogni forma di dogma tismo Bayle sottopone all'indagine razionale della ragione scettica. Il problema di Bayle non è molto distante da quello di Hobbes: è la ricerca della soluzione del conflitto e della pacifica convivenza fra gli individui, che Bayle affronta dal punto di vista della questionedellatolleranza. Le riflessioni di Bayle sul tema della tolleranza, oltre che determinate dal suo atteggiamento di scetticismo intellettuale che lo accosta alle posizioni dei libertini francesi, sono dettate anche da motivi contingenti di ordine politico e, in particolare, dall'impressione suscitata dalla revoca dell'Editto di Nan tes a opera di Luigi XIV nel 1685. L'Editto di Fontainebleau, con il divieto di ma trimoni tra protestanti e cattolici e la negazionedel riconoscimento della personalità giuridica a chi non professava la religione cattolica, sanciva definitivamente l'emarginazione politica e sociale dei protestanti in Francia perpetrata durante XVIII secolo dall'assolutismo regio. Bayle rispose al provvedimento reale con i pamphlet Ce que c'est que la France toute catholique, sous le règne de Louis Grand, pubblicato nella rivista da lui diretta, «Les Nouvelles de la Républiquc des Lettres», nel 1686. Come Hobbes, anche Bayle riconosce la necessità per lo Stato che non ci siano disordini per motivi religiosi, dal momento che anche per Bayle la religione è une dei principali motivi di guerra civile. Ma della costruzione hobbesiana rifiuta la radi cale antropologia negativa dell'uomo-lupo, sostituendovi una concezione più mode rata, fondata sullo scetticismo libertino nei confronti della natura umana, sulla quale centra la propria rivendicazione della tolleranza e della libertà di coscienza. Si può per ciò leggere l'opera di Bayle come l'anello conclusivo della speculazione libertina sul l'uomo e sul rapporto fra ragione e coscienzae, in particolare, come il tentativo di por tare a compimento alcuni motivi del pensiero pascaliano, attraverso l'affermazione, per esempio, della netta distinzione che si pone fra coscienza, resa un'esperienza intima dell'animo umano, e obbedienza, il dovere nei confronti dello Stato. La tolleranza viene teorizzata da Bayle al fine di determinare la piena distinzione tra spirituale e temporale. L'assenza di tale distinzione, infatti, non porterebbe solo alla rovina dello spirito evangelico attraverso la confessionalizzazione dello Stato, ma soprattutto alla rovina dell'autorità politica, della sovranità, laceratada tensioni al suo interno. Bayle, accostandosi ai politiques, propone pertanto uno Stato secolare monarchico, che non appoggi una determinata religione, ma sia al di sopra delle parti; uno Stato che deve mediare tra l'esigenza di limitare il culto pubblico, in difesa della pace civile, e di evitare la diffusionedidottrine socialmente sovversive da una parte, e il rispetto della coscienza dei singoli attraverso la tolleranza dall'altra. Bayle, infatti, riconosce che il legame tra Stato e religione è per lo più determinato da interessi di potere e di comodo; quindi, la polemica contro l'imposizione della conversione agli ugonotti francesi vienecondotta,oltre che in nome della necessità della tolleranza per motivi di ordine civile, anche in nome della tolleranza per salvaguardare il vero sentimento religioso. È la doppia valenza della richiesta di tolleranza avanzata da Bayle che mostra come la sua prospettiva risulti essere forse più radicale di quella di Hobbes, perché se il filosofo inglese ritiene comunque necessaria al fine della stabilità dello Stato l'affermazione di fede, Bayle giunge a separare nettamente avanzando una proposta di tolleranza anche per gli atei, il teologico dal politico. Il problema principale di Bayle è, oltre che ripristinare la pace, garantire la libertà di coscienza, intesa come salvaguardia del sentimento religioso contro l'idolatria provocata dalla lotta fra sètte e cattolici. Nel 1687 Bayle pubblica il Commentane philosophique sur ces paroles de Jésus-Christ, Contrains-les d'entrer, nel quale, a partire dalle stesse parole del Vangelo di Luca che erano servite ad Agostino per combattere l'eresia donatista, afferma - sulla base di un diretto esame della Scrittura, in opposizione all'autorità interpretativa della Chiesa - la necessità del rispetto delle regole morali, facendo della religione (alla stregua di quanto affermato nei Pensieri sulla cometa) una questione della coscienza del singolo e non una questione politica. Accanto e contro l'assolutismo teorico di Bossuet si sviluppò in Francia una corrente di pensiero, di origine nobiliare, che sosteneva la causa dei privilegi e delle libertà rivendicati dai Parlamenti. Nella storia delle dottrine politiche si è soliti parlare a questo proposito di liberalismo nobiliare (per distinguerlo dalliberalismo moderno di derivazione giusnaturalistica), i cui principali esponenti oltre a Fénelon, sono Saint-Simon e Boulainvilliers. Francois de Salignac de la Mothe Fénelon nella Lettera a Luigi XIV (1694) mette in guardia il monarca dai rischi della politica assolutistica: adulazione, eccessivo potere dei ministri, prevalenza della guerra sulla pace, inasprimento della fiscalità che consente il lusso della corte ma porta alla rovina i sudditi, i quali invece sono la vera grandezza della Corona francese. La sua opera politica più importante sono Le avventure di Telemaco (1689), in cui Fénelon critica fortemente la politica di Luigi XIV e l'interventismo economico del suo ministro Col-bert, in nome del libero commercio; questo, però, deve essere esercitato non in vista della diffusionedel lusso, ma in un'ottica evangelica di parsimonia e di frugalità. Riprendendo le teorie di Fénelon, Louis de Rouvroy, duca di Saint-Simon, criticò non tanto l'idea dell'assolutezza del potere regale, quanto il peso che,in conseguenza dell'assolutismo, aveva assunto la burocrazia regia. A questa anche Saint-Simon opponeva l'idea di un potere per mezzo dei consigli, e una forma embrionale di 'decentramento amministrativo', che si sarebbe dovuto attuare attraverso un sistema di stati particolarieStati Generali. Anche Henri de Boulainvilliers (1658-1722) difese il ruolo della nobiltà nella cogestione del potere nella storia della Francia contro il dispotismo amministrativo della monarchia e contro le pretese di maggiore peso politico avanzate dal Terzo stato. Ciò che accomuna il pensiero di questi personaggi è la polemica contro l'esercizio da parte del redelsuopotere, che da assoluto si è trasformato in arbitrario. È infatti da notare che a partire dagli ultimi decenni del XVII secolo ormai in Francia più nessuno mette in discussione il principio dell'assolutezza del potere monarchico; ciò su cui invece si dibatte è il modo nel quale tale assolutezza è praticata. Se per Bossuet il maleassolutamente da evitare è l'anarchia, per questi autori è invece la tirannide, la forma dispotica dell'esercizio del potere,dicui sono espressione i ministri e gli intendenti che rispondono delle proprie funzioni direttamente al re. Il potere del re da questi autori è riconosciuto sì assoluto, ma non illimitato; deve essere regolato e moderato attraverso il ristabilirsi degli antichi usi e tradizioni francesi, che accanto all'istituzione regia prevedevanouna serie di altre istituzioni (i Parlamenti, i consigli, le assemblee), poste sotto il controllo della gerarchianobiliare. In quest'ottica si deve leggere la proposta di Fénelon di riprendere la convocazione degli Stati Generali alfine di correggere l'esercizio del potere assoluto monarchico, perché non sia di danno né per il popolo né per se stesso. Questa discussione fra i teorici dell'assolutismo reale e quelli del liberalismo nobiliare si svolse sulpianodella legittimazione storica delle due tesi; ne nacquero due opposte teorie dell'origine delle istituzioni politichein Francia. Da una parte si ponevano i fautori della thèse nobiliaire, sostenuta da Fénelon e sistematizzata da Boulainvilliers nelle sue opere principali, l’Histoire de l'ancien gouvernement de la France (1727) e l’Essai sur la noblesse (1732), pubblicate entrambe postume. Questa tesi difendeva le prerogative dei Parlamenti e dei corpi costituiti nobiliari, fondandole nelle antiche tradizioni di libertà e di nobiltà dei Franchi, conquistatoridei Galli romanizzati. La thèse nobiliaire fu poi fatta propria dai Parlamenti alla metà del XVIII secolo, che la radicalizzarono (tanto che si può parlare di thèse parlamentaire) fino a sostenere che i Parlamenti erano storicamente i rappresentanti del popolo contro i rischi di degenerazione dispotica sulla cui strada si era incamminata la monarchia francese. Dall'altra parte i fautori della thèse royale (difesa dai politiques, e in seguito sistematizzata definitivamente con la pubblicazione nel 1734 dell'Histoire de l'établissement de la monarchie française di d'Argenson) sostenevano la legittimità della monarchia assoluta francese sulla base della sua diretta discendenza dai re franchi e della continuità, per traslazione, dell’imperium da Roma a Luigi XIV. La tesi germanica dell'origine della monarchia francese elaborata da Boulainvilliers fu duramente attaccata nel 1734 da uno dei principali storiografi francesi della prima metà del XVIII secolo, l'abate Jean-Baptiste Du Bos (1670-1782), il quale nell' Histoire critique de l'établissement de la monarchie frangaise dans les Gaules sostenne che i Franchinonerano stati originariamente liberi e indipendenti, ma che si erano sottomessi al loro re con lo stesso grado di ubbidienza dei Galli, e avevano rispettato la civiltà e le leggi dei Romani. In ogni caso, entrambe le teorie rivelano che nel Settecento emerge il nesso che lega narrazionestoricaeteoria politica. A partire dal XVIII secolo, e in particolare in Francia, il sapere storico diventa una delle armi di lotta politica, dal momento che ci si serve della storia quale fondamento della legittimazione del potere e dello Stato. Uno dei momenti centrali nella vicenda d'Antico regime in area tedesca è senza dubbio la pace di Vestfalia (1648), che, oltre a riconoscere la legittimità della confessione calvinista, parificata alla cattolicaeallaluterana, propone nei territori tedeschi una nuova determinazione dei rapporti fra Impero, principi e ceti territoriali. Viene infatti proclamato lo jus territoriale, che significa il riconoscimento di fatto della sovranità dei principi,a cui si aggiunge il loro diritto a partecipare in maniera deliberativa a tutte le decisioni riguardanti l'Impero e la possibilità per i principi di stringere alleanze fra di loro indipendentemente dalla volontà dell'Impero.Lapace di Vestfalia può perciò essere considerata l'origine della moderna forma delle relazioni internazionali,fondate sulla regolamentazione giuridica del sistema delle alleanze e sul riconoscimento della territorialitàdelloStato. Il fenomeno che meglio illumina l'opera dell'assolutismo tedesco, principalmente quello prussiano,maanche alcuni aspetti di quello austriaco, è un movimento di pensiero politico denominato cameralismo. Il termine deriva dalla Kammer, la Camera, organo privato di governo nel quale il principe, aiutato dai più stretti collaboratori, dirigeva i propri affari. A partire dalla fine del XVII secolo e poi nel XVIII gli affari camerali divennero quelli finanziari e amministrativi, in posizione di preminenza rispetto a quelli inerenti i tributi, tradizionalmente in mano ai ceti. Nel 1727 venne istituita in Prussia la prima cattedra universitaria di scienze camerali, nata per formare funzionari atti a occuparsi dell'amministrazione dello Stato. Il cameralismo fu la teoria e la pratica amministrativa attraverso le quali il Grande elettore di Prussia, ma ancora di più nella prima metà del Settecento Federico Guglielmo I e Federico II cercarono di attuare l'organizzazione e il consolidamento della struttura unitaria e accentrata dello Stato. Il cameralismo può essere considerato la fase intermedia, detta anche dello 'Stato del benessere, che sta, in area tedesca, fra lo Stato per ceti d'Antico regime e lo Stato di diritto del XIX secolo. La pratica del cameralismo produsse un'organizzazione della politica interna di tipo burocratico, con l'istituzione di commissari preparati professionalmente e stipendiati; e produsse anche una sorta di razionalizzazione del comando giuridico,lacui origine, a differenza della tradizione pluralistica medievale, venne riconosciuta solo nella legislazione dello Stato. Il diritto è pensato quale prodotto della volontà del principe, esercitata attraverso l'ordinamento di polizia. Le riforme amministrative di Federico Guglielmo I (che si compiono nel 1723 con l'unificazione dell'amministrazione militare con quella delle imposte, che di fatto sancisce la centralizzazione dell'amministrazione interna) portano alla soppressione, nell'esercizio dei pubblici poteri, di ognidualismotra ceti e principe a favore di quest'ultimo; nella medesima direzione vanno anche la riforma giudiziaria e l'opera di codificazione di Federico II (divenuto re nel 1740). È con quest'ultimo che l'assolutismo giunge al proprio apogeo in Prussia: l'azione di Federico II è volta ad attuare una metodica e progressiva concentrazionediquelli che erano i poteri feudali (giurisdizionali, amministrativi, militari, ecclesiastici) del signore,inunasolapersona, il monarca, e a esercitarli nel segno della razionalità, in vista non solo dell'ordine pubblico, ma anche del benessere dei sudditi. Tale pratica di potere corrisponde a una visione dello Stato e della missionedelprincipe che deve occuparsi di ogni aspetto della vita dei propri sudditi. Il mercantilismo interpreta l'attività economica come uno strumento di espressione della potenza del singolo Stato. Questa stretta connessione tra attività economica e potenza di uno Stato farà del mercantilismo anche uno strumento di regolamentazione a livello internazionale delle relazioni fra i diversi Stati, che misuranonel rapporto, anche economico, con gli altri il proprio grado di potenza. La particolare situazione storica di quella che diventerà la Germania, caratterizzata dal ritardo nella formazione di uno Stato nazionale, fece sì che in quest'area si assistette in un primo momento a una forma eccezionale di mercantilismo, di tipo imperi ale e non statuale. Tuttavia le logiche stesse del mercantilismo, legate all'espansione delle attività manifatturieree commerciali sul territorio, finirono inevitabilmente per essere un ulteriore fattore di disgregazionedell'Impero tedesco a favore della crescita degli Stati territoriali. La Riforma protestante, con la nuova concezione dell'autorità secolare formulata da Lutero e le sue ricadute pratico-politiche nella pace di Augusta (1555), oltre che una territorializzazione della confessione religiosa, produsse anche un profondo ripensamento del fondamento dell'obbligazione politica, che nel XVII secolofu all'origine di quel processo di laicizzazione del diritto denominato