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L'educazione interculturale: superando stereotipi e pregiudizi nella scuola, Prove d'esame di Pedagogia

L'importanza dell'educazione interculturale per superare stereotipi e pregiudizi nella scuola, particolarmente per bambini e ragazzi stranieri. Esplora la differenza tra culture endemiche e epidermiche, il ruolo della conoscenza reciproca, il plurilinguismo e la necessità di una prospettiva interculturale in tutti i livelli della scuola.

Tipologia: Prove d'esame

2017/2018

Caricato il 11/09/2018

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giusy-luzio 🇮🇹

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Scarica L'educazione interculturale: superando stereotipi e pregiudizi nella scuola e più Prove d'esame in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Pedagogia Interculturale – ELISABETTA NIGRIS CAPITOLO 1 – LE PAROLE DELL’INTERCULTURA Dal dopoguerra ad oggi si sono venuti a insediare in Italia ed Europa gruppi non autoctoni che si sono insediati. Gruppi visti e categorizzati, etichettati in modo differente a seconda del loro paese di provenienza. Bisogna analizzare il modo in cui questi gruppi migratori si sono caratterizzati e come sono stati definiti per interpretare i rapporti tra i diversi gruppi culturali. In Italia negli anno 80 il flusso di cittadini provenienti da altri paesi si è intensificato e le componenti della società hanno cercato strumenti per conoscere e definire i diversi mondi con cui venivano a contatto. A volte venivano usati termini generici e demagogici a volte denigratori e offensivi. In alcuni casi si accomunavano sotto uno stesso termine gli stranieri immigrati in altri casi si creavano sottogruppi che consideravano lo straniero in base a categorie di carattere sociologico, psicologico, geopolitico ecc. Oggi i gruppi migratori nel nostro paese sono più eterogenei quindi la maggior parte della popolazione autoctona tende a percepire interpretare e classificare la società multietnica semplificando e generalizzando una realtà complessa e articolata. Ancora oggi in Italia si parla di soggetti con origine diversa come STRANIERI o IMMIGRATI ( anche se si tratta di cittadini italiani come immigrati naturalizzati e figli) in altri casi vengono ancora definiti EXTRACOMUNITARI senza rendersi conto che tra questi dovrebbero essere compresi anche gli svizzeri , statunitensi, giapponesi perchè provengono da paesi che non fanno parte della CE. Con questi termini si etichettano di solito i più bisognosi, quelli senza casa, i piu sporchi ecc. e sono termini utilizzati per etichettare chi “ci ruba” il lavoro, la casa, le donne. L’utilizzo di questi termini contribuisce a creare e mantenere STEREOTIPI sul gruppo in questione che sono spesso negativi e finiscono per ritorcersi contro le persone a cui sono diretti. Ad esempio coloro che oggi vengono definiti afroamericani e che sono cittadini accomunati dal colore della pelle venivano un tempo definiti nigger (negri) con una connotazione negativa e svalutante. Con questo termine si richiamava alla popolazione deportata dall’africa, agli schiavi che dovevano essere inferiori per permettere ai cittadini americani di poter disporre di loro senza essere tacciati di tirannia. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna alcuni gruppi per distanziarsi da tutto questo si sono definiti BLACKS (neri) in base ad una scelta politica che sottolineasse che la discriminazione veniva dal colore della pelle. All’inizio solo alcuni accettarono la denominazione, altri ne presero le distanze. In seguito invece si diffuse la denominazione. Al termine NERI si contrapponeva il termine WHITE che comprende le popolazioni provenienti dai paesii occidentali industrializzati che hanno pensato di sostituire il termine NERI con il termine COLOURED (di colore) che appariva “più buono”. I neri però l’hanno reputato offensivo perché lo reputano appunto un termine che li definisce NON BIANCHI e quindi li emargina. Negli anni 50 poi nacque il termine AFRO AMERICANO che si riferisce a tutti coloro che sono africani ma che vivono in america . il termine si difuse maggiormente negli anni 80. Recentemente è stato introdotto un nuovo termine AFRO POLITAN che integra il nome africa con la parole greca POLIS che significa città e cittadino, si vuole dunque sottolineare al tempo stesso l’orgoglio delle proprie origini e il diritto di cittadinanza che ognuno dovrebbe rivendicare. Un nuovo termine che sta ad indicare la volonta dei soggetti di AUTODEFINIRSI per la loro NON APPARTENENZA. Al di là delle interpretazioni che vogliamo dare di questi termini si continua a distinguere il termine stranieri (chi è in viaggio di piacere o affari) da quello di immigrati (chi è qui per bisogno) senza che questo corrisponda però alla realtà, in quanto nella nostra costituzione è sancito all’art 10 del dettato costituzionale che straniero è colui che vive momentaneamente o stabilmente sul territorio italiano mantenendo la cittadinanza di un altro paese con una serie di diritti inviolabili. Il termine straniero rimanda a rappresentazioni diversificate che sfociano in stereotipi o pregiudizi nei confronti delle minoranze. Per minoranza intendiamo chi è numericamente inferiore rispetto a una maggioranza. Il termine MINORANZA CULTURALE può rimandare a differenti definizioni di CULTURA, ma può essere utile segnalare che in questo caso il termine minoranza non va inteso in senso quantitativo ma qualitativo, perche richiama un gruppo spesso inferiore ma che si distingue per l’appartenenza ad una cultura considerata inferiore rispetto a quella di maggioranza (per questo le donne sono considerate in minoranza culturale nonostante la loro superiorità numerica). Spesso il termine minoritario è stato abbinato a quello di etnia, infatti per minoranza etnica si intende un gruppo numericamente inferiore rispetto a una maggioranza e individuato da determinati caratteri che accomunano i suoi appartenenti (culturale, somatico e linguistico). Rispetto al termine ETNICO si evidenziano delle ambiguità perché sottende l’idea che esista una popolazione con caratteristiche somatiche e genetiche se non culturali, esattamente definibile e descrivibile in modo equivocabile che risale a un passato di “purezza” di razza. Di fatto, occorre sfatare con forza un primo preconcetto ed errore scientifico circa l esistenza di più razze distinte dal colore della pelle o da tratti somatici: l’unica razza sulla terra è quella umana. Motivo per il quale alcuni autorevoli studi hanno parlato di INVENZIONE DI ETNIA. Se parliamo di SECONDA GENERAZIONE facciamo riferimento soprattutto a figli di immigrati nati in Italia, o arrivati nel Paese durante l’infanzia e l’adolescenza. Fanno parte della 2 generazione anche i figli di coppie miste in cui uno dei due è italiano. E’ facile quindi osservare la vasta casistica attribuibile a questo aspetto dell’immigrazione. Questi bambini e ragazzi pur essendo cittadini a tutti gli effetti del paese di adozione presentano delle caratteristiche e problemi: - difficoltà nell’uso della lingua, nell’ambito scolastico, difficoltà di espressione di un linguaggio scolastico ecc - il vissuto di discriminazione per fattori quali il colore della pelle o caratteristiche comportamentali sottolineando la loro appartenenza ad un gruppo non autoctono - il colore scuro della pelle o meticciato. La terminologia di questo tema nasce negli Stati uniti all’inizio del 900 e si diffonde tanto che la questione delle cosiddette “2g” (seconda generazione) non è più percepita come particolare aspetto della migrazione. Quest’idea di minoranze incapsulate nel territorio viene vista con timore dalla francia che individua tre pericoli: - Possibilità che i gruppi etnici restino bloccati in nidi comunitari cche spingono i giovani a restare nella posizione dei genitori - Il rischio di vedere la propria presenza limitata nella scena pubblica - Attaccamento al quartiere dove si vive con atteggiamento difensivo Per la Francia quindi non esisterebbero seconde generazioni, ne terze, perche i discendenti di chi è entrato in Francia come immigrato diventano francesi a pieno titolo: chi è nato in francia acquista la cittadinanza. Però è necessario superare il problema della doppi fragilità, propria di chi è giovane e quindi non in pieno possesso della sua autonomia e inoltre in quanto immigrati la loro appartenenza oltre che in formazione è temporanea. Possiamo analizzare il cammino dell’italia attraverso tre tipologie di termini: “al passato”, “al presente” e “al futuro”. I termini AL PASSATO che si riferiscono ai figli di immigrati sottolineano l’origine culturale etnica o geografica che tendono a rimarcare l’estraneità di questi soggetti all’interno del contesto. RUMBAUT classifica in maniera decimale le fasce di età dei ragazzi figli di immigrati che divide la seconda generazione in: - GENERAZIONE PROPRIAMENTE DETTA (nati in italia da genitori immigrati) - GENERAZIONE 1.5 (figli giunti in italia dopo la nascita) - GENERAZIONE 1 ( bambini e ragazzi giunti in italia in maniera indipendente e non prima dei 15 anni) I termini “AL PRESENTE” (es. alunni arabofoni) sottolineano l’aspetto progettuale ma tentano di non dimenticare l’eredità culturale e linguistica, parte della storia personale e comunitaria di questi soggetti, definiti con il nome di MINORANZE VISIBILI, che sottolinea le caratterizzazioni somatiche che ancora oggi contribuisce a determinare l’estraneità nei confronti del gruppo dominante. I termini “AL FUTURO” sono quelli che evocano la progettualità condivisa di persone che vivono in uno stesso territorio, indipendentemente dal trascorso di ognuno e che anche se non possono essere considerati giuridicamente cittadini a tutti gli effetti, vengono chiamati NUOVI CITTADINI o NUOVI ITALIANI, definiti da Ambrosini “italiani col trattino”. Per quanto riguarda l’inserimento nelle scuole non sempre il sistema scolastico riesce a cogliete le numerose e complesse sfaccettature di questo fenomeno. Il primo scoglio si incontra all’ingresso della scuola secondaria dove avvengono le prime bocciature e le prime discriminazioni da parte dei pari e degli insegnanti per arrivare al vero e proprio blocco della scuola superiore che rappresenta un salto nel buio dove si acutizzano le carenze linguistiche