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Manuale diritto penale Parte generale Grosso Pelissero Petrini Pisa, Sintesi del corso di Diritto Penale

Diritto Penale ItalianoCriminologiaTeoria del diritto

Sintesi accurata di Manuale diritto penale Parte generale Grosso Pelissero Petrini Pisa

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 31/10/2019

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Scarica Manuale diritto penale Parte generale Grosso Pelissero Petrini Pisa e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! lOMoARcPSD|1516064 Grosso, Pelissero, Petrini, Pisa – Manuale di diritto penale Parte generale PARTE PRIMA INTRODUZIONE AL DIRITTO PENALE E ALLA POLITICA CRIMINALE Capitolo I - DIRITTO PENALE, REATO, PENA 1. Il diritto penale e gli altri settori dell’ordinamento giuridico. Il diritto penale disciplina i fatti che sono reato e le relative sanzioni. Il reato si distingue dall’illecito civile e da quello amministrativo sotto diversi aspetti. Il reato è punito con sanzioni consistenti in pene e misure di sicurezza e l’accertamento della sua commissione e l’inflazione della sanzione sono affidati ai giudici penali imparziali ed indipendenti. L’illecito civile è sanzionato con sanzioni di risarcimento del danno e delle restituzioni. L’ illecito amministrativo viene punito con sanzioni amministrative applicate dalla stessa P.A. Per quanti riguarda la tipologia, il reato si distingue dall’illecito civile in quanto è caratterizzato dalla specifica tipizzazione di ciascun illecito. L’illecito civile si presenta come illecito di lesione, caratterizzato dall’atipicità e dalla generalizzazione della sua formulazione. Più lievi sono le differenze tra l’illecito penale e l’amministrativo. Il diritto amministrativo presenta molti illeciti, ognuno punito con sanzioni che consistono in pagamenti, prescrizioni, divieti, obblighi di prestazioni, simili nel loro contenuto a quelli previsti in sede penale sotto il profilo di alcune pene principali o pene accessorie. Dato che anche queste incidono sulla libertà e sul patrimonio, il legislatore, con la lg. n. 689/1981, ha assicurato delle garanzie ricavate dalle norme previste in materia penale. Ciò ha attenuato le differenze di trattamento previste per i due tipi di illeciti. lOMoARcPSD|1516064 2.La funzione del diritto penale: la tutela dei beni giuridici. La funzione del diritto penale è la tutela degli interessi umani. Si tratta di una concezione utilitaristica, elaborata tra ‘700 e ‘800 e fondata sulla convinzione che il diritto penale debba essere interpretato come extrema ratio di protezione giuridica. La nozione di reato: criteri formali e sostanziali di definizione. Dal punto di vista formale, il reato è un fatto vietato dalla legge penale la cui commissione comporta l’applicazione di una sanzione penale. Questa definizione è formale, perché non fa riferimento alla natura dei fatti assunti ad oggetto della disciplina penale, ma al modo con il quale l’ordinamento reagisce alla loro realizzazione. Poiché le pene nel codice sono elencate in una prospettiva formale, è facile distinguere i reati dagli illeciti degli altri settori giuridici. 2.La sanzione penale: criteri di identificazione e le funzioni della pena. Il codice vigente prevede due specie di sanzioni penali: le pene, destinate ad assicurare la prevenzione generale, e le misure di sicurezza, le quali hanno lo scopo di recuperare gli autori di reato socialmente pericolosi attraverso la rimozione delle cause della loro pericolosità. Questo è il sistema del doppio binario. Entrambe le sanzioni sono contenute nella parte generale del codice penale; esse vengono applicate dal giudice penale nel quadro del processo, che ha le caratteristiche garantiste del processo penale. Le pene, individuate dal legislatore fra un minimo ed un massimo in base alla gravità del reato, vengono determinate in concreto dal giudice in sede di giudizio; le misure di sicurezza, indeterminate nella durata in quanto sono destinate a protrarsi fino a quando perduri la pericolosità sociale del soggetto, vengono inflitte dal giudice di cognizione, ma la loro applicazione viene seguita dal giudice dell’esecuzione, al quale compete ogni valutazione in ordine alla cessazione dei presupposti dell’applicazione stessa. Per quanto riguarda la funzione della pena, in dottrina ci sono diverse interpretazioni: pena intesa come retribuzione morale, come retribuzione giuridica, come emenda o come intimidazione. In coerenza con la funzione del diritto penale, si è affermato che la funzione essenziale della pena lOMoARcPSD|1516064 reati, basato su canoni assoluti di razionalità. In un solo punto Carrara ha un cedimento: con riferimento ai delitti di c.d. lesa maestà. Infine, vediamo un altro profilo di questa scuola, il perfezionamento degli strumenti di analisi tecnica, di Carrara e Pessina. Si tratta di un approccio metodologico i cui risultati sono stati duraturi, tanto che ancora oggi in qualche misura influenzano la teoria generale del reato. L’attività della scuola classica, in particolare del Carrara, ha influenzato l’elaborazione del codice penale Zanardelli del 1889; sebbene tale codice sia viziato da imprecisioni tecniche e altri vizi, esso ha costituito una elevata espressione legislativa del complesso di garanzie illuministico liberali ed ha significato un passo in avanti nella configurazione dei presupposti generali e della responsabilità penale. I principi di stretta legalità e di irretroattività della legge penale sono stati formulati in modo appropriato; è stata eliminata la pena di morte. Il sistema sanzionatorio si è articolato in un complesso di sanzioni diverse dal carcere. 3. La scuola positiva Con la scuola positiva si assiste ad un cambiamento radicale, nell’approccio al diritto penale. I positivisti hanno cambiato il metodo seguendo un metodo induttivo tipico della ricerca sul campo. Facendo ciò si è ribaltato il focus dell’analisi: i classici si concentravano sul reato e sulla pena, mentre i positivisti hanno posto al centro della loro attenzione l’uomo delinquente e la personalità dell’autore dell’illecito. Sono mutati idea e presupposti della responsabilità penale, negavano l’esistenza del libero arbitrio, affermando che la commissione di un reato è sintomo di devianza, quindi il suo autore è un anormale che non può essere chiamato a rispondere di ciò che ha commesso, ma deve essere curato. È mutato, di conseguenza, il concetto di sanzione penale; l’idea di pena come strumento di disincentivazione del reato ha perso ogni significato ed è stata sostituita da una misura di natura preventivo-speciale, che rimuove le cause della devianza. La sua durata non poteva essere predeterminata e commisurata alla gravità del reato, essa doveva essere indeterminata e destinata a durare finché fosse venuta meno la pericolosità sociale dell’autore dell’illecito. Tale scuola si è sviluppata troppo tardi perché potesse incidere sul codice penale unitario del 1889. Essa si è posta come alternativa radicale alla scuola lOMoARcPSD|1516064 classica ed è riuscita ad influenzare profondamente la cultura giuridico-penale italiana ed europea. Nella seconda decade del 900 si è imposta, come scuola vincente, tanto che negli anni 20 Enrico Ferri è stato incaricato dal guardasigilli Mortara di redigere un progetto preliminare di codice penale. Questo progetto di codice penale 1921 non ebbe seguito a causa delle vicende politiche italiane del periodo immediatamente successivo. 4. Tecnicismo giuridico Quando il dibattito fra le 2 scuole era al suo culmine (prima decade 900), in Italia si cominciò a manifestare una reazione ad entrambe. Questo nuovo orientamento trovò la prima enunciazione, in una sorta di manifesto, nella prolusione dell’università di Sassari svolta da Antonio Rocco 1910. Il diritto penale, osserva Rocco, è in crisi a causa della sovrapposizione tra diritto, antropologia, psicologia, statistica, sociologia, filosofia del diritto. Entrambe le scuole che si contengono lo scenario sono pertanto inaccettabili. La scuola classica per aver preteso di creare un diritto penale assoluto, immutabile ed universale; la scuola positiva per aver affermato che il diritto penale non è altro che un capitolo della sociologia. È questo l’indirizzo, detto tecnico-giuridico, il solo possibile in una scienza giuridica e di carattere penale. Compito del giurista deve essere quello d’interpretare le leggi e costituire dogmaticamente gli istituti. In questi concetti è sintetizzata la nuova impostazione metodologica, la scienza giuridica e politica criminale diventano mondi separati: la prima si deve occupare solo della realtà normativa, la seconda è esclusiva dei politici e sociologi. Si realizza così una distinzione tra studio del diritto e approfondimento della politica criminale. 5. La politica criminale durante il fascismo Il ministro Alfredo Rocco e la commissione che ha redatto il nuovo codice penale (1925-30) hanno cercato di mettere in luce i tratti di continuità e di discontinuità della nuova legislazione rispetto alla codificazione liberale del 1889. Per la riforma del codice era necessario integrare e completare le norme del codice del 1889. La riforma consiste nell’applicazione di più provvidi principi di politica legislativa penale, in nuovi istituti, perfezionamenti tecnici. lOMoARcPSD|1516064 Secondo il guardasigilli il codice fascista sarebbe stata caratterizzato da dei punti di continuità con quello precedente. Comunque il dibattito su tale codice ha visto affermarsi, nel dopoguerra, posizioni diverse. C’è stato chi ha sostenuto che esso sarebbe stato segnato dal nuovo concetto di stato e dei rapporti fra le autorità. C’è stato chi ha affermato invece che il codice non appare interamente permeato dall’ideologia del regime. A parte tutto, un dato è incontrovertibile che, se pure nel codice Rocco vengono riprodotti istituti e principi fondamentali di garanzie proprie del pensiero liberale e se pure buona parte della struttura della parte speciale riflette la precedente sistemazione dei reati, numerose sono state le rotture rispetto alle regole garantistiche dei sistemi liberali. Per quanto riguarda i principi della parte generale, è evidente l’inversione della tendenza nei confronti del principio di colpevolezza, attraverso la previsione di numerose ipotesi di responsabilità oggettiva. In materia di forme di manifestazione del reato, le formulazioni garantistiche del tentativo e del concorso di persone nel reato hanno ceduto il passo a norme che si prestano all’applicazione molto più discrezionali. La nuova impostazione ha svalutato il concetto di bene giuridico, caposaldo dell’impostazione giuridico-liberale. Significativa è stata la nuova configurazione delle pene. È stata ripristinata la pena di morte, ampliato l’utilizzo dell’ergastolo e tutte le altre sanzioni sono state inasprite. Il profilo di novità è stato l’affiancamento delle misure di sicurezza alle pene: indeterminate, che si applicano a chi ha commesso un reato e finalizzate alla difesa sociale ed al recupero sociale. In tal modo parte del bagaglio culturale della scuola positiva è entrato nel codice. Così abbiamo da un lato le pene inasprite e dall’altro le misure di sicurezza alle pene, in tal modo si è venuto a creare una nuova opzione denominata sistema di doppio binario. 6. La caduta del fascismo e i tentativi di riforma. Caduto il fascismo, sarebbe stato opportuno trovare una soluzione al codice Rocco, infatti nel gennaio del 1945 il guardasigilli Tupini insediò una Commissione di riforma del codice penale. La commissione non arrivò ad alcun lOMoARcPSD|1516064 d.l. n. 99 del 11/04/74 convertito nella legge n.220 del 1974. Esso ha esteso la possibilità del giudizio di comparazione a tutte le circostanzi aggravanti e attenuanti, ha introdotto il cumulo giuridico delle pene nel concorso formale del reato, ha ampliato i limiti della sospensione condizionale della pena. Sempre negl’ anni 70, intervento importante si è avuto con la riforma dell’ordinamento penitenziario (l.n.354/1974). Tre sono stati gli obiettivi fondamentali di questa legge: rendere l’esecuzione penitenziaria coerente con la funzione rieducativa della pena, assicurare i diritti dei condannati, prevedere sanzioni alternative. Ulteriore intervento importante in materia di sanzioni penali è stato compiuto con la l.n.689/1981, che ha previsto sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Tale scelta dal punto di vista politico-criminale è stata felice, in quanto tali pene erano in netto contrasto con la funzione rieducativa prevista per la pena. Di rilievo è stata l’introduzione della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche (d.lgs. n. 231/2000) con cui si è adeguata la legislazione italiana con quelle di altre paesi. Meno felici sono stati la nuova disciplina della difesa legittima e alcuni interventi che mirano a favorire posizioni processuali di soggetti singoli o ristrette categorie di persone. Fra di essi va ricordata la c.d. legge Cirelli (l.n.251/2005), che ha ridotto i tempi della prescrizione senza assicurare una più veloce celebrazione dei processi, determinando un’esplosione dei processi prescritti. Numerosi sono stati gl’interventi di riforma della parte speciale. L’insieme di queste riforme ha mutato il volto della legislazione del 1930. È mancata tuttavia una riforma organica del codice. I tentativi sono stati in realtà numerosi, ma nessuno è andato a buon fine. Capitolo III PRINCIPI GENERALI DI POLITICA CRIMINALE 1. Diritto penale e politica criminale. lOMoARcPSD|1516064 Per politica criminale si intende l’insieme degli strumenti che un sistema predispone per contrastare la criminalità e la ricerca di quelli che si presentano più efficaci (c.d. razionalità di scopo). Essa non coincide con la politica penale; la politica criminale include la politica penale, ma ha un ambito d’intervento più ampio che prende in considerazione anche strumenti non necessariamente di tipo penale, sanzioni amministrative, disciplinari, interventi preventivi, meccanicismi ingiunzionali. Ad esempio, si considerino gli strumenti di contrasto ai reati di omicidio o lesione personale connessi con la violazione delle regole sulla circolazione stradale: accanto alla sanzione penale, il codice della strada prevede sanzioni amministrative come la confisca del veicolo, sospensione della patente di guida e la riduzione dei punti. La politica penale costituisce un settore della politica criminale, anche se è il più importante ed il più problematico sul piano delle garanzie individuali, considerato il fatto che la sanzione incide sulle libertà personali, e da tempo se ne sta valutando l’efficacia in ampio contesto. Ad esempio, la lotta alla criminalità organizzata condotta con lo strumento repressivo della sanzione penale si è dimostrata inefficacie nel contrastare il fenomeno e si sono privilegiati strumenti di contrasto di tipo preventivo come quelli per acquisire le ricchezze illegittimamente acquisite. La politica criminale costituisce un aspetto della politica sociale: se quest’ultima ha come oggetto qualunque fenomeno sociale, la politica criminale prende in considerazione quella forma di devianza sociale che è il reato. La politica sociale deve intervenire in via preventiva per contrastare i fattori predisponenti la commissione del reato (c.d. fattori criminogeni). La politica criminale deve essere distinta dal diritto penale, intendendo per tale l’insieme di regole che disciplinano i presupposti della responsabilità penale e le conseguenze sanzionatorie che seguono la commissione di un reato. 