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MANUALE - Re-Inventare la famiglia, L. Formenti, Sintesi del corso di Pedagogia

Sintesi del manuale "Re-Inventare la famiglia" a cura della dottoressa Laura Formenti, manuale trattante temi di pedagogia familiare, comprensivo di testimonianze dirette e situazioni reali

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 01/05/2020

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rebecca-re-depaolini 🇮🇹

4.4

(82)

14 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica MANUALE - Re-Inventare la famiglia, L. Formenti e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! MANUALE Re-inventare la famiglia a cura di Laura Formenti La pedagogia della famiglia è una disciplina che fatica a distinguersi da altre, più riconosciute nel generare un discorso sulla famiglia. La maggiore urgenza nel lavoro educativo e sociale è una composizione di sguardi, non l’affermazione di un ulteriore competitore sul mercato delle professioni sociali. Vera urgenza invece è la multidisciplinarietà intelligente, che non mescola tutte le prospettive, ma si avvale delle distinzioni, della molteplicità di sguardi e storie, per garantire una pluralità di approcci e visioni. Re-inventare vuol dire dunque re-inventarci come osservatori delle famiglie, rivedere le prospettive e le pratiche che mettiamo in campo. Provare in un altro modo: spostare il focus dalla disciplina, dal sapere accademico o professionale, al sistema “per quello che è”, o meglio per come si presenta e come funziona. Constatiamo che i concetti della sistemica possono essere compresi in linea teorica, ma adottare una postura, lavorare in modo sistemico o ancora “pensare sistemico”, è un’altra cosa. La sistemica non richiede una semplice adesione a dei concetti, ma obbliga a un altro modo di guardare, sentire, concepire le relazioni. Un modo di com-porsi nella relazione con le famiglie, che richiede di essere praticato, diventando uno stile di pensiero, se non uno stile di vita. Tutti abbiamo esperienza di famiglia. Ereditiamo, venendo al mondo, un modo di vivere e di dare senso alla quotidianità delle relazioni con le persone a cui vogliamo bene e con cui viviamo. Lo ereditiamo dalla nostra cultura, dal nostro tempo storico e da quella famiglia particolare in cui veniamo al mondo e cresciamo. Per generare trasformazioni possiamo e dobbiamo partire da questo. La famiglia è stata già inventata. Se la famiglia non è un dato, per poterla comprendere bisogna mettersi nella prospettiva della ricerca, del non sapere, del perdersi. Una ricerca che mira non alla scoperta, ma all’invenzione o alla creazione, perché assumiamo una prospettiva secondo la quale il mondo non si dà come oggettivo, ma come il prodotto delle nostre pratiche. Sono gli esseri umani, siamo noi, che interagendo, adottando certi comportamenti e posture nella relazione, avviando certi tipo di conversazioni, costruiamo il mondo delle famiglie. Chi è impegnato nell’inventare la famiglia però non sa quasi mai come la sta inventando, è consapevole di singoli aspetti o momenti della vita familiare e del processo educativo, ma non del disegno complessivo. Questa è una caratteristica generale della vita umana: essere immersi in una continua invenzione, essendone poco o nulla consapevoli. Il compito dell’educazione, della formazione, è quindi costruire riflessività e consapevolezza rispetto ai modi in cui una famiglia è stata ed è inventata e re-inventata continuamente. Per re-inventare bisogna essere consapevoli di ciò che è; ogni sistema ha la sua cultura e tende a confermare le regole che ne sostengono il funzionamento. Il professionista dell’educazione è dunque portatore di uno sguardo, ha un’idea di famiglia, ma non ne è consapevole fino a quando non si confronta/scontra con altri e con altre idee. Riflettiamo e chiediamoci: ​Qual è la mia idea di famiglia? Come l’ho imparata? Come sono arrivata a essere quella che sono oggi, ad avere questo tipo di visione? Lo sguardo normativo, che tende ad imporre in maniera inconsapevole una visione personale unica, un “dover essere”, si rivela in molte situazioni non utile alla relazione e alla trasformazione, a volte anche distruttivo. Armarci di pregiudizi e convinzioni personali porta ad incorrere in difficoltà, dolore, alzati di scudi - quelle che si chiamano resistenze - e che più che resistenza mostrano coerenza. Un sistema di relazioni che non appare desideroso di cambiare nella direzione che qualcuno vorrebbe che prendesse, non mostra resistenze, ma coerenza, lealtà a se stesso. Ogni famiglia tende a essere profondamente coerente con se stessa, magari diventando incoerente con le aspettative della società più ampia oppure con i desideri, aspirazioni, bisogni di uno dei suoi membri. L’obiettivo educativo è “far stare tutti un po meglio” “essere tutti un po più felici”. Ciò che va smontato, eliminato è l’uso del verbo essere: le famiglie “appaiono”, “si mostrano”, presentano certe caratteristiche in relazione al contesto, del quale anche noi siamo parte. Una famiglia appare diverse a osservatori diversi e soprattutto in base alle situazioni e ai contesti in cui viene osservata. Le famiglie sotto valutazione si irrigidiscono, si imbarazzano oppure offrono un’immagine manipolata. Questo non è “mentire”: è la dimostrazione che i sistemi si adattano alle situazioni ed elaborano strategie, imparano, rispondono in modi coerenti alle proposte di relazione. Passaggi per poter re-inventare la famiglia: . smontare i pregiudizi e le invenzioni . acquisire competenze e capacità di riconoscere quello che c’è: la cultura familiare, le sue strategie per far fronte alla crisi, i copioni di ciascuno e anche quello che è nascosto a un primo sguardo . inventare nuovi pensieri, nuove visioni, nuove possibilità La direzione è proposta dalla sistemica: un approccio epistemologicamente fondato, che coniuga azione e percezione in una cornica estetica e una propensione a stare nei contesti, adattando la propria pratica in modo circolare alle risposte che vengono sia dall’istituzione che dagli utenti dei servizi. L’obiettivo però non è fissare e ratificare delle buone pratiche: non esiste azione buona in sé, ma solo azioni deliberate e contestualizzate, che acquisiscono senso grazie alla riflessione condivisa dalle persone. La spirale della sistemica .​ ESPERIENZA AUTENTICA .​ RAPPRESENTAZIONE ESTETICA .