e formative e in cui vengono dati consigli orientativi discriminanti (consigliando scuole professionali) , marchio di cui sarà difficile liberarsi. La terminologia attinente alle 2g è stata arricchita con il concetto di METISSAGE. Esistono due definizioni: 1) A posteriori, vede origini storiche nella nascita delle colonie. L’occidentalizzazione viene realizzata in due fasi: una prima attivazione della coscienza, della rivendicazione e affermazione del diritto culturale di esistenza autonoma 2) A priori, che antepone al dualismo identità-differenza il concetto di INTERFERENZA CULTURALE. Ogni cultura ha la sua forma di esistenza attraverso le atre culture e vive dell’apertura altrui. Come evidenzia Martinno, il metodo comparativo non si impegna in realtà in una raccolta di fatti da cui indurre empiricamente delle regolarità. La teoria dell’ EVOLUZIONISMO UNILINEARE costituì un’importante affermazione di universalismo: il riconoscimento dell’unità del genere umano e il possesso di una cultura. La rappresentazione delle diversità delle culture umane permetteva di classificare gli uomini come migliori o peggiori seguendo una certa unità di misura: il modello di sviluppo delle società europee dell’epoca. L’assunzione di SE a unità di misura del genere umano odi chiama ETNOCENTRISMO, che fu il punto focale di tutto l’universalismo ottocentesco. Una delle conseguenze fu la legittimazione dell’impresa coloniale. L’europeo diventava il civilizzatore dell’umanità al quale spettava il compito di accelerare lo sviluppo dei popoli rimasti indietro. L’antropologia si servì dell’impresa coloniale per raccogliere i suoi dati: missionari, esploratori, amministratori, viaggiatori erano le fonti di un’ antropologia a tavolino. Le differenze culturali dunque erano viste come un ostacolo allo sviluppo. Il pensiero di un’umanità uguale ma diversa e omogeneizzabile al Sé ha caretterizzato l’antropologia ottocentesca. Il cammino verso l’ipotesi relativista fu lungo e complesso, e il risultato, il RELATIVISMO CULTURALE, non è certo una rappresentazione della differenza culturale priva di ambiguità o paradossi. La crisi del paradigma evoluzionista cominciò con una radicale messa in discussione del metodo comparativo. Boas, un antropologo, criticava la fondatezza di comparazioni e generalizzazioni. Sosteneva che prima di osare delle comparazioni, di produrre generalizzazioni, era necessario accertare empiricamente che quei fenomeni fossero l’effetto di cause simili. Il metodo capace di garantire la validità di questa impresa scientifica fu il lavoro sul campo. Il ricercatore doveva accumulare una conoscenza diretta e documentata sia dei fatti che dei processi peculiari che li avevano generati in quei contesti. Boas dimostrò per esempio che i gruppi umani potevano arrivare allo sesso effetto pur partendo da cause diverse. Il sapere antrpologico iniziava a configurarsi cosi come uno studio particolare di fenomeni particolari, abbandonando a poco a poco ogni istanza generalizzante, l’antropologia adesso mirava a produrre descrizioni culturali iconografiche. Con l’ultimo BOAS, la differenza culturale non era più qualcosa da spiegare, ma qualcosa da descrivere accuratamente. Così l’approccio universalista comincia a lasciare il posto all’APPROCCIO RELATIVISTA, in cui adesso l’oggetto è LA SPECIFICITA’ CULTURALE IN SE. Le culture, e i loro prodotti e processi, non vanno comparate tra loro, ma commisurate unicamente con se stesse. Dunque ogni pratica, ogni abitudine, va vista in relazione alla logica interna della cultura che l’ha prodotta in maniera limitata a quella cultura. In questo modo venendo meno l’ipotesi di un’unità di misura, il confronto e il giudizio culturale non hanno più validità e quindi ora lo scopo dell’antropologo è quello di rendere accessibile e conoscibile una diversità sospendendo giudizi e comparazioni. I lavori dei primi allievi di Boas contribuirono in almeno due importanti aspetti dell’evoluzione del pensiero sulla differenza culturale. Misero profondamente in crisi il DETERMINISMO BIOLOGICO: il comportamento umano non è il prodotto dalla sua natura, di un patrimonio genetico che detterebbe le forme del comportamento, per esempio non è naturale che gli adolescenti siano ribelli e trasgressivi. Le caratteristiche attribuite a ciò sono un fatto culturale d una determinata società quindi variabile da cultura a cultura e ciò rende il tutto non appellabile alla NATURA UMANA. In secondo luogo gli allievi di Boas criticarono l’etnocentrismo. La conoscenza di altri modelli portava il progetto antropologico ad assumere un valore dii critica culturale. Il RELATIVISMO CULTURALE dunque comincia a incrinare la possiblità di trovare un paragone in base a cui giudicare culture. Il relativismo dunque rifiuta l’ipotesi che sia possibile esprimere giudizi su mondi culturali diversi dal nostro , pratiche per noi aberranti, credenze per noi irrazionali non lo sono per la società in cui si registrano. Claude Levi-Strauss inizia a ricercare invece nell’antropologia leggi universali capaci di rendere conto del passaggio da strutture invarianti comuni a tutti gli uomini alla multiforme esperienza culturale dei gruppi umani. L’antropologia ha dunque il compito di attraversare le differenze e mostrare come la loro pari dignità non sta nella loro incommensurabilità ma nell’essere tutte manifestazioni di strutture logiche. Il modello a cui Levi-Strauss si ispira è quello del linguaggio: come le lingue umane sono differenti ma rivelano strutture di base simili e sono generate dalla comune capacità umana di linguaggio, così anche le culture sono assimilabili sul piano profondo della struttura del loro significato. Lo sguardo rilevatore dell’antropologo è uno sguardo da lontano ed è proprio questa lontananza che rileva ciò che sfugge al nativo. Levi Strauss vuole dimostrare che tutti gli uomini condividevano le medesime leggi logiche e dunque che tutta l’umanità avesse le medesime strutture di pensiero che fungono da base all’uguaglianza, e fu di fatto questo il contributo che diede: gli uomini erano uguali fin dall’inizio perché le loro culture rilevano i medesimi principi logici. L.S. afferma che la cultura è dotata di un’architettura simile a quella del linguaggio. Entrambe si edificano attraverso opposizioni e correlazioni, e quindi attraverso operazioni logiche. Dunque se è vero che gli uomini sono uguali rispetto a COME pensano, l’analisi strutturale di ciò che pensano è l’unico modo per rilevare l’uguaglianza del come. Il progetto di LS è dunque profondamente universalista e l’oggetto di studio è di nuovo lo studio dell’invarianza, ma al contrario dell’universalismo etnocentrico esso non produce un modello di umanità fatto di contenuti da analizzare e da cui far scaturire differenze, ma individua le funzioni e le procedure logiche che presiedono la produzione delle differenze. Però con questo tipo di osservazione si rischia di porre l’antropologo in una situazione di superiorità tralasciando erroneamente il punto di vista dei nativi infatti LS afferma che se il fine dell’antropologo è quello di contribuire e migliorare una conoscenza del pensiero dei nativi è necessario che il pensiero dell’antropologo influenzi quello dei nativi e viceversa. Secondo LS i nativi forniscono testi il cui significato è ricavabile analizzandolo strutturalmente e l’antropologo può accedere al significato in quanto condivide le stesse forme di pensiero. Dunque ci sono due strade per la rappresentazione culturale: la prima (di levi strauss) è quella di stabilire che il nostro metalinguaggio sia un’adeguata rappresentazione del pensare umano, e questo ci fa arrivare alla conclusione che i nativi nei loro modi di pensare e parlare utlizzino delle metafore senza saperlo ( e questo non è discriminante riguardo al fatto che non lo sanno?) La seconda strada (non quella di LS) è quella di riaprire il fronte al relativismo e accettare il fatto che i modi di rappresentazione della realtà sono differenti e che ogni tentativo di rendere commensurabili quei modi comporta un trasferimento di categorie. Le persone quindi vengono definite diverse non rispetto a ciò che pensano, ma a COME pensano. Si arriva alla conclusione dunque che ogni cultura produce un universo proprio e che l’unica cosa che si può comprendere dell’esperienza umana è che è incomprensibile. La presenza del ricercatore sul campo ha portato con se sempre delle perplessità, infatti se da un lato garantiva la sostenibilità scientifica del progetto antropologico, dall’altro era un limite alla descrizione oggettiva dei fatti. Dunque diari di campo, filmati ecc ci avrebbero garantito un’oggettività. Geertz è considerato il fondatore dell’antropologia interpretativa. Geertz afferma che quelli che chiamiamo i nostri dati sono interpretazioni delle interpretazioni di altri su ciò che fanno loro e i loro compatrioti. Questa è diventata la definizione classica del sapere degli antropologi contiene i due elementi che caratterizzano l’approccio interpretativo in antropologia: • La certificazione che l’antropologo consegna al pubblico un’interpretazione, prodotto dall incontro tra punto di vista e realtà in cui le due cose sono inscindibili con la conseguenza che quello che racconta un testo etnografico è LA COMPRENSIONE DI QUELLO CHE L’ANTROPOLOGO HA ACQUISITO. • Cambia l’oggetto dell’indagine, l’oggetto dell’investigazione non sono più le pratiche culturali, ma IL MODO CON CUI I NATIVI INTERPRETANO LE LORO PRATICHE CULTURALI E IL SIGNIFICATO CHE LORO STESSI NE ATTRIBUISCONO. L’antropologo adesso ha come scopo quello di far capire come gli altri percepiscono, funge dunque da traduttore di discorsi, tenta di rendere adeguabile il senso con altri linguaggi per altri destinatari. Il sapere degli antropologi è una traduzione in cui tra il testo di partenza e quello di arrivo c’è uno slittamento di significato con resti irriducibili. I limiti della proposta di Geertz stanno nell’aver assunto come metafora guida dell’oggetto dell’antropologia quella della cultura come testo. La critica fondamentale mossa dall’antropologia interpretativa di GEERTZ è quella di darci una rappresentazione della cultura che non è più un insieme di fatti, ma un insieme di interpretazioni native trattate come fatti. L’approccio interpretativo dunque alla luce di ciò