2. La politica criminale e le garanzie sostanziali: la scelta di incriminazione nel quadro delle norme costituzionali. lOMoARcPSD|1516064 La politica criminale si occupa non solo di trovare gli strumenti più efficaci per contrastare un certo fenomeno, ma pure di definire che cosa può costituire reato: non interviene solo sulla predisposizione dei mezzi, ma anche sulla definizione dell’oggetto che fonda l’intervento penale. L’ordinamento italiano accoglie una definizione formale di reato, secondo cui costituisce reato solo quel fatto per il quale la legge prevede come conseguenza sanzionatorio una pena. Però, dobbiamo domandarci se una volta garantito il rispetto della riserva di legge, il legislatore è libero di qualificare come reato qualsiasi fatto? Bisogna capire se il legislatore incontri dei limiti nel ricorrere al diritto penale. Fare ciò significa limitare il potere politico in una delle sue prerogative con le conseguenze più ampie sulle garanzie individuali. Fin dall’illuminismo si sentiva l’esigenza di limitare il potere legislativo sul piano del contenuto delle leggi, perché ci si rese conto che la limitazione solo formale non garantita da arbitrii sul piano sostanziale non era sufficiente. Non bastava per ciò assicurare la garanzia formale della legalità, se ad essa non si affiancavano garanzie sostanziali su che cosa punire: era necessario limitare il potere di criminalizzazione del legislatore. Oggi, la riflessione sui limiti che il legislatore incontra nell’esercitare il potere di criminalizzazione si arricchisce della prospettiva costituzionale. Il quadro dei principi costituzionali espressamente dedicati alla materia penale sostanziale non è ampio: art.25 principio di legalità, riferito alle misure di sicurezza; art. 27 principio della responsabilità penale personale e indica i limiti al contenuto delle pene e ne fissa il finalismo: art.13 inviolabilità della volontà personale e prescrive le condizioni per la sua limitazione; art 10 e 26 limiti d’estradizione; art. 90 immunità del Presidente della Repubblica; art.117 che esclude la potestà legislativa regionale penale. Tuttavia, è il complesso delle norme costituzionali ad incidere sulla materia penale, con l’impronta personalistica la costituzione condiziona ora interpretazioni costituzionalmente orientate alle fattispecie presenti, ora sollecita il legislatore ad intervenire per far fronte a nuove esigenze di tutela. Un esempio di interpretazione conforme al personalismo costituzionale è dato dalla sentenza in cui la corte Costituzionale, in un contesto normativo caratterizzato dall’illiceità penale dell’interruzione della gravidanza, aveva dichiarato legittimo l’aborto terapeutico. La Corte arrivo ad una interpretazione estensiva della scriminante dello stato di necessità, che si fonda sul presupposto dell’equivalenza tra bene offeso dal fatto dell’autore e bene, che lOMoARcPSD|1516064 È incompatibile con il principio di materialità il c.d. diritto penale della volontà, esso incentra il disvalore della fattispecie sull’elemento soggettivo dell’autore, più che sulla condotta dello stesso tenuta: giustifica una forte anticipazione dell’inizio dell’attività punibile, sin dalla semplice ideazione di commettere un reato, indipendentemente dall’avvio di una condotta diretta a perseguire il programma criminoso; propone di equiparare la pena per il delitto tentato a quella del delitto consumato, in quanto in entrambi è identica la volontà di trasgredire la norma penale. Sono incompatibili con questo principi: a) Il diritto penale dell’atteggiamento interiore che pone al centro della relazione penale l’atteggiamento spirituale del soggetto rispetto ai beni giuridici. b) Il diritto penale della pericolosità, nel quale si punisce non l’autore di un fatto, ma l’autore pericoloso, nel quale si punisce non l’autore del fatto, ma l’autore pericoloso il cui comportamento rivela solo come sintomo del rischio di commissione dei reati, attribuendo rilevanza penale a stati di marginalità sociale (oziosi, vagabondi, mendicanti). 4.3. Il principio di offensività Il rispetto del principio di materialità non basta a giustificare l’intervento penale, perché è necessario che la pena sia rivolta nei confronti di fatti offensivi dei beni giuridici. Il principio di offensività è accolto dalla giurisprudenza della Corte Cost. che ne ha evidenziato la duplice dimensione. Per evidenziare questi due profili possiamo distinguere tra offensività in astratto, che si rivolge al legislatore, e offensività in concreto, che si rivolge al giudice. Tale distinzione consente di chiarire che spetta a tale principio in astratto la funzione di limite alle scelte di politica criminale del legislatore. Il principio di offensività in astratto (per il principio di offensività in concreto v. cap. XIV) gode di copertura costituzionale attraverso un interpretazione sistematica dell’art. 25 c.2 e 27 c.3 Cost.: se la pena intervenisse per sanzionare fatti che non offendono alcun bene giuridico, la sua funzione sarebbe ridotta o alla pura retribuzione della volontà di disobbedire o alla prevenzione di meri stati sintomatici di pericolosità, in contrasto con la lOMoARcPSD|1516064 distinzione tra pene e misure di sicurezza; il riferimento al fatto, va inteso come fatto offensivo. Anche la Corte cost. ha riconosciuto al principio di offensività in astratto il valore di limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario, riconoscendo alla stessa corte il compito di accertarne il rispetto da parte delle norme penali. Se guardiamo le sentenze della corte, che hanno richiamato l’offensività in astratto, noteremo che solo in un caso tale principio è stato direttamente richiamato per fondare la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale. Negli altri casi, il richiamo al principio d’offensività è stato più sfumato, in quanto è refluito nel principio di ragionevolezza. Tale preferenza è dovuta alla consolidata recezione di questo principio nella giurisprudenza costituzionale e nella capacità dello stesso di flessibilità di contenuto. Il riconoscimento del principio di offensività in astratto produce effetti positivi in termini di limitazione della tutela penale. Anzitutto, esclude la legittimità del diritto penale d’autore, nel quale rilevano i fatti offensivi, ma le condizioni e le qualità personali dell’autore del fatto. Tale principio consente di escludere la rilevanza penale di condotte che possono essere oggetto di disapprovazione morale, ma che non offendono interessi altrui. Il principio di offensività fonda la distinzione tra diritto penale e morale, in quanto i precetti dell’uno non possono essere fondati sui precetti dell’altro. Abbiamo visto che il principio ha una duplice faccia, una in astratto volta al legislatore e poi al giudice e l’altra in concreto volta all’interprete ed in particolare al giudice: appurato che la norma sia posta a tutela di un bene giuridico, spetta all’interprete applicare la norma penale solo in relazione a fatti che siano in concreto offensivi del bene giuridico tutelato. Così, in presenza di un furto di un bene privo di valore patrimoniale, il giudice deve concludere per la non punibilità del fatto, in quanto così il giudice non può infliggere pene per fatti che in concreto non presentano contenuto offensivo. Ora, preme evidenziare che talvolta la corte costituzionale salva una norma, indiziata di non rispettare il principio di offensività in astratto, sostenendo che sussiste il bene giuridico tutelato, ma spetta al giudice accertare in concreto se vi sia stata lesione dello stesso: in tal modo il principio di offensività in concreto serve alla Corte come via di fuga per lOMoARcPSD|1516064 evitare una declaratoria di illegittimità costituzionale per la violazione del principio. La funzione selettiva del principio di offensività in astratto è condizionata dall’individuazione del bene giuridico tutelato dalla singola norma incriminatrice. A questo riguardo sono emersi i beni strumentali, la cui tutela è finalizzata a garantire beni finali ulteriori che rimangono sullo sfondo della tutela. 4.4. I principi di proporzionalità, sussidiarietà ed efficacia della tutela penale. Nel giudizio di meritevolezza della reazione penale va considerata la proporzionalità rispetto al tipo di bene offeso e alle modalità di aggressione: così la lesione di un bene più importante giustifica una sanzione più elevata ed il ricorso a particolari modalità aggressive possono condizionare la diversità della risposta penale. Il principio dii proporzionalità trova fondamento nell’interpretazione sistematica di alcune norme della Cost.: art.13 nel proclamare il carattere inviolabile della libertà personale; art. 27 c.3 funzione rieducativa della pena. Inoltre, costituisce espressione del generale principio di uguaglianza espresso art. 3 della Cost. Ma quando un bene può essere considerato meritevole di tutela penale? La teoria dei beni giuridici costituzionali di Bricola era finalizzata a garantire una base normativa al giudizio della meritevolezza, perché solo i beni con copertura, diretta o indiretta, nella costituzione possono essere assunti ad oggetto della tutela. I limiti a cui tale teoria va incontro non fanno venir meno l’importanza dell’appoggio delle norme costituzionali a fondare in positivo le esigenze di criminalizzazione. Inoltre possono essere considerati meritevoli di tutela penale quegl’interessi che godono di riconoscimento nel contesto sociale: in ciò sta l’intuizione della teoria liberale secondo cui i beni no sono costituiti artificialmente dal legislatore, ma sono realtà pre-normative delle quali il legislatore prende atto. Questa indicazione ha due importanti conseguenze. La prima consiste nella necessità di considerare i beni giuridici alla luce dei rapporti sociali. Sotto questo profilo svolge un ruolo importante il consenso sociale alla incriminazione di una condotta. Ciò conferisce al legislatore un delicato ruolo di filtro, gli spetta il compito di razionalizzare le istanze punitive e non rincorrere i lOMoARcPSD|1516064 incriminazione, perché il legislatore dovrebbe astenersi dal prevedere reati non corrispondenti alla tutela di interessi riconoscibili. Da questa prospettiva, il principio di colpevolezza non fa rafforzare l’esigenza espressa dal principio di offensività in astratto. 7. Tendenze in atto della legislazione penale: i poli opposti dell’ipertrofia del diritto penale e del diritto penale della prevenzione. L’ipertrofia del sistema penale si traduce negativamente sul piano processuale, va a compromettere la tutela del principio di obbligatorietà dell’azione penale: la garanzia sottesa al principio di legalità dell’azione penale è vanificata, se il continuo ampliamento della sfera penale ha come effetto che alcuni reati non possono di fatto essere perseguiti ed altri destinati alla prescrizione. L’efficacia della repressione penale passa, attraverso una rigorosa selezione dei fatti ritenuti meritevoli in astratto di pena; questa scelta va fatto attraverso una selezione dei fatti ritenuti meritevoli in astratto di pena; questa scelta va fatta attraverso il filtro della depenalizzazione dei reati bagatellari. Sono tali quelle fattispecie che costituiscono fatti del tutto marginali vuoi per la mancanza del requisito della offensività in astratto, per la scarsa rilevanza del bene giuridico, per le modalità di aggressione al bene (beni bagatellari in astratto); rispetto a questi fatti può essere sufficiente l’intervento di sanzioni di natura diversa o assicurare loro la liceità. Quanto all’ipertrofia del diritto penale, va detto che da tempo il legislatore è intervenuto a depenalizzare alcuni reati bagatellari. Primo intervento marginale è stato fatto nel 1975 a cui è seguito la l. n. 689/1981 che ha operato una depenalizzazione dei reati minori, trasformando i delitti e le controversie puniti con la sola pena della multa o ammenda in illeciti amministrativi puniti con sanzione amministrativa pecuniaria (c.d. illecito depenalizzato- amministrativo). Il legislatore si rese conto che facendo questa operazione si creavano problemi di garanzia, da qui l’importante scelta fatta dalla l. n. 689/1981 di corredare l’illecito depenalizzato- amministrativo di una serie di garanzie modellate sul sistema penale, tra cui rispetto del principio di legalità (riserva di legge, irretroattività), requisiti di struttura dell’illecito amministrativo, regole di disciplina, regole procedurali e di accertamento. Allo stesso tempo è in atto una tendenza opposta, cioè un potenziamento dello strumento penale attraverso la progressiva anticipazione della soglia di punibilità. A fronte dei nuovi rischi tecnologici che mettono a rischio settori più o meno ampi della collettività, il lOMoARcPSD|1516064 modello del reato di danno non assicura una tutela adeguata del bene che può essere salvaguardato solo anticipando l’intervento penale. Si spiegano, così, la proliferazione dei reati di pericolo; l’ingresso dei nuovi beni giuridici strumentali; la riscoperta delle misure di sicurezza; la proliferazione delle misure di prevenzione. Ci troviamo di fronte al diritto penale della prevenzione. PARTE SECONDA - La legge penale Capitolo IV - RISERVA DI LEGGE 1.Il principio di legalità e i suoi sotto principi. Nel passaggio dall’ancien regime alle costituzioni ed altre codificazioni penali liberali, nasce e si consolida il principio di legalità, in virtù dei quali i precetti penali devono provenire non più dall’arbitrio di un sovrano, ma solo da una legge emanata da un parlamento democraticamente eletto; legge che deve essere previa al fatto commesso, chiara e precisa. Da un lato l’esigenza di sottrarre all’arbitrio del potere assoluto la produzione normativa trova origine nel contratto sociale: i cittadini mettono a disposizione dello stato anche la loro libertà personale al fine di garantire la pace sociale. Dall’altro canto, il principio di legalità costituisce una conseguenza imprescindibile della divisione dei poteri. Durante l’ancien regime il sovrano esercitava sia la produzione normativa penale che il conseguente potere giudiziario. Con il pensiero illuminista le due funzioni si impongono come distinte fra di loro, ne deriva che solo il Parlamento può riservare a sé ogni atto in materia legislativa penale. Sorto in ambito politico ed istituzionale, il principio acquista una sua autonomia in campo penalistico, alla luce del suo significato di garanzia: l’esigenza di limitare la potestà punitiva dello stato trova uno sblocco sicuro nell’idea che i precetti penali siano frutto dell’attività normativa dell’organo elettivo (primo corollario del principio di legalità: riserva di legge). La legge penale deve essere sempre previa ai fatti commessi, ciò garantisce i cittadini dalla discriminazione ex post di condotte che erano lecite al momento del fatto (secondo corollario: irretroattività della legge penale). lOMoARcPSD|1516064 Ancora, la certezza del diritto oltre ad imporre l’irretroattività delle norme penali, pretende che i precetti penali siano chiari, tassativi, precisi, cioè comprensibili da tutti i consociati (terzo corollario: principio di determinatezza). Il quarto corollario è il c.d. principio di tassatività che impone al giudice di limitare l’ambito di operatività della norma penale ai soli fatti in essa tassativamente descritti. Ratio di garanzia e di certezza si intrecciano, pertanto nell’attribuire un ruolo assolutamente centrale, in qualsiasi sistema penale libero e democratico, al principio di legalità, ed ai suoi tre sotto principi: riserva di legge, irretroattività della legge penale, determinatezza dei precetti penali. 