​ COMPRENSIONE INTELLIGENTE . ​AZIONE DELIBERATA Esperienza autentica Contatto con il presente, contatto con il corpo e i suoi segnali, con le proprie emozioni, vissuti, sentimenti e con l’altro, l’altro come presenza irriducibile nel nostro campo d’azione; questo contatto autentico sviluppa un’attenzione che risulta indispensabile per la relazione umana e per il lavoro di cura. Rappresentazione​ ​estetica Capacità di mettersi in gioco e tradurre in simboli e messaggi sensibili, praticando i diversi linguaggi estetici, i propri pensieri, l’immaginazione, il sogno, il “pensare per storie” anche per I teorici dei sistemi hanno concepito la comunicazione umana come un insieme organico di livelli complessi, contesti multipli e circuiti riflessivi. Albert Scheflen fu uno dei primi ricercatori a paragonare la comunicazione a una composizione musicale, in quanto entrambe realizzano strutture, con uno stile e delle specificità proprie, ma anche una configurazione complessiva ben precisa. Il modello polifonico o orchestrale della comunicazione umana fu proposto da Winkin come alternativas al modello telegrafico, superato in ambito scientifico, ma persistente nel senso comune. Comunicare non è affatto trasmettere informazione da A a B, ma partecipare a un’interazione complessa. Il concetto di sistema Il significato di sistema è immutato dal tempo dei Greci, indica un aggregato di parti interagenti, ciascuna delle quali può esistere in sé, ma è interdipendente dalle altre e dal tutto secondo determinate leggi e regole. “Il tutto è diverso dalla somma delle parti” Un sistema è un tutto inscindibile: se una parte cambia, tutte le parti e tutto il sistema sono coinvolti. > approccio olistico: il tutto prevale sulle singole parti > approccio atomistico: il tutto è ridotto alla sommatoria delle singole parti > approccio sistemico: il tutto è contemporaneamente maggiore e minore della somma delle parti “Il sistema nella sua globalità ha delle proprietà che non possono essere applicati ai suoi singoli elementi” Data l’abitudine a considerare l’individuo come singolo, incontrare una famiglia nella sua totalità integrata, nella sua logica e irriducibile complessità richiede un enorme sforzo. Il pregiudizio più radicato nei giovani educatori è l’idea che tutti i comportamenti ed eventi si possano o si debbano spiegare ricercandone le cause o le motivazioni a partire dalle intenzioni. dalle azioni e dai valori dei singoli soggetti. La lettura soggettivistica degli eventi umani è coerente e funzionale anche all’epoca in cui viviamo, centrata sul “mito dell’individuo”, una rappresentazione sociale diffusa e tipicamente occidentale del soggetto di esistere, realizzarsi, aver successo, celebrare la propria unicità. Un mito egoistico e falsamente autonomo, pervasivo ma non ubiquitario, nè universale, non condiviso infatti dalla cultura asiatica o africana. L’approccio sistemico si fonda su una ecologia delle idee e quindi sulla curiosità per tutto quello che non appare immediatamente valido o scontato, una curiosità per la ricerca. Bisogna adottare una postura di curiosità, aprendo lo sguardo sulla famiglia per cercare di afferrare le verità nascoste dentro le storie. Un racconto, una storia, è espressione di un sistema complesso di idee e immagini, che trascende l’individuo. La visione di sé che ciascuno sviluppa è la storia raccontabile, appresa nelle conversazioni in famiglia, a scuola, con gli amici: ogni storia è una composizione a più mani. La metafora della band Farsi l’orecchio per un educatore significa imparare tecniche di osservazione e conversazione, concetti e teorie, modalità progettuali e di valutazione, ma soprattutto assumere una postura, ovvero apprendere a interfacciarsi con le situazioni come se fossimo noi stessi uno strumento, uno strumento musicale. > approccio più lineare e tradizionale: metafora del ​tool kit - cassetta degli attrezzi - pre-struttura il sapere tecnico in funzione dei guasti ai quali dovrà rispondere. > approccio sistemico: metafora della ​band - ​ognuna coerente con il proprio genere musicale. C’è una connessione tra il modo in cui una famiglia è composta - le sue strutture e relazioni - e ciò che crea - paradigmi, miti, modelli educativi, benessere o malessere. Per comprendere una specifica famiglia sarà necessario ascoltarla attentamente, farsi l’orecchio e provare a suonarci insieme. Per fare ciò l’educatore entra in una rete di relazioni e interdipendenze consolidate nel tempo e a lui sconosciute: la metafora della band può essere d’aiuto per scoprire e raccontare questa complessità. Una caratteristica delle famiglie è la consuetudine, la ripetitività e la ridondanza dei modelli comunicativi. La cacofonia familiare, ovvero il proliferare di azioni scomposte e scoordinate tra i membri del sistema e tra gli operatori, provoca generalmente una escalation schismogenetica di conflittualità e di problematicità. Imparare a lavorare in modo sistemico significa innanzitutto apprendere i contesti, mettersi in relazione e in interazione con i sistemi comunicativi, usando la comunicazione stessa come veicolo. Una famiglia è bella perchè unica, diversa dalle altre, un discorso contro-intuitivo in un mondo nel quale l’omologazione è la regola e molte famiglie possono apparire fin troppo speciali agli operatori e perfino ai suoi stessi membri. L’educatore che incontra la famiglia si trova spesso ad affrontare processi comunicativi e interattivi che producono disgregazione, conflitti, difficoltà. Con-vivenza: le condizioni materiali della vita Per farsi l’orecchio sul sistema familiare dobbiamo partire da ciò che innanzitutto lo qualifica, cioè la con-vivenza, ovvero l’abitare concretamente uno spazio condiviso nel quale sono dare alcune possibilità di interagire, mentre altre sono precluse. Non bisogna pretendere di nascondere o cancellare i propri pregiudizi, ma riconoscerli per differenza, e questo aiuta ad assumere una postura di curiosità. Usare le proprie cornici di senso per inventarsi nuove domande, per scandagliare sensazioni ed emozioni che affiorano e delle quali è consapevole. Vietato analizzare la casa di una famiglia, il verbo essere non aiuta, usare verbi di processo. Con-vivenza vuol dire anche tempi e ritmi condivisi: gli orari scandiscono la giornata della famiglia, organizzano le attività e i copioni, definiscono chi sta con chi, per quanto e come. Il tempo familiare si impone sui ritmi personali. Spazi e tempi si modificano continuamente e rapidamente: le transizioni sono strutturali, le esigenze di autonomia dei singoli cambiano e non in maniera lineare perché sono interdipendenti. Quando un membro della famiglia cambia la sua posizione rispetto agli altri, fisicamente o psicologicamente, o quando cambia il proprio ritmo di vita, questo incide in maniera significativa sulla vita di tutti. La con-vivenza è quindi uno spazio d’interazione condiviso che dobbiamo imparare a osservare con curiosità e rispetto; non esistono modi di convivenza più corretti di altri. quello che si può cercare di comprendere è che un certo modo di convivere, una certa organizzazione della vita familiare, ha senso, ha le sue ragioni, anche culturalmente e storicamente connotate. Non possiamo e non dobbiamo arrogarci il diritto di mettere ordine, proporre cambiamenti o giudicare competenze portando come modello di riferimento il proprio vissuto personale. La nostra esperienza di vita è sempre troppo piccola per dare conto della complessità delle vite altrui. La prospettiva storica, evolutiva e genealogica p cruciale per comprendere il sistema familiare nella sua complessità, conoscere l’evoluzione della vita quotidiana nelle diverse epoche storiche ci aiuta ad assumere una posizione più curiosa. Basti pensare a come è cambiata la condizione abitativa nelle case, città, paesi, dai tempi in cui non esisteva la vita privata e la convivenza non