indica a non trattare la descrizione culturale come oggettiva, perché l’antropologia interpretativa non vuole correre il rischio di oggettivare i significati e pensarli come entità individuabile nella mente del nativo e li presenti prima dell’interazione con il ricercatore. Il dialogo adesso dunque non è più visto come un mezzo trasparente per designare ed esprimere mondi che troviamo fuori dall’interpretazione dei fatti, ma è visto come il luogo in cui tali mondi sono co-prodotti. Il dialogo sul campo è il primo stadio dell’interpretazione. L’oggetto di studio dunque è COSTRUITO SU UNO SCAMBIO COMUNICATIVO REALE. Il lavoro dell’antropologo viene visto adesso non più come mezzo o strumento per raccogliere saperi, ma come parte del sapere stesso. Adesso lo studio dei processi attraverso cui si forma il sapere diventa centrale quanto il sapere stesso. Dunque la cultura inizia ad esser vista come testo, mentre l’antropologo come un autore di questo testo. La differenza culturale ora non è più facilmente identificabile e collocabile in un territorio geograficamente e culturalmente lontano, perché con i processi di trasformazione, con i flussi migratori, la deterritorializzazione, la globalizzazione, l’altro è vicino a noi, in mezzo a noi, dentro di noi. L’educazione interculturale in contesti multietnici e plurilinguistici infatti condivide con l’esperienza dell’antropologo sul campo il conoscere l’altro a partire dall’interazione con esso. Da qui scaturisce il concetto che più che il sapere degli antropologi, un educatore necessita del loro mestiere, condividendo molti punti in comune con l’antropologia. L’educazione interculturale riconosce la cultura come il prodotto di una relazione e non una precondizione di essa. Essa non esiste stabilmente nella mente di qualcuno ma è il prodotto di un dialogo in situazione. L’istanza universalista in antropologia mira a produrre preposizioni valide sulla natura dell’uomo, ossia preposizioni valide per tutti che potrebbero contribuire a definire la condizione umana. E’ però facile cogliere il paradosso : qualsiasi definizione di condizione umana non deriva da una prospettiva universale, essa è infatti sempre prodotta da un determinato sapere (quello antropologico) che si è costituito all’interno di una certa cultura in un determinato periodo storico. Il relativismo però ha un limite etico, in quanto dal punto di vista relativista, l’unicità della condizione umana diventa indimostrabile e inservibile. Da questo ne scaturisce che predicare l’universalità della condizione umana e proclamarsi relativisti significa svuotare la condizione umana di qualsiasi contenuto e valore universale, in quanto si pone sottoforma di postulato da cui non scaturisce nulla. CAP. 3 – COSTRUIRE LE DIFFERENZE. IMMAGINI DI STRANIERO NEI CONTESTI EDUCATIVI. La struttura di una situazione educativa può essere pensata come una serie di componenti dalle cui relazioni e interazioni dipende la relazione educativa e la trasmissione culturale che ha come scopo quello di costruire un’identità e una rete di conoscenze. L’educatore si colloca in questo processo educativo caratterizzato sia da saperi, metodi, obbiettivi propri della sua professione, sia da saperi, credenze e valori che si sono creati fuori dal contesto educativo. Sia l’educatore che i soggetti in formazione sono portatori di un’enciclopedia naturale fatta di saperi, idee, intenzioni, aspettative, valori e credenze acquisite altrove. Quando parliamo di queste conoscenze latenti, possiamo parlare di: • Pedagogia nascosta • Teorie soggettive • Rappresentazioni • Visioni del mondo Queste nozioni sono accomunate dal riconoscimento che l’evento educativo si articola e sviluppa su vissuti soggettivi e personali. E’ dunque necessario portare alla luce e prendere consapevolezza della dimensione soggettiva, perché rappresenta un aspetto determinante. In caso di contesti multiculturali la dimensione oggettiva sarà interpretata dall’educatore che dovrà partire dalla propria dimensione soggettiva attribuendo significati a quella situazione educativa. Ormai è riconosciuta la figura dell’educatore come colui che interpreta il contesto attivamente realizzando l’intervento educativo partendo dalla sua interpretazione. generalizzazione per cui stabiliti una volta per tutte i parametri secondo cui categorizzare essi vengono generalizzatia tutti i membri della categoria.. Tejfel sosteneva che tale proesso fosse sempre accompagnato dal suo contrario, la particolarizzazione, cioè un processo per cui attraverso un certo stimolo vengono individuate delle differenze tra membri appartenenti alla stessa categoria rendendola così non più omogenea al suo interno. Il prototipo non serve solo a discriminare due classi eterogenee di individui tra loro omogenei, ma anche a compiere differenziazioni interne alla categoria stessa. Classificare gli individui in gruppi non significa necessariamente omologarli tra loro, infatti l’individuo non è portatore di processi cognitivi che gli impongono di semplificare differenziare e omologare, ma è produttore di processi cognitivi che si generano all’interno del suo mondo culturale e sociale. Per questi motivi è impossibile cogliere il confine tra un processo neutrale e uno culturalmente informato di elaborare l’informazione. Qualunque cosa siano li stereotipi e i pregiudizi, essi sono prodotti IN e ATTRAVERSO il discorso. L’idea è quindi che le persone non sono portatrici di stereotipi, ma li producono nel discorso inserito in un preciso contesto.. Gli stereotipi non stanno nella mente ma sono modi di parlare del mondo, soggetti a variazioni proprie come ogni forma di discorso sulla realtà. Questo approccio propone di considerare il fenomeno dwlla categorizzazione socialw attraverso l’analisi del discorso, analisi che mostra che ogni individuo non interpreta il mondo sociale secondo una serie di immagini precostituite, ma secondo variazioni all’interno di un proprio repertorio interpretativo e in questo modo la categorizzazione sociale e il fenomeno del pregiudizio sono qualcosa di modificato e modificabile in base alle circostanze e agli scopi. L’idea centrale dell’approccio discorsivo alla sereotipizzazione è che le persone non pensano il mondo sociale attraverso stereotipi, ma producono discorsi stereotipati in funzione di precise circostanze. Questo vuol dire che le persone non sono viste come vittime della categorizzazione, ma come individui capaci di usare in modo flessibile le categorie e di costruire il significato delle categorie in base a quello che dicono. All’interno dell’approccio discorsivo al processo di categorizzazione e stereo tipizzazione si colloca anche la classificazione delle persone in base alle caratteristiche somatiche e al fenomeno del razzismo. La distinzione tra RAZZISTA e RAZZIALE, nel quale il primo indica un atteggiamento pregiudicato e sfavorevole, mentre il secondo un processo cognitivo neutrale risulta una sovra semplificazione. Il fatto stesso di costruire un discorso su una categoria razziale, implica il dare per scontata l’esistenza delle categorie razziali. Distinguere tra RAZZIALITA’ (semplice riconoscimento di differenze somatiche) e RAZZISMO (atteggiamento sfavorevole verso individui classificati su basi razziali) è un modo per legittimare un processo non affatto neutrale. Infatti il pensiero razziale implica il fatto che la razza sia una cosa neutrale, reale e auto evidente da non confondere col razzismo inteso come un atteggiamento ingiusto e disdicevole dalla maggior parte delle persone che poi però utilizzano enunciati quali “non sono razzista però”, premesse attraverso le quali chi parla vuole collocarsi dalla parte di chi non ha pregiudizi per mantenere una buona immagine pubblica di se. Nel contesto discorsivo si individuano forme di razzismo silenzioso, come per esempio, quando le testate giornalistiche descrivono una rapina, identificando l’autore del crimine come “nero” o “marocchino”. Lo scegliere di descrivere il fautore del crimine facendo rferimento al colore della pelle è un modo di trasformarlo in qualcosa di rilevante, nonostante il colore della pelle potrebbe non essere un dettaglio rilevante. Associare dunque un crimine al colore della pelle del fautore, è veicolare in modo implicito l’idea che il colore della pelle sia qualcosa di pertinente al crimine. Bisogna però ricordare che non esiste un modo neutro di parlare dell’altro, esistono modi diversi di costruire l’altro attraverso modalità di descrivere e interpretare un suo comportamento. Il mondo dunque si dividerebbe in fatti, osservabili e descrivibili, e in valori. Da un lato le categorizzazioni razziali, dall’altra il significato che esse hanno. Da una parte il discorso razziale, dall’altra quello razzista. Ma le parole non sono solo strumenti per descrivere le differenze nel mondo, sono i più potenti strumenti per costruire quello che il mondo vuole designare e descrivere. Non è che da una parte troviamo un oggetto (la sua descrizione e il suo nome) e dall’altra l’atteggiamento verso quell’oggetto. La costruzione stessa dell’oggetto, la sua descrizione e il suo resoconto esprime riflette e dipende dal modo con cui ci disponiamo verso la realtà. La categorizzazione degli individui dunque è una pratica sociale che si crea attraverso un discorso. Per questo motivo è all’interno del discorso o del contesto che l’individuo costruisce il senso della categoria che utilizza. Questo vuol dire che questa categoria è sempre significativa ed è quindi un modo per interpretare la realtà, e quindi NON è MAI NEUTRALE. L’esistenza delle razze in una società infatti PRESUPPONE l’esistenza del razzismo, perché al di fuori del razzismo le differenze sarebbero svuotate di ogni rilevanza sociale. La categorizzazione razziale non è un processo neutrale di discriminazione percettiva, ma un processo cognitivo culturalmente informato: se le differenze somatiche sono un fatto del mondo, scegliere di classificare le persone in base alle differenze somatiche è un fatto culturale. Ma la categorizzazione su base razziale non è l’unica. E’ altrettanto diffusa quella che si basa sull’etnia o sulla nazionalità e nominare alcuni individui “marocchini”, “zingari”, “extracomunitari” lo dimostra. Il linguaggio produce un’etnicizzazione degli individui assumendo una reale o ipotetica