giusnaturalismo. Criticando il fondamento divino che sostanziava la concezione scolastica del diritto naturale, il giusnaturalismo moderno afferma l'esistenza (e la possibilità per la ragione umana di conoscerlo) di un diritto naturale, inteso come sistema di norme di condotta intersoggettiva diverso e precedente da quello costituito dalle norme poste dallo Stato. Tale sistema ha validità per sé ed è superiore al diritto dello Stato. A partire da tale assunzione i teorici del giusnaturalismo moderno pongono alla base dell'obbligazionepolitica il riconoscimento dei diritti naturali quali diritti innati, l'esistenza di uno stato di natura (originaria condizione dell'uomo) e la stipulazione di un contratto sociale fra tutti gli individui. È il contratto il momento generatore dell'obbligazione politica nella sua forma statuale: lo Stato è pensato quale opera volontaria della razionalità degli individui (così come anche in Hobbes, che però attraverso questa via giunge all'assolutismo).Adifferenza di quello antico degli stoici (sostenitori di un'origine naturale di ogni principio di diritto, secondounateoriapoi ripresa in epoca moderna nell'ambito del neostoicismo, di cui massimo esponente è il pensatore politico olandese Justus Lipsius, 1547-1606) il diritto naturale moderno, che pure dal neostoicismo è influenzato,vuole essere esplicitamente la fonte di legittimazione dell'ordine politico. Da qui la sua maggiore efficacia pratica, ma anche la contraddizione per cui. Grozio Importante esponente di questa dottrina è Ugo Grozio, che nel De jure belli ac pacis (1625) pone il diritto naturale quale fondamento del diritto riconosciuto valido fra gli uomini. Sulla base del principio delricorsoalla naturale ragione dell'uomo gli individui sono naturalmente socievoli e perciò portati a ricercare forme di convivenza pacifica. Ciò dà origine, attraverso un contratto volontario, all'associazione politica fondata sul riconoscimento di un diritto comune, il cui rispetto è garantito dalla presenza di un sovrano, a cui i consociati hanno delegato la sovranità di origine pattizia. Pur non negando l'origine divina del diritto naturale, cosìcome affermata da Tommaso, Grozio tuttavia è consapevole della rottura, provocata dalla Riforma, dell'unitarietà del cosmo cristiano e delle controversie teologiche sull'origine del potere e del diritto che pongono in crisi i fondamenti della dottrina del diritto naturale. Cuore della sua argomentazione è pertanto la volontà di fondare al di là delle discussioni teologiche lavalidità del diritto naturale e la conseguente legittimità della società politica che su esso si fonda. Servendosi del metodo logico della dimostrazione per assurdo, Grozio arriva a dimostrare la cogenza del dirittonaturaleanche in assenza di Dio («etsi Deus non daretur»), determinando così una profonda laicizzazione del fondamento giuridico dello Stato. La dimostrazione dell'esistenza del diritto naturale, tuttavia, non è sufficiente per garantire che le sue norme vengano rispettate: da qui la necessità dell'istituzione di un'altra forma di diritto a ciò preposta e che Grozio definisce diritto volontario, poiché prodotto della volontà del sovrano, che assume la forma della legge. In Grozio si assiste pertanto al tentativo non di limitare la guerra (come in Hobbes), ma di giu-ridificarlaattraverso il complesso intreccio che si stabilisce fra diritto di natura, diritto civile e diritto delle genti. Per tale motivo si può ritrovare nel De jure belli ac pacis una teoria moderna della 'guerra giusta' (cioè condotta congiustimezzi), in quanto guerra 'pubblica' dello Stato, regolamentata sulla base del rispetto del diritto internazionale e di quella ragione naturale che è alla base di tutta la costruzione groziana. Mare liberum, l'altro importante trattato politico di Grozio, fu composto per controbattere le tesi della sovranità inglese sul mare. A Mare liberum rispose nel 1636 con Mare clausum John Selden (1584-1654), giurista e storico inglese, che sostenne sulla base del diritto naturale delle nazioni l'appartenenza delle acque al primo occupante,inseguito all'originaria divisione delle terre. Le tesi di Selden furono la base teorica delle rivendicazioni inglesi sulmare del Nord e sul nord Atlantico contro gli olandesi. Pufendorf Alla dottrina del diritto naturale di Grozio si ispira la teoria politica di Samuel Pufendorf, che si può leggere come tentativo di dare un fondamento teorico a quello che stava diventando nella seconda metà del XVII secolo l'assetto costituzionale dei territori tedeschi. La teoria di Grozio viene calata da Pufendorf all'interno del contesto statuale. Come Grozio, e a differenza di Hobbes, Pufendorf ha una visione non negativadellostato di natura, ma se Grozio sosteneva la naturale socievolezza dell'uomo secondo la tradizione aristotelico- tomistica, Pufendorf la vede, più modernamente, fondata sopra un principio di utilità, che è la tensione al benessere propria di ogni individuo. Tale principio è sancito dalla legge di natura, dettame della rettaragione, che stabilisce che ciascuno deve praticare una pacifica socialità, conformemente allo scopo del genereumano. Dunque nello stato di natura di Pufendorf esiste un elemento di tensione tra il perseguire la propria utilitàda parte dei singoli e la socialità, che è anch'essa una condizione naturale; questa sensazione spinge gli individui a uscire dallo stato di natura, nel momento in cui questo si rivela instabile e inaffidabile a causa delle naturali debolezze degli uomini. Spinti dall'istinto verso il benessere e dalla naturale ricerca della felicità(temaquesto che verrà ripreso dagli illuministi tedeschi e scozzesi, nonché dai costituenti americani), gli individuiattraverso due patti e un decreto costituiscono la civitas, la società politica retta dal potere sovrano, realizzando in tal modo quella socialità che nello stato di natura rischiava di rimanere solo un'aspirazione. Con il primo patto,di unione, gli uomini si uniscono, obbligandosi vicendevolmente, e costituiscono il coetus, il corpo politico, che per decreto stabilisce la forma di governo secondo cui sarà retto lo Stato. Con il secondo patto gli individui delegano a una persona sola, il sovrano, il proprio potere di comando, sottomettendosi - appunto con un patto di sottomissione - alla volontà del sovrano. Il secondo patto, dunque, introduce la differenza fra chi comanda e chi obbedisce all'interno dello Stato, ma proprio in ciò sta per Pufendorf la condizione dell'unione politica, nata per esprimere una e una sola volontà e un unico soggettodi potere al fine di garantire il benessere dello Stato e, dunque, dei cittadini. Il potere sovrano, nato dal secondo patto, è definito inviolabile e irrevocabile, ma non deve diventare un potere sempre sul punto di trasformarsi in arbitrio, come Pufendorf interpreta il Leviatano di Hobbes: la fiducia che lega sudditi e sovrano deveessere basata su di uno scambio reciproco. Con il secondo patto, in definitiva, il sovrano garantisce stabilità e ordine in cambio di obbedienza alle proprie leggi. La sottomissione di cui parla Pufendorf, in definitiva, non è la sottomissione di tipo feudale che legava feudatario e vassallo, ma sta ad indicare la riduzione della volontà dei singoli a quell'unica volontà sovranache si manifesta attraverso il comando razionale della legge, emanata dal superiore e garantita dalla forza che gli è stata delegata per patto. L’età dei lumi L'illuminismo è l'uscita dell'uomo da una condizione di minorità di cui è egli stesso responsabile. Peranalizzare più da vicino l'illuminismo lo si deve tuttavia contestualizzare storicamente, e chiedersi quando inizia e che cosa è il secolo dei Lumi, definito anche 'il secolo di Voltaire. È stato detto che si può assumere come sua data d'inizio il 1680, inteso come l'anno di apogeo dell'assolutismo di Luigi XIV e del dominio francese in Europa,in cui si palesa già, almeno in Francia, la crisi di tutta una civiltà che sfocerà nella rivoluzione francese. Dunque fra il 1680 e il 1789 non si colloca solo il secolo dell'Antico regime, ma anche il laboratorio in cui si progetta una nuova civiltà. Furono in particolare gli illuministi francesi, i philosophes, a scendere in campo contro la tradizioneel'autorità, in nome del progresso e di una riforma razionale della società. La filosofia dei Lumi per la prima volta pensadi potere realizzare nella pratica quell'ordine già presente, potenzialmente, nelle teorie del razionalismo moderno di Cartesio, Hobbes, Locke, Newton, Bayle e Spinoza; e quindi pensa se stessa non come una metafisica, ma come una filosofia innanzitutto morale e politica, una filosofia 'militante'. Si tratta di unordine nuovo, che parte dalla consapevolezza della necessità di ridare all'uomo cartesiano, 'gettato' nel mondo armato solo della ragione, un posto riconoscibile nell'universo; un universo pensato a partire solo dall'esperienza umana liberata dai lacci della tradizione. Questa nuova situazione dell'uomo è ciò che gli illuministi assumono consapevolmente, proponendosi di ripensare e riqualificare tutti i concetti-chiave della tradizione filosofica alla luce della solaragione(illuminismo alla lettera significa infatti rischiaramento, con il lume della ragione, delle tenebre dell'ignoranzaedellaservitù della superstizione). I due termini che meglio definiscono il concetto di ragione, l'unico strumento di cui l'uomo secondo l'illuminismo può disporre, sono critica e potere. La ragione illuministica opera infatti come critica: critica dell'uomo, critica del reale, critica della tradizione e della filosofia del passato, presentandosiintalmodocome della necessità di sottoporre al controllo statale l'educazione, sottraendola alla Chiesa che fino ad allora ne deteneva il monopolio. Emblematico è il caso della lotta contro la Compagnia di Gesù: i gesuiti vennero progressivamente espulsi prima dal Portogallo (1759), poi dalla Francia (1761), quindi dal regno di Spagna e dai suoi domini (1767), per giungere alla soppressione dell'ordine nel 1773 con la Bolla papale Dominus acRedemptor. Anche per altri ordini ecclesiastici i sovrani applicarono l'espropriazione dei beni, inglobandoli nel patrimonio dello Stato. Politica e religione rimasero strettamente legate per tutto il XVIII secolo, e se ogni scritto degli uominideiLumi può essere considerato scritto politico, allo stesso modo non vi è parola pronunciata dagli illuministi che non abbia una forte connotazione anti ecclesiastica. La polemica è nei confronti di tutte le religioni confessionali che impongono i propri dogmi oscurando la ragione degli individui, ma, in particolare, l'attacco è contro la Chiesa cattolica e l'alleanza fra trono e altare su cui si fondava l'assolutismo. Contro l'oscurantismo,ilfanatismo e il dogmatismo delle religioni storiche si oppongono la religione naturale - che è la 'vera' religione - e l'affermazione della tolleranza. Il tema della religione naturale fu elaborato in Inghilterra in ambienti deistici e diffuso in Europa da Voltaire attraverso le Lettere inglesi (1723). La concettualizzazione lockiana della tolleranza, così come era stata espressa nella Lettera sulla tolleranza (1689), con la separazione delle questioni che competono al magistrato civile dalle questioni di religione (nel caso in cui queste ultime non turbino l'ordine pubblico), e, inparticolare, il problema della vera religione con l'implicita distinzione fra credere e conoscere, fu uno dei motivi ispiratori del deismo, dottrina filosofica da distinguere dal teismo. Con teismo si intende la credenza inunDiopersonale, trascendente, creatore, in qualche modo chiaramente determinato, ed è una dottrina che si oppone al panteismo e in qualche misura al deismo, anche se lungo il Settecento i due termini vennero per lopiùconfusi; solo con la Critica della ragion pura di Kant si arriverà a una loro chiara definizione e distinzione. Il movimento deista si sviluppò in Inghilterra sul finire del XVII secolo e il suo manifesto viene ritenuto Christianity not Misterious (1696) di John Toland. In polemica con le religioni storico-confessionali Toland rifiutava della Scrittura tutto ciò che non si accorda con la ragione e col principio dell'uniformità della natura; e conseguentemente affermava quale unico vero credo quello nella religione naturale. E questa unareligione priva di dogmi e che - sulla base di un esame critico-razionale della Scrittura che prendeva a modelloilmetodo del Dizionario storico-critico di Bayle - si basa sul riconoscimento dell'esistenza di un Essere Supremo, assolutamente razionale, creatore del mondo terreno, ispiratore negli uomini di una ragione e di una morale comuni, perché naturali, e quindi giuste; un Essere che però non interviene mai direttamente nelle vicende umane. Il deismo, influenzato profondamente dall'empirismo e dalle teorie della scienza newtoniana (il Dio dei deisti deve infatti molto al Dio-geometra, ordinatore dell'universo, dei Principia mathematica di Newton, ma anche al Grande Architetto ordinatore del mondo della Massoneria), si presenta come un sistema rigidamente intellettualistico, ritenendo i miracoli e i misteri religiosi i veri nemici della fede religiosa,poiché ne offuscano il reale contenuto, che appare comprensibile invece con gli strumenti propri dellaragione umana. In questo quadro il cristianesimo - il cristianesimo delle origini, non ancora istituzionalizzato - non è più letto come una religione storica, ma viene interpretato quale religione naturalmente eterna che affermalanecessità della tolleranza universale basata sul riconoscimento della comune natura degli uomini. La polemica deista assume pertanto una connotazione politica, poiché, nella misura in cui mira a negare la missione sovrannaturale delle chiese storiche, la divinità delle Scritture, il magistero carismatico del clero, diventa un fatto politico. Le affermazioni dei deisti (o «liberi pensatori», come vennero definiti) erano tesea negare l'autorità temporale e politica dell'episcopato e a fondare una nuova etica laica per i nuovicetiborghesi da sostituire alle sopravvivenze dell'antico assetto gerarchico della società. Queste idee in Franciasifuserocon le idee della tradizione libertina di Montaigne, Gassendi e La Mothe le Vayer, che nel Seicentoavevanocriticato sia la religione in tutte le sue forme sia l'esercizio assolutistico del potere. I temi del deismo divennero centrali nella lotta per la tolleranza condotta nel XVIII secolo dai philosophese,in particolare, da Voltaire. Dal punto di vista della tolleranza, l'epoca dei Lumi può essere racchiusa anche fra altre due date: il 1689, anno di approvazione in Inghilterra del Toleration Act, che riduceva le pene verso chi non faceva parte della Chiesa d'Inghilterra (di fatto i cattolici e i dissenzienti), e il 1787, quando Luigi XVI promulgò un tardivo Editto di tolleranza nei confronti dei protestanti, nel tentativo di porre riparo