2. La riserva di legge: il problema delle fonti del diritto penale. Il primo corollario del principio di legalità attiene alla riserva di legge: la materia penale è di esclusiva prerogativa legislativa, con la conseguenza che nessuna fonte subordinata può emanare leggi penali. Solo una legge tutela i consociati da possibili arbitri del potere politico offrendo le indispensabili garanzie d’imparzialità e di legittimazione (ratio di garanzia). Inoltre, la legge prevede delle forme di pubblicazione (gazzetta ufficiale) che ne garantiscono la conoscibilità da parte di tutti coloro che sono obbligati a rispettare le norme penali (ratio di certezza). In alcuni esperienze di regimi autoritari del secolo scorso, si è sviluppata una diversa idea di legalità, c.d. sostanziale, secondo la quale è reato non solo il fatto previsto come tale dalla legge, ma anche ciò che contro il sano sentimento del popolo. Ovviamente questo tipo di legalità non garantisce i cittadini da abusi ed arbitri di potere. Oggi, oltre all’art.25 c.2 e 3 Cost., il disposto di cui art. 101, c.2 Cost. esclude qualsiasi deriva in senso sostanzialistico, imponendo quale limite della potestà punitiva dello stato in materia penale sia sotto il profilo dei fatti vietati che delle relative sanzioni. A livello costituzionale il principio è contenuto nell’art.25 Cost. 2 c., per quanto riguarda le misure di sicurezza al 3. Questo modello di legalità, c.d. formale, impone al giudice di considerare reato solo ciò che è previsto come tale dalla legge. Il problema diviene quello d’individuare il significato del termine legge, ai sensi delle citate disposizioni costituzionali e ordinarie. lOMoARcPSD|1516064 extra giuridico. Si pensi ai termini “osceno” o “pudore”, rilevanti ai sensi dei delitti di atti osceni in luogo pubblico (art 527 e 529 c.p.) e di atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 c.p.): si tratta di concetti che variano a seconda dei periodi e delle epoche sporiche. Ma non si tratta di attribuire una rilevanza alla consuetudine, come elemento che integra la fattispecie incriminatrice ab externo, bensì di interpretare i concetti necessariamente elastici in modo adeguato alla percezione che ne ha il cittadino equilibrato ed adulto, in un dato momento storico. Occorre ricordare come, in alcuni casi, sia la legge penale a far riferimento alla consuetudine, in tal casi il giudice, nel verificare la corrispondenza tra fattispecie incriminatrice astratta e fatto concreto, dovrà tenere conto degli usi, ma il principio di legalità resta salvo. È il caso della circostanza aggravante del furto (art.625 n. 7 c.p.) che prevede un aumento di pena quando la cosa mobile altrui sottratta sia esposta alla pubblica fede (es. capi di abbigliamento esposti al mercato). L’ultima ipotesi attiene alla c.d. consuetudine scriminante: può il giudice, applicare una causa di giustificazione non codificata, ma ritenuta rilevante dai consociati, in virtù di un uso consolidato, generalizzato e diffuso? La tesi negativa insiste sulla necessità di preservare al massimo il rispetto del principio di legalità. Altri ammettono la rilevanza della consuetudine scriminante, sempre che non si vada ad incidere su elementi già disciplinati dalla legge. 5. Riserva di legge assoluta o riserva relativa? L’ingresso delle fonti subordinate La normazione penale è esclusivo appannaggio legislativo. Ma le legge può rinviare, per la descrizione di 1 o + elementi costitutivi della fattispecie penale, ad una fonte di rango inferiore? Nei primi anni successivi alla Costituzione, una parte della dottrina, nell’intento di salvare parte della legislazione penale ereditaria del periodo fascista, tendeva dare una risposta positiva al quesito. Secondo tale impostazione, la riserva di legge sarebbe stata rispettata anche se interveniva una fonte regolamentare, purché ciò avvenisse sulla base di un rinvio operato dalla legge (c.d. riserva relativa). In tal modo, si snaturava, la ratio di garanzia del principio in oggetto, dal momento che, per in presenza di un rinvio operato dalla legge, l’intervento lOMoARcPSD|1516064 della fonte regolamentare sottrae all’organo elettivo l’individuazione degli elementi del fatto tipico, incidendo sull’individuazione dei fatti vietati. Si è, quindi, consolidata un’idea di riserva assoluta di legge, in virtù del quale tutti gli elementi costitutivi, le sanzioni devono essere indicati dalla legge. Se, invece, la legge rinvia ad un precedente regolamento, la riserva (assoluta) di legge è rispettata nel caso del c.d. rinvio recettizio, quando, cioè, l’amministrazione non possa più modificare l’atto regolamentare, dopo l’entrata in vigore della legge che lo richiama nel precetto penale. Qualora, l’amministrazione possa modificare il regolamento anche dopo l’entrata in vigore della legge che lo richiama (c.d. rinvio mobile), allora la riserva di legge è violata. Una diversa ipotesi attiene all’integrazione, da parte della fonte subordinata, di elementi del fatto che non coinvolgono alcuna discrezionalità, perché relativi ad aspetti tecnici del reato: esempio, in materia di stupefacenti (art. 73 d.p.r. n. 309/1990 c.d. testo unico in materia di stupefacenti) rimanda, per l’individuazione delle sostanze oggetto delle condotte vietate ad una tabella periodicamente aggiornata dal Ministro della Salute. L’ultima questione riguarda alle c.d. norme penali in bianco, cioè quelle fattispecie incriminatrici che richiamano un provvedimento amministrativo. Un esempio è costituito dalla contravvenzione in ottemperanza dei provvedimenti delle autorità (art.650 c.p.), che punisce chi “non osserva un provvedimento legalmente dato dall’autorità per ragione della giustizia o sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene”. Com’è evidente l’ordine dell’autorità costituisce un elemento fondamentale, nella struttura della fattispecie incriminatrice, suscitando fondate riserve sul reale rispetto del principio di riserva di legge. In altre parole, il rinvio alla fonte subordinata sarebbe legittimo, ogni volta vi sia una sufficiente specificazione del precetto da parte della norma di legge. Peraltro, tale criterio pare poco risolutivo, proprio per la sua evidente genericità. Attualmente si tende a distinguere a seconda che il provvedimento richiamato sia di ordine generale o particolare e specifico. In quest’ultimo caso, costituendo l’atto stesso un elemento estrinseco, il principio di legalità sarebbe rispettato, sempre che la norma penale indichi con precisione l’ambito all’interno del quale l’atto deve essere emanato. lOMoARcPSD|1516064 6. L’interazione dell’ordinamento penale nazionale con l’ordinamento comunitario. 6.1. L’incidenza delle fonti comunitarie. I trattati istitutivi dell’Unione Europea hanno posto con urgenza il problema dell’interazione tra disciplina sovranazionale e diritto penale interno degli Stati membri. In un sistema impostato rigidamente sul principio di legalità, appare evidente che gli organi sovrannazionali non possono avere potestà normativa in materia penale, dal momento che solo il Parlamento può legittimamente individuare i fatti vietati e le pene. Questa assenza di potestà normativa penale c.d. diretta si fonda anche sulla considerazione che i 3 trattati istitutivi dell’UE non prevedono una competenza penale diretta degl’organi comunitari. 6.2 La tutela penale degli interessi di rilevanza comunitaria: assimilazione, armonizzazione e unificazione del diritto penale. Il problema della tutela degli interessi comunitari si è posto con grande rilevanza. Le fonti comunitarie (in modo particolare le direttive) possono imporre agli Stati l’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, a tutela d’interessi comunitari o di particolare rilievo. L’esercizio di tale potestà è divenuta, negli anni, sempre più pressante, ed ha trovato un momento di particolare sostegno nel tratto di Lisbona. In particolare l’art.83 del TFUE, il quale prevede che il Parlamento ed il Consiglio attraverso direttive possono stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e sanzioni in sfere di criminalità gravi, con una dimensione transnazionale. Vengono, poi, specificate le 9 materie nell’ambito in cui l’UE può stabilire regole minime: 1. Terrorismo 2. Tratta esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e minori 3. Traffico illecito stupefacenti lOMoARcPSD|1516064 La disapplicazione della norma penale interna produce che se vi è stata sentenza anche definitiva di condanna, ne cessano immediatamente l’esecuzione e gli effetti. Se il contrasto è solo parziale, il giudice dovrà disapplicare solo quella parte della norma interna in contrasto con la disciplina sovranazionale. Occorre ricordare che il giudizio di legittimità da parte della Corte costituzionale sulle norme interne che violino principi contenuti in una direttiva dell’unione europea vale anche nei confronti delle norme di favore. Infine, anche a livello interpretativo, la presenza del diritto comunitario impone al giudice di scegliere, tra le diverse interpretazioni quella più conforme ai principi comunitari. 6.3. Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto penale. Tra le norme di diritto pattizio di maggior importanza in ambito penale, la Convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) ha un ruolo centrale. Anche rispetto alla CEDU occorre dire che non vi possono essere fattispecie penali introdotte direttamente nel nostro ordinamento da atti sovrannazionali, dal momento che art.25 Cost. prevede che solo una legge del parlamento possa disporre in questo senso. Peraltro, in base art.117 Cost., la potestà legislativa dello stato è esercitata nel rispetto non solo della costituzione, ma anche dai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e da obblighi internazionali. Quindi, nell’esercizio del potere legislativo, il Parlamento non potrà emanare norme penali in contrasto con una previsione CEDU, e se ciò dovesse accadere la norma dovrebbe essere dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. CAPITOLO V - SUCCESSIONI DI LEGGI PENALI NEL TEMPO 1. Il principio di irretroattività lOMoARcPSD|1516064 Il secondo corollario del principio di legalità è il divieto di retroattività della legge penale. È evidente la ratio di garanzia del principio; dall’altro canto, l’irretroattività della legge penale svolge anche una fondamentale funzione di certezza, dal momento che i cittadini devono essere messi in grado di sapere in anticipo, con chiarezza quali sono le possibili conseguenze penali dei loro comportamenti, per poter orientare con consapevolezza il proprio agire. Nell’attuale ordinamento giuridico vi sono ben 4 norme da prendere in considerazione: art 11 delle disposizioni sulle leggi in generale prevede, in termine generali, che la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo. Anche art.2 c. 1 del c.p. del 1930 afferma che nessuno piò essere punito per un fatto che, secondo la legge del momento in cui fu commesso, non costituiva reato. Peraltro, se ci dovessimo fermare a queste due norme, il parlamento potrebbe derogare in qualsiasi momento tale principio. Tale esito è precluso dall’art.25 c.2 Cost., il quale impone che la legge alla stregua della quale si punisce un certo fatto di reato debba essere entrata in vigore prima del fatto commesso. Infine, la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali all’art.7 prevede il principio di irretroattività. 2.Il principio di retroattività della legge penale più favorevole. (art.2 c.p.) L’art.25 c.2 Cost. impone il divieto d’irretroattività di nuova fattispecie incriminatrice, mentre l’art.2 c.p., nei commi successivi al primo, introduce una disciplina della successione delle leggi penali nel tempo improntata al canone della retroattività delle disposizioni penali più favorevoli al reo. Occorre, domandarsi se la regola dell’applicazione retroattiva più favorevole al reo abbia copertura costituzionale. L’art.25 c.2 Cost., non offre spunti di rilievo a riguardo. Ma la nostra giurisprudenza costituzionale ha individuato nel principio di uguaglianza (art.3 Cost.), sotto lo specifico profilo della ragionevolezza, un possibile recepimento del canone in questione. Se il legislatore interviene ad abrogare una fattispecie incriminatrice, di modifica, in senso favorevole al reo una norma penale non sarebbe ragionevole continuare ad applicare le precedenti e più severe norme a chi viene giudicato oggi, anche se ha commesso il fatto sotto il vigore della legge precedente. lOMoARcPSD|1516064 Pertanto, anche la retroattività della legge penale più favorevole è imposta dalla Cost., ma non senza limite: il legislatore potrebbe introdurre una deroga al principio, ma solo se l’eccezione è giustificata da una qualche ragionevolezza, quale, per es. la necessità di bilanciare tra 2 interessi contrapposti, entrambi meritevoli di considerazione. Nel dettaglio, la disciplina in materia di successione di leggi penali nel tempo, di cui art.2 c.p., appare complessa. Una prima ipotesi è quella dell’abolitio criminis, che si verifica quando una legge successiva abroga una precedente fattispecie incriminatrice. A riguardo, art.2 c.2 c.p. prevede che non possono essere puniti coloro che hanno commesso il fatto sotto la vigenza della precedente legge incriminatrice, ed anzi, se già vi è stata sentenza di condanna, anche definitiva, ne debbano cessare immediatamente l’esecuzione e gli effetti penali. La ratio di questa previsione è evidente: non avrebbe senso continuare a far espirare una sanzione detentiva a colui che ha commesso un fatto che non viene più considerato meritevole di pena. Il nostro sistema è rigorosamente improntato al diritto penale del fatto e non ha alcun pregio argomentare che l’autore ha cmq dimostrato una certa capacità criminale, violando la legge penale, quando il fatto in oggetto era ancora considerato criminoso. Il c.4 disciplina la diversa ipotesi della successione delle leggi penali nel tempo: il fatto è reato sia nella vigenza della legge precedente che di quella successiva, ma la disciplina è diversa. La regola dettata dal codice è che il giudice debba applicare le legge più favorevole al reo. Un primo problema è quello di distinguere tra abolitio criminis e successione di leggi penali del tempo. Si pensi alla riforma dei delitti contro la libertà sessuale, introdotta con la l.n. 66/96. La legge di riforma ha all’art.1, abrogato il capo del codice penale ove era contenuto il delitto di violenza sessuale. Ebbene, ritenere che i responsabili di uno stupro commesso prima dell’entrata in vigore della legge di riforma non dovessero essere puniti sarebbe stata conseguito priva di qualsiasi senso e ragionevolezza. Pertanto, può parlarsi di abolitio criminis solo quando non rientri più a nessun titolo, nella nuova fattispecie. Se vi è quella che la nostra dottrina chiamano criterio strutturale, se cioè rientra sia nella prima che nella seconda fattispecie, si dovrà ritenere che vi sia successione di leggi penali nel tempo. Pertanto colui che avesse costretto, con violenza, la vittima a subire un lOMoARcPSD|1516064 Con la costituzione, la Corte con sent. N. 51/1985, ha dichiarato l’illegittimità dell’art.2 c.5 c.p., per i fatti antecedenti all’entrata in vigore del decreto, poi non convertito. Il nuovo regime non pone problemi nel caso del c.d. fatto antecedente, cioè ammesso prima dell’entrata in vigore del decreto legge non convertito. Più complessa è l’ipotesi di un decreto legge favorevole al reo, poi non convertito, quando il fatto sia concomitante alla vigenza del decreto stesso. In tal caso, è vero che ai sensi dell’art.77 Cost., il decreto è tamquam non esset, ma è evidente che il soggetto ha agito nelle legittimità consapevolezza della liceità. Al riguardo, la dottrina ritiene che si debba operare un affronto sistematico tra l’art. 77 e 25 della Cost. e ritiene che è prevalente la norma dettata in materia di libertà personale dei cittadini. Pertanto, anche se il decreto legge non viene convertito il soggetto non potrà essere punito, sulla base della legittima aspettativa di tenere un comportamento lecito. 5.Successione di leggi penali e norme integrative extrapenali. Qualora si verifichi una modifica normativa che non riguarda direttamente la fattispecie incriminatrice, ma un elemento normativo della fattispecie legale, si applica il principio della retroattività della lex mitior? Si pensi al reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine del questore di allontanarsi dal territorio dello stato, commesso da un cittadino rumeno. Con l’adesione della Romania all’UE, il fatto resta punibile o il nuovo status ha effetti retroattivi, rendendo non punibile il reo? Prima ipotesi, la disciplina art. 2 c. 2 e 4 c.p. dovrebbe applicarsi anche in questo caso, con il conseguente venir meno della punibilità del colpevole. Seconda ipotesi, in realtà muovendo dall’idea che il disvalore del fatto permane, anche dopo dell’avvenuto, mutato quadro normativo di riferimento, la giurisprudenza di legittimità ritiene che la retroattività della fattispecie incriminatrice, e non anche per eventuali modifiche della situazione di fatto che, pur facendo da presupposto alla norma penale, non la integrano. lOMoARcPSD|1516064 La corte ha ritenuto che l’adesione della Romania all’UE non ha determinato la non punibilità del reato, in quanto il trattato di adesione e la relativa legge di ratifica si sono limitati a cambiare la situazione di fatto, facendo perdere ai rumeni lo status di straniero, senza che tale circostanza sia stata in grado di operare retroattivamente. 