provenienza geografica o culturale come fattore distintivo e rilevante dell’individuo. I nomi non sono insegne neutrali, se lo fossero il termine extracomunitario indicherebbe, come è scritto nel dizionario, qualsiasi persona proveniente da paesi che non fanno parte della comunità europea. In realtà il suo significato non deriva dalla definizione che troviamo sul dizionario, ma è connesso strettamente all’uso che ne facciamo nei contesti quotidiani, ed è collegato alla sua collocazione sociale. Il termine “extracomunitario” infatti designa solo alcuni individui provenienti da alcuni paesi, soprattutto del terzo mondo. Nessuno designerebbe come extracomunitari un gruppo di giapponesi venuti in Italia per studiare la nostra organizzazione aziendale. La prima soglia di attenzione di ogni forma di educazione interculturale consiste nell’attenzione al linguaggio e ai termini utilizzati per riferirci a persone o gruppi di persone. Il punto non è tanto stabilire quali categorizzazioni sono corrette e quali no, perché in linea di principio tute lo sono, il punto è avere a mente che non ci si muove in un universo neutrale e che ogni designazione o categorizzazione dipende dal punto di vista che stiamo assumendo sulla situazione e che questo punto di vista si fonda su una implicita decisione riguardo cio che conta e le conseguenze che comporta. Possiamo dunque asserire che le categorizzazioni sociali e le nominazioni sono processi neutrali fino a quando non si articolano su stereotipi o pregiudizi. Nei contesti educativi multiculturali il linguaggio utilizzato per nominare le persone costituisce gia il primo livello di costruzione sociale dell’etnicità. Scegliere e raggruppare un gruppo come “di colore” presuppone una decisione circa il fatto che quel tratto somatico sia significativo. Assumere come rilevante e pertinente un tratto somatico o un paese di nascita conduce alla definizione del bambino. Su questo livello della costruzione sociale si innesta quello relativo alla prasi: pratiche sociali, interazioni, discorsi, azioni attraverso cui questa identità etnica viene costruita, ma non sempre il comportamento e le azioni derivano in modo coerente e prevedibile dall’interpretazione che noi facciamo della realtà. Se un bambino è percepito come straniero in funzione del colore della pelle o in funzione al grado di esotismo del paese da cui proviene, allora si può capire come un bambino inglese non sarà destinatario del progetto di valorizzazione e conoscenza dei bambini di origine straniera in un determinato gruppo. E si capisce come di contro una bambina nata in India e adottata nei primi mesi della sua vita, sia una “bambina indiana” pur non conoscendo nulla dell’india. Si potrà notare come dell’India si parlerà diffusamente mentre dell’Inghilterra in cui il suo compagno ha vissuto e di cui parla la lingua non se ne parlerà. Se invece per un insegnante un bambino straniero è colui che non parla o non parla bene l’italiano, è possibile che i progetti a favore dei bambini stranieri siano destinati alla dimensione linguistica: dunque un bambino dialettofono sarà considerato straniero. Canevaro ha proposto una distinzione rispetto ai modi con cui definire l’identità culturale di una persona: • Culture endemiche (cultura legata all’identità di un popoli: storia, lingua, tradizioni, memoria..) • Culture epidermiche (riguarda una “pelle che si può mutare”, ha a che fare con i modi diversi di percepirsi e mostrarsi agli altre in varie circostanze o situazioni) L’educazione interculturale quindi può essere un processo di costruzione identitaria differente a seconda di cio che intendiamo per cultura di un individuo, a seconda delle relazioni che poniamo tra cultura endemica ed epidermica. Pensare all’educazione interculturale alla luce di tutto ciò significa fare un passo in più verso il superamento di stereotipi e pregiudizi. Di fronte a ciò possiamo osservare il contributo soggettivo dell’educatore che come qualsiasi altro individuo sarebbe portatore di un insieme di stereotipi e pregiudizi che attiverebbe di fronte all’altro in modo meccanico e burocratico. In ambito educativo dunque si tratterebbe di neutralizzare le componenti valutative e affettive del pregiudizio limitandone i processi di generalizzazione, semplificazione e distorsione che caratterizzano i pregiudizi. Tutto ciò in vista di un educatore pensato capace, una volta liberato da stereotipi e pregiudizi, di costruire rappresentazioni oggettive dell’altro, libere da pregiudizi. Un altro modo di pensare il contributo soggettivo dell’educatore deriva dall’assumere consapevolezza di essere parte attiva nella costruzione dell’identità dell’altro e della sua cultura. Parte attiva inteso come una scelta all’interno di un proprio patrimonio interpretativo. La consapevolezza di questo processo comporta due conseguenze: • Avere la consapevolezza che tali immagini non sono un ritratto oggettivo dell’altro, ma lasua costruzione soggettiva, e questo vuol dire che quelle immagini sono provvisorie e variabili. • Avere la consapevolezza di poter costruire immagini diverse dell’altro in funzione della situazione. All’interno di una relazione interculturale, la vera posta in gioco non è quella di giungere ad una rappresentazione oggettiva dell’altro, ma consiste nella capacità di costruire rappresentazioni intersoggettive (dunque non oggettive), cioè rappresentazioni congiuntamente prodotte e variabili in relazione ai contesti. Dunque le rappresentazioni dell’altro (es. il marocchino) non sono da neutralizzare (ipotesi insostenibile), ma da contrattare con il soggetto, in base a come sceglie in una certa circostanza di Mostrarsi o no come marocchino. Il punto è negoziare con il soggetto una RAPPESENTAZIONE CONDIVISA di se stesso. CAPITOLO 4 – INSEGNARE E APPRENDERE FRA LE CULTURE. UN APPROCCIO TRANSCULTURALE E INCLUSIVO DELLA DIDATTICA. Sin dall’affermarsi della teoria evoluzionista di Darwin, si fa strada l’idea dello sviluppo unilineare della società e cultura, secondo cui, come afferma Tylor, l’umanità è un tutto omogeneo che presenta diversi livelli di civiltà. Si afferma infatti l’unità psichica del genere umano ma si sostiene allo stesso tempo che lo sviluppo della civiltà ha seguito e segue processi diversi e ritmi diversi in base alle diverse società, e in alcuni casi questo sviluppo si è anche fermato. Anche le prime teorie relative allo sviluppo psicologico riflettono questa impostazione evoluzionistica. Psicologi dello sviluppo illustri come Piaget associavano lo sviluppo mentale dei popoli non industrializzati alla categoria che include i bambini e i pazienti con deficienze mentali. Secondo Levi Bruhl il metodo di pensare dei primitivi è diverso per vari motivi tra cui l’ambiente fisico e sociale diverso dal nostro e anche perche in essi non si differenziano le attività puramente mentali da quelle emotive e psicomotorie. Questo autore non ammetterà mai l’esistenza di variabili situazionali che porteranno a differenze nei modi di pensare dei sin goli individui, per questo rifiuterà la concezione evoluzionistica. Gli studi transculturali contemporanei invece sostengono il lavoro sul campo e rifiutano lo sviluppo evoluzionistico unilaterale: le culture e i prodotti delle stesse non possono essere confrontati perché seguono una storia e una logica interna, indipendente da tutte le altre. Gli studi psicologici transculturali sono i risultati di un percorso storico che la psicologia ha compiuto più o meno consapevolmente. Solo negli anni 60 però si inizia a parlare di psicologia transculturale e globale. I riferimenti di HERBART alla VOLKESGEIST (spirito dei popoli) può essere studiata solo attraverso l’etnografia. Contrapponendosi al misticismo, persino Wundt, dimostò interesse verso la pedagogia transculturale discutendo tematiche quali lingua, mito e costumi. In Inghilterra molti filosofi e studiosi mostrarono interesse per gli altri popoli. Anche negli Stati Uniti alcuni sociologi della Yale ripresero la VOLKSGEIT di Herbart sostenendo che le caratteristiche proprie ad alcuni popoli sono trasmissibili biologicamente, mentre le abitudini individuali e sociali derivano da sforzi del soggetto per soddisfare i bisogni del popolo.. Il concetto di base della psicologia globale consiste nella convinzione che i comportamenti umani e lo sviluppo psicologico non sono definibili astrattamente dal contesto in cui si manifestano ed esplicano.. In alcuni casi però metodologie specifiche, teorie e metodi non sono trasmissibili a tutte le altre culture. Per chi vorrà operare in campo tra sculturale infatti sarà necessario acquisire competenze che rendano possibile la collaborazione con studiosi provenienti da culture differenti. Devereux sottolinea come ogni cultura offra un modello di normalità e anormalità valido per i propri appartenenti . Gli strumenti diagnostici però hanno dei limiti, infatti questo è evidenziato nelle indagini su campioni di bambini stranieri nelle scuole italiane che si sentono esclusi o emarginati. L’approccio transculturale alla psicologia dello sviluppo è recente . Piaget per esempio pensa allo sviluppo cognitivo come a un processo biologico individuale e innato. Gardner sostiene invece che piaget ha delineato un quadro eccellente dello sviluppo tralasciando però un fattore importante: lui si rifaceva ad un tipo di sviluppo culturali, infatti come sostiene Mantovani, la cultura è vista come PREMESSA DI OGNI FUTURO APPRENDIMENTO. Besozzi inoltre sostiene che la struttura culturale della scuola si basa su tre presupposti: • Cultura come insieme di norme, regole, rituali condivisi che formano la struttura portante, spesso implicita e che possono costituire un muro insormontabile per bambini e ragazzi stranieri neo – inseriti • Il livello di cultura inteso come un sapere organizzativo o anche dell’organizzazione come cultura c he regolamenta le pratiche di funzionamento e gestione ad esempio orari, modalità di iscrizione ecc.. • Il livello di cultura come sapere/saperi in riferimento a un patrimonio culturale organizzanto, condiviso, trasmissibile, declinato in forma di cultura scritta mista all’oralità diffusa e suddiviso in curricoli, moduli e percorsi didattici Se intendiamo dunque delineare una prospettiva di didattica transculturale dobbiamo chiederci quale sia il ruolo e la