agli effetti negativi (in particolare l'emigrazione all'estero degli artigiani manifatturieri e una latente conflittualitàsociale) provocati dall'abrogazione nel 1685 dell'Editto di Nantes. La rivendicazione della tolleranza, difesa dai deisti inglesi e dai philosophes francesi, è centrale nella lotta politica contro l'infame (il termine usatodaVoltaireper indicare l'oscurantismo, il fanatismo, le gerarchie ecclesiastiche, le religioni confessionali, l'ingiustizia) peril raggiungimento delle riforme giuridiche, amministrative e sociali proposte dai Lumi al fine di realizzarequello 'Stato di leggi' nel quale le differenze fra gli individui non abbiano più valore politico. Tuttavialaquestionedella tolleranza viene ad assumere anche un rilievo teorico-politico, poiché va a toccare i temi dei rapporti fraStato e Chiesa e fra sovrano e singoli individui. Paradigmatica in questo senso diventa la posizione di Voltaire, che nel Trattato sulla tolleranza (1763) sistematizza la questione fornendone una sorta di manifesto politico e di vangelo laico a carattere universale. In Voltaire si ritrovano sia l'eredità deista, che permette di affermare la tolleranza quale diritto individuale, poiché fondato sul riconoscimento di una comune natura umana, donata agli uomini dall'Essere Supremo, sia l'eredità del razionalismo politico moderno, che la riconosce frutto di una decisione del sovrano, che innome dell'ordine interno neutralizza i conflitti religiosi spoliticizzandoli. Nella realtà storica francese, però, questa neutralizzazione sovrana avvenne in modo 'intollerante', cioè attraverso l'assunzione del contenuto dogmatico del cattolicesimo all'interno della forma della legge statale; la Chiesa era così priva di potere politico diretto (secondo i principi del gallicanesimo di Stato), ma vedeva soddisfatte le proprie esigenze dogmatiche e quindi si alleava senza difficoltà con il potere politico.Esempiodi questa alleanza in Francia fu il codice penale, riformato sulla base di un'Ordonnance criminelle di Colbert nel 1670, che identificava peccati e reati. L'Ordonnance di Colbert rendeva di fatto lo Stato il braccio secolaredella giustizia divina. Questa alleanza fra teologia e diritto era tipica di gran parte del sistema giudiziario europeo fra Sei e Settecento. Posizioni come quella sostenuta a cavallo tra i due secoli da Thomasius in Germania - che teorizzavalanecessità di distinguere la filosofia dalla teologia, il diritto dalla morale e l'irrilevanza per lo Stato, e quindi la non punibilità, dei comportamenti contrari alle leggi ecclesiastiche, ma non dannosi per la società - rimasero per tutta la prima metà del XVIII secolo un'eccezione. Solo a partire dagli anni Cinquanta del Settecento queste teorie furono portate all'attenzione dell'opinione pubblica e rivendicate, insieme alla richiesta di uguaglianza giuridica dei soggetti, in Francia da Voltaire, Helvétius e Morellet, in Italia da Beccaria e, più tardi, in Inghilterra da Bentham. Voltaire e i philosophes pensano a una ristrutturazione dell'ordine politico a partire dalla subordinazionedella Chiesa allo Stato, perché la crisi dell'Ancien régime non permette di pensare alla separazione fraStatoeChiesa. Tuttavia l'idea dell'indipendenza della sfera spirituale dallo Stato, che è alla base del riconoscimentogiuridico della libertà religiosa, è già in luce in queste posizioni. In definitiva, la tolleranza, diventata cuore della discussione politica settecentesca e dell'azione riformatrice dei sovrani europei, risulta parte di quelprocesso di uniformazione interna su cui si costruisce l'immagine europea dello Stato: l'affermazione della tolleranza vale per tutti coloro che fanno parte dello spazio politico dello Stato e che perciò sono uguali (e quindi omogenei fra di loro) in quanto sottoposti alla medesima legge, la legge del sovrano. Geografia dell’illuminismo L'illuminismo si costituì come un movimento connotato dal cosmopolitismo, frutto dell'aspirazione all'universalismo e alla fratellanza che produsse il sentimento di sentirsi cittadini del mondo. D'altra parte anche la diversa concezione del sapere, colta nel suo stretto legame con il potere, e la comprensione delruolo che l''intellettuale' può svolgere nei confronti sia dei governanti sia del pubblico determinarono una diversa produzione letteraria (non più ponderosi trattati, ma agili pamphlets) e di conseguenza una sua maggiore diffusione. Tuttavia accanto all'idea cosmopolitica (che ispirò, tra l'altro, la letteratura sui progetti di pace perpetua) si determinarono anche le idee di amor di patria e di nazione che avrebbero prodotto insieme agli eventi rivoluzionari la fine dell'utopia cosmopolitica e i nazionalismi ottocenteschi. Francia Di centrale importanza per la costituzione delle Lumières francesi e per la presa di coscienza della novità del fenomeno fu l'impresa dell'Enciclopedia, o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri,uscitain 17 volumi, tra alterne vicende, dal 1751 al 1765, guidata prima da Diderot e Jean Le Rond d'Alembert (1717- 1783), poi dal 1758 dal solo Diderot, e che raccolse attorno a sé i principali esponenti della cultura francese settecentesca, da Montesquieu a Voltaire, da Rousseau a d'Holbach. Turgot e de Jaucourt. Nel Discorso preliminare d'Alembert esprime scopo e obiettivo dell'opera: l'Enciclopedia vuole esporre l'ordineeirapporti fra le conoscenze umane, mostrando di ciascuna scienza o arte (liberale o meccanica che sia) i principigenerali, ma anche i dettagli essenziali. Cronologia, storia e geografia diventano le basi di una moderna scienza della società, di cui si devono studiare tutti gli aspetti. Obiettivo dell'Enciclopedia è porre il sapere, nella suaforma più completa, a disposizione del maggior numero di persone. D'altra parte Diderot nella voce Enciclopedia chiarisce l'indipendenza politica che è alla base dell'opera: la consapevolezza dell'autonomia del poteredegli scrittori e la possibilità per essi di vivere solo nella libertà. Denis Diderot Fondamento del potere del re è un contratto stipulato per l'utile della società: «il principe riceve dai sudditi stessi l'autorità che esercita su di loro» e «la nazione è in diritto di mantenere nei riguardi di tutti e controtutti il contratto da lei stipulato». Il contratto di cui qui si parla sembra avvicinarsi più che al contratto giusnaturalista al contratto affermato nelle teorie monarcomache, quale base per rivendicare la libertà del popolo contro l'oppressione del tiranno e affermare il diritto di resistenza attiva. E, infatti, nonostante Diderotnelproseguire della voce ribadisse l'impossibilità della resistenza ai sovrani, il suo scritto fu giudicato sovversivodell'autorità regia e il Consiglio del redecretò nel 1752 il ritiro del permesso di pubblicazione. Il lavoro dell'Enciclopedia ricominciò nel 1753 e la polemica contro la concezione assolutistica e paternalistica del potere regio continuò a essere presente anche nelle voci che vennero redatte successivamente.Nellavoce Sovranità, redatta da Diderot nel 1765, emerge il tema del consenso quale base del potere politico:«gliuomini si sono raccolti in società solo per essere più felici; la società si è scelta dei sovrani solo per vigilare più efficacemente sulla propria felicità e conservazione». Risulta evidente la polemica, derivata da Montesquieu, nei confronti della monarchia francese e dei rischi di degenerazione nel dispotismo che l'assolutismocorreva. Se pure gli illuministi non giunsero ad assumere posizioni dichiaratamente democratiche e a delineare meccanismi istituzionali che garantissero la libertà del popolo, rimasta sempre e solo un ideale a cui tendere, essi, e in primo luogo Diderot, d'Holbach e Voltaire, tuttavia iniziarono negli anni Sessanta, anche in seguito alla disillusione sulle possibilità di collaborazione con le monarchie, una riflessione sulla necessità della rappresentanza dei cittadini nel governo. Insieme alle Idee repubblicane e ai Pensieri sul governo di Voltaire da un lato, al Contratto sociale di Rousseau dall'altro, il testo più significativo di questa radicalizzazione della politica illuminista è la voce Rappresentanti, redatta tra il 1762 e il 1764 probabilmente da d'Holbach, ma con la forte presenza di Diderot. «I rappresentanti di una nazione sono cittadini scelti, che in un governotemperato vengono incaricati dalla società di parlare a suo nome»: in questa voce ciò che viene proposto è il modello della monarchia inglese, molto vicino a quello che aveva teorizzato Locke, dal momento che si sostiene che tutte le parti della società sono interessate al buon governo dello Stato ed hanno perciò il diritto a parteciparvi con l'elezione di propri rappresentanti. La constatazione dell'impossibilità - dimostrata dal viaggio in Russia alla corte di Caterina II tra il 1773 e il 1774, ma anche dalla caduta del ministero Turgot nel 1776 - di realizzare una vera politica di riforma dell'assolutismo regio determinò una svolta radicale nel pensiero di Diderot, che si orienta su posizioni più decisamente antiassolutistiche e tendenzialmente democratiche. Egli riconosce a questo punto come unico sovrano e legislatore il popolo e il suo diritto a condannare anche in maniera cruenta quel sovrano che vada contro la volontà generale: «una nazione non si rigenera che in un bagno di sangue». Pur intravedendo i rischidianarchia e guerra provocati dalle rivoluzioni, egli esalta la rivoluzione inglese e, ancora di più, l'indipendenza delle colonie americane. Oltre che dalla teoria lockiana, Diderot in questi anni è influenzato dalla tradizione del repubblicanesimo: nei suoi scritti politici accanto all'idea di una politica fondata sul consenso dei cittadini, sull'esclusione dell'ingerenza ecclesiastica, su un sistema educativo pubblico, sulla giustizia amministrata umana, che trova la propria giustificazione nell'essere depositaria della delega del potere da parte del corpo sociale, di cui è il rappresentate e il restauratore. La riforma politica di d'Holbach prevede la libertàdiopinione religiosa (fautore dell'ateismo, egli non lo riteneva però realizzabile nel breve periodo) e di espressione, la ridistribuzione del carico fiscale, un nuovo sistema educativo che sottragga gli uomini alla oscura prigioneche era la società in cui vivevano. In linea teorica il riformismo di d'Holbach va in direzione della sovranitàpopolare, attraverso l'uso dei concetti di nazione, corpo sociale, volontà pubblica, ma dal punto di vista pratico la rappresentanza politica a cui pensa è quella dei proprietari terrieri, che di fatto esclude i due terzidegli abitanti della Francia del tempo. Elementi di socialismo o proto comunismo si ritrovano anche in Morelly, di cui mancano notizie biografiche, ma la cuiopera (il Codice della natura) influenzò l'ala più radicale della rivoluzione e fu tra le fontidellaCongiura degli Eguali di Babeuf (1796). Lo stato di natura, storicamente esistito secondo Morelly, era caratterizzato da un'assoluta uguaglianza e comunità di beni, distrutte dall'introduzione della proprietà privata. Perripristinarlo egli pensa a uno Stato fondato sull'abolizione della proprietà privata, fatti salvi i mezzi per i bisogni e i lavori quotidiani, sul riconoscimento del ruolo pubblico di ogni individuo (nello Stato di Morelly non esiste alcuna struttura gerarchica) e sul dovere di ogni cittadino di contribuire all'utilità generale. Il principio che regge questo Stato è «la Ragione vuole, la Legge comanda», che determina una visione fortemente coattiva della legge, a cui viene sottoposta anche l'educazione dei bambini. La critica della proprietà quale fonte dei mali della società è presente anche in Gabriel Bonnot de Mably. Analizzando l'uomo che vive in società, Mably vi trova una continua ricerca del proprio benessere ed è pertale motivo che la politica deve avere un ruolo centrale, perché essa è la scienza che permette il maggiorbenessere collettivo. In Diritti e doveri del cittadino ciò si trasforma in una teoria politica egualitaria e antidispotica che culmina nella proposta di una forma di governo repubblicana, ispirata alla teoria platonica e alla costituzione di Sparta, che prevede l'abolizione graduale della proprietà e il ruolo centrale di un legislatore. Nel pensierodi Mably è costante la tensione fra utopia politica e realtà storica: ecco perché nell'esperienza del XVIII secolo egli ritiene realizzabile la sua utopica repubblica se la si pensa nella forma di una «monarchia repubblicana», fondata su una forte limitazione del potere esecutivo (l'avversario del legislativo), sorta di equilibrio istituzionale fra i due poteri. Nelle Osservazioni sul governo e le leggi degli Stati Uniti d'America afferma la necessità della rappresentanza politica della nazione. Tuttavia, secondo le parole di Mably, il «grido» della nazione può sempre revocare ogni mandato rappresentativo: di fatto, sei anni prima della presa della Bastiglia, Mably teorizza con queste parole la possibilità della rivoluzione. Il radicalismo, prodotto ultimo del potere di critica su cui si fonda l'illuminismo,fu portato alle conseguenze estreme negli scritti di Donatien-Alphonse-Franfois, marchese di Sade, che realizza la critica dell'illuminismo quale opera di autorischiaramento, svelandone il volto nascosto, cioè laviolenzache domina il mondo naturale e l'inevitabile nichilismo e pessimismo che colpisce l'individuo che su ciò riflette.La rivoluzione conferma Sade nelle proprie convinzioni: è espressione violenta della natura che costantemente nel suo moto, incontrollabile dall'uomo, distrugge e ricrea forme di vita. Davanti a questa visione ineluttabile del procedere delle cose Sade oppone all'ordine giuridico imposto dalla rivoluzione, che aggiungeallaviolenza naturale la violenza «prodotta dall'iniquità della legge», un’idea anarchica della società, fondatasull'abolizione del diritto di proprietà e su di un numero esiguo Germania Parallelamente alle Lumières francesi si sviluppò nei territori tedeschi un'Aufklärung (rischiaramento) attenta ai contenuti politici del dibattito illuministico. Caratteristica degli illuministi tedeschi è lacollaborazionestretta con i sovrani: la progressiva emancipazione della ragione umana dal fanatismo, dalla superstizione, dalla tirannia può avvenire solo se guidata da un sovrano assoluto che, in quanto «primo magistrato dello Stato» (secondo l'affermazione di Federico II), sa interpretare il diritto naturale attraverso leggi positive tese a realizzare il benessere e l'ordine dello Stato e dei sudditi. L'illuminismo in Germania si sviluppò influenzato, oltre che dalla ricezione delle opere francesi, anche dai principi cameralistici di razionalizzazione e centralizzazione del comando sovrano (che avevano prodotto un sistema di governo - almeno in Prussia - più efficiente di quello francese) e dalle teorie della scuola del diritto naturale. Se è indubbio che l'autore più importante dell'illuminismo tedesco