6.Gli effetti delle sentenze di illegittimità costituzionale. La Corte costituzionale, con le sue sentenze, può influire sul sistema. In virtù del principio di riserva di legge, non è mai consentito, alla Corte, estendere l’incriminazione oltre i limiti previsti dalla fattispecie, né inasprirne il regime sanzionatorio. Pertanto, quando l’incriminazione di un certo fatto risulti irragionevole, la Corte non può estendere la punibilità ai fatti non previsti, ma deve dichiarare l’illegittimità della norma che senza ragione limita la punibilità. Ciò è avvenuto con la contravvenzione che puniva la bestemmia (art 724 c.p.) contro i simboli e le persone della religione dello stato (cattolica). Chiarito che la norma escludeva le offese verso le altre religioni, la Corte ha dichiarato la sua illegittimità nell’inciso in questione. Ora, quali problemi si pongono in tema di successioni di leggi penali nel tempo? Muovendo dal tenore letterale dell’art. 136 Cost., secondo cui: quando la corte dichiara l’illegittimità di una norma essa cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Nei primi anni, dopo l’entrata in vigore della costituzione si riteneva che la declaratoria di illegittimità di una fattispecie incriminatrice avesse efficacia ex nunc, con la conseguenza che, per i fati commessi durante la vigenza, si sarebbe dovuto applicare il regime previsto dall’art.2 c.p. Tale soluzione era poco applicabile; se la declaratoria di illegittimità costituzionale valesse ex nunc, gli effetti maturati sotto la vigenza della norma stessa non ne sarebbero stati toccati e per tanto la questione di legittimità sarebbe irrilevante per il giudizio in corso. Per ovviare a questo problema la l. n. 87/1953 ha previsto che: le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Quando in applicazione della norma incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali. lOMoARcPSD|1516064 Quindi, la situazione è identica a quella prevista per i decreti legge, non convertiti: la declaratoria di illegittimità opera ex tunc ma, ai sensi dell’art.25 c.2 Cost., se la norma stessa era più favorevole al reo di una precedente, si continuerà ad applicare il regime più favorevole. 6.1. La questione della ammissibilità del sindacato sulle leggi penali di favore. La corte costituzionale non può estendere l’ambito di operatività di una fattispecie incriminatrice, ciò non significa che sia sempre precluso il sindacato di legittimità sulle leggi penali di favore, in modo particolare quando esse creino delle zone franche. Al riguardo, la giurisprudenza della Corte cost., inizialmente, ha escluso che si potesse sindacare la legittimità di una norma penale di favore, per mancanza di rilevanza della questione: il nuovo, severo regime derivante dalla declaratoria di illegittimità non si sarebbe potuto applicare retroattivamente a chi avesse tenuto una condotta nel vigore della norma più favorevole. Quindi, tale orientamento è stato superato, in riferimento alle situazioni nelle quali la norma di favore non delimita l’ambito di applicazione di una fattispecie incriminatrice, ma sottrae una categoria di soggetti o condotte dall’applicazione della norma stessa. Attualmente, il sindacato di costituzionalità sulle norme di favore è ammesso, solo quando si tratta di riparare a quello che è stato definito come odioso privilegio. 7.Successione di leggi penali nel tempo e crimini internazionali: cenni. Si definiscono come crimini internazionali i crimini di guerra, il genocidio, i crimini contro l’umanità e contro la pace. Essi sono stati oggetto di processi che hanno dato origine ad una sorta di diritto penale internazionale, che prescinde dalla normativa vigente di ogni singolo stato. Capitolo VI lOMoARcPSD|1516064 quali sia possibile un rinvio al normale significato linguistico, soprattutto se valutati non in sé, ma nel contesto testuale della fattispecie incriminatrice, intesa nel suo complesso. Alcune volte il riferimento al significato linguistico del termine viene arricchito dalla lettura che il giudice ne deve dare, non alla luce degli altri elementi della fattispecie, quanto ai principi generale di carattere costituzionale. In questo senso la corte ha respinto una questione di illegittimità dell’art. 15 l. 47/1948, nella parte nella quale estende la norma incriminatrice dell’art. 528 c.p. (pubblicazioni e spettacoli osceni) agli stampati che illustrano avvenimenti realmente avvenuti, con particolari forti, in modo da perturbare il comune senso della morale. In altri casi, si è ritenuto rispettato il parametro della determinatezza, facendo riferimento al c.d. diritto vivente, cioè all’interpretazione di un certo termine. Esempio di ciò è la vicenda del disastro innominato (art.434 c.p.) che punisce chiunque cagioni un altro disastro, diverso da quelli previsti nel titolo. Capitolo VII INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO PENALE E DIVIETO DI ANALOGIA 1. L’interpretazione del diritto penale Per quanto il legislatore si sforzi di scrivere norme penali precisi, chiare, determinate, sarà sempre necessario interpretare il testo normativo, al fine di rendere possibile quel raffronto tra fattispecie astratta e fatto storico, che costituisce il paradigma dell’attività giudiziaria. Questa attività d’interpretazione è detta autentica, quando arriva dal legislatore, o ufficiale, se proviene dall’autorità amministrativa. Sempre dal punto di vista del soggetto da cui promana si distingue in interpretazione giudiziale o dottrinale, o secondo che deriva dal giudice o sia la riflessione dei giuristi. Nel nostro ordinamento il precedente giudiziario non vincola l’interprete. Il c.d. diritto vivente si evolve continuamente, grazie ai mutamenti interpretativi. L’idea di un diritto penale che non ha bisogno di particolari attività interpretative è abbandonata, nella consapevolezza che il dettato normativo lOMoARcPSD|1516064 deve sempre e comunque essere interpretato, per via dell’inevitabile ambiguità del linguaggio umano. Il sistema penale deve tendere ad un punto di equilibrio tra rispetto della legalità e attività interpretativa del giudice, che deve dare credibilmente conto della corrispondenza tra fatto tipico e fattispecie astratta. I due criteri fondamentali paiono essere il significato letterale delle parole e l’intenzione del legislatore. Il problema della rilevanza dei canoni interpretativi viene rinviato: da un lato il richiamo al significato letterale delle parole sconta la citata ambiguità di qualsiasi linguaggio umano; ma soprattutto, la norma oggetto nulla dice riguardo la soluzione dei casi nei quali i due citati canoni risultino essere in contrasto tra loro. Il primo criterio interpretativo è quello semantico, il primo sforzo dell’interprete deve essere quello di chiarire il senso lessicale dei termini utilizzati dal legislatore. Questo è un passaggio tanto necessario, quanto insufficiente dal momento che alcuni aspetti della fattispecie sono caratterizzati dall’ambiguità che richiede ulteriori interpretazioni. Viene in aiuto un secondo canone interpretativo, c.d. criterio storico, cioè la necessità di rifarsi alla volontà del legislatore, intesa come l’oggettivazione di una volontà storica. Anche questo criterio si presta a delle critiche, perché il testo normativo è il frutto di una seri di istanze diverse, anche contrapposte che con difficoltà possono essere ricondotte ad una unità. Un terzo criterio è quello logico-sistematico, che consiste nel cercare tra tutti i possibili significati della norma penale, quello più coerente con l’ordinamento nel suo insieme. Il metodo sistematico è utilissimo quando si tratta di interpretare norme penali che richiamano concetti normativi giuridici extrapenali; ma spesso si tratta di un metodo di grande utilità, anche per il sistema penale. Infine, l’ultimo criterio interpretativo è quello teologico in cui occorre individuare lo scopo della fattispecie incriminatrice. Questo metodo è quello più rischioso, dal momento che i beni tutelati e delle esigenze di tutela sono influenzati da elementi politici, ideologici, etiche…che rischiano di inquinare l’interpretazione delle norme penali. lOMoARcPSD|1516064 2.Il divieto di analogia. Per analogia si intende l’integrazione dell’ordinamento giuridico attraverso l’applicazione, ad un caso non regolato dalla legge, dalla disciplina prevista per casi simili. Legittima negli altri ambiti dell’ordinamento giuridico l’analogia è vietata nel diritto penale. La nostra dottrina individua un quarto corollario del principio di legalità, il c.d. principio di tassatività che impone al giudice di limitare l’ambito di operatività della norma penale ai soli fatti in essa tassativamente descritti. Il problema fondamentale attiene al confine tra analogia ed interpretazione estensiva del diritto penale, che sarebbe consentita nella misura in cui sia rispettato il limite del significato letterale della norma. Capitolo VII LIMITI SPAZIALI ALLA EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE 1. Il diritto penale nazionale ed il rapporto con gli altri regolamenti: i criteri. Con quali limiti spaziali si applica la legge penale italiana? La risposta impone di analizzare alcune norme del codice, che disciplinano l’obbligatorietà della legge penale (art. 3 c.p.), il concetto di territorio dello stato (art.4 c.p.) e il delitto commesso nel territorio dello stato (art. 6 c.p.), la nozione di delitto politico (art.8), la rilevanza penale dei fatti commessi interamente all’estero (artt. 7,9,10 c.p.), l’estradizione attiva e passiva (art. 13) e la rilevanza delle sentenze penali straniere (art. 11 e 12). Bisogna chiarire, prima di entrare nel dettaglio, che i criteri alla stregua dei quali valutare l’obbligatorietà della legge penale sono 4. Secondo il principio di universalità, è punito alla stregua del diritto penale italiano qualsiasi delitto anche all’estero. Il principio di territorialità, limita l’applicazione della nostra legge ai soli fatti commessi nel territorio dello stato. lOMoARcPSD|1516064 Altra categoria di delitti, puniti dalla legge italiana, anche se commessi all'estero è quella dei delitti politici. L'art. 8 c.1 c.p. prevede, che il cittadino o straniero che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli dell'art.7 c.1 è punito secondo la legge italiana. In questo caso, la punibilità è subordinata ad una condizione di procedibilità: la richiesta del ministro della giustizia. Se, il delitto è perseguibile di querela, oltre alla richiesta del ministro sarà necessaria la querela del soggetto passivo. Alla stregua di questa norma si considera politico qualsiasi fatto di reato che sia oggettivamente tale cioè un interesse dello stato alla propria indipendenza, integrità territoriale, nonché il diritto dei cittadini a partecipare alla vita politica dello Stato. Ma l'art.8 c.3 c.p. ricomprende il delitto soggettivamente politico cioè il delitto comune determinato da motivi politici. L'estrema estensione del concetto di delitto politico si spiega con la precisa volontà di eliminare gli oppositori del regime, compresi quelli all'estero. Naturalmente, il quadro muta con l'entrata in vigore della Costituzione che prevede due disposizioni in materia di delitto politico: agli art. 10 e 26, che impediscono l'estradizione per reati politici, dello straniero e del cittadino. 3.3 Delitti comuni commessi all'estero Gli art. 9 e 10 c.p. completano il quadro dei casi nei quali un delitto comune, cioè non politico, anche se commesso interamente all'estero può essere sottoposto alla legge italiana. A questi fatti non sono posti incondizionatamente, ma la legge prevede alcune condizioni di procedibilità. In particolare l'art.9 c.p. prende in esame i delitti commessi dal cittadino italiano all'estero, prevedendo l'applicabilità della legge penale italiana, per i delitti puniti con l'ergastolo o la reclusione per un minimo di 3 anni. La punibilità è subordinata alla condizione di procedibilità che il reo si trovi nel territorio dello stato. Ai sensi c.2 “se si tratta di delitto per il quale è stabilita pena restrittiva della libertà personale di minore durata, il colpevole è punito a richiesta del ministro lOMoARcPSD|1516064 di grazia e giustizia o a istanza o querela della persona offesa”. Anche in tal caso è necessaria la presenza del reo nel territorio dello stato. Infine, ai sensi dell'ultimo comma art.9 “qualora si tratti di delitto commesso a danno CE, di uno stato estero o di uno straniero (cioè quando difetti il requisito della soggettività passiva), il colpevole è punito a richiesta del ministro di grazia e giustizia”, ma la punibilità è subordinata ad un'ulteriore condizione: che l'estradizione del reo, cittadino italiano, non sia stata concessa o accettata dal governo dello stato in cui il delitto è stato commesso. Dal canto suo art.10 c.p. disciplina l'applicabilità della legge penale italiana ai delitti commessi interamente all'estero da uno straniero. In questo caso, trattandosi di fatti che esulano dalla soggettività attiva le condizioni di procedibilità sono ancora più rigorose. In particolare, se il fatto è commessi contro un cittadino italiano o verso lo stato, in virtù del principio della soggettività passiva, si applica la legge penale per i delitti puniti con l'ergastolo o con la reclusione non inferiore ad un minimo di un anno, ma sono richieste le condizioni di procedibilità sia della richiesta del ministro della giustizia, nonché della presenza del colpevole nel territorio dello stato. Se, il soggetto passivo è la CE, uno stato estero, uno straniero il colpevole è punito secondo la legge italiana, a richiesta del ministro di grazia e giustizia, sempre che si trovi nel territorio dello stato; si tratti di delitto per il quale è stabilita la pena all'ergastolo o la reclusione non inferiore ai 3 anni; l'estradizione non sia stata concessa o non accettata dal governo dello stato in cui è stato commesso il reato o da quello dello stato a cui egli appartiene. Una particolare disciplina è dettata dall'art. 604 c.p. per i delitti contro la personalità individuale, nonché per i delitti contro la libertà sessuale, incondizionatamente puniti, anche se commessi all'estero, da cittadino italiano. Se commessi da uno straniero in concordo con cittadino italiano, la punibilità dello straniero è subordinata alle condizioni che si tratti di delitto per il quale è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo di 5 anni, e che vi sia richiesta dal ministro della giustizia. Se commessi da uno straniero, a danni di uno straniero, si applica la generale disciplina art.10 c.2 c.p. 4.Strumenti di collaborazione internazionale 4.1. Rinnovamento del giudizio lOMoARcPSD|1516064 Il quadro complessivo dei limiti spaziali della legge penale italiana si completa attraverso il riferimento ai rapporti di collaborazione internazionale. La prospettiva “autarchica” del cod. del 1930 viene confermata dalle previsioni in materia di rinnovamento del giudizio. L’art.11 c.1 c.p. prevede che il cittadino e lo straniero, che abbiano commesso un reato nel territorio dello Stato, vengano giudicati in Italia, anche se vi è stato già giudizio all’estero. Nel caso il delitto fosse stato commesso all’estero, ma punibile in Italia, ai sensi art. 7-10 c.p., si procede alla rinnovazione del giudizio solo se vi è richiesta del Ministro della giustizia (art.11 c.2). L’atteggiamento di sfiducia del nostro ordinamento verso gli altri paesi è stato superato a seguito degli impegni assunti dal UE. In particolare dall’art. 54 della convenzione di applicazione dell’Accordo Schengen 1985, introdotto nel 1993 che ha istaurato il principio del ne bis in idem, in virtù del quale è vietato procedere una seconda volta e quando la pena sia già stata scontata o sia in esecuzione. 