funzione dei diversi gruppi all’interno della scuola. I bambini e i ragazzi quando entrano in un nuovo sistema scolastico e culturale entrano in contatto con dei complessi sistemi culturali di conoscenze e sono chiamati a codificarli. Questi sistemi culturali di conoscenze consentono loro di organizzare le info ricevute e permettono di prendere decisioni di fronte a problemi posti dall’esperienza quotidiana, secondo un determinato paradigma culturale. Gli studi più recenti definiscono AMBIENTE DI APPRENDIMENTO il contesto progettato intenzionalmente entro cui l’azione didattica viene organizzata, situata e distribuita. Il contesto costituisce un ambiente fisico, organizzativo e istituzionale. Per definire il grado transculturale dell’esperienza scolastica vissuta dai bambini e ragazzi provenienti da altri paesi, dovremmo prendere in analisi non singoli comportamenti ne singoli soggetti, ma il contesto nel suo complesso, l’ambiente di apprendimento e la sua rete di azioni , relazioni e artefatti e la modalità in cui essi sono intenzionalmente progettati per permettere a ciascun allievo di sviluppare le proprie capacità. Le azioni didattiche se vogliono collocarsi in prospettiva transculturale, saranno intese come una pratica consapevole capace di cogliere e costruire quel continuum fra interno ed esterno. Questo è possibile attuando il passaggio da un’idea di scuola che offre forme di sapere più responsabile in cui le discipline sono intese come modalità di costruzione del sapere in grado di offrire chiavi di lettura innovative e produttive. In questo modo si apre al docente un ventaglio di strategie e opportunità che vanno in diverse direzioni e questo è possibile se i saperi vengono assunti come risorse. In questo modo promuovere le conoscenze messe in relazione con problemi di vita e problemi reali contribuisce a trasferire il sapere nella quotidianità utilizzando un metodo di ricerca applicabile in ogni realtà e dunque INCLUSIVO PER TUTTI I RAGAZZI. In questo modo gli allievi saranno motivati a partecipare alle attività proposte a scuola poiché ne avranno compreso il senso e la ricaduta nel mondo reale. Sleeter parla a tal proposito della necessità di evitare dei curriculum standardizzati (parla di standardizing curriculum) per plasmare e adatare le proposte scolastiche ai singoli gruppi di allievi e alle comunità di pratica. La scuola infatti può aiutare a sviluppare non tanto il pensiero logico e il ragionamento, quanto il pensiero e l’argomentazione astratti. Si tratta di distinguere tra capacità di generalizzazione tout court e capacità di generalizzazione appropriata che richiede una grande comprensione progettuale. A volte infatti a scuola si raggiunge una comprensione concettuale astratta ma non si riesce ad applicarla a nuove situazioni perché non se ne capiscono i principi sottostanti. Possiamo giungere alla conclusione che esistono molti livelli di intelligenza e molti livelli di apprendimento, tutto sta nella tipologia del “problema” e nel ventaglio di metodi di risoluzione presentati per risolverlo. Come afferma Bruner d’altronde, in una disciplina è essenziale la sua metodologia, quindi la cosa fondamentale nell’insegnamento della disciplina è offrire il prima possibile l’occasione di apprendere tale metodologia. Dunque la missione dell’insegnamento non è la trasmissione del puro sapere ma di una cultura che ci permetta di comprendere la nostra condizione aiutandoci a vivere e aiutandoci a pensare in modo libero. Come afferma Damiano, pensare all’azione didattica come azione mediata significa contestualizzare mediatori didattici, è dunque necessario operare una METAFORIZZAZIONE che partendo dalle conoscenze informali accompagni i ragazzi verso quelle formali. Questo potrà avere possibilità di riuscita attraverso un ascolto paziente e appassionato in modo che gli allievi possano arricchire di significati parole, costruendole, creandole e capendole attraverso le esperienze, ed essere così stimolati ad acquisire linguaggi e terminologie adeguati a scrivere fenomeni complessi dentro e fuori le loro culture e dentro e fuori il contesto scolastico. CAPITOLO 5 ALLUNNI CON UNA STORIA DI MIGRAZIONE :PERCORSI,RELAZIONI E SAPERI INTRODUZIONE “ Quando sono arrivata a scuola in prima elementare, sono stata inserita in un corso separato, poiché secondo le insegnanti non avevo le basi, ma in realtà ero uguale agli altri. In terza elementare i miei genitori mi hanno fatto cambiare scuola e lì mi sono trovata alla pari con gli altri. Alle superiori invece una professoressa è stata la mia salvezza, è la mia maestra di vita, lei per prima ci ha trattato come italiani. “ In questo racconto autobiografico emergono tre esperienze di scuola profondamente diverse in Italia. Nel testo troviamo informazioni importanti per riflettere sull’esperienza scolastica di bambini e ragazzi che hanno una storia di migrazione e per riflettere sul termine scuola inclusiva e interculturale. Nel racconto di questa ragazza viene descritta la paura degli insegnanti della scuola primaria che frequenta che lei non sia in grado seguire le stesse lezioni degli altri, per questo si fa riferimento ad un corso separato. Il contatto con la scuola si configura come un BOUNDARY EVENT, un evento che segna confini e frontiere di un INGROUP e un OUTGROUP, di chi è dentro e di chi è fuori la classe. La seconda esperienza scolastica avviene in terza elementare, i genitori a malincuore prendono la decisione di cambiare scuola e ciò significa abbandonare dei legami sociali, da poco avviati e di affrontare un nuovo contesto. Fortunatamente questo contesto è rassicurante: non si fanno discriminazioni, non si fanno separazioni, si è tutti uguali. L’incontro con l’insegnante avviene in un’età della vita di questa ragazza in cui la ricerca della propria identità si fa intensa. La prima scuola sembra orientata ad un approccio di inserimento SEPARATO tipico dello scenario della scuola italiana, con testi scolastici differenti tra loro insegnanti che non condividono un comune pensiero sulla progettualità interculturale come orizzonte di senso per la scuola. La scola deve oggi rispondere a sfide cognitive, sociali e culturali, accompagnare evoluzioni che coinvolgono identità, individuali e collettive. È necessario che siano in grado di offrire reali opportunità a bambini e giovani provenienti da famiglie emigranti, non perché rappresentino dei casi nelle istituzioni scolastiche ma perché difficoltà ed insuccessi che possono avere dipendono dal fatto che le scuole stentano ad adattarsi a funzioni e pubblico scolastico complessi. 5.1 I PERCORSI SCOLASTICI DI BAMBINI E RAGAZZI DI DIVERSA ORIGINE CULTURALE In Italia non sono molte le ricerche che abbiano osservato e ascoltato in modo approfondito il punto di vista degli studenti sulla scuola. La ricerca sociologica si è dedicata a rilevare la dimensione degli esiti dell’integrazione scolastica e ad analizzare i fattori in grado di influenzare la riuscita scolastica, cercando spiegazioni nelle tipiche variabili ascritte, in variabili inerenti il percorso migratorio personale e familiare e in alcune variabili personali. La ricerca su questo tema ha iniziato a studiare anche le caratteristiche del contesto scolastico: clima della classe e della scuola, aspettative degli insegnanti, stili di insegnamento, relazioni scuola-famiglia, organizzazione scolastica, ecc.. L’integrazione scolastica ( possibilità di “sentirsi parte” e di “ interagire “ nel contesto ) è un processo multidimensionale e si compone di due dimensioni : -quella più indagata riguarda gli esiti e il successo formativo in termini di apprendimenti (dimensione cognitiva ); -quella più recente riguarda le relazioni dentro e fuori la scuola (dimensione relazionale) GLI ESITI :IL GAP EDUCATIVO Riguardo alla prima dimensione cognitiva (apprendimenti ed esiti del percorso scolastico) la ricerca in Italia parla di INTEGRAZIONE SUBALTERNA di percorsi di integrazione verso il basso e al livello internazionale il sistema scolastico italiano rientra fra i modelli scolastici selettivi. INTEGRAZIONE : termine usato spesso dalla stampa quindi distorto, spesso descrive l’adattamento assimilativo di chi è straniero dentro la comunità del posto, indipendentemente dal riconoscimento dei diritti che l’appartenenza alla comunità prevedrebbe. INTEGRARE: inserire qualcuno/qualcosa in un complesso già esistente, mettendolo in condizione di farne parte; per quanto riguarda l ‘ uomo significa far parte di un gruppo o di una società dalla quale ci si era o si era stati esclusi. INTEGRAZIONE :inserimento di un individuo/categoria/gruppo etnico in una comunità con diritti e doveri degli altri membri; parità. ANCHE IN Italia da anni si rileva un gap educativo nei livelli di scolarità tra alunni del posto e alunni emigrati e tra alunni del posto e alunni di seconda generazione. Questi riportano voti più bassi, percorsi scolastici più problematici e sono a rischio del ritardo scolastico e dell’abbandono e a canalizzazioni in percorsi formativi di minor prestigio sociale. Lo svantaggio degli alunni immigrati si collega a due ostacoli: la bassa competenza linguistica e il retroterra socioculturale dei genitori. Il sistema italiano soddisfa criteri e obbiettivi di accesso ma è lontano dal realizzare una vera equità nel successo scolastico. 5.2 LE RELAZIONI:QUALE INTEGRAZIONE DENTRO E FUORI LA SCUOLA? Il clima scolastico in termini di relazioni con i compagni di classi e gli insegnanti, influisce sul benessere personale sulla motivazione allo studio e sulla riuscita scolastica; buone relazioni vissute a scuola sono capaci di neutralizzare il GAP di apprendimento dovuto alle diverse appartenenze. Spesso il termine alunno/straniero sembra riferirsi ad un gruppo omogeneo quando in realtà ogni soggetto ha delle proprie caratteristiche: -bambini e ragazzi rom -figli di immigrati nati in Italia o immigrati dal proprio paese -bambini giunti in Italia per le adozioni internazionali Se bene la scuola sia un luogo che offre agli alunni di diversa provenienza culturale opportunità di relazione con compagni del posto, vi è un’integrazione frammentata ( isolamento sociale degli alunni immigrati ). Queste discriminazioni e pregiudizi si manifestano già nelle scuole primarie ma il passaggio fondamentale è quello dalla infanzia all’adolescenza. 