è Kant, tra i principali esponenti di questo movimento si possono ricordare le ligure di Thomasius, Lessing e Wolff. Comuni a tutti gli autori sonoiprincipi della tolleranza religiosa, ribadita da Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781), filosofo e drammaturgo, nel dramma Nathan il Saggio (1789). In quest'opera, Lessing riadatta la novella dei tre anelli del Decamerone e narra di un re che morendo lasciò un anello a ciascuno dei suoi tre figli assicurando a ognuno che egli è l'unico erede del prezioso bene. I tre figli combattono l'uno contro l'altro credendo ciascuno che gli altri due sianodei falsari (ognuno rivendica di essere il vero possessore dell'unico anello), finché non riconoscono la comune derivazione dal medesimo padre di tutti e tre gli anelli. Gli anelli sono raffigurazione delle tre religioni monoteistiche (cristianesimo, ebraismo, islamismo) e l'intento di Lessing è quello di dimostrare, in nomedei principi della tolleranza e della fratellanza universali, l'assurdità della lotta intollerante che le religioni conducono l'una contro l'altra e la necessità, teorica oltre che storica, che si giunga ad un reciproco riconoscimento delle religioni come espressioni ugualmente legittime di una sola volontà divina. Ilmotivodel benessere e della felicità dei sudditi, specchio della felicità e del benessere dello Stato, attraversa tutta la riflessione politica tedesca del XVIII secolo Kant polemizzerà contro questa concezione eudomonistica della politica. Dominante nella riflessione politica di Christian Thomasius è, infatti, il concetto di felicità. Pur riconoscendola validità del diritto naturale (che in Thomasius è pensato pienamente secolarizzato e autonomo dallateologia), egli critica la teoria i Grozio della socialità come istinto naturale e afferma invece la strumentalità (e dunque l'artificialità) dell'associazione fra gli individui, in quanto orientata a realizzai la felicità dell'uomo. Se scopo della società è consentire all'individuo di realizzare le proprie inclinazioni, scopo dello Stato è quello di permettere e mantenere l'esistei za della società contro il ritorno nel disordine dello stato dinatura.Particolare attenzione, poi, Thomasius dedica alla questione del diritto. Nell'agire dell'uomo egli individua tre ambiti: quello interno, che è regolato dalla legge di natura, che è legge morale ed è sede di virtù; quello esterno, che è dominato dalla coazione del legge positiva emanata dal sovrano; e un terzo ambito, quello della prudenza, ci comprende tutte quelle azioni private che, pur non essendo giudicabili dalla legge possono essere sanzionabili dall'opinione pubblica. Emerge allora in Thomasius percezione di quello spazio, pubblico ma separato e distinto dallo Stato, che nel secolo successivo verrà determinato con il concetto di società civile. In Christian Wolff è centrale il tentativo di dedurre dal dovere il diritto quindi, anche il diritto naturale,checosì non risulta derivato dalla ragione individuale come è negli altri teorici del giusnaturalismo moderno. Secolarizzando la teoria di Leibniz della Provvidenza universale che guida la vita del mondo e degli uomini, Wolff afferma il benessere quale motore che guida l'ordine politico. Il singolo ha il dovere naturale di raggiungere benessere e felicità e il diritto a compiere tale dovere. A questo scopo attraverso un contratto viene istituito lo Stato che ha come compito quello di garantire a individui diventati sudditi (tutti gli autori dell'illuminismo tedesco pensano a uno Stato monarchico) la possibilità di realizzare il propriodovere.Lateoria dello Stato di Wolff è la teoria dello Stato di polizia, sintesi d: ordine e benessere, in cui il monarca con la propria polizia regolamenta attraverso tutta una serie di norme ogni aspetto della vita dei sudditi in vista del benessere e della felicità di tutta la società. L'Italia Nonostante la frammentazione politica e la dipendenza della maggior parte dei governi da sovrani stranieri, anche per l'Italia si può parlare di un movimento illuminista, diffuso in tutta la penisola, ma in particolare in due grandi centri: Milano e Napoli. Altre due caratteristiche segnano il movimento italiano, differenziandolo dal parti philosophique francese: la diretta partecipazione dei suoi principali esponenti (Muratori, Beccaria, Pietro Verri, Filangieri, Tanucci) al governo delle proprie città, in veste di amministratori o di giuristi, e la necessità di stabilire un rapporto di confronto politico con la Chiesa cattolica, presenza temporalepiùinfluente in Italia che nel resto d'Europa. Tutti gli illuministi italiani affermano la necessità di una laicizzazione dellavita politica italiana. Tema comune è il bisogno di riformare e modernizzare ogni ambito della vita politica, dalla giustizia alle attività economiche, dall'istruzione ai rapporti fra i ceti; ciò può essere compiuto solo inpresenza di una forte collaborazione tra governanti riformatori e ceti colti. Una delle esposizioni teoriche piùimportanti del progetto italiano di riforme è quella che si trova in Della pubblica felicità, oggetto de' buoni principi, pubblicata da Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) a Modena nel 1748, che avrebbe influenzato i programmi riformatori della seconda metà del Settecento. Il tema illuministico della felicità vienedeclinatoda Muratori alla luce del tema evangelico della carità e dell'amore del prossimo, che da un punto di vista politico viene letto come volontà del bene pubblico. Tutti dunque, non solo il principe, devono collaborare al «miglioramento del mondo». Altro centro importante nella elaborazione e produzione dei Lumi fu Milano, dove un gruppo di uomini dell'élite culturale si riunì nell'Accademia dei Pugni e diffuse le proprie idee attraverso la rivista «Il Caffè», fondata dai fratelli Alessandro e Pietro Verri e che uscì dal 1764 al 1766. Animatore e organizzatore della cultura milanese della seconda metà del secolo fu Pietro Verri (1728-1797), la cui opera aveva l'obiettivo politico di collaborare con il sovrano austriaco in una reale opera di riforme, durevole nel tempo echeportasse alla realizzazione del governo della legge contro la tradizione e i privilegi dei corpi intermedi. Pietro Ve rri fu funzionario alle Finanze nella Lombardia austriaca, e cercò di attuare i principi che aveva esposto nelle Meditazioni sull'economia politica (1770) e in altri saggi di economia. Influenzato da Montesquieu e dalla fisiocrazia, Verri vede alla base dell'unione fra gli individui un contratto sociale stipulato in nome dellalibertà. Ciò lo porta a sostenere uno stretto legame fra libertà politica e libertà economica: gli uomini sono guidati in ogni ambito della vita dalla ricerca dell'utile e del piacere. La riforma dell'amministrazione deve prevedere anche una riforma della giustizia: nelle Osservazioni sulla tortura (1770) Verri condanna l'intero sistema giuridico austriaco fondato sulla superstizione e l'odio teologico. I motivi centrali del pensiero degli uomini del «Caffè» - la difesa della dignità della persona umana,lacentralità della libertà economica e civile, il primato dell'opinione pubblica - che li avevano portati a impegnarsi direttamente nell'opera di riforma del sistema di governo asburgico, mostrarono già nel decennio 1770-1780 la distanza dal reale obiettivo del riformismo austriaco, teso invece, da parte sua. Solo a un'opera di centralizzazione del potere contro l'ordine cetuale e il particolarismo amministrativo. A ciò Pietro Verri reagì indirizzando il proprio pensiero verso la necessità di dare allo Stato un ordinamento costituzionale,basatosulla rappresentanza nazionale, in accordo con i principi della rivoluzione francese. Diverso è il caso di Cesare Beccaria (1738-1794), l'altra importante figura del l'illuminismo milanese. In Dei delitti e delle pene (1764), opera che ebbe una diffusione europea e che fu alla base della riforma del codice penale toscano (1786), Beccaria aveva affrontato la questione della riforma del diritto penale, affermandouna concezione della pena più rispettosa della dignità umana e proporzionata al reato commesso. Egli chiedeva anche l'abolizione incondizionata delle torture e della pena di morte, salvo che in casi eccezionali in cui il colpevole fosse una minaccia permanente all'esistenza stessa dello Stato. Al fondo della riforma di Beccaria (che prevede, ad esempio, la certezza e la chiarezza delle leggi, la separazione tra potere legislativoegiudiziario e tra giudice e pubblico esecutore, la pubblicità del processo, la presenza di giurati, delineando di fatto alcuni di quelli che saranno i fondamenti giuridici dello Stato di diritto) sta una visione utilitaristica e contrattualisti del corpo sociale, fondata su un principio di egualitarismo di tutti di fronte alla legge in polemica con i privilegi della nobiltà. Le leggi dello Stato riformato di Beccaria devono garantire la massima felicità possibile «divisa nel maggior numero» e il sovrano è inteso quale depositario e garante delle leggi stesse. L'i mpegno in prima persona nel Consiglio supremo di economia (1771) portò Beccaria a misurare quella che inve ce era la realtà del governo asburgico, provocando in lui un lento, ma progressivo distacco dal gruppo del «Caffè» e un adeguamento al modello di funzionario richiesto e prodotto dal processo di accentramento eburocratizzazione proprio della monarchia asburgica fra 1770 e 1790. Vico Contro la ragione cartesiana e il metodo delle idee chiare e distinte, Vico nella Scienza Nuova afferma una ragione che comprende sia l'azione dell'uomo, che è creatore della propria storia, sia la guida, che non viene mai meno, della Provvidenza divina. Vico rifiuta i motivi illuministici dell'affermazione astratta di principi e valori individualistici e l'idea di un progresso lineare nella storia umana: questa per lui è fatta di avvenimenti ed esseri concreti che vivono in comunità diventate sempre più ampie, ed è indagata sia con la «logica dell'intelletto» sia con «il fuoco dell'immaginazione». Le opere giovanili di Vico, fino al De Antiquissima, hanno come scopo quello di porre in grado il «sapiente» di agire politicamente in modo giusto, cioè di dare una fondazione sapienziale all'agire politico. La ricostruzione che Vico compie è una ricostruzione erudita e filologica dell'antica sapienza italica (l'eredità culturale classica Hume Secondo la teoria politica di David Hume alla base dell'ordine sociale e politico non vi è un contratto che,come afferma la tradizione del razionalismo moderno, viene stipulato da individui che sono negativamente -cioèin modo politicamente inefficace -liberi e razionali e dunque necessitati a darsi un ordine diverso da quello naturale e regole di condotta nuove che li rendano positivamente liberi e uguali, vale a dire che li trasformino in cittadini. Al contratto Hume oppone il concetto di evoluzione, quel processo naturale che determina attraverso il cammino storico le regole del giusto comportamento, le fondamenta dell'ordine legale ed economico della società: «proverò dall'universale consenso del genere umano che l'obbligo della sottomissione al governo non deriva da alcuna promessa dei sudditi» (Dell'origine del governo, p. 216). Per Hume non c'è una profonda discontinuità tra uomo presociale e uomo sociale, proprio perché l'uomodinatura non è visto - come in Hobbes - radicalmente egoista, ma caratterizzato da socievolezza (benevolence) nei confronti degli altri e 'simpatia' (sympathy, il criterio di immedesimazione con l'altro). Hume identifica l'uomo sociale con l'uomo di natura, e dunque ai suoi occhi la società è il reale 'stato di natura' dell'uomo, perché è nella società che vengono 'educati' gli istinti della natura umana. Tuttavia, eglirifiuta,oltre all'approccio antropologico pessimistico di Hobbes, anche quello ottimistico di Shaftesbury e Hutcheson, evi contrappone lo studio di quello che di fatto è il principio che guida l'azione umana: l'utilità sociale cheè«fonte di sentimento morale». La naturale socievolezza humeana è diversa da quella teorizzata dai moralisti Shaftesbury e Hutcheson, poiché non è intesa come sentimento di fratellanza universale, ma come necessità, per ciascun uomo, di rafforzare la propria identità passionale. La società non è un'istituzione coercitiva che deve azzerare le passioni umane ma, al contrario, è un utile strumento che permette a quelle passionidiessere soddisfatte in maniera più sicura. Fondamento della simpatia è quindi la considerazione dell'utilitàcheè legata a ogni azione umana. Ma Hume non è un utilitarista nel senso rigidamente costruttivistico, calcolatorio e istituzionalistico, di derivazione hobbesiana, come sarà Bentham; egli, anzi, valuta la natura umana nondaun postulato a priori - l'egoismo o il senso morale -, ma da un punto di vista empirico: alla schematica contrapposizione fra amor di sé e benevolenza che percorre il pensiero politico dell'illuminismoscozzeseHume oppone un'antropologia in cui l'utilità sia fondata sul criterio dell'esperienza. Ciò significa che per lui la funzione educativa della società sui propri membri Società politica determina inevitabilmente un aumento dei bisogni dell'uomo, rendendo pertanto necessaria, lungo il corso dell'evoluzione, la costituzione di un nuovo sistema organizzativo, la società politica o governo, per regolamentare una struttura sociale che il naturale progresso della natura umana rende semprepiùcomplessa; al progresso della società civile si accompagnano l'esistenza e il progresso della società politica.La socievolezza e la simpatia naturali risultano a questo punto dello sviluppo sociale troppo deboli per garantire spontaneamente un ordine pacifico; emerge perciò la necessità di un governo e di una teoria della giustizia che tutelino, in particolare, la proprietà. Per Hume il governo, la struttura politica, non ha quindi una funzione creativa rispetto alla società, non ne è l'origine e la causa efficiente, ma serve solo come 'aiuto' alla debolezza di carattere costitutiva della natura umana. L'ordine politico è il prodotto della capacità ragionevole di bilanciare le passioni, allo stesso modo dell'ordine fisico, che - come ha dimostrato Newton - è il risultato del bilanciamento di forze opposte. L'uomo di Hume entra dunque 'simpateticamente' nella società, che da civile diventa allora anche politica: il consorzio politico non nasce quindi dal contratto, da una netta cesura rispetto allo stato di natura, ma è un miglioramento di ciò che già c'è in natura: La sola difficoltà consiste perciò nel trovare l'espediente con cui gli uomini possano curare la naturale debolezza, e si sottopongano alla necessità di osservare le leggi della giustizia e dell'equità nonostante la loro violenta inclinazione a preferire quel che è vicino a quel che è lontano(Dell'origine del governo, pp. 63-64). Hume vede coesistere nel consorzio civile un insieme di virtù naturali istintive (che