4.2.Riconoscimento delle sentenze penali straniere Corollario del rinnovamento del giudizio penale emesso all’estero è il limitato riconoscimento delle sentenze penali straniere. Ai sensi dell’art. 12 c.p., queste pronunce, se emesse per un delitto, possono spiegare effetti nel nostro ordinamento per quanto attiene alla dichiarazione della recidività o per l’applicazione di una pena accessoria o misura di sicurezza personale. Peraltro il riconoscimento è subordinato all’esistenza di un trattato di estradizione con il paese straniero che l’ha ammessa, o se tale trattato non esiste, alla richiesta del Ministro della giustizia. Anche con riferimento al riconoscimento delle sentenze penali, la disciplina sovrannazionale ha inciso sul disposto del codice originario, sostituendo una diversa disciplina, informata all’opposto principio della collaborazione tra Stati. L’UE ha emanato alcune disposizioni quadro, finalizzate al reciproco riconoscimento, tra i paesi membri, delle sentenze penali in materia di pene detentive e misure limitative della libertà; pene pecuniarie, confisca; misure sospensive o sostitutive. Il nostro ordinamento ha recepito la decisione quadro 2008/909/GAI del consiglio, del 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco lOMoARcPSD|1516064 reati che comportano il ricorso a bombe, granate, razzi, plichi o pacchi esplosivi. Un ulteriore vincolo è posto dall’art. 698 c.p.p. che dopo aver ribadito che non può essere estradato chi abbia commesso reati politici, vieta la concessione dell’estradizione quando l’imputato o condannato corre il rischio di essere sottoposto ad atti di persecuzione e di discriminazione per motivi di razza religione, sesso...; a pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti; ed atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona. Rilevante è il divieto di concedere l’estradizione per un reato che è punito con la pena di morte. In tal caso, l’estradizione può essere dato solo se lo stato straniero da assicurazioni, ritenute sufficienti sia dall’autorità giudiziaria sia dal Ministro di grazia e giustizia, che tale pena non sarà inflitta o, se già inflitta, non sarà eseguita. 4.4.Mandato di arresto europeo Attualmente, tra gli stati europei, l’estradizione è stata sostituita dal mandato di arresto europeo, provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria del paese, che impegna tutti gli altri stati a darvi esecuzione, per l’arresto di un ricercato o per l’esecuzione di una pena. L’emissione e l’esecuzione di tale mandato sono di esclusiva competenza giurisdizionale e prescindono da qualsiasi intervento dell’autorità governativa. Inoltre, non è previsto il sistema della doppia incriminazione. Il mandato d’arresto non può essere emesso per reati politici, tranne che per i fatti di genocidio e terrorismo. PARTE TERZA - IL REATO CAPITOLO IX - STRUTTURA GENERALE DEL REATO 1. La teoria sulla struttura del reato. Fu merito della scuola classica avere avviato in modo significativo lo studio del diritto penale attraverso l’analisi del reato quale ente giuridico astratto: si affermò che il reato era composto da 2 elementi, una forza fisica, lOMoARcPSD|1516064 corrispondente all’elemento oggettivo, l’altro forza psichica, corrispondente all’elemento soggettivo. Ciò aveva portato al fatto che, il modello analitico nello studio del reato aveva portato ad un eccesso di concettualismo dogmatico, che non serviva a nulla. La critica al modello analitico è arrivata da alcuni autori tedeschi che proposero di affrontare l’analisi del reato secondo un modello sintetico. Confermata l’arbitrarietà del modello induttivo il fatto che lo stesso si sia affiancato a due momenti di crisi del diritto penale tedesco durante il nazionalsocialismo: l’ingresso dell’analogia in materia penale ed il diritto penale d’autore. Dunque, l’unico approccio possibile allo studio del reato non può che essere di tipo analitico e sul punto la dottrina ha elaborato diversi modelli di teoria generale finalizzati ad incasellare entro categorie generali gli elementi costitutivi della fattispecie. Le 2 principali correnti dottrinali optano per la bipartizione o tripartizione del reato. Secondo la concezione bipartita, il reato si compone di 2 elementi: il fatto oggettivo e l’elemento soggettivo. Nel fatto oggettivo sono compresi tutti gli elementi oggettivi richiesti dalla singola fattispecie incriminatrice (c.d. elementi positivi del fatto): ad es., nel delitto di omicidio la causazione della morte dell’uomo; nel furto la sottrazione e impossessamento della cosa altrui. La presenza di tali elementi non è sufficiente ad integrare gli estremi del reato, perché possono sussistere particolari situazioni in presenza delle quali il fatto è autorizzato o imposto dall’ordinamento giuridico. Si tratta delle c.d. cause di giustificazione che possono autorizzare o imporre (legittima difesa, adempimento di un dovere) un fatto che, in loro assenza, costituirebbe reato. Secondo la teoria bipartita le scriminanti costituiscono elementi oggettivi negativi del fatto che devono mancare affinché il reato esista. Al fatto, si affianca l’elemento soggettivo in quanto la responsabilità penale non può essere fondata solo sulla base di elementi di natura oggettiva. Secondo i suoi sostenitori tale teoria corrisponde la disciplina degli art. 47 e 59 ult.c. c.p. l’art.47 prevede che l’errore sul fatto esclude la punibilità, ma se si tratta di errore determinato da colpa, residua una responsabilità colposa, se il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo. L’art. 59 ult. c. c.p. disciplina l’errore sull’esistenza della causa di giustificazione: qui il soggetto lOMoARcPSD|1516064 erroneamente si presenta in una situazione che darebbe luogo all’applicazione di una causa di giustificazione. Secondo la teoria tripartita, gli elementi costitutivi del reato vanno ricondotti alle 3 categorie del fatto tipico, dell’antigiuridicità e della colpevolezza: la prima include gli elementi oggettivi del reato; nella seconda ci sono le cause di giustificazione e nella terza si identificano gli elementi soggettivi che consentono di muovere al soggetto un rimprovero per il fatto commesso. Questa ricostruzione del fatto offre 2 vantaggi. Primo, si adegua meglio al procedimento di accertamento giudiziale del reato, in quanto il giudice accerta prima l’elemento oggettivo (caio uccide tizio), poi l’assenza di cause di giustificazione (mancanza di legittima difesa) e l’elemento soggettivo (caio ha agito con dolo o colpa). Secondo, la tripartizione consente di far emergere le specifiche funzioni a cui corrispondono le 3 categorie dogmatiche. Il fatto tipico permette di individuare le modalità di offesa del bene giuridico, ma rappresenta solo un indizio della contrarietà del fatto all’ordinamento giuridico, perché è necessario verificare se una norma autorizza o impone il fato costitutivo del reato; secondo questa impostazione le scriminanti non avrebbero natura strettamente penale, ma sarebbero norme generali dell’intero ordinamento giuridico dotate di efficacia infrasistematica che rende legittimo il fatto. Infine. La categoria della colpevolezza esprime l’esigenza di un giudizio di rimproverabilità soggettiva per il fatto commesso. La distinzione tra i due modelli teorici si riduce alla diversa collocazione delle scriminanti che per la bipartita costituiscono gli elementi negativi del fatto, per la tripartita fondano la categoria dell’antigiuridicità. Tra i reati propri va considerata una particolare sottocategoria nella quale è necessario che sia sempre il soggetto titolare della qualifica a tenere la condotta tipica anche quando il fatto è commesso in concorso da più persone (reati di mano propria): es. il delitto di incesto può essere commesso solo se i soggetti sono legati tra di loro da vincoli di parentela. 2.Le immunità. Ai sensi dell’art.3 c.p. la legge penale italiana obbliga tutti coloro che si trovano nel territorio italiano, salvo le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno e da quello internazionale. Il carattere obbligatorio della legge penale sembra subire una deroga, in casi previsti. Le eccezioni sono costituite dalle c.d. immunità. Esse hanno natura giuridica di cause personali di esenzione della pena: escludono la punibilità del soggetto e sono estranee alla struttura del reato. Trattandosi di cause di non punibilità di natura personale, la loro applicazione è limitata al soggetto a cui si riferiscono e non si estendono ai concorrenti. Dall’art. 3 c.p. si ricava che le immunità si distinguono in base alla fonte che le prevede in immunità di diritto pubblico interno e internazionale. Si distinguono in immunità funzionali ed extrafunzionali, a seconda che la non punibilità riguardi solo i reati commessi nell’esercizio delle funzioni legate all’ufficio o investa anche gli atti realizzati al di fuori dell’esercizio delle funzioni. Un’altra importante distinzione è tra immunità sostanziali e processuali: le prime sono cause personali di non punibilità, le seconde interessano il processo e consistono in ostacoli al promovimento dell’azione penale o al compimento di specifici atti processuali. Le immunità spezzano il legame tra reato e punibilità, sollevando la questione della loro compatibilità con il principio di uguaglianza: l’eccezione alla obbligatorietà della legge penale, richiede una copertura costituzionale che consenta di giustificare l’esenzione della pena o degli ostacoli processuali. Le immunità si inquadrano nel genus degli istituti diretti a tutelare lo svolgimento delle funzioni di determinati organi, tramite la protezione del titolare della carica, derogando al regime giurisdizionale comune e quindi al principio di uguaglianza. 2.1. Immunità di diritto pubblico interno Tra le immunità di diritto pubblico interno si segnalano quelle previste dalla costituzione o da leggi Cost., queste non hanno problemi di copertura costituzionale. Ai sensi art.90 Cost., il Presidente della repubblica non risponde per gli atti commessi nell’esercizio delle sue funzioni tranne che per alto tradimento e attentato alla Costituzione; in tal caso è messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi componenti ed è giudicato dalla corte costituzionale in composizione integrata. Tale immunità è strumentale all’espletamento degli altissimi compiti che la costituzione gli affida, nella veste di capo dello stato. Spetta anche al presidente del senato, quando esercita la funzione di supplenza per le funzioni del presidente della repubblica. Si tratta di una immunità solo funzionale che non copre gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle funzioni presidenziali, commessi prima o durante dell’assunzione della carica. I parlamentari godono di un’immunità sostanziale e una processuale finalizzata a consentire l’esercizio di funzioni parlamentari al di fuori di condizionamenti esterni. L’immunità sostanziale interessa le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni parlamentari: si tratta di un’immunità funzionale che non copre tutti gli atti commessi nell’esercizio delle funzioni, ma solo le opinioni espresse e i voti dati. Questa immunità interessa in particolare i reati di ingiuria, diffamazione e i reati di opinione. L’art.68 della Cost. richiede un nesso di funzionale delle opinioni espresse con l’esercizio delle funzioni parlamentari, espresse anche al di fuori del parlamento, purché permanga il nesso funzionale. I commi 2 e 3 dell’art. 68 Cost. prevedono una immunità di tipo processuale che non impedisce né le indagini, né il processo penale verso i parlamentari, ma non consente l’addizioni di specifici atti procedurali senza autorizzazione della camera a cui il parlamentare appartiene: perquisizione personale, domiciliare; arresto; detenzione; intercettazioni di qualsiasi tipo… queste limitazioni sul piano processuale interessano anche gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle finzioni parlamentari. I consiglieri regionali godono di immunità sostanziale analoga a quella dei parlamentari. Ai membri del consiglio superiore della magistratura non rispondono per le opinioni date e i voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni, questa immunità è data da una legge ordinaria, ma la corte costituzionale ha riconosciuto la copertura costituzionale, in quanto l’immunità è rigorosamente circoscritta alle sole manifestazioni di pensiero funzionali all’esercizio dei poteri- doveri spettanti ai componenti del CSM. La legge n.124/2008, c.d. lodo Alfano (che segue il lodo Schifani dichiarato illegittimo), aveva previsto la sospensione del processo penale verso le più alte cariche dello stato (presidente della repubblica, del senato, della camera, del ministro dei consigli) dalla data dell’assunzione della carica. La sospensione si applicava anche ai fatti antecedenti, quindi norma processuale con effetto molto ampio, anche se la legge prevedeva la possibilità di rinunciare alla sospensione. La corte costituzionale ne dichiarò l’illegittimità costituzionale per violazione degli art. 3 e 138 Cost., in quanto essendo stata introdotto con una legge ordinaria, mancava di copertura costituzionale idonea a giustificare la disparità di trattamento. 2.2. Immunità di diritto internazionale Le immunità di diritto internazionale si fondano su convenzioni internazionali, alle quali è stata data attuazione con lg. Ordinaria. Godono di immunità assoluta, sostanziale e processuale, funzionale ed extrafunzionale, i capi dello Stato estero quando si trovano in terreno di pace nel territorio dello stato italiano; incluso anche il Pontefice. Godono di immunità, anche gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle funzioni, gli appartamenti al corpo diplomatico, mentre i consoli e gli impiegati consolari hanno un’immunità funzionale e per gli atti commessi al di fuori dell’esercizio delle loro funzioni non possono essere assoggettati a custodia cautelare in carcere, a meno che non si tratti di delitto punito con la reclusione non inferiore nel max. a 5 anni.I parlamentari europei non sono da coscienza e volontà effettive, ma sarebbe irragionevole considerarle sempre penalmente rilevanti. Al di sotto della zona lucida della coscienza alcune condotte possono essere controllate da una maggiore attenzione del volere: es. caio in una giornata torrida estiva lascia il figlio in macchina, il bambino muore nel sonno. In tal caso cosa una attenzione maggiore si avrebbe potuto evitare tale condotta. In tal caso si è in presenza di una condotta e volontà potenziali. È ciò che accade negli atti abituali e in quelli automatici. Ci possono essere atti per i quali non è possibile ravvisare alcuna coscienza e volontà perché, il soggetto non avrebbe mai potuto impedire l’azione o l’omissione: atti istintivi e quelli riflessi. Se sussiste coscienza e volontà nell’azione o nella commissione si può dire che la condotta è propria del soggetto, gli appartiene (questo spiega perché questo requisito soggettivo sia anche chiamato suitas). L’elemento della coscienza e volontà non sussiste in tre casi; a) In presenza di una forza maggiore b) In caso di costringimento fisico c) Nel caso vi è stato di incoscienza indipendente dalla volontà. Questi 3 casi evidenziano come in assenza di coscienza e volontà la condotta non possa essere considerata propria del soggetto. Questo elemento soggettivo è così connesso all’azione o all’omissione che, mancando coscienza e volontà, viene meno la stessa condotta penalmente rilevante: viene a mancare un elemento oggettivo del reato (la condotta). Ne consegue che il soggetto va assolto con la più ampia formula “perché il fatto non sussiste”. 3. I presupposti della condotta I presupposti della condotta possono essere naturalistici e giuridici. Questi costituiscono elementi costitutivi del fatto di reato. 4. La nozione di evento Il codice penale utilizza il termine evento, senza darne una definizione. La nozione di evento naturalistico si identifica con le modificazioni del mondo esterno cagionate dalla condotta e considerate dalla legge come elemento costitutivo di fattispecie. In questa accezione l’evento è temporaneamente e logicamente staccato dalla condotta. A questa nozione si contrappone quella di evento giuridico, consistente nell’offesa dell’interesse tutelati dalla norma incriminatrice. A differenza dell’altra accezione l’evento giuridico non è separabile dalla condotta, perché lo stesso fatto di reato visto sotto il profilo dell’offesa al bene giuridico; ne consegue che tale evento è presente in tutti i reati. Spetta all’interprete valutare caso per caso quale accezione utilizzare. 