5.3 CHI E’ VULNERABILE? Quando un alunno non ha successo a scuola nell’apprendimento e nelle relazioni, accade spesso che si guardi alle sue caratteristiche individuali e familiari invece di tener conto della presenza di molti livelli e contesti. L’ insuccesso scolastico di questi soggetti sembra parlare di una VULNERABILITA’ del loro percorso di crescita: si intende una condizione di maggiore esposizione a rischi e ferite nel percorso di crescita. I percorsi di insuccesso scolastico non ci raccontano solo le fragilità dei singoli o delle loro storie migrazione ma fungono da specchio di tutto il sistema di integrazione sociale di chi viene da fuori nella nostra società e scuola. Senza dubbi gli alunni figli di famiglie immigrate subiscono i contraccolpi di condizioni socio-economiche e culturali svantaggiate e delle complessità di una vita frammentata. Ma le ricerche sul percorso scolastico ci parlano di meccanismi di vulnerabilità nei sistemi scolastici. La relazione con adulti esterni alla famiglia è importante perchè svolge una funzione di guida e si pone come tutor di resilienza. 5.4 IL CONTESTO SCOLASTICO ITALIANO:PUNTI DI FORZA E PUNTI DI DEBOLEZZA DI FRONTE ALLA COMPLESSITA’ MULTICULTURALE E SOCIALE LA VIA DELL’INCLUSIONE Nella scuola superiore nella quale sono pochi anni e presenti un numero consistente di ragazzi stranieri, si riscontra difficoltà e disagio degli insegnanti ad affrontare le nuove complessità, una minore disponibilità al cambiamento di pratiche didattiche e, quando vi è interessamento, prevale un atteggiamento di emergenza. Riguardo agli alunni neo arrivati vi è una tendenza diffusa a mettere in atto solo misure compensatorie con l’obbiettivo unico ed esclusivo di trasmettere la lingua italiana come seconda lingua senza un progetto educativo integrato, le cui carenze generano fenomeno di insuccesso e ritardo scolastico -Un contesto assimilativo? La focalizzazione solo sull’apprendimento della lingua dominante appare come riflesso di un atteggiamento assimilazionista. La conoscenza dell’italiano è fondamentale, ciò però non deve farci perdere di vista che qualsiasi intervento di apprendimento della lingua italiana se non è inserito nel contesto di una progettualità interculturale rischia di trasformarsi in un’opera colonizzatrice e non integratrice -Un contesto scolastico poco dinamico e monotono? Le fragilità osservate nell’ affrontare il cambiamento dalla pluralità descrivono caratteristiche e rigidità non solo riferite alla diversità culturale e ai processi di integrazione, ma generali e ampie. 5.5 EQUILIBRI INSTABILI E ORIZZONTI AMPI. RELAZIONI E SAPERI IN PROSPETTIVA INTERCULTURALE La multiculturalità che abita le scuole non genera un contesto di appartenenza comune nelle differenze e la sfida per bambini immigrati è la costruzione di buone relazioni con compagni e insegnanti. L’educazione interculturale è tutto ciò che facilita l’acquisizione di atteggiamenti positivi verso La differenza culturale e in questo è una pratica trasformativa rispetto alla percezione di se, dell’altro. Questa trasformazione va accompagnata attraverso una revisione delle dimensioni principali che connotano l’esperienza scolastica, esperienza finalizzata alla trasmissione-costruzione dei saperi. SENSIBILITA’ E COMPETENZA INTERCULTURALE Questa nozione nasce negli Stati Uniti nell’ambito della selezione e formazione del personale diplomatico. Nucleo centrale di tale competenza è la capacità di decentramento culturale, cioè la capacità di cogliere in modo equilibrato la relatività culturale delle proprie e altrui rappresentazioni della realtà, la disponibilità ad assegnare alla prospettiva altrui una relazione di simmetria con la propria, cioè a riconoscere l’altro come portatore di significati culturali degno di ascolto e rispetto. Da qui ci sono degli atteggiamenti come disposizioni di apertura, di curiosità, e di interesse. Due componenti contraddistinguono la competenza interculturale : -un’idea dinamica di identità culturale nella relazione fra soggetti -atteggiamento epistemico adatto alla complessità LE RELAZIONI IN CLASSE:RAPPRESENTAZIONI, LINGUAGGI E SCELTE DIDATTICHE La scuola rappresenta un luogo relazionale importante e la classe è un microcosmo che rispecchia la diversità nella società. Essa può diventare un luogo di opportunità per fare esperienza della vicinanza, del riconoscimento, ecc. La qualità delle relazioni in classe rappresenta il tessuto vero dell’inclusione, non basta essere in classe con gli altri per sentirsi inclusi e parte del gruppo. Un clima positivo in classe favorisce non solo le relazioni sociali ma anche interetniche, migliorando anche il rendimento scolastico di tutti i bambini. Come si favorisce un clima in classe, un sistema di benessere? Le insegnanti hanno un ruolo importante, fanno da cornice di riferimento che influenza i processi di relazione e quindi anche processi di discriminazione, incoraggiando lo scambio, la collaborazione e l’ascolto. “C’E’ IL PROBLEMA DEGLI ALUNNI STRANIERI “ Una prima famiglia de rappresentazioni e immagini riguarda la problematicità della presenza degli alunni stranieri nella scuola, in particolare se si tratta di alunni che non possiedono competenze linguistiche nella lingua del posto e nelle scuole dove il numero di questi è elevato. Si generano così luoghi comuni sugli alunni stranieri: -rallentano il programma e abbassano le prestazioni di tutti -fanno perdere iscrizioni alla scuola e fuggire le famiglie italiane -sono problematici e vulnerabili -possono arrivare a risultati inferiori Nelle scuole il più delle volte visioni e atteggiamenti degli insegnanti sono diverse: alcuni informati e critici, altri buonisti ed infine quelli conflittuali e pessimisti. CULTURE E IDENTITA’: LINGUAGGI E DIALOGHI Un’altra famiglia di rappresentazioni, immagini e atteggiamenti relazionali riguarda la dimensione culturale dei bambini delle famiglie provenienti da altri paesi. Alcuni studi hanno osservato ambivalenze, impacci e inconsapevolezze Oscillazioni fra invisibilità e sovra-esposizione etnica Il non riconoscimento della differenza culturale come priorità all’interno delle pratiche scolastiche ( deve solo imparare l’italiano) Il rifiuto di considerare la differenza culturale come parte dell’analisi delle criticità incontrate con bambini di diversa origine culturale in nome di un principio di uguaglianza universale degli esseri umani ( i bambini sono tutti uguali, non facciamo distinzioni ) Il riconoscimento della differenza culturale come parte delle complessità incontrate nella relazione nella relazione con bambini di diversa origine culturale (non abbiamo le risorse, non abbiamo formazione ) In questo modello rientrano tutti gli atteggiamenti di stereotipizzazione dei gruppi culturali connotati da caratteristiche comuni e statiche e ogni problema o aspetto positivo viene riportato al gruppo etnico. Questi stereotipi giocano un ruolo importante nella relazione alunno-insegnante, incidono sull’autostima, sulla percezione di sé come soggetto sociale e come soggetto apprendente. Gli insegnanti spesso sottovalutano la sensibilità e ricettività dei bambini. -DISCRIMINAZIONE E VISIBILITA’ SELETTIVA DELLE DIFFERENZE -IDENTITA’ PLURICULTURALI RELAZIONI E SCELTE DIDATTICHE:LA PAROLA AI BAMBINI E AI RAGAZZI Uno studio recente focalizzato sulle pratiche discorsive in classe ha confermato che gli insegnanti italiani riproducono nelle attività didattiche uno stile di comunicazione di tipo trasmissivo e imitativo. Metodi attivi, cooperativi, critico-problematici (lavori di gruppo), progetti di scrittura creativa autobiografica, sono privilegiati nell’ambito della riflessione didattica e trovano un’ulteriore conferma in relazione ai contesti educativi multiculturali per varie ragioni -per un agire democratico -per ascoltare la voce degli alunni -per una pluralità di intelligenze e linguaggi -per una maggiore intensità di scambio e di relazione anche interetnica Vi sono alcune essenziali e imprescindibili condizioni del lavoro di gruppo spesso, disattese nella pratica scolastica: -l’eterogeneità del gruppo -l’individualizzazione di ruoli per tutti i membri del gruppo -una continuità di feedback sul lavoro -la proposta di problemi contestualizzati , non astratti o artificiali Esistono varie tipologie di apprendimento cooperativo (approcci di peer-tutoring, modelli jigsaw, TGT teams- groups-tournament, STAD student-teams and achievement division e approcci cooperativi quali group investigation) SAPERI:APERTURE E DIMENSIONI DI RIFLESSIONE INTERCULTURALE E’ oggi una concezione dell’apprendimento come situato e distribuito. L’apprendimento non avviene solo a lezione ma avviene anche negli intervalli, nei tempi dell’informalità, nel sotto-testo della scuola, spazi condivisi quindi vissuti. DIMENSIONE ECOLOGICA E CANONE CURRICOLARE Ogni bambino entra nella scuola con un suo curricolo esperienzale ed esistenziale che precede e si estende oltre quello scolastico. Il successo formativo della scuola si gioca in gran parte sulla capacità di includere e integrare saperi informali e saperi formali della scuola. Ciò mette in discussione l’idea di canone curricolare, di ciò che è dentro il canone e del suo rapporto con le culture quotidiane fuori da questo canone, a cui tutti i bambini sono socializzati nella fita familiare, sociale e mediatica. Oggi diviene strategico nella progettazione didattica, individuare dei nuclei concettuali portanti dei saperi. Ogni insegnamento non è solo un insegnamento di contenuti ma, è uno stile comunicativo e la metodologia didattica concorrono a trasmettere un atteggiamento epistemico critico-riflessivo al contrario definitorio e univoco. Ogni insegnamento trasmette dei contenuti e invita: -a una padronanza più approfondita della materia I genitori portatori di modelli altri: Dagli studi clinici della migrazione è emerso che i figli di migranti sono più spesso in una situazione di vulnerabilità e di rischio, evidente soprattutto nei periodi critici della crescita. Secondo Marie Rose Moro è necessario creare, nei luoghi d’incontro, occasioni di messa a nudo degli involucri culturali e di intreccio consapevole tra le diverse credenze. La funzione delle rappresentazioni culturali e di ciò che i genitori ritengono prioritario, necessario per far crescere al