era regolata dalla divisione in spazi privati e spazi pubblici, alla nascita della vita privata con la famiglia borghese che differenzia usi e funzioni della casa. Oggi, viviamo in una multiculturalità diffusa, ogni famiglia si presenta come una cultura essa stessa, con il suo linguaggio, le storie e miti fondativi, gli oggetti e artefatti che crea, le routine e le credenze che condivide. Quello che ci interessa mettere a fuoco però è l’insieme di relazioni che sono prodotte e insieme producono questa cultura. Il modo di gestire questi aspetti della vita quotidiana è strettamente connesso alle idee di relazione e di educazione, di famiglia e di individuo che una società porta avanti; per ogni società e ogni famiglia il proprio modello diventa normativo “è giusto fare così”. Non si tratta però di sostenere una posizione di relativismo culturale, lo sguardo sistemico va oltre il relativismo, per adottare una postura relazionale e costruttiva. Tradizioni che limitano le possibilità evolutive di un individuo per quanto possano far parte di una cultura non possono essere legittimate dalla stessa, rispettano la tradizione ma non l’evoluzione. Il modello relazionale interroga gli usi della convivenza, nello spazio e nel tempo, come indizi della cultura di quella famiglia, per poter però andare oltre. Politica della vita familiare: verso l’azione deliberata Lavoro educativo con la famiglia: aprire possibilità affinché tutti stiano un pò meglio, riconoscere ciò che si mostra, nella complessità delle relazioni familiari, per rendere possibili piccole e grandi trasformazioni. La linea politica di una famiglia è sancita dai genitori che rappresentano la parte istituente del sistema familiare, spesso anche la più statica e tradizionalista, hanno il compito di decidere la direzione da prendere e le misure da adottare. Tenere il tempo è una prerogativa del genitore, ciò che può fare un educatore è accompagnarlo affinché veda questa possibilità e affiancarlo nello scoprire il suo modo unico di scegliere che genitore vuole essere. Il senso del noi “Gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicità e quotidianità. Non ce ne possiamo accorgere, perché li abbiamo sempre sotto gli occhi.” Wittgenstein, 1967 Le rappresentazioni simboliche della famiglia sono state definite come “oggetti fluttuanti”: creano il sapere familiare, sapere che trascende il singolo, un sapere locale, privato e mobile, intuitivo, poco formalizzato e raramente codificato da scritti; anche definito come “assoluto familiare” o “più- uno” come se fosse un componente in più della famiglia stessa. Gli “oggetti fluttuanti” hanno un notevole valore trasformativo, simbolizzano il sapere familiare, rendendolo almeno in parte accessibile. Gli oggetti fluttuanti non hanno un significato univoco, ma propongono un senso del noi che è dinamico. La rappresentazione simbolica materializza le relazioni e convoca la capacità ricettiva dei soggetti, dunque un processo che funzione in due direzioni: l’oggetto esterno evoca uno stato mentale e lo stato mentale “metaforizza” il mondo esterno, come sosteneva Bateson. Si crea connessione tra famiglia e osservatore. Il senso del noi si apprende quindi per via informale, quotidiana, poco o per nulla riflessiva. Una lettura strumentale e individualistica dei nuovi bisogni educativi delle famiglie porta a interventi che non celebrano il senso del noi, interventi finalizzati allo sviluppo di competenze individuali, come funzionali alla soluzione dei problemi. La visione dominante della famiglia è di tipo carenziale, conseguentemente la visione dominante dell’educazione della famiglia è di tipo istruttivo. Un equivoco diffuso è che il senso del noi debba essere monolitico e compatto, invece è proprio nella continua trasformazione, nella con-posizione dialogica e nel riconoscimento delle differenze - all’interno e all’esterno - che nasce davvero il senso della famiglia. La vita familiare comprende livelli molteplici, ognuno da onorare e celebrare .​ individuo come unità, come voce unica .​ relazioni io-tu, come possibilità di armonizzazione .​ noi o assoluto familiare, come totalità che trascende i singoli .​ rapporto con contesto sociale, naturale, storico, per evitare de-sincronizzazioni I linguaggi simbolici portano alla composizione di due livelli > livello metaforico-immaginativo > livello reale, concreto, quotidiano CAPITOLO 2 Formare lo sguardo attraverso le pratiche Nel novembre 2010 si è tenuta a Milano la Conferenza nazionale sulla Famiglia con la partecipazione di esperti. amministratori, politici, operatori del territorio, rappresentanti di associazioni familiari laiche e religiose e tanti genitori. I lavori della conferenza si sono concentrati sulle politiche sociali, sulla condizione delle famiglie di fronte alla crisi economica, sulla necessità di un rilancio delle politiche familiari. La definizione che diamo alla famiglia è fondamentale, da essa dipendono risorse, aiuti e sostegni economici. Oggi, le forme familiari sono più variegate: single, coppie senza figli, famiglie mono-genitoriali, coppie non coniugate, unioni omosessuali. Se tutte queste famiglie non ricevono aiuti perché non conformi alla definizione di legge, è come se a pezzo di Italia non fosse concesso il diritto di essere famiglia. Più che di famiglia tradizionale, converrebbe parlare di una molteplicità di tradizioni familiari. Basti pensare anche alla distinzione fra figli legittimi, nati da un matrimonio, e figli naturali i cui genitori non sono sposati, distinzione a rischio di discriminazione anticostituzionale, dato l’articolo 30 della Costituzione italiana che li equipara nei diritti e nei doveri. In crisi non è dunque la famiglia in sé, ma una sua visione monolitica. Che cosa significa fare i conti con questa complessità, per un futuro educatore che non lavorerà con famiglie ideali, astratte? Quali competenze sono richieste per agire in modo avvertito in simili ambiti? “Dietro ogni atteggiamento - una risata un pò troppo forte, un silenzio, persino dietro ai quadretti appesi alle pareti di casa - c’è sempre una storia che attende di essere raccontata.” Jedlowski, 2000 Imparare a raccogliere una storia di relazioni familiari, così che, una volta narrata, modificherà la percezione dei fatti per aiutare a capirne la complessità. Per quanto impalpabile, il modo in cui è raccontata una storia provoca conseguenze concrete, in chi parla e in chi ascolta. Più le parti della storie sono coese. congruenti, verosimili più sono difficili da modificare, in quanto diventano “vere”. Come sostiene Morin, la complessità non sta nella natura in sé, ma nei codici che utilizziamo per descriverla; allora ci sarà sempre un narratore con la sua particolare cultura, le sue abitudini, idiosincrasie, a raccontarla. Educarsi a uno sguardo sulla famiglia significa connettere lo sguardo di quel determinato narratore con quello che vede, restituendo alla sua visione un carattere di parziale e momentanea esistenza fatta di cecità e prospettive inedite. Moltiplicare e comporre gli sguardi In effetti, se è vero che non possiamo non provenire da una famiglia e che dunque