5. Distinzione dei reati in relazione alla condotta Possono essere distinte diverse tipologie di reato in relazione alle loro particolari modalità di condotta. a) Reati di azione e di omissione. Nei reati di azione è presente una condotta attiva che si estrinseca in un movimento muscolare realizzato attraverso uno o più atti. Nei reati di omissione il legislatore incrimina il non agire del soggetto quando una norma lo impone. b) Reati di pura condotta e di evento Nei reati di pura condotta la fattispecie si esaurisce in una condotta attiva o omissiva. Nei reati di evento quelle fattispecie in cui è presente come elemento costitutivo un evento naturalistico. c) Reati a condotta vincolata e a forma libera Sono reati a condotta vincolata i casi in cui la legge richiede specifiche modalità di condotta. Ad es. nel delitto di estorsione è necessaria la violenza o la minaccia. Sono reati a condotta libera i reati nei quali la legge attribuisce rilevanza a qualsiasi condotta che cagiona l’evento: nell’omicidio attribuisce rilevanza a qualsiasi condotta causativa. Nei reati a condotta vincolata la tipicità della condotta è delimitata dalla scelta del legislatore in sede di descrizione della fattispecie; nei reati a forma libera il criterio di tipizzazione della condotta è costituito dal nesso di casualità: è tipica qualsiasi condotta che sia condizione dell’evento (per ciò definiti anche reati causali puri o casualmente orientati). d) Reati istantanei, permanenti e abituali Nei reati istantanei la condotta si realizza in un solo istante: questi reati si consumano in uno specifico momento. Ad es. il furto si consuma quando il bene esce dalla disponibilità di chi su di esso vanta un maggior potere. Nei reati permanenti si richiede la protrazione nel tempo di una condotta, alla quale si accompagna il permanere dell’offesa al bene giuridico. È il caso del sequestro di persona. In tali reati sono presenti due momenti, il momento iniziale di permanenza (perfezione del reato) si realizza quando la protrazione della condotta per un certo lasso di tempo consolida l’offesa al bene giuridico tutelato. La permanenza cessa quando l’autore della condotta liberamente interrompe l’azione o quando cmq circostanze esterne le fanno cessare: si parla di momento finale della permanenza (consumazione). La particolare struttura del reato permanente lo rende compatibile con i beni giuridici comprimibili: beni che la condotta non li pregiudica in modo definitivo. Nei reati abituali il fatto è descritto in modo da richiedere la reiterazione di una pluralità di azioni che vengono considerate come una sola condotta. Può essere proprio o improprio. CAPITOLO XII - REATI OMISSIVI 1. La condotta omissiva. Reati omissivi propri ed impropri. La condotta omissiva si traduce in un non facere e parte della dottrina era andata alla ricerca di una base naturalistica dell’omissione per evitare di ridurre la stessa ad un mero nihil facere: era così stata elaborata la teoria dell’aliud agere, secondo la quale il fondamento materiale dell’omissione consisterebbe nella condotta attiva tenuta dal soggetto quando avrebbe dovuto agire. L’art.40 cpv. c.p. è applicabile solo ai reati con evento naturalistico, si tratta di una norma inserita all’interno della disciplina del rapporto di causalità. Escludendo tutti i reati di pura condotta. La clausola di equivalenza non si applica ai reati ai quali la condotta omissiva è già prevista dal legislatore in sede di tipizzazione della condotta. Altra limitazione è data dall’inapplicabilità ai reati con condotta a tipizzazione necessariamente attiva: se la legge incrimina la sola condotta attiva, l’applicazione art. 40 cpv. c.p. rappresenterebbe un’estensione indebita della condotta di violazione della scelta del legislatore. L’ambito di applicazione della clausola di equivalenza è limitato ai reati causali puri nei quali il legislatore considera rilevante qualsiasi condotta che sia causale rispetto alla realizzazione dell’evento. 3.2. L’obbligo giuridico di impedire l’evento Nella struttura del reato omissivo improprio svolge una funzione essenziale l’obbligo giuridico di impedire l’evento, perché solo per i titolari di tale dovere l’omissione è equiparata alla condotta attiva. I reati omissivi impropri sono reati propri, in quanto presuppongono una particolare qualifica personale definita dalla titolarità dell’obbligo giuridico di impedire l’evento che deve preesistere alla situazione di pericolo per il bene. L’individuazione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento non è risolta dall’art. 40 cpv. c.p. che si limita a richiede un obbligo giuridico: è in tal modo esclusa la rilevanza di obblighi di natura morale o sociale. La norma presenta un contenuto indeterminato, colmato dagli interpreti attraverso soluzioni con contenuti molto diversi. Per individuare tale obbligo di impedire l’evento sono state proposte varie teorie. 3.2.1. La teoria formale La teoria formale dell’obbligo giuridico di impedire l’evento si fonda sulle fonti formali dell’obbligo: la legge; il contratto; la precedente attività pericolosa. A causa del richiamo a queste 3 fonti, si è parlato di teoria del trifoglio. Parte della dottrina ha aggiunto ad esse anche la consuetudine e la negotiorum gestio. Questa impostazioni ha incontrato dei rilievi critici. Se l’individuazione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento deve essere fondata su fonti formali, allora manca una fonte formale che imponga di attivarsi in presenza di una precedente attività pericolosa. Il richiamo a qualunque fonte legale rischia una eccessiva dilatazione della resp. penale, perché con l’art.40 c.p. qualsiasi obbligo extrapenale si traduce in obbligo penale. Così, vengono frustrate le esigenze proprie del diritto penale. Infine, anche la fonte del contratto conduce a soluzioni inappaganti, perché basterebbe l’invalidità dello stesso ad escludere l’obbligo giuridico di impedire l’evento. La teoria formale si presenta per certi versi troppo ampia, per altri troppo rigida. 3.2.2. La teoria funzionale La teoria funzionale o sostanziale individua i soggetti obbligati ad impedire l’evento attraverso le c.d. posizioni di garanzia. Vi sono casi in cui il titolare del bene non è in grado di tutelarlo, l’ordinamento individua un garante, tutelando il bene. La posizione di garanzia è connotata da tre requisiti. È necessario che il garante sia titolare di obblighi impeditivi, perché esso risponde del mancato impedimento dell’evento. Non è sufficiente a fondare la responsabilità la presenza di meri obblighi di sorveglianza non accompagnati da poteri impeditivi di natura tale da consentire al garante di evitare il verificarsi dell’evento. Bisogna precisare che, non si richiede che il soggetto disponga dei poteri per impedire direttamente l’evento, è sufficiente che abbia poteri sollecitatori, volti a far intervenire chi dispone del potere per evitare l’evento. È necessario che la titolarità di tali poteri sia accompagnata dalla capacità di esercitarli. Tale titolarità deve essere precostituita, la posizione di garanzia non si costituisce al verificarsi della situazione di pericolo, ma precedentemente. È infine necessario che la posizione di garanzia abbia carattere specifico, ossia che il garante sia tale in relazione a specifici beni; non sono accettate posizioni di garanzia generale, perché ciò è contrario al principio di determinatezza e perché il garante sarebbe gravato da un obbligo troppo ampio per impedire il verificarsi dell’evento lesivo. 3.2.3. La teoria mista Entrambe le teorie esaminate colgono elementi importanti della struttura del reato omissivo improprio: la teoria formale evidenza la necessità di una base normativa dell’obbligo giuridico di impedire l’evento; la teoria funzionale coglie l’aspetto della precostituzione del garante. La teoria mista accoglie i principi elaborati dalla teoria funzionale, ma richiede una base legale delle posizioni di garanzia. Spetta alla legge individuare le posizioni di garanzia, ma è necessario che queste ultime presentino i caratteri della precostituzione e della specificità. È compito dell’interprete differenziare gli obblighi di impedimento, che fondano le posizioni di garanzia, dai meri obblighi di sorveglianza che non consentono alla clausola di equivalenza dell’art.40 cpv. c.p. di operare. 4.Tipologia delle posizioni di garanzia. Le posizioni di garanzia vengono distinte in protezione e posizione di controllo. La posizione di protezione impone di preservare il bene protetto dai rischi che possono ledere l’integrità: il garante ha sotto la sua protezione un bene che deve salvaguardare da possibili offese. È il caso dei genitori nei confronti dei figli minori oppure, il medico rispetto alla salute del paziente che ha in cura… Si ritiene che anche tra i coniugi sussista una reciproca posizione di garanzia, a condizione che i soggetti siano legati da vincolo matrimoniale avente effetti civili. Più discussa è la sussistenza di una posizione di protezione in relazione alle coppie di fatto: a nostro avviso, l’assenza di una norma che riconosce tale unione non consente di fondare una responsabilità omissiva, salvo che tale responsabilità non nasca da situazioni di affidamenti di fatto. Le posizioni di controllo impongono di neutralizzare le eventuali responsabilità penale: sebbene un evento non sia mai la risultante di un solo fattore, ma di una pluralità di fattori interagenti, non va persa di vista la prospettiva del diritto penale al quale interessa accettare il ruolo svolto dalla condotta umana nella produzione dell’evento. Il nesso di casualità in ambito penale si traduce in un problema di imputazione di un evento ad una condotta umana. Nei reati ad evento, la presenza del nesso di casualità costituisce presupposto indefettibile per garantire il rispetto art.27 c.1 Cost.: la responsabilità personale penale presuppone una responsabilità per fatto proprio; non può essere considerato proprio del soggetto un reato nel quale l’evento non è stato cagionato dalla condotta dello stesso. L’art. 40 c.1 c.p. prevede che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso, …, non è conseguenza della sua azione o omissione”. Si tratta di una disposizione poco utile che si limita a richiedere il nesso di casualità. Il 2° c. prevede che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” Più articolata è la disciplina dell’art.41 c.p.: il 1° c. stabilisce che” il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione del colpevole, non esclude il rapporto di casualità fra l’azione e l’evento”. Il vero punto critico è il 2°c. a tenero del quale “le cause sopravvenute escludono il rapporto di casualità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita”. Parte della dottrina aveva sottolineato la contraddittorietà della norma che finisce in questo caso per escluderlo, in quanto il solo fattore determinante è costituito dalle cause sopravvenute: esse sono state da alcuni identificate nella serie causali del tutto autonome rispetto alla condotta (es. Tizio propina a Caio una dose di veleno mortale, ma esso muore per il colpo di fucile sparato da Sempronio): in tal caso, ad escludere il nesso di casualità con la condotta bastava la norma generale che prescrive il nesso, senza necessità di una specifica disposizione. La dottrina ha indagato sul problema della casualità, elaborando impostazioni teoriche a prescindere dal codice. 2.La teoria condizionalistica. Secondo la teoria condizionalistica o della condicio sine qua non, causa è l’insieme delle condizioni necessarie per la produzione dell’evento. Il carattere causale di una condizione è accertato attraverso il procedimento di eliminazione mentale: a) la condotta umana è condizione necessaria se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti accaduti, l’evento si sarebbe verificato; b) la condotta non è condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente con lo stesso procedimento, l’evento si sarebbe egualmente verificato. Si parla anche di giudizio contro-fattuale, per intendere che si tratta di un ragionamento ipotetico che si sviluppa “contro i fatti”. Questo metodo di accertamento sottolinea il carattere logico della casualità condizionalistica. Questa teoria ha incontrato delle critiche di una parte della dottrina: un 1° rilievo riguarda il rischio di estensione della responsabilità penale attraverso il c.d. regresso all’infinito: se causali sono tutte le condizioni dell’evento, saranno causali anche le condizioni delle condizioni. Questa obiezione non tiene conto del fatto che la resp. penale non si fonda solo su gli elementi oggettivi, ma anche sull’accertamento della colpevolezza. Più consistente è l’obiezione che a tale teoria viene sollevata dalla c.d. casualità alternativa ipotetica. l’es. è quello dell’incendio della casa: Tizio incendia la casa per incassare il premio dell’assicurazione; si accerta però che la casa sarebbe andata ugualmente distrutta, da un incendio sviluppatosi nel bosco adiacente, nel medesimo tempo. In tale caso il processo di eliminazione mentale sembra non funzionare, perché pur escludendo mentalmente la condotta di Tizio, la casa sarebbe andata ugualmente distrutta. Le obiezioni non colgono nel segno, perché impostano l’accertamento del nesso di casualità partendo da una nozione di evento in astratto. Un punto fondamentale nell’accertamento al nesso casuale sta nel prescindere come secondo termine del rapporto l’evento in concreto. Se si parte da tale presupposto, la teoria in oggetto supera le obiezioni della casualità alternativa ipotetica: la casa è andata distrutta per effetto della condotta di tizio e poco importa se l’incendio del bosco l’avrebbe comunque distrutta. Critiche sono arrivate anche dalla c.d. casualità addizionale: quando l’evento deriva da azioni congiunte, tali che, se anche una venisse meno, non verrebbe meno l’evento, il procedimento di eliminazione mentale dovrebbe condurre ad escludere il nesso di casualità. Alla casualità addizionale si è risposto che il procedimento di eliminazione mentale va verificato rispetto al complesso dei fattori casuali e non delle singole condotte. La teoria condizionalistica è parsa a buona parte della dottrina incapace di esprimere la specificità che il nesso casuale pone in ambito penale: poiché in questo settore si pone un problema di accertamento della resp. penale, la causalità non potrebbe essere risolta in termini naturalistici, come propone la teoria condizionalistica, ma affrontata come problema di imputazione di un evento ai fini della responsabilità penale: ossia l’evento che è riconducibile ad una condotta umana non necessariamente deve essere imputato all’autore della condotta ai fini della responsabilità penale. Questa scissione tra casualità naturalistica e imputazione giuridica sta alla base di alcune teorie che non costituiscono modelli alternativi della casualità condizionalistica, ma si propongono come correttivi della stessa. 