meglio un bambino in un determinato gruppo culturale va ben oltre la semplice “coloritura delle interazioni”. L’immagine di bambino, genitore e insegnante è culturale e sottesa alle logiche dei gruppi di appartenenza. Secondo Super e Harkness sono tre i fattori che incidono sullo sviluppo infantile: -contesto e sue caratteristiche -convinzioni culturali dei genitori o delle figure educative -psicologia dei caregivers. Quando si pensa ai momenti di interazione tra genitori e insegnanti, e i modelli e riferimenti sono simili, come accade quando scuola e famiglia si incontrano sulle preoccupazioni comuni per il benessere e la crescita sana dei figli, instaurare una relazione è più semplice. Quando, invece, questi modelli confliggono si avviano dinamiche di dialogo, incontro , scontro malfunzionanti. Attraverso l’incontro, riusciamo a conoscere gli altri grazie alla postura, allo sguardo e al tono di voce. Non è sempre facile avere una comunicazione positiva perchè ci possono essere delle interferenze di comunicazione che bloccano il processo di reciproca comprensione (succede quando si hanno delle culture diverse). La scuola è una delle prime istituzioni che accoglie le diverse culture; un evento complesso, una sorta di “migrazione nella migrazione” che richiede nuove forme di adattamento , la conoscenza e il rispetto di altre modalità comunicative. Gli incontri con i genitori non italiani implicano dei complessi dinamismi che rimandano a questioni legate ai temi della comunicazione interculturale e del riconoscimento. L’incontro con l’altro mette in scena movimenti di avvicinamento, ricerca di somiglianza, presa di distanza, ecc. che devono essere discussi. Quando si parla di incontro tra genitori e insegnanti non bisogna pensare solo al dialogo, ma anche a situazioni di reciproco coinvolgimento, passaggio di informazioni, educazione e apprendimento dei ragazzi. È opportuno costruire i contesti, definire le forme, scelti i metodi e gli strumenti, affinché ci sia un dialogo. Possiamo parlare di comunicazione interculturale quando si osservano: “orientamenti culturali diversi, dunque forme culturali e intrecci tra culture.” Lingue diverse, linguaggi diversi, aspettative e rappresentazioni diverse rispetto alle responsabilità, ai traguardi evolutivi, inducono genitori e insegnanti a creare processi di incontro che non sempre si trasformano in pratiche di dialogo positive. Per comprendere la natura degli incontri interculturali occorrono teorie, modelli e punti di vista interdisciplinari. L’incontro fra genitori e insegnanti nei luoghi della scuola significa parlare e ascoltare, anche se spesso il parlare prevale sull’ascoltare. Anche se parlarsi non significa comprendersi, incontrarsi non significa dialogare, ecc; instaurare una relazione positiva significa che siamo riusciti a capire l’altro, riconoscendolo nei suoi bisogni, nelle sue competenze e viceversa, vuol dire che siamo stati capiti, ascoltati e riconosciuti. Secondo Hall ogni individuo elabora una sua teoria su come usare lo spazio. Ci sono delle regole di distanza e di vicinanza che regolano i comportamenti degli individui e che non vanno infrante e ci sono regole che governano l’uso dello spazio, veicolo e trasmettitore di intenzionalità non sempre esplicite. Le forme culturali orientano la comunicazione nei contenuti, nei risultati, nelle attese e strutturano i processi di incontro e comunicazione; inoltre sono osservabili nella comunicazione e ciò le rende descrivili, riconoscibili, esplicite, non-immutabili. Inoltre l’incontro tra persone di culture diverse non può essere un processo lineare privo di dissonanze, perciò deve tradursi in un processo che sa attraversare il conflitto che porta alla realizzazione di un riconoscimento reciproco. Che cosa può fare la scuola? Le risorse degli insegnanti: La scuola è ricca di buone pratiche, di insegnanti competenti e capaci di attivare risorse importanti per favorire il cambiamento. Spesso gli insegnanti impegnati oggi nei contesti educativi sono spesso monolingui e privi di esperienza di interculturalità vissute in prima persona. La scuola italiana è ancora monoculturale se vista dalla parte del corpo docente e della dirigenza. Sono sempre più i bambini che hanno uno o due genitori con altre esperienze culturali alle spalle, ma gli insegnanti e gli educatori non sono ancora alcuni di questi bambini diventati adulti e cittadini italiani. Ciò aumenta la difficoltà e richiede sforzi maggiori a livello formativo e se sostenuta può attivare una nuova cultura pedagogica. Molti studiosi hanno evidenziato l’eco pedagogica dell’ intercultura, è un’occasione di rinnovamento. Ascoltare significa accogliere e interessarsi all’altro. Si tratta di una prospettiva teorica e una pratica educativa che per molto tempo ha costituito un modello indiscusso per orientare gli educatori e gli insegnanti nei momenti di colloquio e confronto con i genitori. Lo stile della non direttività si è diffuso nei contesti educativi per l’infanzia dove si è costruita una pedagogia della relazione e dell’accoglienza basata sulla conoscenza e l’ascolto delle storie familiari. Il colloquio non direttivo si basa sull’ascolto attivo e la ripresa-riformulazione degli interventi dell’interlocutore che è invitato a proseguire il discorso tramite la ripresa a specchio o a eco. Nella scuola si può fare il colloquio nella lingua dei nostri interlocutori o in una lingua conosciuta da entrami. (Es. un’educatrice di un asilo nido ha tenuto un colloquio in inglese e ha avuto così l’opportunità di conoscere la mamma e vedere il miglioramento della bambina nel contesto educativo). Esistono altri modi per conoscersi, avvicinarsi e comprendersi, come l’uso di dispositivi visuali. L’immagine accelera e favorisce l’esplicitazione delle rappresentazioni individuali e culturali. Osservare è uno strumento di conoscenza dell’altro, infatti si possono guardare filmati realizzati nei contesti educativi per parlare dei bambini o si possono usare episodi tratti dalla vita quotidiana, si possono usare le immagini per narrare o unire immagini che servono alla comunicazione fra genitori e fra genitori e insegnanti. Un altro strumento educativo è l’esplicitazione dell’ovvio, cioè il dover spiegare delle cose ai soggetti in formazione che per noi risultano ovvie ma per gli altri non lo sono. Capitolo 7 Bilinguismo e multilinguismo nei contesti educativi per l’infanzia: Introduzione: La presenza numerosa dei bambini della migrazione, bambini nati o emigrati con i genitori in Italia, ha messo in luce nei contesti educativi la questione della diversità linguistica, inoltre ha reso possibile il tema del bilinguismo, rendendolo più centrale per il dibattito pedagogico. La questione linguistica è intesa e discussa per favorire l’inclusione sociale e culturale dei bambini della migrazione. I bambini acquisiscono naturalmente ogni sistema linguistico la cui padronanza è utile per stabilire relazioni sociali e affettive con persone diverse da loro. Crescere nei contesti linguistici multipli può essere un vantaggio bilingue, ovvero benefico, in termini di competenze sociali e linguistiche. Definire il bilinguismo e il multilinguismo: il bilinguismo è uno stato di competenza linguistica e il bilingue è un soggetto la cui competenza linguistica è in evoluzione nel corso degli anni. Il bilingue è un parlante ascoltatore unico e integrato, le sue competenze linguistiche possono essere usate per una lingua o per l’altra o per entrambe. Secondo Fillmore, i bambini acquisiscono una lingua perché motivati e interessati a partecipare ai contesti in cui si trovano, tanto più il bambino è piccolo, tanto più il processo di costruzione del bilinguismo dipenderà dal suo contesto di vita. Il bilinguismo è un fenomeno linguistico non stabile, modificabile nel corso dello sviluppo e della vita. Il bilinguismo infantile: Con l’espressione bilinguismo infantile si intende sia la situazione dei bambini che fin dalla nascita ascoltano o sono immersi in due lingue, sia i bambini che acquisiscono una L1 e sviluppano nel corso della prima infanzia una L2. Un indicatore importante del profilo bilingue infantile riguarda la dominanza e\o il bilanciamento tra le due lingue. Dominanza è un comportamento linguistico comune nei bambini bilingui. Questi due concetti hanno valore esplicativo, consentono di costruirsi un’immagine reale del bambino bilingue e di come impiega le sue lingue nel quotidiano. Il concetto di lingua forte rispetto alla lingua più debole, si collega il comportamento linguistico del code-mixing o mescolamento lessicale, tipico dei bilingui già a partire dai due anni in contesti bilingui. La mescolanza si manifesta attraverso la produzione di frasi mischiate ed è una strategia cognitiva e comunicativa. Genesee e Nicoladis la descrivono come l’uso di parole delle due lingue nel medesimo contesto sociale e culturale. Il code-mixing è parte della competenza linguistica del bilingue e decresce più il bambino diventa competente nelle lingue. Secondo Baker esiste un altro comportamento tipico dei bilingui che è il cambio o la commutazione del codice a seconda delle circostanze e dell’interlocutore. La differenziazione del codice linguistico in funzione dell’interlocutore è una pratica che conduce a prendere coscienza che si possiedono due lingue, separate tra loro a livello lessicale e grammaticale. Lo sviluppo del bilinguismo: Fin dalle prime parole del bambino, si può osservare che questo sceglie da utilizzare in base alla facilità d’uso e alla funzione di interazione. Successivamente, il bambino impiega le 2 lingue ricorrendo a un sistema grammaticale e solo in seguito si ha il passaggio all’uso di 2 sistemi grammaticali. L’immagine dell’iceberg (proposto da Cummins) è importante per comprendere lo sviluppo e l’organizzazione nella mente del bambino delle 2 lingue. La competenza linguistica del bilingue corrisponde alla parte immersa dell’iceberg e le due vette visibili corrispondono ai diversi sistemi linguistici. Nella prima fase lo sviluppo bilingue è lento, successivamente si ha l’accelerazione nota come esplosione del vocabolario. I bambini bilingui come i monolingue dicono le prime parole nello stesso lasso di tempo, tra i 12 e i 24 mesi. Il processo di acquisizione della L2 è descrivibile in 4 fasi: -tanto più il