siamo portatori di una naturale sapienza, proprio questo può costituire il principale ostacolo con cui fare i conti per realizzare un apprendimento trasformativo. Incrollabili convinzioni costellano le nostre visioni sulla famiglia, spesso apprese nell’arco della vita, cicatrizzare in seguito a ferite, sconfitte, di rado oggetto di riflessione scientifica o di elaborazione teorica: i pregiudizi. Anche Gadamer si sofferma sul valore originario del pregiudizio: ​“Non sono tanto i nostri giudizi quanto i nostri pre-giudizi che costituiscono il nostro essere. [...] Si può dimostrare che il concetto di pregiudizio originariamente non aveva il significato che gli abbiamo poi attribuito. I pregiudizi non sono necessariamenti ingiustificati ed erronei così da distorcere il vero in maniera inevitabile. In effetti la storicità della nostra esistenza comporta che i pregiudizi nel senso letterale del termine costituiscano la spinta iniziale di tutta la nostra capacità di fare esperienza.” Per chi educa o si prende cura delle famiglia, non è sbagliato avere dei pregiudizi, quanto pretendere di non averne, cercare di reprimerli o di ignorarli. Qualsiasi idea, fantasia o emozione influirà sulla relazione. L’indicazione è riconoscere i propri pregiudizi, discuterne apertamente, anche con gli utenti, chiedersi in che modo le azioni dell’operatore sono il frutto dei suoi pregiudizi. In ambito educativo, infatti, essi guidano e azioni dell’educatore nell’incontro con l’altro, dando luogo a uno scambio continuo, per lo più nascosto, di pregiudizi reciproci. La riflessione sull’azione educativa è il primo passo per sviluppare un approccio auto-consapevole: ​“una volta diventati consapevoli e responsabili delle nostre particolari idee, possiamo servircene, difenderle o essere irriverenti nei loro confronti”. “Solo dopo che si è compiuto il percorso si può stabilire l’itinerario che si è seguito” Foucault, 1967 Eppure, i nostri pregiudizi su cosa significhi conoscere e imparare tracciano a priori il nostro agire e pensare tanto più quando sono impliciti e poco accessibili al linguaggio e alla consapevolezza. Ci vincolano in percorsi precostituiti, per uscirne abbiamo bisogno degli altri. La qualità del tempo che trascorriamo con gli altri ci permette di comprendere il nostro punto di vista: in innumerevoli occasioni professionali e personali mi sono trovato a difendere saperi duramente conquistati che mi apparivano indiscutibili. Quando l’assedio del dissenso si allentava ero disponibile a convertirli in un punto di vista. Se si riconosce una ragione plausibile in un’idea eccentrica si creano i presupposti per cambiarla. Partire dalle pratiche Partire dalle pratiche per interrogarle e significarle rappresenta oggi, più che una procedura, una cornice per l’azione, che invita a fare dell’attenzione al contesto, alla peculiarità di ogni situazione i presupposti di ogni impresa formativa. Ogni incontro e relazione, dunque la vita stessa, costituiscono la principale materia da cui imparare. .​ domandare per accogliere e ricercare .​ sperimentare concetti .​ pensare ad alta voce .​ trasformare l’esperienza in sapere Domandare L’arte di porre buone domande aiuta a problematizzare sollevando questioni su temi che appaiono scontati. Porre domande anziché esordire con affermazioni provoca, apre possibilità al ricercare insieme risposte soddisfacenti, invita alla molteplicità delle versione, valorizza le differenze, suscita curiosità. Apprendere a formulare buone domande è un esercizio anti-retorico che produce effetti sulla qualità delle relazioni inter-personali: rompe copioni obsoleti, introduce elementi di novità euristica in un rapporto che rischia di essere scontato e prevedibile, promuove l’attenzione per la complessità delle relazioni familiari. Cos’è una buona domanda? Il fisico e cibernetico von Foerster parla di una didattica delle domande legittime come antidoto alla banalizzazione; per Mezirow un apprendimento può essere trasformativo quando rivede criticamente i propri presupposti, renderli visibili può essere sufficiente per trasformarli. Una buona domanda rende visibili i presupposti, li ri-discute e solleva questioni su aspetti assodati, problematizzandoli. E’ un’esperienza generativa: le domande sono potenti mezzi per indagare, descrivere e raccontare la realtà, significarla, trasformarla attraverso il linguaggio. Le domande possono far nascere storie, innescare cambiamenti, predisporre alla ricerca oppure chiudere le possibilità e le conversazioni, confermando storie già scritte. Perseguire l’ottica sistemica nella formulazione di domande significa imparare l’arte della ristrutturazione e della connotazione positiva: da una parte per non chiudere troppo lo sguardo dentro interpretazioni pregiudiziali, dall’altra per evitare la retorica della generalizzazione e del moralismo. che condanno e colpevolizza a priori le famiglie. Rivolgere su di sé le domande aiuta a valutarne l’efficacia e la generatività narrativa, riflessiva, le aperture che offrono. RISTRUTTURAZIONE: adozione di un punto di vista nuovo rispetto ai precedenti significati attribuiti a una determinata situazione o ad un determinato comportamento, un cambiamento di cornice, la possibilità di affrontare diversamente la situazione, di pensare altrimenti. In questa prospettiva, l’approccio autobiografico ci permette di intuire il ruolo potente e trasversale della storia di vita nella costruzione del sapere, nei processi di apprendimento, nelle posture che assumiamo, nelle relazioni che instauriamo, nelle motivazioni che ci portano alle scelte di vita e professionali. Ciascuno di noi cerca e riflette, connette e agisce per trovare una spiegazione soddisfacente del mondo, costruendosi la propria teoria locale, una personale visione connessa all’esperienza. Se vogliamo individuare tracce di famiglia, il primo movimento risiede nel volgere uno sguardo - curioso e non interpretativo - alle teorie così come i singoli le costruiscono, alle relazioni tra saperi familiari e saperi accreditati. Uno dei peggiori mali del nostro tempo è la tendenza alla banalizzaione dell’umano: imparara a riconoscere l’originalità e lacomplessità delle spiegazioni elaborate dalla famiglia e in famiglia può costituire un antidoto. Ciò che è vero e reale, o meglio quello che troviamo soddisfacente oggi, non resterà lì fermo, impermeabile al farsi della vita. Le conoscenze e i saperi che ci caratterizzano sono costantemente sottoposti a verifica, anch’essi per la casualità di un incontro, la contingenza di un evento o un mutamento nell’ambiente di vita. Siamo quotidianamente chiamati a rielaborare i nostri saperi, a connetterli, coordinarli, utilizzando strategie volte alla ricerca di una presa di posizione - in tutti i sensi, teorica, morale e talvolta anche fisica - che meglio permetta il controllo dei mutamenti in atto che stanno coinvolgendo - o stravolgendo - simultaneamente i sistemi di concettualizzazione e i sistemi di valori elaborati in precedenza. La famiglia, o meglio ogni suo membro, costruisce teorie locali; dai frammenti autobiografici appare quanto esse siano