connotano l'uomo in quanto tale, come l'egoismo o la benevolenza) con un insieme di virtù civili (artificiali, ma non arbitrarie o convenzionali, in quanto prodotto della capacità inventivadellamente umana, come la giustizia prodotto della razionalità) che permettono all'uomo di vivere all'interno della comunità politica. Tale mistione di virtù costituisce il principio della sua teoria della giustizia, che èrazionalein quanto fondata sul motivo dell'utile e che, di fatto, si produce quando emerge la necessità, propria delle società complesse, di tutelare la proprietà. Hume afferma infatti che «l'uomo, nato in una famiglia, ècostretto a tenere in vita la società dalla necessità, dall'inclinazione naturale e dall'abitudine» (p. 214), che il governoha inizio in modo casuale e imperfetto - in evidente opposizione alla teoria del contratto -, che la società politica viene stabilita per l'amministrazione della giustizia e «ben presto l'abitudine consolida ci ò che gli altriprincipi della natura umana hanno fondato in modo imperfetto» (p. 216), rendendo così stabile la vita degli uomini organizzata secondo l'obbedienza alle leggi stabilite dall'autorità politica. Nel terzo volume del Treatise of human nature - dedicato alla filosofia morale -nei successivi Essays politici e morali e, infine, nella Enquiry concerning the princi-ples ofmoral, Hume affronta poi il problema dellastabilità della società politica e, in particolare, il rapporto tra autorità e libertà. Hume modifica qui quello che è unodei problemi centrali del paradigma politico moderno, vale a dire la necessità del potere sovrano quale garante dell'ordine e della pace sociale. Benché non tratti mai esplicitamente del concetto di sovranità, poiché la sua attenzione è rivolta per lo più al funzionamento dell'ordine sociale, anche Hume deve riconoscere la necessità di una forma di coazione al fine di salvaguardare la convivenza civile, ma affermando al tempo stesso anche l'imprescindibile dovere di salvaguardare la libertà del singolo, in accordo con i principi che sostengono lasua teoria epistemologica e morale e che affermano l'identità passionale dell'individuo al centro di tutta la costruzione sociale. La nuova considerazione humeana del rapporto natura umana-ragione-senti-mento,intesi non più come reciprocamente escludentisi, ma di reciproca compenetrazione, sarà ripresa da Adam Smithche la elaborerà operando un originale intreccio tra riflessione morale, storico-giuridica ed economica. Smith Nella sua Teoria dei sentimenti morali Adam Smith riprende, modificandolo, il concetto humeanodi'simpatia', che in lui è il porsi del soggetto nella situazione dell'altro per esprimere giudizi di approvazione o disapprovazione sul suo comportamento sociale, indipendentemente da ogni giudizio morale. Al concettodi simpatia Smith affianca, al fine di spiegare da un punto di vista epistemologico la natura umana, quello di 'proprietà' o 'appropriatezza' (propriety), che definisce il rapporto di adeguatezza o inadeguatezza tra l'affezione provata da un soggetto e l'oggetto che la causa. Tale rapporto è prodotto dal costume sociale. L'analisi epistemologica di questi concetti si lega strettamente all'indagine compiuta in campo etico. Smith riconosce la società come necessaria manifestazione della specificità umana e, quindi, la naturalità della società. Alla connotazione di proprietà si affianca perciò nella descrizione dell'uomo un'altra qualità, la prudenza (prudence), la virtù morale media che sta a fondamento dell'organizzazione sociale: questa guidala condotta del prudent man, l'«io medio sociale». La compenetrazione tra passioni egoistiche e passioni sociali, di propriety e prudence, di virtù e interesse,èil tema centrale di Smith, come si vede anche nelle Lezioni di Glasgow dove Smith, analizzando la giustizia (ma egli non scriverà mai quella Teoria della giustizia che qui annuncia), evidenzia lo stretto rapportocheintercorre tra passioni egoistiche e passioni sociali regolatrici del comportamento del prudent man. Nel pensierodiSmith questo rapporto è trattato come rapporto tra sfera economica e sfera politica, tra modi e di sussistenza e tipi di ordinamento politico con l'elaborazione di una teoria stadiale, che pensa lo sviluppo umano come una successione di tappe. Nelle Lezioni di Glasgow Smith osserva i rapporti giuridici, politici, economici, che nell'ambito della società civile si danno tra i cittadini di uno Stato, con un approccio storico-empirico che lega strettamente il carattere economico della jurisprudence con la storicità delle forme giuridiche e politiche. Troviamo in queste pagine le prime analisi sulle dinamiche economiche e sociali che hanno portato alla formazione della società civile e sulla necessità che vi siano istituti , tra cui la figura del sovrano legislatore,atti a regolare con gli strumenti della giurisprudenza la convivenza all'interno del sistema politico.È evidentequindi la critica radicale che Smith porta già dalle Lezioni di Glasgow al modello del normativismo giusnaturalisticoe alle pretese di costruttivismo razionalistico in ambito politico-sociale. Il dualismo fra passioni egoistiche e passioni sociali ritorna centrale anche nella Ricchezza delle nazioni attraverso l'immagine metaforica della «mano invisibile» (una sorta di razionalità provvidenziale che si preoccupa di coniugare l'interesse del singolo con l'interesse collettivo). Il rapporto fra virtù e interesse, che determina la relazione sia fra singoli individui sia fra individui e società, costituisce il cuore teorico di tutti i cinque libri della Ricchezza delle nazioni, un'opera di economia politica che si prefigge di indagare -comerecita il sottotitolo - la natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Se è indubbio che la Ricchezza delle nazioni è una ricostruzione storico-giuridica delle forme sociali e politiche, proprio l'analisi del rapporto tra ricchezzae potere che costituisce il tema dell'opera, con la particolare attenzione per i temi della divisione del lavoro incrementata dall'accumulazione del capitale, del valore come valore di scambio nel suo rapporto conillavoro inteso quale «misura reale del valore di scambio di tutte le merci», la questione dei prezzi e delladistribuzione, la questione del commercio, il tema del reddito e del debito pubblico - sempre pensati quali momentispecifici dello studio della società e dei comportamenti della natura umana -, fa emergere una riflessione che è anche politica. In quest'opera diventa più problematico il rapporto che Smith aveva delineato nella Teoria dei sentimenti morali tra virtù e interesse, ed è per questo che Smith deve introdurre la figura politica del legislator, il sovrano, che ha un compito di mediazione politica e normativa fra i diversi interessi in campo. In definitiva, la scelta di Smith di indagare il funzionamento dell'ordine politico attraverso la produzione di ricchezza mostra che il paradigma hobbesiano della sovranità è ormai in crisi ed in ulteriore elaborazione:alla fine del Settecento, in Scozia come in Francia, diventa evidente che la sfera politica non può porsi come totalmente autonoma rispetto a quella economica e a quella etica. Nell'opera di Adam Smith non ritroviamo quindi una teoria normativa della politica, la costruzione di un'ideale forma di Stato (come del restoSmithnon riuscì a scrivere una teoria normativa della giustizia), ma un'indagine storica delle modalità complesse in cuisi danno i rapporti fra singoli individui e fra individui e società all'interno dello Stato. Emblematica della contraddizione che può intercorrere tra interesse economico del singolo einteressepolitico generale è la figura del sovrano (che Smith chiama statesman o legislator) i cui compiti, «secondo il sistema della perfetta libertà», sono essenzialmente tre: proteggere la società dalla violenza che puòproveniredaaltre società, proteggere ogni membro della società dall'ingiustizia e dall'oppressione, erigere e conservare certe opere pubbliche e certe istituzioni pubbliche (libro IV). Ciò che non spetta al sovrano è, invece, sovrintendere all'attività produttiva dei privati e indirizzarla in modo da essere funzionale all'interesse della società, perché il commercio è attività «libera e virtuosa», che si esplica proprio in quanto garantita dall'agire del legislator.La presenza del sovrano permette la possibilità di esercizio di un sistema politico e economico, quellofondatosul lavoro e sul libero scambio commerciale, che darà origine al sistema capitalistico borghese, guidatodall'azione della mano invisibile. Ciò che, in definitiva, la presenza del sovrano sancisce è il riconoscimento del primato che la questione economica viene ad assumere per la scienza politica. Smith comprende la contraddizioneche sta fra interesse privato e interesse pubblico e prova a risolverla attraverso la figura del sovrano legislatore: ciò che tuttavia Smith non descrive è da dove il sovrano tragga e in che modo esplichi la propria capacità normativa. Più volte annunciata, Smith non scrisse mai la sua teoria della giustizia: una lacuna che diventa rivelatrice della difficoltà concettuale che investe la teoria politica nel Settecento. Se, infatti, alla base della società sta il prudent man, che di fatto è il cittadino, la cui condotta non è guidata dalla volontà resa razionale - come per il cittadino di Hobbes -ma da un intreccio irresolubile di passioni egoistiche e sociali, di sympathy, propriety e prudence, di virtù e interesse, allora con la figura del legislator Smith mostra, anticipando le più compiute teorizzazioni ottocentesche della società civile, l'utopia della perfetta razionalità della politica moderna, che da Smith in poi non potrà più essere pensata come autonoma dalla sfera dell'economia politica e da quella etico-morale. Ferguson Molti dei temi presenti nella speculazione di Adam Smith si ritrovano nell'opera di Adam Ferguson, in particolare l'attenzione per lo sviluppo della società e per il passaggio attraverso i diversi stadi di civilizzazione che ogni società compie. Nel Saggio sulla storia della società civile Ferguson individua quattro stadi attraverso i quali tutte le società evolvono e che vengono definiti in base alla struttura economica che in essi prevale, e cioè la caccia, la pastorizia, l'agricoltura e il commercio. L'attenzione di Ferguson è rivolta in particolare allo studio dello stadio commerciale della civiltà, quello a lui contemporaneo, che osserva dal punto di vista delle dinamiche del lavoro e di divisione della società che il commercio produce. Ciò che caratterizza le moderne società civili e commerciali è un'ampia divisione sociale del lavoro che si riproduce sia a livello dello Stato (di cui sono manifestazione la costituzione dell'esercito permanente e la costruzione di un ampio apparato di funzionari statali) sia a livello della società, caratterizzata dalla diffusione di attività sempre più parcellizzatee specializzate, e dalla spersonalizzazione e de-moralizzazione del lavoro. Questa attenta analisi storica serve a Ferguson quale base concreta su cui fondare la propria teoria politica, che emerge dalle pagine stesse del Saggio sulla storia della società civile e che risente fortementedell'influenza del repubblicanesimo anglosassone. Riproducendo lo schema storico già presente in Machiavelli, e ripresoda tutta la tradizione repubblicana fino a Montesquieu, secondo il quale tutte le grandi civiltà - come dimostra l'esempio della repubblica di Roma - sono sottoposte a un processo di ascesa, grandezza e decadenza,Ferguson un'assemblea di delegati degli Stati con il compito di rafforzare il potere centrale della Confederazione, destituendo di fatto il vecchio Congresso continentale. Si trattava di superare la forma della confederazione - in cui gli Stati si uniscono, ma esplicitamente conservano ancora la propria sovranità - e di ratificare unanuova costituzione degli Stati Uniti nella forma della federazione. A Filadelfia si svolse una lunga battaglia per la ratifica della costituzione, riconosciuta in un primo momento solo da quattro grandi Stati, Massachusetts, Virginia, Pennsylvania e New York, e poi, nel settembre del 1787, ratificata da tutti gli Stati. Nell'ampio dibattito che si svolse in questa occasione il pensiero americano sul governo mostra di prescindere dal concetto europeo-continentale di sovranità, intesa quale potere indivisibile e legibus solutus. La forma politica che emerse da questo lungo dibattito fu una forma assolutamente nuova, quella della repubblica federale. Con la federazione saltava la logica della sovranità: all'interno del medesimo sistema politico,gliStati Uniti d'America, venivano a coesistere assemblee legislative indipendenti, quella federale(acuieranodelegate la politica estera e alcune grandi questioni di interesse comune fra gli Stati) e quelle statali, non sovrane ma fornite di competenze per lo più fiscali e amministrative, il tutto controllato e fondato dalla supremazia riconosciuta della costituzione che garantiva l'unità del pluralismo. In questa battaglia spicca la figura di Alexander Hamilton (1755-1804), ex aiutante di campo di George Washington, il primo che firmò la Costituzione degli Stati Uniti e che si impegnò a lungo nella lotta per la ratifica. Il dibattito fu portato avanti per lo più sui quotidiani, e Hamilton scatenò una vera e propria campagna giornalistica per convincere l'opinione pubblica, che era inizialmente ostile al riconoscimento di una costituzione valida per tutti gli Stati. Documento principale di tale dibattito, ma anche scritto di teoria politico-costituzionale, è il Federalist che raccoglie gli 85 articoli pubblicati dal 1787 al 1788 prima sull'«Indipendent Journal» e poi anche sul «New Yorker Packet», il «Daily Advertiser» e il «New York Journal», usciti a firma Publius (in omaggio alla figura del console Valerio Publicola, che aveva contribuito alla cacciata da Roma dei Tar-quini e all'instaurazione della repubblica), e poi raccolti in due volumi. Di fatto gli articoli furono scritti oltre che da Hamilton, che aveva anche redatto il piano dell'opera, da John Jay (1745-1829) e James Madison (1751-1836, considerato la memoria vivente dell'assemblea di Filadelfia e, in seguito, due volte presidente degli Stati Uniti nel 1809enel 1813). Si è concordi nel sostenere che la maggior parte degli articoli furono scritti da Hamilton; di Jay sono gli articoli sulla politica internazionale in cui emerge il concetto di nazione, mentre Madison redasse gli articoli 10, 14, dal 37 al 48 e con Hamilton gli articoli 18, 19, 20. Gli articoli di Hamilton sottolineano fortemente l'esigenza di un potere federale forte e in grado di agire, mentre la mano di Madison, il vero architetto della costituzione, si ritrova là dove si pone l'accento sulla necessità di limitare il potere, anche quello federale, e sull'esigenza di stabilire strumenti di controllo e bilanciamento su di esso. L'opera