bambino è piccolo tanto più prova a utilizzare la L1 e a insistere con questa strategia, fino a quando si rende conto che non viene compreso e non comprende -il bambino entra nel periodo del silenzio o della pre-produzione, fase della L2. In questa fase il bambino preferisce la comunicazione non verbale. Il periodo del silenzio varia da 2 a 6 mesi, a seconda del contesto sociale o delle caratteristiche del bambino; questa fase è seguita dalla fase detta LINGUAGGIO TELEGRAFICO, dove il bambino utilizza formule o espressioni utili a stabilire contatti e interazioni con i pari o con gli adulti. -si hanno le prime produzioni verbali e si assiste alle frasi prefabbricate, cioè frasi fatte. Il bambino durante la fase del silenzio ha osservato, ha colto espressioni o formule ricorrenti che prova a riutilizzare ogni volta che lo reputa opportuno, così facendo si impadronisce della nuova lingua. Secondo Cummins e Swain con l’uso di queste espressioni, il bambino dimostra una padronanza della lingua definita facciata linguistica, così il bambino ottiene che adulti e pari rispondano e replicano. linguistici diversi (lingue come inglese, spagnolo, arabo) e lingue TRANGLOSSICHE, cioè lingue internazionali neutralizzatesi come seconda prima lingua in aree linguistiche diverse. A queste lingue seguono quelle di base demografica molto grande e di insediamento imponente nella vita economico – produttiva, intellettuale ecc.. Multilinguismo e plurilinguismo nella società degli individui devono essere oggetto di scelte politiche ed educative che non possono essere lasciate al caso e al gioco spontaneo delle forze in campo. In Italia purtroppo la scuola vive un ritardo nel tradurre concretamente i repertori presenti nelle classi. Quando parliamo di educazione e didattica plurilingue e degli obbiettivi a cui esse mirano, non si pensa solo alla promozione di una competenza linguistica in più lingue, ma assumono profondità e significato se finalizzate all’acquisizione di una maggiore competenza comunicativa interculturale. Lo sviluppo del plurilinguismo è un’esperienza possibile e positiva, e oggi si riconoscono molti modi di essere plurilingue. Ogni sistema linguistico è un sistema culturale di codifica della realtà, una visione culturale sulla realtà. Alla luce di questa connessione si comprende come la lingua faciliti il rapporto con con la realtà e come nello stesso tempo limiti le rappresentazioni e interpretazioni della realtà stessa a un mondo possibile. Quindi possedere più lingue significa avere a disposizione modi diversi di pensare, organizzare il pensiero e agire sul mondo. La nozione di COMPETENZA COMUNICATIVA INTERCULTURALE appartiene alla didattica delle lingue. Nelle interazioni tra persone che parlano lingue diverse, troviamo asincronie e difficoltà di comunicazione e ciò può provocare: • Fallimenti radicali (no comunicazione) • Fallimenti parziali (si fraintendono le parole e i concetti) E’ necessario perciò porre attenzione alla dimensione quantitativa e qualitativa delle esperienze di apprendimento che avvengono nel contesto scolastico e una volta messe in chiaro le finalità riflettere sulla progettazione del curricolo. Il contesto scolastico ( riferendoci all’apprendimento situato e distribuito nel contesto) deve fare esperienza quotidiana e diffusa. Nell’area dell’insegnamento linguistico la prospettiva plurilingue propone una rivoluzione copernicana nell’insegnamento delle lingue perché mette al centro dell’attenzione il soggetto in apprendimento, le sue caratteristiche e lo sviluppo del repertorio plurilingue. Le lingue dell’educazione sono molteplici e tutte sono per i bambini lingue che contribuiscono al loro sviluppo cognitivo, sociale, affettivo, culturale ecc. Nella maggior parte dei sistemi educativi esiste una sola lingua di scolarizzazione che ha lo status ufficiale di lingua nazionale. La lingua di scolarizzazione è di solito la lingua nella quale avviene per la maggior parte dei bambini l’ingresso formale nello scritto che è molto rileante nell’apprendimento complesso del sistema linguistico. Ad incoraggiare una prospettiva plurilinguistica interculturale è soprattutto la consolidata conoscenza delle capacità degli esseri umani di sviluppare competenze plurilinguistiche e pluriculturali attraverso un’economia cognitiva di processo. Lingue e culture contribuiscono a formare un’unica competenza comunicativa in cui si stabiliscono rapporti di interazione. Storicamente si sono contrapposti due modelli di competenza bi-plurilingue: • Separato • Comune o unificato Nel primo modello (separato) abilità e competenze possedute in una lingua hanno poca influenza nel momento in cui si acquisisce un’altra lingua, perché quest’ultima si acquisisce in maniera indipendente. Nel secondo modello una parte di concetti e abilità si trasferiscono da una lingua all’altra anche quando dalle varie lingue emergono diversità. Nella struttura neurologica quindi esiste una capacità di apprendimento che riguarda le lingue. I vantaggi di questa competenza comunicativa possono essere messi in luce attraverso una didattica che sviluppi capacità meta cognitive e meta comunicative. Lavorare sui processi meta cognitivi potenzia due funzioni essenziali della lingua: • La funzione riflessiva • La funzione testuale La lingua quindi possiamo affermare che è fondamento della vita mentale in relazione alla funzione riflessiva, in quanto con la lingua “penso il mondo e rifletto sul mondo”. Con la lingua inoltre organizzo e strutturo i significati che do al mondo, attraverso un processo di tessitura di testi in relazione alla funzione testuale e ciò favorisce l’interazione del mio testo e del testo altrui. La scuola italiana in generale offre un modello DEBOLE di valorizzazione del plurilinguismo, debole perché nonostante ci sia un’attenzione nel passaggio da una lingua all’altra nel caso dei bambini che iniziano l’apprendimento linguistico con la scuola primaria. Nella nostra scuola non c’è una chiara considerazione delle conseguenze politiche culturali e identitarie generate da questo contesto che privilegia il monolinguismo. Nella scuola primaria con la quale iniziano i grandi apprendimenti è importante che il repertorio plurilinguistico effettivo di ciascun bambino sia conosciuto, la sua biografia linguistica sia ricostruita e il profilo plurilinguistico sia verificato affinchè ci sia maggiore interazione e collaborazione tra famiglie e insegnanti. Per repertorio linguistico si intende la varietà di lingue e stili usati da una specifica popolazione, si parla oggi di profili plurilinguistici perché si può essere plurilingue in molti modi con diversi livelli di competenza. Le tre principali categorie sono quelle dei plurilingue: • Bilanciati (possiedono livelli di competenza comparabili in due o più lingue) • Asimmetrici (possiedono livelli di competenza molto diversi nelle differenti lingue) • Ricettivi (capaci di leggere e ascoltare con buoni livelli di comprensione alcune lingue senza essere capaci di una produzione orale e scritta) Questi tre modelli possono coesistere all’interno dello stesso individuo nella sua biografia linguistica. Nel caso dei bambini che utilizzano più lingue è opportuno considerare le eventuali pratiche di alternanza di lingue: il cosiddetto TRANSLANGUAGING e gli stadi di interlingua, vale a dire l’ossevazione di fenomeni di transfer positivo o negativo tra sistemi linguistici. Che il plurilinguismo sia oggetto di valorizzazione è un fenomeno relativamente recente e questa valorizzazione non è sempre condivisa e presenta paradossi. In Italia è ancora frequente che educatori e insegnanti non prendano in considerazione le competenze plurilinguistiche degli alunni, temono che gli alunni bilingui possano apprendere più lentamente la lingua italiana se parlano la lingua di origine in famiglia e che chiedano di conseguenza alle famiglie di interrompere l’uso della lingua di origine. Se non si può garantire un insegnamento plurilingue e un’inclusione nel curriculum delle varie lingue presenti nella scuola è comunque possibile creare spazi scolastici condivisi in cui inserire le lingue non curriculari. L’importanza data alle lingue non curricolari è fondamentale non solo per l’autostima e per l’immagine identitaria dei bambini, ma anche per le modalità di mettersi in relazione con tutte le famiglie che non conoscono quelle lingue. L’utilizzo delle lingue che non presuppone necessariamente l’insegnamento può essere incoraggiato in semplici occasioni, come scrivere quotidianamente il proprio nome in tutte le lingue che si conoscono. Un progetto più articolato può essere allestire nella scuola uno scaffale PLURICULTURALE E PLURILINGUE anche attraverso il coinvolgimento delle famiglie. Per i genitori con un percorso migratorio la lingua di origine rappresenta uno dei pochi modi per offrire ai propri figli un legame affettivo con i paesi di origine. La scuola può o amplificare una condizione già vulnerabile oppure offrire un sostegno: • offrendo occasioni di confronto • Stimolando dialogo e riflessione • Lavorando in rete con altre realtà Nell’insegnamento delle lingue sono oggi disponibili approcci didattici innovativi definiti approcci: • plurali (in quanto riguardano più di una lingua) • parziali (perché non si occupano in ciascuna lingua delle stesse competenze) I modelli principali messi a fuoco in ambito internazionale sono 4: • La sensibilizzazione alle lingue ( attività didattiche riguardano tutte le lingue presenti nella scuola – classe con finalità di acquisire consapevolezza delle diversità linguistiche. Ciò che conta non è un apprendimento linguistico in senso stretto ma UN’EDUCAZIONE ALLE LINGUE) • L’intercomprensione ( mira a sviluppare la comprensione di una lingua sulla base di una lingua della stessa famiglia linguistica già conosciuta) • La didattica integrata delle lingue (facilita gli apprendimenti di diversi sistemi linguistici e favorisce i processi interlinguistici che possono aver luogo spontaneamente) • L’approccio interculturale (N.B. IL LIBRO SU QUESTO NON SI SOFFERMA DICE CHE NON SI SOFFERMA PERCHE’ RAPPRESENTA UNA DIMENSIONE TRASVERSALE AGLI APPROCCI PLURALI) A questi si deve aggiungere il CLIL. Essi hanno diverse origini ma permettono di perseguire le stesse finalità.
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