3.Teoria della casualità adeguata. La teoria della casualità adeguata accoglie i principi della teoria condizionalistica, secondo la quale la condotta umana deve costituire condizione dell’evento, ma limita la responsabilità penale esclusiva mediante delle condotte che si presentano come idonee a produrlo: la valutazione di idoneità va effettuata secondo un giudizio ex ante, ossia accertando se, al momento della condotta, questa costituiva un fattore di determinazione dell’evento. Questa teoria finisce per fare l’effetto opposto, ossia quello di restringere eccessivamente la responsabilità penale che dovrebbe essere esclusa quando la condotta, che appariva come non idonea a produrre l’evento, lo abbia di fatto prodotto. In tal modo viene escluso il nesso di casualità tra condotta ed effetto atipico che la stessa ha prodotto. Innanzitutto, manca un Il giudice deve passare da un modello di individuazione ad un metodo generalizzante nella spiegazione del nesso si casualità; deve partire dal caso concreto, ridescrivendolo (c.d. descrizione dell’evento), estraendo alcune connotazioni della vicenda concreta e dando rilevanza alle sue modalità tipiche e ripetibili ai sensi della legge scientifica secondo la quale a fattori generali del tipo A, analogo al fattore che in concreto si è verificato (a), segue un evento generale di tipo B, analogo a quello che si è verificato in concreto (b). Il giudice non crea le leggi scientifiche per spiegare il rapporto tra gli eventi, ma usa le leggi scientifiche, in modo da garantire il massimo della certezza nell’accertamento del nesso di casualità. A volte, le leggi sono universali, altre volte sono statistiche, perché consentono di affermare che ad A segue B solo in una certa percentuale di casi. Limitare l’accertamento del nesso attraverso le sole leggi universali significherebbe frustare le stesse esigenze del diritto penale. Quindi il giudice può avvalersi anche delle leggi statistiche che sono tanto più attendibili quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma empirica attraverso metodi controllabili. Oltre alle leggi scientifiche, il giudice può ricorrere alle generalizzate regole di esperienza, massime che stabiliscono una connessione tra avvenimento secondo attendibili risultati di generalizzazione. Il giudice deve accertare l’esistenza di c.d. assunzioni tacite, principi che si assumono per dimostrati o di alcuni passaggi casuali che la scienza non riesce a dimostrare. Ultima notazione: agli effetti del nesso di casualità il giudice deve considerare sempre lo stato delle conoscenze presenti al momento del giudizio, perché si tratta di accertare un elemento di natura oggettiva ed il giudizio di casualità è sempre ex post. Un ragionamento diverso, deve essere fatto dal giudice quando, accertato il nesso casuale, si chiede se l’autore abbia agito con colpa: qui la prevedibilità ed evitabilità dell’evento sono accertate con giudizio ex ante, facendo riferimento alle conoscenze scientifiche disponibili al momento della condotta. La necessità di mantenere fermo il principio condizionalistico, integrato con il criterio di sussunzione sotto le leggi scientifiche, garantisce il rispetto dei principi costituzionali di legalità e di personalità della resp. penale. In particolare, svolge una funzione tipizzante, in quanto delimita l’ambito delle condotte parzialmente rilevanti. 7.La casualità omissiva e l’approdo della giurisprudenza alle Sezioni unite (sentenza Franzese) I problemi sollevati dal rapporto di casualità si amplificano in presenza di una condotta omissiva. Si consideri il caso di una malattia che produce la morte per effetto degli agenti patogeni che aggrediscono le funzioni vitali dell’organismo: la morte è causata da fattori naturali il cui decorso non è condizionato dalla condotta omissiva del medico, che non ha eseguito le terapie che avrebbero salvato la vita del malato. Si spiega così il disposto dell’art.40 cpv. c.p., secondo il quale “non impedire un evento che si aveva l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo”. Si sostiene che la casualità omissiva ha natura ipotetico-normativa. Ha natura normativa, perché è la legge a considerare equivalente alla condotta attiva quella passiva. Ha natura ipotetica, in quanto l’accertamento del nesso di casualità in presenza di una condotta omissiva richiede un ragionamento doppiamente ipotetico: è necessario individuare quale azione doverosa il titolare della posizione di garanzia avrebbe dovuto tenere e poi chiedersi se l’evento sarebbe venuto meno. Deve essere riconosciuta natura commissiva alla condotta che ha introdotto nel decorso casuale un nuovo fattore di rischio. Il fatto che la casualità omissiva abbia carattere ipotetico e che il primo termine della relazione casuale sia costituito da un nihil facere, ha condotto la giurisprudenza ad accontentarsi di un minor rigore nell’accertamento della casualità omissiva: sarebbero sufficienti “serie e apprezzabili probabilità di successo” che l’azione doverosa omessa avrebbe impedito la verificazione dell’evento, accontentandosi anche di percentuali inferiori al 50%; in altri termini è sufficienti che la condotta omissiva abbia aumentato il rischio di verificazione dell’evento. Questo orientamento trasforma un illecito di evento in illecito di condotta rischiosa, perché il disvalore del reato non è incentrato sulla causazione dell’evento, ma sul disvalore della condotta. Parte della dottrina, per superare l’allentamento nell’accertamento della causalità omissiva, ha insistito sulla necessità di un identico grado di certezza tra casualità attiva e casualità omissiva: ha obiettato che anche in presenza di una condotta attiva si ricorre ad un ragionamento di tipo ipotetico attraverso il procedimento di eliminazione mentale, che è un giudizio contro-fattuale, ma non per questo il grado di certezza sulla sussistenza del nesso risulta affievolito; anche nell’accertamento della casualità attiva si deve ricorrere a leggi scientifiche di copertura e la maggior parte di queste ha carattere probabilistico. Nel settembre del 2000 si è assistito ad un importante mutamento di orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione che, in 3 sentenze (sentenze Battisti riguardanti la resp. medica), ha richiesto che l’accertamento della casualità omissiva abbia lo stesso grado di quella attiva e che le leggi di copertura usate possiedano un coefficiente vicino al 100%. Tali pronunce hanno avuto l’effetto di restringere la resp. penale, soprattutto nella parte in cui hanno imposto il ricorso a leggi scientifiche con una probabilità confinante con la certezza. Il contrasto giurisprudenziale tra sentenze favorevoli all’allentamento dell’accertamento della casualità omissiva e il nuovo orientamento che si esprimeva in termini antitetici è stato composto da una fondamentale sentenza pronunciata dalla Cassazione a Sezioni unite (c.d. sentenza Franzese) che, partendo da un caso di responsabilità medica per condotta omissiva, ha fatto il punto sulla casualità attiva ed omissiva e sul grado di certezza delle leggi scientifiche utilizzabili, risolvendo il quesito di diritto se la sussistenza del nesso di casualità “debba essere ricondotta all’accertamento che con il comportamento dovuto ed omesso l’evento sarebbe stato impedito con elevato grado di probabilità vicino alla certezza e cioè in una percentuale di casi quasi prossima al cento, o siano sufficienti, a tal fine, solo serie ed apprezzabili probabilità di successo della condotta che avrebbe potuto impedire l’evento. Le Sezioni Unite criticano entrambi gli orientamenti in quanto: il 1° conduce alla volatizzazione del nesso eziologico, sostituito dalla mera condotta rischiosa; il 2° finisce per limitare l’accertamento in positivo del nesso e non definisce quale sia la percentuale accettabile per utilizzare la legge di copertura. Le Sezioni Unite non condividono né l’uno, né l’atro. La Corte di cassazione distingue due nozioni di probabilità. La probabilità statistica che attiene alla verifica empirica della misura della frequenza relativa alla successione degli eventi, cioè è quella che definisce la frequenza astratta tra dei fenomeni (es. la percentuale I sostenitori della concezione realistica del reato riconoscono a tale principio rilievo costituzionale: se la norma penale dovesse essere applicata anche a fatti che in concreto non offendono l’interesse a tutela del quale la norma è posta, la pena si ridurrebbe a punizione della mera disobbedienza, ossia colpirebbe un fatto sintomatico di pericolosità soggettiva. La c.d. concezione realistica del reato è stata criticata da una parte della dottrina che, non riconoscendo nell’art. 49 cpv. una base normativa solida per sancire il principio di necessaria offensività, preferisce risolvere l’assenza di offesa in concreto al bene giuridico nei termini di assenza dello stesso fatto tipico: ci troveremo di fronte ad un caso di tipicità apparente. Il merito della concezione realistica del reato sta nell’avere garantito una base normativa al principio di necessaria offensività in un contesto culturale ancora ancorato al metodo del tecnicismo giuridico. Il tratto differenziale tra le 2 impostazioni teoriche sta nel diverso ruolo riconosciuto al principio di offensività nel rapporto con il fatto tipico: secondo la concezione realistica l’offensività costituisce un elemento del reato che si aggiunge agli elementi del fatto tipico; secondo la teoria della tipicità apparente, l’offensività diventa criterio di interpretazione del fatto di reato. Tuttavia, entrambi gli orientamenti sostengono la necessità di garantire il rispetto del principio di offensività in concreto: il reato, per essere punibile, richiede sempre che ne si accerti la necessaria offensività. 2. Il principio di offensività in giurisprudenza. La Corte cost. fa operare l’offensività sia sul terreno della previsione normativa, sia sull’applicazione giudiziale: alla lesione in astratto, intesa quale limite alla discrezionalità del legislatore nell’individuazioni d’interessi meritevoli di essere tutelati mediante lo strumento penale, fa riscontro il compito del giudice di accertare in concreto, se il comportamento lede l’interesse tutelato dalla norma. Omette di prendere posizione sull’interpretazione art.49 cpv. c.p. proposta della concezione realistica del reato, anche se sottolinea l’importanza del contributo dottrinale alla riflessione sul principio di offensività. La Corte, insiste sulla necessità di garantire in concreto la necessaria offensività del reato, escludendo la mancanza di offensività in concreto integri un potenziale vizio di costituzionalità della norma penale. Un problema di legittimità costituzionale si può porre solo in relazione ad un diverso profilo dell’offensività in astratto, del quale ci siamo già occupati (cap. III S 4.3), ossia quando si prevedono norme incriminatrici che non tutelano beni meritevoli di protezione, presentano il vizio della manifestata irragionevolezza. È importante sottolineare l’importanza che la Corte cost. riconosce alla stretta connessione tra offensività in astratto ed in concreto, quale strumento di controllo penale. Così il principio di offensività opera su due piani, quello della previsione normativa e quello dell’applicazione giurisprudenziale. 3. Il principio di esiguità del fatto. Il nuovo art. 131-bis c.p. Il principio di offensività consente di escludere la rilevanza penale del fatto nei casi in cui sia del tutto assente l’offesa all’interesse protetto. Può accadere che in concreto il fatto offensivo del bene giuridico tutelato, sebbene l’offesa non sia così grave. Si tratta dei c.d. reati bagatellari in concreto o impropri: qui la scarsa significatività sta nel tipo di bene offeso. L’offesa del bene giuridico non costituisce un elemento rigido che c’è o non c’è; l’offesa è un’entità graduale, tanto che si parla di gradualità del reato. Ci si chiede se l’offesa anche se poco significativa, giustifica l’intervento penale. A riguardo la giurisprudenza ha cercato di forzare il dettato dell’49 cpv. C.p. al fine di farvi rientrare anche i fatti dotati di esigua offensività. In tale direzione, si è avuto l’intervento di limitare l’intervento penale a fronte di fatti scarsamente rilevanti in ragione dell’irrilevanza dell’offesa arrecata al fatto, si è mosso il legislatore nell’ambito di due settori specifici in relazione ai reati commessi dai minori ed ai reati attribuiti alla competenza penale del giudice di pace. L’art. 27 d.p.r. n. 448/1988, che disciplina il processo penale minorile, prevede che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento. L’art. 3 d.lgs. 274/2000 prevede, in relazione ai reati attribuiti al giudice di pace, l’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto. 4. I reati di pericolo. L’offesa al bene giuridico è assicurata dalla lesione che dalla messa in pericolo del bene giuridico tutelato. È possibile distinguere tra a) reati di danno in cui il bene giuridico è pregiudicato nella sua consistenza; b) reati di pericolo in cui è presente solo una probabile lesione del bene giuridico tutelato. Appartiene alla categoria dei reati di pericolo anche il delitto tentato, che costituisce fattispecie autonoma rispetto al delitto consumato. La distinzione tra i reati è agevole in presenza di beni tangibili, mentre è meno netta in presenza di fattispecie poste a tutela dei beni giuridici dotati di un maggior grado d’astrazione. Lo sviluppo dei reati di pericolo è l’effetto diretto delle scelte di politica criminale indotte alla proliferazione delle fonti di pericolo per i beni giuridici, per fronteggiare le quali il modello tradizionale del reato d’evento risulta inadeguato. Il legislatore ricorre allora alle tecniche di anticipazione della tutela penale, tra le quali assumono un ruolo centrale i reati di pericolo. I reati di pericolo vengono distinti in due categorie reati di pericolo in concreto e reati di pericolo in astratto o presunto, in ragione della tecnica di tipizzazione del fatto. 4.1. Reati di pericolo concreto Nei reati di pericolo concreto il pericolo è un elemento costitutivo espresso di fattispecie: nella strage (art.422 c.p.), sono necessari atti diretti a porre in pericolo l’incolumità pubblica. Spetta al giudice accertare in concreto la presenza di questo elemento. Sebbene la dottrina abbia a lungo discusso sulla nozione di pericolo, prevale l’identificazione di pericolo con un giudizio di relazione tra una certa situazione ed un evento futuro dannoso da prevenire: non basta qualificare il pericolo di giudizio in termini di mera possibilità di verificazione dell’evento futuro, ma si richiede un a consistente probabilità che l’evento si realizzi. Nell’accertamento del pericolo concreto è fondamentale distinguere il momento, la base ed il metro di giudizio. Il momento del giudizio indica il tempo nel quale deve essere compiuta la valutazione di probabilità dell’evento. quale la norma penale è posta. Ad es., il codice Rocco prevede, il delitto di apologia: la fattispecie incrimina chi esalta uno o più delitti o il suo autore. Il riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero nell’art. 21 Cost. ha sollecitato una lettura restrittiva della fattispecie da parte della corte cost.:” l’apologia punibile non è la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che per le sue modalità integri un comportamento idoneo a provocare la commissione di delitti”. Il reato di pericolo astratto è stato così convertito in via interpretativa in reato di pericolo concreto. CAPITOLO XV - CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE 1. Cause di giustificazione e cause di non punibilità. Non sempre la realizzazione di un fatto corrispondente alla fattispecie di un reato comporta responsabilità penale per il comportamento posto in essere. In alcune situazione il fatto, che costituirebbe un illecito penale, non è considerato tale in quanto giustificato dall’ordinamento. È condiviso che le cause di giustificazioni o scriminanti siano collegabili a norme che autorizzano o impongono la realizzazione del fatto, che normalmente è un illecito. Le cause di giustificazione sono considerate elementi negativi del fatto: la loro presenza fa sì che il fatto illecito non possa essere considerato tale. L’opinione prevalente le considera cause di esclusione dell’antigiuridicità, nel quadro della concezione tripartita del reato. È fondamentale tenere distinte le scriminanti dalle mere cause di non punibilità. Queste ultime sono situazioni in cui il legislatore stabilisce la non punibilità di un soggetto per ragioni di opportunità, mentre il fondamento delle cause di giustificazione risponde a criteri di natura sostanziale incidenti sul bilanciamento degli interessi contrapposti. La non punibilità per lesioni del sogg. che si difende in modo proporzionato da un’aggressione (legittima difesa) si fonda sulla prevalenza accordata dall’ordinamento al bene della vittima in pericolo d’aggressione. Diversa è la ragione della non punibilità del figlio che sottrae denaro ai genitori: l’art. 649 c.p. lo dichiara non punibile perché non è opportuno il ricorso alla norma penale per una vicenda dai risvolti patrimoniali tra sogg. Legati da un forte vincolo familiare. La distinzione ha conseguenze importanti. Riconoscere che dietro la formula “non è punibile” si rinviene una causa di giustificazione comporta l’applicazione di una specifica disciplina delle scriminanti. 