uniche, originali, complesse, interconnesse alle teorie generali, alla storia familiare. Riconoscere la teoria però non è abbastanza per incontrare davvero la famiglia. Che cosa ci serve per poter incontrare davvero una famiglia e per rispondere alle sue domande, dette e non? Abbiamo bisogno di una buona teoria e di una buona pratica, interconnesse: teoria e pratica. Il primo passo per ricercare le tracce è il riconoscimento della teoria, in quanto teoria locale; il secondo passo,in una prospettiva sistemica, va verso l’esplorazione dei nessi che intercorrono tra sapere e esperienza tra pensiero e azione, tra epistemologia e metodologia nella relazioni educative in famiglia e con la famiglia. La cultura occidentale si fonda sui dualismi e ci siamo ormai abituati a creare opposizioni concettuali, è un modello di pensiero che parcellizza, separa, divide. Una visione radicata è quella che oppone la teoria alla pratica, il pensiero all’azione, la mente al corpo, la cognizione alla percezione; al solo primo polo del binomio è attribuito un valore di scientificità: la pratica diventa mera applicazione della teoria e il corpo semplice contenitore della mente. Nell’incontro con la famiglia, un incontro non ingenuo, non stereotipato e omologante, un incontro autentico, che curi e diventi auto-cura, è necessario abbracciare una visione ecologica che si focalizzi sui nessi più che sulle separazioni, sulle sfumature più che sulle figure piene, sulla “struttura che connette”. I frammenti di autobiografia ci parlano di sensi, percezioni, emozioni e sensazioni, ci parlano di corpo e di mente, di gesti e di pensieri, ci parlano di teorie e di pratiche, interconnesse. Le teorie evolutive di stampo sistemico-costruttivista possono offrirci alcune indicazioni altre tipologie di tracce di famiglia. Quando parliamo di teoria dell’evoluzione dobbiamo fare i conti con Darwin, nonostante siano passati centocinquant’anni, la sua intuizione è ancora oggi rivoluzionaria: nell’evoluzione il motore del cambiamento risiede nella diversità individuale e solo una visione storica e narrativa - e autobiografica - ci porta a comprendere il mondo del vivente nella sua interezza. La genitorialità è un’avventura umana, appartiene all’individuo e alla specie. Oggi come ieri è strettamente intrecciata con la nostra umanità o forse sarebbe più corretto, abbandonando ogni logica antropocentrica, parlare della nostra animalità umana. “La genitorialità ha perso il carattere di universalità che l’ha contraddistinta per lungo tempo [...] per assumere sempre più un carattere di individualità e di unicità” Mariani e Zonca, 2006, p.55 Pur concordando sul carattere unico e originale dell’interpretazione del ruolo genitoriale, questa unicità non ne scalfisce la dimensione di universalità che contraddistingue l’essere madre e padre. La genitorialità è un universale, un tratto specie-specifico del genere homo sapiens al pari del pensiero simbolico e del linguaggio verbale. Quando riusciamo a individuare tracce di universalità in uno spazio e un tempo profondo, può cambiare la percezione della nostra collocazione nel mondo naturale e culturale di cui siamo parte; non solo la funzione e il ruolo che competono ai padri e alle madri, ma l’identità stessa del diventar genitore può assumere nuove sfumature. ​Gaudio, 2008 Storicizzare e contestualizzare: operazioni cruciali Anche uno sguardo su scala planetaria - rivolto a spazi geografici distanti da noi, altre etnie, altre culture - può cambiare la nostra collocazione nel mondo, quanto meno spiazzare, decentrare, offrire ampliamenti alla nostra visione, ampliamenti di prospettiva. L’antropologia ha molto da insegnare a noi educatori che incontriamo la famiglia, mostra culture che siamo pronti a definire elementari o primitive, caratterizzate da sistemi di parentela estremamente complessi. Non esiste società che non abbia elaborato teorie, pratiche, rappresentazioni e organizzazioni relative ai rapporti tra genitori e figli. La genitorialità è bio-culturale, ha le sue radici nella natura, nasce nel fatto biologico della riproduzione, ma si sviluppa nella dimensione culturale, sociale. La nostra condizione di esseri umani è una condizione plurale e in tutto il pianeta ci sono e ci sono state una pluralità e diversità di regole sociali, espressioni simboliche e rituali che riguardano il rapporto di filiazione, di copia, di affinità, che riguardano il “fare famiglia”. Quando si parla di universale, soprattutto in tempi di globalizzazione, si corre il rischio che il termine sia interpretato nella direzione dell’omologazione, del modello unico e generale. Dobbiamo invece accogliere la dimensione locale dell’universale, l’attenzione al particolare, a vedere il dettaglio, ma anche il contesto. Per riconoscere una traccia abbiamo bisogno di non perdere di vista l’insieme di circostanze ambientali, simboliche e relazionali all’interno delle quali è nata e si è sviluppata quella stessa traccia. Uno sguardo storico e contestuale può fornirci tracce che raccontano altre storie. Le difficoltà genitoriali, familiari, del singolo sono da ricondurre a un mal funzianamento interno? Sono loro a “funzionar male” oppure sono l’espressione di processi storici, sociali, politici, legislativi, che possono anche generare disagio? Genitorialità, modelli di cura, educazione familiare, processi di crescita, sono intrisi di biologico, culturale, storico, sociale e individuale. Il genitore, la famiglia che ho davanti è anche l’esito, provvisorio e in divenire, di un modo di intendere la genitorialità costruito in un processo storico e in uno specifico contesto di cui sono parte sia la famiglia sia l’educatore-cercatore di tracce. Sentirsi inadeguati, procedere per tentativi ed errori, abbandonare i sentieri delle certezze sono movimenti comuni al genere umano. Nel processo del re-inventare la famiglia, storicizzare e contestualizzare diventano due operazioni cruciali quando permettono di moltiplicare gli sguardi, creare sfumature. Intendere la genitorialità come processo ontogenetico e filogenetico offre la possibilità di descrivere lo stesso evento con un’altra modalità, di creare storie possibili, costruire il senso in modo molteplice, aprire ad esiti evolutivi impensati, costruire e inventarsi pensabilità: agire per aumentare le possibilità di inventarsi genitore. L’occhio dell’educatore è sempre mediato dalle proprie teorie, pregiudizi, storie familiari; è sempre situato in un orizzonte culturale, in un momento storico e in un contesto sociale, con un suo linguaggio; le immagini di famiglia e le rappresentazioni di genitorialità viaggiano all’interno dell’immaginario comune, attraverso i servizi educativi e sociali, transitano nelle istituzioni, nella legislazione, nelle politiche sociali. Questa famiglia è adeguata, questa non lo è, quel genitore è competente, quell’altro è incompetente. L’uso del verbo essere restituisce un solo fotogramma della famiglia, estraendolo dallo sfondo in cui è nato e in cui si è sviluppato; l’uso del tempo presente non riesce a restituire il legame con il passato e i progetti futuri e una volta scattata la fotografia l’educatore