si divide in due parti:iprimi 36 articoli attaccano la confederazione, i successivi difendono la costituzione federale. Il ragionamento da cui partono gli articoli del Federalist e sempre fondato sul buon senso (il senso comunegià presente nella Dichiarazione); la federazione deve essere scelta perché viene ritenuta la forma politicameglio in grado di garantire la pace, ma anche l'unica barriera possibile contro le fazioni interne, in quanto permette il duplice processo di accentramento degli interessi di carattere generale e il decentramento degli interessidi carattere locale (Federalist n. 10). La Costituzione degli Stati Uniti si afferma come una costituzione decisamente democratica, frutto del potere costituente esercitato dal popolo americano, alla cui base sta sempre il riconoscimento della sovranità popolare: «l'edificio della nazione americana dovrà poggiare sulla solida base del consenso del popolo. Il potere nazionale dovrà scaturire direttamente da quella fonte pura e originaria di ogni autorità legittima» (n. 22). Del sistema inglese il Federalist riprende la tradizionedelgoverno limitato, cioè dell'istituzione di un governo in cui i poteri sono tutti intrinsecamente limitati daquellaoriginaria sovranità popolare, che non si costituisce mai interamente nel governo (n. 48). Centrale nella discussionedel Federalist è la distinzione tra regime democratico e regime repubblicano operata da Madison: la repubblica, un regime politico democratico in cui opera il sistema di rappresentanza, offre migliori garanzie di controllo delle fazioni rispetto a un regime classicamente democratico, cioè a partecipazione diretta dei cittadini al governo, ed è in grado di estendere la sua influenza su un numero maggiore di cittadini e su una maggiore estensione territoriale (nn. 10 e 14). Ciò che contraddistingue la virtù del popolo americano è la lotta controla tirannia del monarca inglese, iniziata con la ribellione nel 1765 allo Stamp Act, proseguita con la rivoluzione del 1776 e sancita dalla Costituzione degli Stati Uniti. Questo motivo determina la scelta di convocareleelezioni a brevi periodi di distanza, al fine di esercitare uno stretto controllo del popolo sui suoi rappresentanti (n. 50) e la scelta di delegare pochi poteri all'esecutivo centrale. Mentre secondo le logiche della politica europea il particolare è qualcosa di negativo che trova salvezza solo nell'universale unitario (lo Stato, la sovranità, il popolo), nelle logiche federali il particolare è invece lalibertà attiva dei singoli e dei gruppi – intesa come la capacità di fare quello che si vuole in base alle proprie passioni -; quindi è qualcosa di positivo, che deve non tanto essere 'superato' in un universale, ma deve semmaiessere 'bilanciato' con le libertà degli altri nel quadro, appunto, di una costituzione federale. Infatti se il benepolitico fondamentale è la libertà, come essa è stata difesa dalla tirannia così va difesa anche dall'anarchia dellefazioni, ma non dalle fazioni in quanto tali. L'elemento delle fazioni, sempre presente negli articoli di Publius, è anziil fulcro del sistema e non viene considerato un pericolo come in Europa. La presenza di interessi diversi - di diversi 'umori': si tratta infatti di un tema tipico del repubblicanesimo di origine machiavelliana - viene considerata strumento di libertà e di buon ordine politico, e dà luogo a un sistema fondato sul pluralismo e non sul monismo (sull'assolutezza unitaria) del potere. Dal Federalist emerge dunque una costituzione repubblicana, democratica per quanto riguarda il principio fondante, ma non rigorosamente unitaria e anzi bilanciati nell'articolazione dei poteri previsti dalla costituzione-, in questo senso sono pensatilbicameralismo, il potere di veto del presidente nei confronti del congresso, il consenso del Senato per l'eserciziodideterminati poteri presidenziali, come per esempio la politica estera che è decisa dal presidente, mentre la dichiarazione di guerra compete al Senato. E questo bilanciamento federale e costituzionale, contrapposto al monismo della politica europea,èanchealla base di uno degli elementi che contraddistingue la Costituzione degli Stati Uniti dalle successive costituzioni europee: il forte accento posto sul rischio dell'onnipotenza del legislativo, la necessità di garantireungoverno degli uomini e non della legge. Alla divisione 'verticale' tra potere federale e poteri degli Stati se ne affianca una 'orizzontale', sia con la ripresa della teoria mon-tesquieuiana della separazione dei poteri sia con un reciproco bilanciamento fra questi. Esempio di ciò è la strutturazione del legislativo in due distinteassemblee, con caratteristiche e procedure di elezione diverse: la Camera dei Rappresentanti, che rappresenta il popolo, e il Senato, che rappresenta gli Stati dell'Unione. In questo contesto emerge il ruolo del potere giudiziario, a cui viene delegato il potere di interpretare le leggi e di dichiarare nulli gli atti del legislativo, che daràorigineal sistema del controllo di costituzionalità: «alla legge ordinaria si dovrà preferire la costituzione, ai voleri dei delegati del popolo quelli del popolo stesso» (n. 78). Il controllo di costituzionalità contrasta la tentazione da parte del potere legislativo di rappresentare l'intero spazio della costituzione, sostituendosi al potere costituente del popolo da cui invece deriva. Per quanto detentore del potere più alto, quello di fare le leggi,il legislativo nella costituzione degli Stati Uniti rimane un potere derivato e come tale sottoposto a controllo costante e diffuso. La Costituzione degli Stati Uniti venne in seguito emendata con successivi 21 articoli. I primidieciemendamenti costituiscono il Bill of Rights e furono approvati con un procedimento di revisione costituzionale nel 1791:essi inseriscono, di fatto, nel testo della costituzione la dichiarazione dei diritti dell'individuo (in particolare il I emendamento che afferma le garanzie di libertà di parola, di stampa e di religione), che, a differenzadiquanto avvenne in Europa, non erano stati posti in apertura del testo costituzionale, perché, come scrive Publius nell'articolo 84, «la costituzione stessa costituisce sotto ogni punto di vista razionale, e a tutti gli effetti, una dichiarazione dei diritti»; i diritti, insomma, sono a tal punto dati per presupposti, che in un primo momentoè sembrato superfluo proclamarli, e più utile, invece, organizzare a partire da essi l'intera architettura della costituzione. Paine Quasi contemporaneamente ai dieci emendamenti del Bill of Rights veniva pubblicato The Rights of Man di Thomas Paine, risposta alle Reflections on the Revolution in France pubblicate da Burke nel 1790. Paine, trasferitosi in Francia, era già molto famoso nelle ex colonie americane per aver pubblicato, pochi mesi prima della Dichiarazione di indipendenza, The Common Sense, indirizzato «agli abitanti dell'America del Nord», opera nella quale sulla base del principio del senso comune l'autore discuteva dei rapporti fra madrepatria e colonie, denunciando la tirannide della monarchia inglese e l'oppressione a cui erano sottoposte le colonie. Paine nelle sue pagine poneva la distinzione fra società e governo: la società è frutto dei bisognidell'individuo, il governo nasce dalla perversità umana. Secondo Paine, il governo è un «male necessario» anche quando perfetto; se poi il governo è imperfetto e complicato allora è un «male intollerabile». Da ciò Paine deriva l'esigenza per le colonie di rendersi indipendenti dalla costituzione inglese, eccessivamente complicata,edal governo della monarchia. Il governo migliore è certamente quello repubblicano e la missionedellecolonie,che emerge dalle pagine di Common Sense, è quella di mostrare al mondo la possibilità di una nuova via segnata dalla libertà e dalla salvaguardia dei diritti umani. Il primato della costituzione fondata democraticamente del Federalist diventa in Paine l'immediata affermazione della sovranità del popolo che costantemente sottopone a revisione la costituzione che esso stesso si è dato. Il concetto attorno al quale ruota il discorso di Paine è quello della rappresentanza, ma non quella inglese, centrata sui notabili e sulla sovranità del Parlamento, sì invece quella democratica, vicina a quella giacobina, che esprime direttamente la vera volontà di tutta la nazione. In The Age of Reason,daultimo, Paine rivendicò con accenti deistici la necessità della libertà religiosa. Ragione e rivoluzione In questo capitolo si analizzeranno alcune delle forme più radicali che ha assunto sul finire del Settecentol'idea che la politica debba conformarsi alla ragione. E si vedrà come questo radicalismo produca una critica della società e della civiltà che, data la crisi dell'Antico regime, sfocia nella rivoluzione. Rousseau Il motivo fondamentale del pensiero politico di Rousseau è costituito dalla discontinuità tra storia e società giusta. Infatti, la bontà naturale dell'uomo, ripetutamente affermata da Rousseau, è appunto ciò che nello stato di natura dissocia gli uomini e li rende autosufficienti o li spinge, al massimo, a vivere in piccoli gruppi. L'uomo non è naturalmente sociale, e un «immenso intervallo» divide lo stato di natura dallo Stato civile. Tuttavia l'ingresso in società è inevitabile ed è dovuto a una caratteristica innata dell'uomo, la sua «perfettibilità», in cui Rousseau pone la differenza autentica tra uomo e animale. È infatti questa capacità 'naturale', che è all'origine della «depravazione sociale», a promuovere l'uscita dallo stato di natura.Sitratterà quindi di distinguere fra una 'cattiva' uscita dallo stato di natura, che è la storia dell'umanità e della civiltà così come si è svolta di fatto, e una 'buona' uscita, cioè una drastica correzione della storia, una radicale inversione di rotta, da realizzare col contratto; è appunto questa la proposta politica di Rousseau, la cui profondità speculativa, insieme alla capacità di criticare la stessa ragione 'civilizzata' dell'illuminismo, lo distacca dal riformismo dei pensatori illuministi suoi contemporanei. Già con il Discorso sulle scienze e sulle arti (1750), scritto per partecipare al concorso bandito dall'Accademia di Digione che poneva il quesito se le scienze e le arti avessero contribuito a migliorare i costumi, Rousseau valuta il progresso come negativo per il miglioramento della vita morale e per la libertà degli uomini. Responsabili dei mali sociali sono proprio quelle lettere, arti e scienze che per gli Enciclopedisti erano invece altrettante cause di progresso. Il primo Discorso istituisce un confronto tra il mondo civilizzato e quello delle città-stato greche o della Roma repubblicana, che conferisce agli antichi il primato della virtù e dellasemplicità dei costumi e proietta sui moderni la condanna del lusso e della politesse, addebitando alla moderna culture des lettres la causa della decadenza delle virtù guerriere e patriottiche, del parassitismo, della mediocrità. Sebbene ancora nel quadro di una antitesi più retorica che politica tra «virtù» e «vizio», nel primo Discorso inizia tuttavia a profilarsi un'antitesi ben più profonda, quella fra natura e civiltà, con la denuncia conseguente dei guasti prodotti dalla cultura e dal progresso. Il giudizio pessimistico sul cammino del genere umano si accentua nel secondo Discorso, in cui però il fenomeno della disuguaglianza, appena accennato nel primo, si configura, piuttosto che come la causa della degenerazione umana, come fenomeno concomitante di un processo ben più complesso che vede nella ricchezza e non nella cultura l'elemento che genera la corruzione. Quando, con un secondo bando,l'Accademia di Digione propone, nel 1753, un nuovo quesito («Qual è l'origine della disuguaglianza tra gli uomini, e seessa sia autorizzata dalla legge naturale»), nella sua risposta Rousseau ricostruisce la storia dell'umanità a partire da un ipotetico «stato di natura», che però, a differenza della letteratura politica giusnaturalista, non viene concepito come la base naturale da cui sorge lo Stato. Per i giusnaturalisti lo stato di natura è sostanzialmente una condizione di indipendenza in cui gli uomini si trovano prima dell'istituzione del governocivile,cioèquando La seconda caratteristica significa che la sovranità non è per Rousseau rappresentabile e istituzionalizzabile, che è davvero un Tutto omogeneo e onnipotente, capace di esercitare la propria potenza in ogni direzione, senza mai cristallizzarsi, alienarsi e rappresentarsi in un'istituzione sovrana. La sicurezza comune non deve implicare la sottomissione al sovrano: la politica non può consistere nel pagare la sicurezza con la libertà. Rousseau, a differenza dei teorici del diritto naturale, non considera «la generalizzazione della volontà»come un atto unico e irripetibile, trasferito una volta per tutte nei patti o incorporato nel dirit to positivo, ma come un presupposto costantemente rinnovato dell'esistenza dello Stato. Si tratta quindi di creare le condizioniche permettano agli uomini di unirsi in un corpo politico senza per questo dover rinunciare ai propri diritti inalienabili di libertà, cioè di uguaglianza e di indipendenza reciproca. Bisogna insomma trovare una formadi associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima. Si noti che in Rousseau l'uguaglianza non è un mero dato di fatto, che ci si limita a constatare - come accadeva in Hobbes -, ma un valore, da ripristinare se va perduto. Condizione essenziale del patto è l'alienazione totale di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, alla comunità. Ogni contraente cessa di essere persona privata e assume la nuova qualità di membro indivisibile del Tutto, ritrovando se stesso nella comunità dei suoi pari. Nasce in questo modo un corpo morale e collettivo che possiede una sua vita, una sua volontà e un suo «io» comuni. Ciò che i singoli individui cedono nel patto è l'insieme dei loro diritti individuali presocialialloscopodi tutelare la loro sicurezza (poiché il patto protegge la persona e i beni di ciascuno), la loro libertà (perché obbedendo all'io comune ognuno obbedisce in realtà a quel se stesso che ha deciso di essere) e la loro uguaglianza (perché nel patto i cittadini si obbligano tutti sotto le stesse condizioni e devono goderetuttidegli stessi diritti). La persona pubblica che si forma attraverso l'unione di tutte le altre si chiama repubblicao corpo politico. Quest'ultimo è definito Stato dai suoi membri quando è passivo, corpo sovrano quando è attivo, potenza in relazione agli altri corpi politici. Questa completa rinuncia ai diritti naturali ha favorito una interpretazione di Rousseau come pensatore totalitario, anche perché «chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale sarà costretto dall'interocorpo ad essere libero». Si tratta tuttavia di una prospettiva che non coglie appieno il rapporto stabilito da Rousseau tra libertà e obbligo politico. Anzitutto