2. Il fondamento delle cause di giustificazione Le singole scriminanti individuano situazioni particolari di non punibilità che limitano l’applicazione di norme incriminatrici di portata generale: l’art. 575c.p. incrimina chi cagiona la morte di un essere umano, ma art. 52 c.p. stabilisce la non punibilità degli omicidi realizzati in presenza dei requisiti di legittima difesa. Sempre sul piano formale si può fondare larga parte delle cause di giustificazione sul principio di non contraddizione, come emerge dall’art.51 c.p. se una norma autorizza o impone una certa azione non è possibile ammettere che essa possa dar luogo ad una responsabilità penale. Sul piano sostanziale alla base delle principali cause di giustificazione è presente una valutazione dell’ordinamento che risolve ipotesi di conflitto tra interessi contrapposti. Così nella legittima difesa si privilegia l’interesse di chi si difende da un’ingiusta aggressione con relativo sacrificio del bene dell’aggressore colpito dalla reazione. 3. La disciplina generale delle cause di giustificazione. La disciplina delle cause di giustificazione non è delineato in maniera organica dal c.p.; essa è desumibile in parte da principi generali, in parte da disposizioni collocate in settori diversi dal codice. In relazione ai principi generali va sottolineato che le cause di giustificazione devono rispettare il principio di riserva di legge. Quindi, né la legge regionale né gli atti dell’esecutivo possono costituire ex novo una causa di giustificazione o modificare le scriminanti. Ciò non esclude che fonti non statali possano influenzare l’ambito di applicazione di quelle cause di giustificazione a struttura aperta. Sempre in conformità ai principi generali va risolto il problema dell’estensione analogica delle cause di giustificazione. In linea teorica, è ammissibile un’estensione in via analogica di una causa di giustificazione; il problema, tuttavia, è ridimensionato dalla difficoltà di riscontrare i presupposti dell’analogia. È raro individuare uno spazio che consenta un allargamento dell’applicazione delle scriminanti in quanto l’individuazione di una serie di requisiti da parte del legislatore preclude la possibilità di cogliere una lacuna (per es., la possibilità di ammettere la legittima difesa anticipata è impedita dal requisito dell’attualità del pericolo). Un profilo importante di disciplina è costituito dalle disposizioni in tema di errore. L’art. 59 c.4 c.p. afferma che “Se l’agente ritiene che per errore esistano circostanze di esclusione della pena, queste devono essere valutate a suo favore. Se si tratta di errore da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come colposo”. L’errore a cui si riferisce la norma è il c.d. errore di fatto, una non corretta percezione realtà esterna che genera la convinzione in chi agisce di trovarsi in una situazione che consentirebbe di giustificare il comportamento. È necessario che il soggetto abbia la capacità di consentire alla lesione del bene: in alcuni casi tale capacità è definita da limiti di età fissati dal legislatore. Dove la legge non dispone nulla è necessario che il giudice accerti se il soggetto aveva la capacità di comprendere il significato del proprio atto di disposizione, tenendo conto del grado di maturità del soggetto e del tipo di bene coinvolto. In caso di soggetti incapaci di intendere e volere, il consenso può essere presentato dal legale rappresentante, tranne che per i beni personalissimi. Non sono richiesti particolari forme di manifestazione del consenso, che può essere espresso o tacito. Il consenso tacito non va confusa con il consenso putativo e con il consenso presunto. Si ha consenso putativo, quando il consenso non è stato dato, ma chi lede il bene ritiene che il consenso sia stato prestato. Il consenso è presunto, quando chi lede il bene sa che il consenso non è stato dato, ma presume che lo avrebbe ottenuto, qualora lo avesse chiesto al titolare del bene. Tale situazione non è regolata dal codice. Discussa è l’efficacia scriminante del consenso nei rati colposi. La posizione assunta dalla giurisprudenza contraria alla rilevanza del consenso è falsata dal presupposto di ritenere necessario che al consenso del titolare del bene corrisponda la volontà dell’autore del fatto di lederlo. In via generale non vi sono preclusione ad estendere l’art. c.p. ai reati colposi, a condizione che sussistano tutti i requisiti necessari per l’applicazione di tale scriminante. In particolare deve trattarsi di beni disponibili; se il fatto cagiona danni ad un bene indisponibile l’art. 50 c.p. non sarà applicabile. Un ruolo importante è rivestito dal consenso del paziente agli interventi medici. Qui il consenso non opera come scriminante, in quanto l’attività medico- chirurgica si giustifica o come scriminante tacita o come esercizio di facoltà legittima: il consenso deve essere informato, la necessità di tale consenso è prevista dalla Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e della biomedicina del 1997, in cui art. 5 prevede che “un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero ed informato”. La funzione imprescindibile del consenso informato ha come risvolto anche il riconoscimento del diritto a rifiutare le cure, anche nei casi in cui la terapia avrebbe la possibilità di salvare il paziente, come ribadito dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione. Ebbene, nella misura in cui il soggetto esprime la propria libertà di autodeterminazione non possono essergli imposti trattamenti sanitari, anche se il rifiuto lo espone a gravi rischi. Gli effetti del riconoscimento di tale libertà del paziente hanno 2 importanti effetti: da un lato il bene vita è diventato un bene parzialmente disponibile, ma esclusivamente nei limiti del legittimo esercizio della libertà di rifiutare le cure: il principio di indisponibilità del bene vita deve essere riletto alla luce dei prevalenti principi costituzionali: non si tratta di legittimare l’eutanasia, ma di trovare un bilanciamento con la libertà individuale di autodeterminazione, che si configura anche nel diritto di rifiuto delle cure. Dall’atro lato, cessa la posizione di garanzia del medico, la cui condotta omissiva non rileva penalmente ai sensi art. 40cpv c.p. 5. L’adempimento di un dovere La scriminante dell’adempimento di un dovere è classica espressione del principio di non contraddizione. L’ordinamento non può imporre un comportamento e incriminare tale condotta. L’adempimento di un dovere può derivare da: a) norma giuridica; b) ordine dell’autorità. L’adempimento del dovere individuato da una norma giuridica non appare problematico, tanto che molto ordinamenti non lo richiamano nel quadro delle cause di giustificazione. Si tratta di interpretare la norma che impone il dovere di agire: se l’attività è espressamente imposta, la norma che delinea il reato soccombe di fronte alla disposizione che stabilisce l’attività doverosa in quanto norma generale che è derogata dalla norma speciale. Più complicata è la disciplina dell’adempimento del dovere derivante da un ordine dell’autorità. Occorre sottolineare che il c.p. limita la causa di giustificazione agli ordini emanati dalla pubblica autorità; restano privi di efficacia scriminante gli ordini impartiti da un’autorità privata. Quando l’ordine proviene dalla P.A. è necessario distinguere a seconda che l’odine sia legittimo o illegittimo. L’art.51 c.p. riconosce in via generale efficacia scriminante solo agli ordini legittimi. Attengono alla legittimità sia profili formali sia sostanziali: l’ordine è legittimo se l’ordinamento consente al soggetto di imporre a soggetti gerarchicamente sottordinati determinati comportamenti astrattamente configurabili come reato. Se l’ordine è legittimo, chi lo esegue non risponde del fatto commesso e non né risponde neanche il soggetto che ha impartito l’ordine. In caso di ordine illegittimo, il c.p. chiama a rispondere del reato non solo il superiore gerarchico che lo ha impartito, ma anche l’esecutore. L’unica possibilità per l’esecutore di sottrarsi alla responsabilità è delineata dall’art. 51 c.3 c.p. con riferimento alla disciplina dell’errore: se il subordinato ritiene di eseguire un ordine legittimo incorre in un errore sull’esistenza delle cause di giustificazione che escludono il dolo. Si tratta dell’applicazione dei principi stabiliti in via generale. È da precisa che deve trattarsi di errore di fatto che faccia ritenere all’esecutore di adempiere ad un ordine che sarebbe legittimo se il contesto fattuale corrispondesse a quanto il soggetto si è rappresentato. Al principio dell’inefficacia scriminante dell’ordine illegittimo viene prevista una deroga nell’ultimo comma dell’art. 51 c.p.: non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato di legittimità. Si fa riferimento ai c.d. ordini illegittimi vincolanti. Esistono settori della P.A. in cui l’ordinamento impone al subordinato di eseguire l’ordine: del reato scaturente dall’ordine illegittimo vincolante risponde esclusivamente il soggetto gerarchicamente sovraordinato. 6. L’esercizio di un diritto Anche il riconoscimento esplicito dell’efficacia scriminante dell’esercizio di un diritto trova giustificazione alla luce del principio di non contravvenzione. Si ritiene che art. 51 c.p. faccia riferimento non solo ai diritti soggetti in senso stretto, ma a qualsiasi situazione che consenta ad una persona di realizzare un comportamento che astrattamente corrisponde ad una fattispecie incriminatrice. Art. 383 c.p.p. consente a qualsiasi soggetto di arrestare in fragranza l’autore di delitti perseguibili d’ufficio. In molti casi occorre identificare i limiti entro cui un diritto deve essere esercitato; ciò comporta talvolta la ricerca di un punto di equilibrio tra diritti in conflitto. Es. è il problema del contemperamento tra libertà di manifestare il proprio pensiero e diritto all’onore di una persona. Un bilanciamento tra beni in conflitto che non è sempre facile attuare. Vengono, pertanto, stabiliti alcuni presupposti: 1) chi agisce in difesa di se stesso o di altri deve essere legittimamente presente nel domicilio e se fa uso d’arma deve essere legittimo detentore della stessa; 2) la difesa deve essere finalizzata a difendere la propria o altrui incolumità o beni propri o altrui. 8. Lo stato di necessità Pur essendo riconosciuto in molti ordinamenti, lo stato di necessità è meno accettato e valutato con più rigore dalla dottrina, che a volte lo ha disconosciuto come causa di giustificazione. La profonda differenza tra la legittima difesa e lo stato di necessità, è il fatto che nella legittima difesa si reagisce contro l’autore del pericolo, mentre nello stato di necessità si coinvolge un terzo innocente, per ciò si hanno requisiti restrittivi imposti dal legislatore e confluiti nell’art. 54 c.p. Secondo tale art. “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, non evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Mantenendo in parallelo i requisiti della legittima difesa si evidenziano coincidenze e differenze. Come la legittima difesa l’autore del fatto commette un reato per sottrarsi ad un pericolo, che può derivare da fattori naturali o comportamenti umani. In tal caso il reato non si dirige nei confronti dell’autore della situazione pericolosa, ma è realizzato a danno di un soggetto estraneo all’aggressione. Sotto i profili dell’attualità vi è coincidenza con quanto previsto art. 52 c.p.: la valutazione dovrà essere ancora più rigorosa nello stato di necessità. La tendenza a restringere l’ambito di applicazione dello stato di necessità trova conferma nella limitazione dei beni tutelabili: mentre. la legittima difesa può essere invocata per proteggere qualsiasi diritto, nello stato di necessità il pericolo deve riguardare i beni inerenti la persona (grave pericolo di vita, incolumità fisica, libertà personale). V. es. p. 303 libro: Cass. 19225/2012. In teoria può essere tutelato anche l’onore o il diritto al domicilio, anche se non è agevole individuare situazioni in cui può ravvisarsi uno stato di necessità a loro tutela. Il requisito della proporzione coincide con quanto previsto per la legittima difesa. Si sostiene che l’accertamento deve essere rigoroso nell’ambito dell’art. 54 c.p. Quindi non è ammissibile sacrificare la vita di un terzo innocente per evitare un pregiudizio per la propria incolumità fisica o una limitazione della libertà personale. Un limite evidente all’operatività dello stato di necessità è individuabile nella causazione volontaria del pericolo, a cui si pretende di sottrarsi a danno di terzi. Mentre nella legittima difesa il requisito nell’inevitabilità non compare, nell’art. 54 c.p. il riferimento è chiaro: se vi sono più alternative per sfuggire al pericolo, non si deve coinvolgere un terzo anche a costo di subire un pregiudizio. Su questa base non vi è dubbio che la possibilità della fuga, preclude l’operatività dell’art. 54 c.p. mentre nella legittima difesa essa non può essere imposta se pericola in sé. Lo stato di necessità non può essere invocato da chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. Determinate categorie di soggetti non possono farsi scudo dall’art. 54 c.p. Il limite vale in relazione ai pericoli che specificamente devono essere affrontati: un vigile del fuoco non può sottrarsi a spese di terzi dal pericolo derivante da un incendio, ma in caso di naufragio di crociera è da considerarsi un normale passeggiero. Mentre un fatto commesso per legittima difesa non solo non è punibile, ma neppure dà luogo a nessuna conseguenza sul piano civilistico, un comportamento scriminato dello stato di necessità obbliga a corrispondere un equo indennizzo secondo quanto stabilito art. 2045 c.c. 9. L’uso legittimo delle armi. Il c.p. dedica una norma specifica all’uso dei mezzi di coazione da parte dei pubblici ufficiali. L’art.53 c.p. delinea una scriminante propria; i soggetti non qualificati possono fruirne solo alle condizioni previste dal comma 2. Gli strumenti utilizzabili sono le armi in dotazione e i mezzi di coazione fisica legittimamente utilizzati dai predetti soggetti in base alla disciplina dei corpi di appartenenza. L’uso di tali strumenti è legittimo in presenza di questi requisiti: a. Il fine di adempiere ad un dovere del proprio ufficio. b. La necessità di respingere una violenza o vincer la resistenza all’autorità per adempiere alla funzione o per impedire la consumazione di reati. 10. Le scriminanti non codificate L’esistenza di cause di giustificazione ulteriori rispetto a quelle previste dal legislatore viene oggi negata dalla dottrina. L’es. più rilevante è costituito dall’attività medico chirurgica. CAPITOLO XVI - PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA 1. Il consolidamento del principio di colpevolezza per il fatto. Accertato che un fatto storico corrisponde ad una fattispecie incriminatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, occorre compiere un terzo passaggio, cioè verificare se quel fatto è soggettivamente riconducibile e rimproverabile all’agente. La riconducibilità soggettiva e la rimproverabilità del fatto al suo autore sono imposti dal principio di colpevolezza. Affermatosi nell’illuminismo, esso impedisce di punire un soggetto per un fatto altrui. Attualmente, tale principio non impedisce solo la responsabilità penale per fatto altrui, ma impone di punire solo quando il soggetto abbia agito con dolo o colpa. In tale prospettiva, appaiono contrastare con il principio di colpevolezza tutte quelle forme di responsabilità c.d. oggettiva, che si accontentano della mera derivazione causale del fatto dell’agente, prescindendo da qualsiasi indagine sulla violazione, o quanto meno sulla prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice. Il ruolo preminente del principio di colpevolezza in materia penale si è chiarito, proprio nella prospettiva di ritenere legittimo il ricorso alla sanzione penale solo in presenza di un concreto rimprovero al soggetto agente, tanto che in alcuni progetti di riforma del c.p. si è proposto di introdurre a fianco del principio di legalità, un’affermazione sul ruolo fondamentale del principio di colpevolezza. Perciò vanno respinte tutte quelle tendenze a declinare il giudizio di colpevolezza non solo sul fatto storico, ma sulla personalità dell’autore, intesa sia come colpa per il carattere, che per la condotta della vita.
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