la pone dentro la propria cornice. Vi sono genitori che mostrano profonde incompetenze su alcuni aspetti e grandi competenze su altri, non vi è un modello univoco di buon genitore, non vi sono indicazioni e regole precise. Le due posture assunte più frequentemente dagli “specialisti” della famiglia, così come dal sentire comune, così come da esperti e dai media, sono: l’esercizio del mestiere genitoriale, l’arte della libera interpretazione di un ruolo. Parlare di genitorialità come mestiere o come arte comporta impliciti riferimenti a due distinte prospettive, sintetizzate da Gaudio come ​modello istintivo ​e​ modello istruttivo ​. Il primo richiama la creatività, il genio artistico associato alla sregolatezza, il secondo la razionalità, il mestiere che richiede osservanza di regole e uso di tecniche. Il mestiere necessita addestramento, l’arte è creazione, inventiva, libera espressività. Entrambi i modelli pongono la genitorialità al di fuori della relazione, del contesto, della storia e delle storie. “Non c’è niente al di fuori della relazione [..] L’essere umano esiste solo in relazione a qualcuno” Cecchin, 2004 Nel nostro ricercare tracce di famiglia, ritengo possa esserci una terza via - un modello evolutivo-ecologico - che può rendere conto di un processo relazionale e in continuo divenire, come è quello genitoriale. Nel modello evolutivo si opera per interdipendenza tra universale e locale, per cooperazione e conflittualità. Le teorie evolutive pongono anche noi educatori che andiamo alla ricerca di tracce di famiglia di fronte ad un salto - epistemologico, etico ed estetico - che ci porta ad assumere una postura ben più complessa e incerta, nel tentativo di andare oltre il riduzionismo del modello istruttivo e oltre l’adattazionismo, che sembra suggerire il modello istintivo. La nostra storia bio-culturale ci Non voglio sostenere che la mia presenza o la videocamera non abbiamo perturbato il sistema, introducendo variazioni nelle modalità di interazione in atto, bensì il contrario: con il passare del tempo la mia presenza è diventata parte integrante del setting relazionale e del sistema famiglia osservato. L’inclusione dell’osservatore nel sistema osservato è inevitabile e ciò porta all’impossibilità per l’osservatore di assumere una posizione neutra in due sensi: la sua presenza influenza inevitabilmente ciò che accade nel sistema; dall’altro i pregiudizi dell’osservatore e le sue esperienze precedenti provocano in lui risonanze e atteggiamenti che arrivano poi, attraverso differenti canali comunicativi, verbali e non a interagire con quelli degli altri componenti. Il passaggio successivo alla ripresa delle immagini è quello di ritrovarsi insieme a osservarle, chiedendo ai genitori di scegliere, selezionandoli e spiegandoli, gli scambi interattivi che sentono di aver vissuto con maggiore difficoltà e fatica. Si porta l’attenzione sui momenti in cui ci si riconosce poco competenti nell’esser genitori, o anche francamente inadeguati. Li invito ad allargare lo sguardo: dal vissuto e agito personale ai feedback degli altri. Attraverso il processo di visione, selezione, taglio e montaggio delle scene i genitori hanno la possibilità di soffermarsi e prendersi cura di sé e della propria storia, permettendo loro di decentrarsi e di attribuire nuove punteggiature possibili alla stessa scena, ri-significarla e ri-connotarla. Vi è anche una possibile valenza generativa e trasformativa in questo lavoro, nei casi in cui fa emergere il nuovo, le potenzialità, le risorse. Si può affermare che la natura di un’azione dipende dalla punteggiatura delle sequenze tra i comunicanti. Il linguaggio parlato è ricco di elementi paralinguistici ed extra-verbali che ne specificano il significato e riducono l’ambiguità: tono di voce, pause, gesti. Il linguaggio scritto invece può generare una molteplicità di punteggiature semantiche, che possono tradursi in malintesi. Dal punto di vista simbolico questo lavoro permette di assumere responsabilità delle proprie azioni e interazioni, ma anche di isolare il momento difficile da tutto il resto, limitarlo nel tempo, contestualizzarlo e legittimarlo, permettendo al genitore di sentirsi riconosciuto nel proprio stare male ma anche di cercare strade alternative per trasformare la situazione. Riconoscere e circoscrivere l’incompetenza permette di salvare tutto il resto, tutto ciò che c’è e che rischi di essere coperto, offuscato, rendendo così accessibili altre risorse e strategie. L’effetto composizionale offre la possibilità di nominare le emozioni e di creare uno spazio di contaminazione, riflessione, confronto tra il proprio vissuto - ​riflessione in azione - e ciò che si può osservare da fuori -​ riflessione sull’azione. La possibilità di vedersi concretamente in interazione pone i genitori nella condizione di poter riconoscere e comprendere il proprio stile interattivo e relazionale, rapportandolo con quello degli altri. Il genitore diventa maggiormente consapevole degli effetti che le sue proposte di relazione e azioni di cura hanno sugli altri membri del sistema. “La consapevolezza dello stile educativo e delle sue precomprensione crea i presupposti per modulare l’azione di cura, variarla e metterla in movimento, passando da una situazione apparente di stasi e immobilità alla possibilità/praticabilità del cambiamento” Pirotta, 2010 Avere un momento e un materiale concreto su cui soffermarsi, conversare e riflettere insieme fa sì che il genitore in difficoltà viva meno la solitudine della sua situazione e riesca a far comprendere meglio all’altro che i suoi vissuti sono associati a qualcosa di reale. Con questo tipo di lavoro gli aspetti psicologici delle difficoltà dell’uno e della distanza dell’altro passano sullo sfondo, pur non venendo negati; gli aspetti concreti, educativi e pedagogici, di cura e di relazione, vengono invece portati in primo piano. Il confronto di coppia che avviene sulla base di immagini reali di quanto accade nella routine quotidiana permette una riflessione sull’idea di famiglia che ognuno ha. Non solo toglie il genitore in difficoltà dalla posizione di solitudine, offrendogli sostegno e riconoscimento, ma attiva il “senso del noi”: la costruzione di un’idea comune di cosa sia essere e fare i genitori in questa famiglia, proprio partendo da aspetti più pratici e gestionali, ai quali sono intimamente connessi anche quelli più astratti e ideali. Questa esperienza, in un certo senso, permette di rimescolare immagini, sensi, punteggiature fino a crearne di nuove, nuove fotografie del proprio essere genitori e figli. Con una forse maggior consapevolezza del fatto che la propria storia, il proprio punto di vista non è l’unico, ma uno dei tanti possibili, e che sono tante le strade percorribili e ogni volta nuove, anche partendo da una base comune. Una posizione diversa nello stile e nell’idea di famiglia che porta a un linguaggio differente, non più centrato sulla mancanza, ma sulle risorse, sulle strategie creative, sulle possibilità. Una nuova posizione che non è per sempre, ma può venire in ogni momento rimessa in discussione, ri-elaborata, ri-significata. CAPITOLO 