obbedire alla volontà generale non significa nient'altro che obbedirea se stessi in quanto membri del corpo politico: non c'è insomma, in Rousseau, l'elemento terroristico, nichilistico e ideologico tipico del totalitarismo. Inoltre l'«alienazione totale di ciascun associato contuttiisuoi diritti all'intera comunità» non implica la soppressione dei diritti naturali dell'individuo, ma la loro trasformazione in diritti civili. Con il contratto sociale la libertà naturale viene ceduta in cambio della libertà civile. Dopo il patto l'individuo si ritrova libero come lo era nello stato di natura; si è solo eliminatalapossibilità che un consociato cada vittima del dominio di un altro, poiché l'associazione civile ha precisamente lo scopo di mettere gli uomini al riparo da ogni forma di dipendenza personale. Mentre però nello stato di natura la garanzia della libertà è costituita dall'assenza di relazioni interumane, in ambito sociale essa dipende dalla forza dello Stato e dalla subordinazione delle volontà particolari alla volontà generale, ossia da quellaautorità assoluta del sovrano che, non facendo alcuna differenza tra i cittadini, li mantiene in quella condizione di rigorosa uguaglianza che per ognuno rappresenta un presupposto di libertà. La volontà generale non si configura pertanto, dal punto di vista di ogni singolo cittadino, come una volontà estranea, ma come un'espressione cogente della sua stessa volontà. Una volontà finalmente riconciliata con se stessa; nel corpo politico ciascun uomo ha rinunciato alla propria alienazione, alla propria particolarità, all'egoismo e all'amor proprio, all'ipocrisia e all'ambizione. Grazie alla politica, è rinato a se stesso, è divenuto integro. La politica, quindi, in Rousseau non è più strumentale, ma è portatrice di valori morali. Certo, viene meno, in Rousseau, il 'faccia a faccia' tra cittadino e Stato nel quale la modernità liberale fa coinciderelalibertà: verso il potere non c'è diffidenza, da parte di Rousseau, né richiesta di limitazione; in sostanza, il suo contratto sociale è un patto del popolo con se stesso. Come sudditi gli uomini obbediscono a se stessi come autorità sovrana, il che li affranca da ogni rapporto di dipendenza personale; come parti del corpo sovrano ritrovano l'equivalente di quella libertà naturale cui avevano rinunciato aderendo all'associazione. SecondoRousseau,la libertà è l'ubbidienza alla legge che si prescrive a se stessi. La volontà generale è ben diversa dalla volontà di tutti: quest'ultima è solo la somma degli interessiindividuali (II, cap. III), e non ha un'autonoma esistenza politica. Tuttavia, il consenso unanime è richiesto unicamente al momento della stipulazione del patto sociale, mentre in tutte le altre circostanze è valida la regola della maggioranza, purché in questa siano presenti le caratteristiche della volontà generale. Per sua natura la volontà generale coincide con l'interesse comune; è sempre retta, in quanto «il popolo vuole sempreilbene», e si dirige verso «la conservazione e il benessere del tutto» con la stessa sicurezza con cui la volontà privata corre verso la sua felicità e conservazione; è infallibile, poiché se anche può accadere che il popolo si inganni e che il presunto bene non sia effettivamente tale, non è la volontà a essere corrotta, ma il giudizio; è giusta, in quanto tende sempre all'uguaglianza, mentre la volontà particolare tende ad affermare preferenze e privilegi; è infine indistruttibile, anche quando è oscurata dal prevalere delle volontà particolari. L'esercizio della volontà generale, cui spetta la funzione di emanare le leggi, riposa sulla sovranità del popolo, che va intesa come una realtà assoluta, in quanto non è limitata da alcuna legge o costituzione avendo già in sestessa il perseguimento del pubblico bene come limite fondamentale, e indivisibile, poiché la sovranità non può essere divisa in parti diverse (il che implica il rifiuto della teoria della divisione dei poteri). Inoltre, essa è inalienabile, in quanto Rousseau ritiene inammissibile l'impegno di un popolo che acconsenta, anche volontariamente, ad alienare la sua sovranità. Rinunciare alla sovranità significa sacrificare la libertà e quindi la propria stessa dignità di uomini. Ma anche quando si verifica la degenerazione dei valori morali, quando prevalgono le passioni particolari, la volontà generale non scompare; rimane piuttosto allo stato latente, «costante, inalterabile e pura». La deviazione dalla recta ratio della coscienza e dell'interesse comune che si verifica può offuscare nei cittadini la visione dell'interesse generale, ma non può cancellarlo, in quantoessoè sempre coessenziale all'esistenza politica. Per Rousseau, qualunque sia la forma di governo, la costituzione dello Stato deve essere democratica e repubblicana: la sovranità appartiene alla totalità dei cittadini considerati come un solo corpo, un «ente collettivo» o una persona morale. Il patto fonda una volontà comune sempre presente, non un'istituzione sovrana e rappresentativa. Rousseau rifiuta sia la teoria di Hobbes sulla «persona rappresentativa»dello Stato, sia il principio di Locke della delega o della rappresentanza: il popolo non può alienare o trasmetterel'esercizio della sovranità in quanto essa è sostanzialmente volontà, e «la volontà non si rappresenta». Quandounpopolo elegge dei rappresentanti e affida loro il mandato di esercitare la potestà legislativa, abdica alla propria sovranità, in quanto la volontà del Parlamento è destinata in questo modo a diventare la volontà sovranadello Stato. Se commisurata alla totalità della nazione, la volontà del Parlamento si configura come una volontà particolare, espressione di una parte soltanto del corpo sociale. I deputati eletti dal popolo sono invece per Rousseau solo «commissari», non rappresentanti (III, cap. XV, p. 163); a loro compete la preparazione e la proposta delle leggi, ma al popolo spetta il diritto in ultima istanza di ratificarle o di respingerle. Se i deputati esercitano direttamente l'attività legislativa, al popolo non rimane che una sbiadita parvenza di libertà; rinunciando alla sovranità, un popolo cessa di essere tale, e ridiviene una molteplicità incoerente di individui incapaci di governarsi da soli. La irrappresentabilità della volontà generale vale non solo per l'attivitàlegislativa ordinaria, ma anche per l'atto straordinario attraverso cui un popolo si dà una sostituzione, una forma politica permanente. A quest'ultimo scopo, infatti, Rousseau introduce la figura demiurgica del «legislatore»;èquesti, infatti, che, dall'esterno e in virtù della propria superiore saggezza, propone al popolo la costituzione formale senza coinvolgere la sovranità del popolo, che per darsi forma politica non ha così bisogno di rappresentarsiin un'istituzione sovrana come un'assemblea costituente. Come il precettore dell'Emilio, il legislatorehaunruolo indiretto e pedagogico, in quanto si limita ad agevolare e a canalizzare l'espressione della volontà generale, che resta però sempre sovrana in ultima istanza, libera di accettare, o meno, le proposte costituzionali del legislatore. Per questa concezione della sovranità popolare Rousseau è stato generalmente considerato come il teorico della democrazia moderna, anche se nel Contratto sociale egli preferisce parlare di repubblica come formadi Stato fondata sulla legge, ossia sull'atto stesso della volontà generale, che è garanzia di giustizia, libertà e uguaglianza. Quello di Rousseau è un contratto che dà vita a un potere democratico in cui non c'è l'alienazione fra uomo e cittadino, tra privato e pubblico. Ciò significa sia che non ci sono istituzioni in cui la sovranità si rappresenti e si alieni - ovvero, che la volontà generale è una totalità sempre presente e mai rappresentata - sia che l'uomo, entrando nel Tutto politico, ritrova se stesso tutto intero. È, quella di Rousseau, se non una democrazia totalitaria (per quanto si è detto sopra) certo una democrazia totale, che si fa carico di tutti gli uomini e di tutto l'uomo, della sua integrità. Il che significa che la politica di Rousseau è molto più esigente di una politica liberale e che aspetti del giusnaturalismo, i quali coesistono con l'impianto contrattuale democratico del suo pensiero, convivono con aspetti della tradizione repubblicana: è la tradizione repubblicana a prevedere un cittadino che sia membro attivo di una 'città' in cui la politica non è rappresentativa, ma partecipazione virtuosa alla vita pubblica. Rousseau non pensa la libertà politica come sicurezza della privata indipendenza, bensì come «cittadinanza», vale a dire come partecipazione collettivaal potere e al corpo politico. Di fatto, la corretta espressione della volontà generale si verifica pienamente solo nel contesto di una comunità «virtuosa». Di per sé tutto ciò non implica una teorizzazione della democrazia diretta: Rousseau infatti non sta parlando di governo e di strutture istituzionali, ma di forma dello Stato:ilfatto che la sovranità sia unica e venga assimilata al potere legislativo non implica insomma l'identificazione tra legislativo ed esecutivo. Rousseau pone una netta differenza fra sovranità, cui spetta l'emanazionedelleleggi, e governo, cui compete la loro esecuzione. Il governo è soltanto un ministro del popolo sovrano e non deriva da un patto, ma dalla legge: è un semplice «corpo intermedio istituito tra i sudditi e il sovrano per la loro reciproca corri spondenza, incaricato dell'esecuzione delle leggi e della conservazione della libertà, tanto civile come politica» (II, cap. I, p. 130). Ferma restando la natura democratica dello Stato fondato sul patto, il governo come concreto esercizio del potere può essere affidato dal popolo a persone o istanze diverse, senza che ciò comporti alcuna delega della sovranità popolare; infatti, le funzioni esecutive o di governo non devono essere necessariamente gestitedal popolo. Rousseau ritiene possibili tre forme di governo. Quando il corpo sovrano rende depositario del governo tutto il popolo o la sua maggioranza si ha la democrazia, che viene intesa da Rousseau come la forma di autogoverno popolare in cui legislativo ed esecutivo tendono a coincidere. E tuttavia «a prendere il termine nel suo rigore, non è mai esistita una vera democrazia, né mai esisterà. Non si può immaginare che il popolo resti riunito in assemblea permanente per provvedere ai pubblici affari». Il governo democratico sarebbe infatti concretamente possibile unicamente a condizioni molto particolari: Stato di dimensioni limitate, comunitàdi uomini virtuosi, sostanziale uguaglianza economica. La storia mostra però come queste condizioni non si presentino simultaneamente, e come i governi democratici siano stati invariabilmente travolti da guerrecivili e discordie intestine. La conclusione è apparentemente paradossale: «se ci fosse un popolo di dei, si governerebbe democraticamente. Un governo così perfetto non si addice agli uomini». La classificazione delle forme di governo comprende poi l'aristocrazia, in cui il governo è nelle mani di una minoranza, e la monarchia in cui sta in uno solo. Non ogni forma di governo è tuttavia adatta a qualsiasi paese. In generale, il governo democratico è adatto per gli Stati piccoli, l'aristocrazia per quelli di media grandezza,la monarchia per i grandi Stati, in quanto gli Stati troppo estesi territorialmente richiedono di fatto un governo dispotico-burocratico, e l'estraneità reciproca tra i cittadini impedisce la sincerità, la partecipazione e l'amor di patria. L'alternativa tra la politica della virtù (il piccolo Stato) e la politica della potenza (il grande Stato) è evitabile unicamente attraverso il sistema dei governi federali, «il solo che riunisca i vantaggi dei grandi edei piccoli Stati» (Considerazioni sul governo di Polonia, p. 197). La positività del 'piccolo Stato' è inoltre presente, e trova anzi la sua espressione più nota, anche nel Progetto di costituzione per la Corsica (1765). L'unità dello Stato non dipende tuttavia soltanto dalle sue dimensioni, così come la coesione del corpopolitico non dipende soltanto dalla partecipazione virtuosa. Nel capitolo VIII del quarto libro del Contratto sociale Rousseau giunge ad attribuire alla religione una funzione decisiva per la solidità dello Stato. Si tratta tuttavia di una «religione civile» - ridotta a «semplici dogmi», posta interamente sotto il controllo dello Stato, e a cui viene attribuita la funzione di tenere unita la collettività - distinta dalla «religione dell'uomo»edalla«religione del prete». Il problema della religione viene così posto da Rousseau nella prospettiva dell'interesse supremo del corpo politico, in quanto la religione civile serve ad accentuare gli impegni morali e civili assunti conilpatto da ciascun contraente. La religione civile è una metafora della stessa virtù politica, e chi la rifiutavacondannato «non come empio ma come asociale, incapace di amare sinceramente le leggi, la giustizia, e di immolare all'occorrenza la vita per il dovere». Questa necessità della religione civile è presente in Rousseau sulla base di una doppia eredità: essa riprende tanto il tema repubblicano di origine machiavelliana dell'amor di patria sancito rel igiosamente quanto la teologia politica di Hobbes, al quale tuttavia Rousseau rimprovera di non essere stato abbastanza radicalenel combattere la Chiesa. che non può limitare il potere costituente, l volontà onnipotente della nazione, essendone anzi il prodotto:la nazione, soggetto depositario di ogni sovranità, «non deve insabbiarsi nelle pastoie di una forma positiva»,né sottomettersi a forme costituzionali. Ne deriva, tra l'altro, che rapporti tra il legislativo e l'ese cutivo non vengono definiti in termini di equilibri dei poteri, ma di specializzazione delle funzioni: il legislativoèfatto per volere, l'esecutivo per agire in base alla volontà del primo. Da questa concezione della nazione deriva una visione della cittadinanza conci pita come associazione tra individui basata su rapporti di uguaglianza e universali tali da escludere il privilegiato, il quale costituisce un elemento esterno all'ordine politico, dal momento che la sua azione è ispirata a logiche particolariedegoistici* Gli ordini privilegiati sono esclusi per definizione dal corpo della nazione sia per logica sociale dell'attività produttiva, in quanto non possono essere utili, sia per ] logica politica della cittadinanza, inquantonon possono essere uguali; in tempo. L'esigenza di unità della nazione produce così il principio della guerra civilepotenziale. Poiché la volontà della nazione coincide con la volontà comune inalienabile e unitaria di un corpo di cittadini, questa non può trovare espressione in un ordine rappresentativo distinto in stati: «Il potere risiede esclusivamente nell'insieme. La comunità ha bisogno di una volontà comune; senza una unità di volontà essa non arriverà mai a costituire un tutto che vuole