5 L’ABC dell’osservare Questo capitolo mette a fuoco un’azione specifica, quella dell’osservare, e una pratica che utilizza il mezzo audiovisivo - film, cortometraggi, proiezioni di immagini - come strumento di lettura delle interazioni umane e dunque anche quelle familiari. Le storie raccontate attraverso le immagini permettono di soffermarci su alcune sequenze, rivederle e per così dire studiarle, operazioni che nella pratica professionale risultano impossibili. L’obiettivo è imparare ad osservare, addestrare e affinare le proprie capacità percettive. La comunicazione La comunicazione è il fondamento delle relazioni umane: essa diventa l’oggetto osservativo nei suoi vari livelli, nei diversi stili e nelle svariate modalità. Il fine ultimo è affinare lo strumento, in modo che l’operatore possa migliorare il suo modo di comunicare ed entrare in interazione con le persone di cui si occupa. Cosa osservare: i processi interattivi nei quali la comunicazione si sviluppa, usando come lente il modello e i principi della Programmazione Neurolinguistica PNL, approccio che per Bateson “nasce dall’esigenza di dare origine a una base teorica appropriata per la descrizione dell’interazione”. L’individuo non comunica, partecipa a una comunicazione, ne diventa parte. La comunicazione è un sistema, è più e va oltre la somma o la sequenza dei singoli messaggi, va oltre il livello informativo. Il modo sistemico di comprendere la comunicazione è riconoscerne la complessità, la molteplicità di livelli, la circolarità, l’interconnessione. Ogni comunicazione instaura una causalità circolare: è simultaneamente stimolo, risposta, rinforzo di altre azioni comunicative. In ogni comunicazione si inviano messaggi di contenuto, ciò che si dice, e messaggi di relazione, come si vuole che il messaggio venga inteso, che tipo di relazione si vuole con l’interlocutore. Gli scambi sono simmetrici o complementari: nel primo caso sono basati sull’uguaglianza, nel secondo sulla differenza tra i comunicanti. Nell’approccio pragmatico la domanda che ci si pone è quali effetti producono le azioni comunicative tra le persone dentro il sistema, non che cosa intenda dire una specifica persona quando comunica. Le intenzioni e i significati sono accantonati, ipotesi della scatola nera. Comunicazione ​prossemica​, impropriamente definita paraverbale, riguarda diverse dimensioni del corpo e della sensorialità: . ​prossemica​: posizione relativa dei corpi nello spazio e distanza relazionale tra di essi . ​postura​: orientamente delle parti del corpo nello spazio e in relazione all’altro, tensione, tono muscolare . ​sguardo​: direzione, reciprocità, riconoscimento, focalizzazione o apertura . ​movimenti​: in accordo o in contrasto col linguaggio verbale . ​gesti​: funzione emblematica, descrittiva, di regolazione, di manifestazione affettiva, di chiusura ecc . ​linguaggio​ ​paraverbale​: tono, timbro, velocità, pause, volume Le tipologie di approccio relazionale che usciamo sono principalmente due: . ​sintonica​: tende a valorizzare i punti in comune tra i parlanti, l’interlocutore si sente a suo agio e compreso . ​distonica​: basso livello di efficacia, posture e parole di chiusura, allontanamento I processi di rappresentazione Nei processi di rappresentazione applichiamo filtri di tipo: . ​neurofisiologico​: di natura genetica, limitano la capacità percettiva . ​socioculturale​: derivanti dall’appartenenza a una comunità, limitano la capacità cognitiva . ​psicologico​: derivanti dalla nostra storia di soggetti, limitano il potenziale cognitivo, emotivo, esperienziale I processi di rappresentazione sono governati da meccanismi di: . ​cancellazione​: quando si presta attenzione solo ad alcuni aspetti dell’esperienza escludendone altri . ​generalizzazione​: quando una o poche esperienze diventano rappresentative del genere completo . ​distorsione​: quando presentiamo le nostre mappe come fossero descrizioni neutre dei fenomeni osservati L’obiettivo per i futuri educatori è far emergere i pregiudizi personali riguardanti il sistema familiare con cui si rapportano, in modo tale da cominciare a prenderne atto per trasformarli, al fine di arrivare all’incontro il più possibile consapevoli di quanto appartiene all’operatore e quanto, invece, è specifico di quella famiglia. Il processo osservativo Se una famiglia può generare narrazioni rigide e strutturate su una logica univoca, per descrivere se stessa e i membri che la compongono, similmente gli operatori che lavorano con le famiglie descrivono certe situazioni sempre allo stesso modo, come se nulla cambiasse o potesse cambiare mai. Diventa interessante anche in questi casi, come nel lavoro con le famiglie, interrogarsi sullo stile narrativo e sulla semantica che gli operatori usano per descrivere e raccontare la famiglia, a salvaguardia prima di tutto del benessere degli operatori stessi e del livello interattivo tra famiglia e operatori. Un educatore o qualsiasi operatore che lavori con le famiglia ha un ruolo significativo nello sviluppo di storie più o meno “felici”; soprattutto in quanto riveste un ruolo educativo e di cura, ruolo però non centrale o determinante in sé. Nella prospettiva ecosistemica nessun operatore riveste un ruolo determinante, di controllo delle relazioni, ma tutti gli attori in gioco sono ugualmente importanti, in quanto inter-connessi tra loro con la famiglia e tramite la famiglia. Patogenesi e salutogenesi Nel lavoro di cura sono individuabili due grandi orientamenti, due principali teorie o posizionamenti: . PATOGENESI . SALUTOGENESI L’orientamento alla patogenesi esprime la cultura della medicina tradizionale, la quale stabilisce una relazione lineare di causa-effetto tra fattore scatenante ed effetti provocati, tra agente patogeno e sintomo. L’orientamento alla salutogenesi invece senza negare i problemi, pone i propri fondamenti sui punti di forza, sulle risorse delle famiglie e delle persone come base su cui costruire la propria normalità. Ancor più precisamente, l’intento è generare delle narrazioni, anche minime, che raccontino o descrivano qualcosa di diverso e più sano delle solite critiche o eventuali diagnosi e categorizzazioni. Dobbiamo intervenire in modo da mutare le attribuzioni pessimistiche, che spesso chiudono la speranza delle persone in difficoltà. “Agisci sempre per aumentare il numero delle possibilità” Heinz von Foerster L’imperativo di ​Heinz von Foerster invita alla ricerca e all’attivazione di diverse possibilità di percezione e di descrizione della realtà e dell’esperienza. Lavorare professionalmente con storie familiari che generano sofferenza e fatica significa innanzitutto non inseguire il cambiamento o il raggiungimento di un’evoluzione pre-stabilita, ma, piuttosto, perseguire l’apertura a nuove visioni del mondo, a narrative più articolate e pensose, più belle. Lavorare alla ricerca della salute, della speranza e della bellezza significa pensare, offrire storie rinunciando alla tentazione di influenzare l’altro in modo istruttivo, verso un cambiamento tanto desiderabile quanto predefinito, atteggiamento questo che riduce possibilità e si rivela inefficace e antiecologico. Il lavoro di cura educativa consiste nell’introdurre variazioni, proporre sguardi differenti, dobbiamo lavorare nella convinzione che esistono sempre tracce, anche minime, di bellezza, e che queste possono essere rese visibili dagli stessi componenti della famiglia - e non solo dall’operatore. Bisogna lavorare su queste tracce minimale, accoglierle come un dono, valorizzarle, farle ri-splendere. Si tratta di un posizionamento di cura che privilegia la ricerca della bellezza e risiede nell’utilizzo, in questo caso, della conversazione per co-costruire spazi di curiosità intorno alle tracce narrative in cui i partecipanti, ognuno di loro, sono coinvolti riflessivamente e anche esteticamente. La proposta dell’autore è innanzitutto ascoltare il tipo di storia raccontata e poi andare a cercare/attivare, a partire dalla storia stessa, escludendone interpretazioni e spiegazioni che chiudono, elementi di narrazioni ulteriori, concreti, che rimettano in connessione la storia raccontata con le dimensioni della possibilità e della bellezza. La postura estetica Trattare i problemi a partire dalla ricerca di momenti, emozioni, elementi, aspetti di salute e funzionamento aumenta il numero delle possibilità, articolando la narrazione in una prospettiva più dinamica, salutare ed educante. Non si tratta però di incoraggiare, essere ottimisti, cadendo in un generico imperativo “think positive” e non si tratta nemmeno di utilizzare la connotazione positiva come rilettura di comportamenti che usualmente sono visti come negativi o patologici dentro una cornice di positività, scelta e funzionalità. Ciò che ci viene proposta è una postura mentale, una scelta dello sguardo, una sorta di epistemologiche o meglio di estetica del lavoro di cura con le famiglie e con le loro storie. Più specificatamente si tratta di andare a cercare insieme, con uno sguardo curioso ed esplorativo, tracce di competenza e abilità, ma soprattutto di poesia e bellezza, immaginazione e desiderio. Si tratta di una postura mentale nel lavoro con la famiglia che si propone come estetica, ovvero sensibile alla bellezza delle relazioni tra le persone, ma anche tra persone e cose, e case, con i loro cari e con il loro caos. “Sempre nella profonda convinzione che la bellezza è solo da scoprire nella normalissima quotidianità” Mustacchi, 1999-2001 L’immaginazione simbolica L’utilizzo di domande ben-pensate e la cura auto-riflessiva e auto-consapevole del proprio posizionamento sono operazioni necessarie, ma non sufficienti per generare cambiamento e trasformazioni. Parola e pensiero strutturato hanno dei limiti, in quanto troppo definiti e convenzionali per intercettare dimensioni come la bellezza, la complessità e l’autenticità che richiamano il mondo interno ed esterno. Più in generale, l’idea è quella di ancorare i percorsi di cura al nesso tra immaginazione ed educazione, nesso già esplorato da tanti maestri. artisti ed educatori. Fare ricorso all’immaginazione significa utilizzare i linguaggi simbolici, metaforici e narrativi per creare nessi impensati, ri-unificare mente e corpo. Usare l’immaginazione simbolica permette di accedere in modo leggero e veloce a una dimensione affettiva, emotiva e spirituale verso la quale l’operatore non può che adottare una postura rispettosa, la dimensione è troppo sacra e complessa per pretendere di governarla con interpretazioni e deduzioni. La mia completa attenzione è sul riconoscimento del senso e dell'autenticità di quel gesto, di quella forma o immagine, il senso estetico di cui è portatrice. Chiedere di disegnare la propria famiglia attraverso dei simboli è solo uno degli infiniti modi per aprire possibilità nella famiglia. Utilizzare il disegno per cercare la bellezza e la magia nelle storie con cui lavoriamo e in cui siamo convocati non significa far ricorso a una tecnica, a una proposta da aggiungere ai nostri strumenti di lavoro. Piuttosto si tratta di una pratica della cura che compone di un agire pensante che attraverso il disegno prende forma. Non sono però né il disegno né l’immaginazione di per sé a generare trasformazione, se non inseriti dentro un contesto di cura relazionale attento e rigoroso. CAPITOLO 7 Tra micro e macrostoria: lo sguardo biografico per comprendere la vita familiare L’approccio biografico e autobiografico, soprattutto quando divenuta plurigenerazionale, è una via per comprendere l’unicità della cultura di ogni famiglia; allo stesso tempo ci permette di vedere le connessioni tra il singolo sistema familiare e il contesto più ampio. Le narrazioni familiari ci aiutano a comprendere come cambia la vita quotidiana e come cambiano le relazioni, non solo per fattori interni alla famiglia, ma anche per l’influenza delle determinanti sociali, delle appartenenze di classe, territoriali e dei ruoli di genere. La discontinuità è la cifra della cultura familiare dei nostri tempi. Il concetto di ciclo di vita familiare in voga anni fa, oggi diventa controverso, dato che è andata in frantumi la regolarità e sequenzialità delle tappe, la loro durata e soprattutto i significati che si attribuiscono ai vari momenti. La sequenza lineare - ​fidanzamento, matrimonio, figli, nido vuoto ​- si ricombina seguendo andamenti largamente imprevedibili, così come imprevedibili sono le carriere lavorative e le biografie. La biograficità è l’esito di un percorso auto-educativo del soggetto che si osserva, si racconta, riflette. Il rischio di questa epoca è l’eccessiva idealizzazione della famiglia che appare come lo scenario nel quale esprimersi in modo autentico e avere un reale potere d’azione, la famiglia è carica di aspettative di cura. Queste aspettative chiudono la famiglia dentro un mondo idealizzato, privato, protettivo, autosufficiente e disconnesso dalla realtà sociale circostante. Le tecnologie, ad esempio, influenzano le relazioni familiari in modi prima impensabili: oggi è possibile comunicare a distanza con i propri cari. Vivere insieme al giorno d’oggi appare meno scontato, forse meno necessario per garantire un senso di unità e di appartenenza. La caratteristica più evidente della cultura familiare contemporanea è la vita privata, un’invenzione recente fatta di rituali domestici, compiti ripetuti e spazi connotati. La privatezza della casa, della vita intima, richiede nuovi spazi, organizzati in modo più complessi e raffinati rispetto al passato; e a questo corrisponde il cambiamento dei reciproci ruoli dei membri della famiglia. Le relazioni private sono però da un lato celebrate, dall’altro negate. Un doppio legame generalizzato. Doppi legami istituzionali Se da un lato siamo testimoni della crescente privatizzazione della vita familiare e valorizzazione delle relazioni interne a scapito di quelle esterne, dall’altro lato la famiglia non appare affatto libera di definire il proprio spazio di azione e di vita. Una costante azione di controllo è esercitata da ogni tipo di agenzia, istituzione, servizio e in modo particolare dalle autorità dello Stato. E’ prerogativa degli stati democratici infatti esercitare un controllo e
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