ed agisce». Ma istituire un legame organico tra rappresentanza unitaria e volontà nazionale unitaria implica molti aspetti problematici: la teoria e la pratica della rappresentanza non sono immediatamente congruenti con la concezione politica della volontà generale unitaria, inalienabile, onnipotente e riluttante ad essere imbrigliata in qualsiasi forma. Nel saggio sul Terzo stato Sieyes in pratica rifiuta la rappresentanza sia in senso cetuale, per ordini, in quanto estranea all'unità della nazione, sia quella moderna, che è sì unitaria ma che attraverso il mandato libero costituisce il rappresentante come sovrano e priva quindi della sovranità il mandante, il popolo. Equindièsulla stessa posizione di Rousseau. La rappresentanza ordinaria, di cui egli parla è infatti sì unitaria, macommissaria: cioè, i delegati non hanno tutto il potere sovrano, ma sono solo incaricati di agire per gli affari di governo.Solo la rappresentanza straordinaria si avvicina a quella moderna, con mandato libero: infatti, in quel caso - che si verifica solo per uno scopo ben preciso e circoscritto - la volontà comune dei rappresentanti equivale a quella della nazione; che è appunto la formula tipica della rappresentanza moderna. Ma Sieyes si affretta a precisare che nemmeno in questo caso straordinario la nazione aliena per sempre la propria volontà, il proprio potere costituente; anzi, lo conserva presso di sé e ne può fare quello che vuole, dopo che l'assemblea straordinaria- che è provvisoria e temporanea – sarà stata sciolta. L'istituzionalizzazione e la giuridificazione del potere costituente sono dunque impossibili; la sua presenza è il contrario della rappresentanza. La sovranità della nazione, la sua volontà, il suo potere costituente sono superiori a ogni forma costituzionale: «comunque una nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone, e la sua volontà è sempre legge suprema». Pur pensando sempre a una rappresentanza commissaria e non sovrana, e continuando a sottolineare che la nazione conserva presso di sé, intatta, la propria volontà, Sieyes coniuga però ben presto la teoria della sovranità della nazione con la teoria della rappresentanza politica. Così egli collega il concetto di rappresentanza agli stessi principi che nella società moderna promuovono la divisione del lavoro. Rappresentanza e divisione del lavoro appaiono anzi come concetti equivalenti di quello che Sieyes chiama l'«ordine rappresentativo»: la divisione del lavoro «riguarda le attività di tipo politico, come qualunquetipodi lavoro produttivo. L'interesse comune, il progresso stesso dello stato sociale, richiedono che si faccia del governo una professione a parte». La conseguenza più importante di questa concezione consiste nella trasformazione dell'idea di rappresentanza da procedimento amministrativo a espressione compiuta del principio che permette l'esistenza autonoma della società civile. Attraverso l'istituzione del «lavoro rappresentativo», la rappresentanza politica viene delegata ai più competenti e svincolata dai vincoli corporativi o cetuali dell'Ancien régime. In linea con questa posizione, nel corso dei dibattiti costituzionali che portano alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, Sieyes all'Assemblea costituente assume una posizione che unisce il concetto di volontà generale con la teoria della rappresentanza: dopo aver confermato il principio secondo il quale «il popolo non può parlare, non può agire se non attraverso i suoi rappresentanti», precisa affermando che «un deputato è deputato della Nazione tutta, tutti i cittadini sono i suoi committenti». Per questo nessundeputato può essere vincolato dalle volontà particolari nell'esercizio delle sue funzioni di rappresentante dell'intero corpo sociale. Solo in apparenza siamo già alla teoria del mandato libero: in realtà, il fatto che i deputati siano rappresentanti della nazione non significa per Sieyes, a questa altezza, che l'Assemblea sia l'unica depositaria istituzionale della sovranità popolare: anzi, i deputati sono sì rappresentanti della nazione ma sono pensati come mandatari della volontà nazionale sempre in atto, come espressione di un potere costituente chenonsi costituisce mai. Questa teoria della rappresentanza, che da un punto di vista pratico-politico darà vita alla costituzione del 1791, permetterà al Terrore di sovvertire i principi costituzionali e la certezza del diritto mediante un continuo appello alla forza superiore della sovranità nazionale. Infatti la teoria di Sieyeslegittima il principio che i provvedimenti di legge non sono altro che il prodotto momentaneo e diretto della volontà generale della nazione: il potere legislativo è quindi l'interprete della volontà generale del popolo o della nazione che è in grado di impedire la frammentazione della società in interessi. Da qui deriva anche l'art. 28 della Costituzione giacobina, che affida il governo della nazione alla stessa Assemblea legislativa, in quantoil potere esecutivo viene ridotto al compito di semplice amministrazione funzionale all’applicazionedellalegge. Di fatto, è come se dietro al potere costituito (il legislativo fosse sempre attivo il potere costituente;ilceimplica che i legislatori - in quanto commissari della nazione -possano provocare profonde alterazioni alle istituzioni, in nome della volontà generale. Ciò porterà Sieyes a dissociarsi dagli esiti giacobini di questa prospettiva e a pronunciarsi contro la «permanenza del potere costituente», che si profila come una vera e propria minaccia contro «qualsiasi principio di stabilità». Per evitare il pericolo del corpo rappresentativo unico è necessario organizzare i poteri costituiti distribuendo competenze e funzioni in una pluralità di corpi, in mododaprodurre una sovranità che rientri «nei suoi giusti limiti». Sieyes tuttavia rifiuta il modello inglese, opponendo alla strategia del bilanciamento dei poterilastrategiadella «regola», che consiste nel limitare preventivamente il potere, stabilendone gli ambiti di applicazione,inmodo che esso venga articolato in modi funzionali a tale limitazione. Tale prospettiva assume forma istituzionale nella Costituzione termidoriana del 1795, anch'essa ispirata da Sieyes, nella quale non solo vengono nettamente separate le funzioni del legislativo e dell'esecutivo,maviene anche cancellato il principio che affida al popolo sovrano la suprema potestà legislativa, affidando a corpi diversi la responsabilità di proporre le leggi e di votarle. In linea con le proposte di Sieyes, la struttura istituzionale viene articolata in una pluralità di organi, che serve ad assicurare «l'unità d'azione» evitando al contempo quell'«azione unica» in cui consiste il difetto fondamentale tanto dell'assolutismo di Antico regime quanto del Terrore. Pur non rinunciando alla centralità del potere legislativo, dominante in tuttalarivoluzione, la costituzione termidoriana rimuove insomma l'identificazione tra potere legislativo costituito e potere costituente. Il principio di Sieyes, secondo cui «una Costituzione, o è un corpo di leggi obbligatorie, o non è niente», va appunto interpretato nel senso di una riaffermazione della supremazia del valore normativo e prescrittivo della costituzione nei confronti del processo politico decisionale. Si tratta ora di depotenziareuna nozione ipertrofica di sovranità nazionale, tanto nella sua versione di supporto all'assolutismo monarchico quanto nella sua versione rousseauiana. E a questo scopo Sieyes sostiene che con l'istituzione della associazione politica gli individui non solo non hanno delegato tutti i loro diritti alla società, ma non hanno neppure trasferito al corpo sociale tutti i loro poteri individuali. Hanno viceversa mantenuto i propri diritti e hanno creato il potere al solo scopo di poterli conservare. In questa fase del suo pensiero Sieyes ha cosìmesso a punto strumenti fondamentali per il costituzionalismo e per il liberalismo politico. Nell'ambito delle vicende della Convenzione, l'assemblea eletta dopo l'insurrezione rivoluzionariadel1792che distrusse la monarchia per dare alla Francia una nuova costituzione, si sviluppa la lotta tra girondini egiacobini. Nella Convenzione i girondini ebbero la maggioranza, ma all'estrema sinistra fu eletto un cospicuo numerodi rappresentanti giacobini, che presto presero il sopravvento. Il conflitto fra girondini e giacobini vede contrapposte la democrazia rappresentativa alla democrazia diretta, il liberalismo al radicalismo. Fra i rappresentanti di spicco della Gironda c'erano Jacques-Pierre Brissot(1754-1793) e Condorcet, già presenti nell'Assemblea legislativa del 1791. Il pensiero di Condorcet, influenzato dalla riflessione dell''Enciclopediae dai temi fisiocratici, è contraddistinto sia dal tentativo di applicare alle scienze sociali e politiche il calcolo matematico, sia dalla riflessione sul progresso. Di fatto Condorcet pensa a una sorta di 'matematica sociale' che permetta di elaborare, attraverso gli strumenti del calcolo delle probabilità e della statistica, previsioniin campo politico. Esempio di ciò è il Saggio sull'applicazione dell'analisi della probabilità delle decisioni presea maggioranza di voti (1785) che istituisce un nuovo rapporto (il 'paradosso di Condorcet') fra decisione individuale e scelta collettiva, fra decisioni della maggioranza e principio maggioritario nella formazionedella rappresentanza. Nell'Abbozzo Condorcet delinea invece una teoria del progresso storico e filosofico, in cui molto forte risulta l'influenza di Voltaire e di Turgot, che può essere considerata l'espressione più alta della riflessione storiografica dell'illuminismo. Condorcet divide in dieci epoche le tappe del cammino dello spiritoumano,che gli appare come un progressivo perfezionamento organico e spirituale della specie umana. Politicamente, il progresso consiste nel passaggio da regimi autocratici e dispotici a regimi democratici e rappresentativi. Per Condorcet il progresso è illimitato, perché la natura non vi ha posto alcun limite e dunque gli uomini della decima epoca (l'epoca di Condorcet) debbono avere speranza nella possibilità di vedere la scomparsa delle cause della disuguaglianza, l'abolizione dei pregiudizi e delle guerre, in una parola, la possibilità della felicità. La Costituzione dell'anno III Pochi mesi dopo la morte di Condorcet, il 9 termidoro del 1794 un colpo di Stato rovesciò il regime del Terrore instaurato da Robespierre. Riconquistata la guida politica della Francia, attraverso il cosiddetto Terrore bianco che si scatenò contro i giacobini e i sanculotti, e la maggioranza nella Convenzione, i girondini, espressione della borghesia, attuarono una politica di tipo liberale. Manifestazione di ciò fu l'emanazione di una nuova costituzione nel 1795 (la costituzione dell'anno III), in cui si rinunciava all'elemento democratico del suffragio universale (il riconoscimento della sovranità popolare presente nella costituzione giacobina del 1793), affermando invece il principio del censo nelle elezioni, il principio dell'elettività degli organi legislativi, il diritto di proprietà senza restrizioni e la libera iniziativa economica. Il regime che usciva da questa costituzione era un regime di tipo liberale costituzionale, in cui il poterelegislativo apparteneva a due assemblee e quello esecutivo a un Direttorio, di cinque membri eletti fra i rappresentanti dell'assemblea degli Anziani. Nel periodo in cui dominarono la Convenzione, attraverso il Comitato di salute pubblica (1793-1794),igiacobini attuarono una politica interna che, prendendo alla lettera Rousseau, e anzi semplificandolo, si proponeva di restaurare la natura contro la corruzione della società, proprio attraverso la politica. I loro obiettivi (instaurazione della repubblica, unità della nazione, rinnovamento etico della politica, civismo sociale) hanno lo scopo di promuovere una reintegrazione dell'uomo con sé e con gli altri, con la storia futura e con la natura. Questa reintegrazione implica a sua volta che si realizzi una sostanza, la volontà generale, capace di garantire piena libertà a tutti in cambio della dedizione di ciascuno. Il valore centrale e originario riconosciuto all'individuo, cui viene conferito il ruolo di protagonista attivo della vita politica, coesiste quindi con la presunzione che esso si trovi in uno stato di minorità che gli impedisce di essere libero e che richiede un'autorità capace di portare alla luce la 'vera' volontà di ciascuno e di tutti, cioè del popolo, e di restituire quella 'bontà' originaria che secoli di oppressione hanno sfigurato o represso. Ma, finché la sostanza «buona» del popolo incorrotto non viene recuperata, il partito rivoluzionario (anchedi minoranza) ha il diritto e il dovere di liberare il popolo da tutto ciò che gli impedisce di essere libero, e di guidarlo, anche con rigidi strumenti di coazione (il Terrore) e con l'introduzione di elementi di ineguaglianzae di esclusione (gli 'indulgenti', i 'sospetti', i 'refrattari', i 'nemici': le categorie dell'esclusione politica elaborate durante la rivoluzione) in direzione del bene. È qui che si vede che cosa significa l'appello continuoallavolontà generale della nazione, e il rifiuto del principio di rappresentanza: a fornire all'autorità politicalalegittimazione immediata e diretta per un'azione che possa sempre travalicare i confini e i limiti del le istituzioni, a usarle strumentalmente per realizzare la 'salvezza' del popolo anche attraverso l'esercizio di un duro comando 'pedagogico' sui corpi corrotti, che rovescia la libertà del singolo e del popolo in disciplina, e l'aspirazione alla felicità virtuosa in restrizione ascetica della libertà. Il pensiero politico di Robespierre ha le sue fonti nella teoria della sovranità di Bodin, nel diritto naturale di Locke, nel pensiero di Mably e soprattutto di Rousseau. Avendo come modello la democrazia de gli antichi, Robespierre individua nella virtù il principio animatore della democrazia. Invece di contrapporre democrazia diretta e democrazia rappresentativa, egli pensa che la democrazia possa includere elementi sia dell'una sia dell'altra. La volontà di realizzare una democrazia fondata sulla volontà generale, sulla virtù e sul terrore, capace di istituire nell'ordine sociale i diritti dell'uomo, si coniuga in lui con il tentativo di introdurre una dimensione di uguaglianza che è di ordine civile piuttosto che socioeconomico (la proprietà è sempre garantita), e che serve a dare effettiva consistenza alla sovranità popolare. La concezione rousseauiana della sovranità popolare spinge Robespierre a porre gravi limiti all'istituto della rappresentanza: questa è temporanea e soggetta a continui controlli da parte del popolo sovrano, che deve vigilare contro la corruttibilità dei suoi deputati, i quali vengono qualificati alla stregua di «commissari» (comevolevaRousseau) e non come «rappresentanti».
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