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Manuale "Storia medievale" Provero, Vallerani, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto completo e dettagliato del manuale di storia medievale di Provero e Vallerani.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 27/06/2023

dabiancavilla
dabiancavilla 🇮🇹

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Scarica Manuale "Storia medievale" Provero, Vallerani e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! STORIA MEDIEVALE Provero-Vallerani Storia medievale (Università di Bologna) MANUALE Introduzione Furono gli umanisti ad inventare il concetto stesso di medioevo: ovvero un’età di mezzo che si frapponesse fra loro e l’età classica. Il giudizio era prettamente negativo in quanto l’ideale politico dell’umanesimo era lo Stato, mentre il Medioevo vide nel corso dei secoli una costante frammentazione dei poteri, soprattutto durante gli ultimi due secoli. Il termine è dunque una convenzione, che può essere tuttavia utile se ci permette i comprendere meglio il passato. Nessuno può pensare che il millennio medievale consista in una civiltà omogenea e compatta. È comunque utile perché permette di identificare un periodo della storia che si frappone tra due epoche di enorme cambiamento nella vita associata: la caduta dell’impero romano e la formazione dell’Europa moderna. Possiamo considerare la fase dal IV al VI secolo come una fase di trasformazione. Cambiarono le fedi religiose e la distribuzione della popolazione in Europa e nel Mediterraneo, i sistemi politici e le forme della circolazione economica. Il cristianesimo si era diffuso nei territori dell’impero, ma nel corso del IV secolo compì un salto di qualità: l’editto di Costantino nel 313 e il riconoscimento come religione ufficiale nel 380 trasformarono il cristianesimo da religione minoritaria a culto dominante. Negli stessi decenni gruppi sempre più numerosi di persone di origine straniera (dunque barbara) si stanziarono all’interno del dominio dell’impero, venendo riconosciuti e accolti nell’esercito. Nel secolo successivo i gruppi presero il potere in diversi settori dell’impero occidentale, formando i regni romano-germanici, mentre la parte orientale dell’impero conservò molte forme del potere imperiale. Questa rottura trasformò i meccanismi economici: il prelievo e la redistribuzione delle tasse era il sistema principale di circolazione economica, e continuò a funzionare anche dopo la fine dell’impero d’Occidente ma con questo si interruppe l’interdipendenza tra le regioni come si era fissata fino a quel momento. La vita associata del VI secolo era completamente diversa rispetto a due secoli prima: si rispondeva a poteri diversi, si erano diffuse nuove lingue, si credeva in un Dio diverso, si utilizzavano oggetti di produzione locale e le città erano più piccole. Individuare una data a cui far risalire tutti questi cambiamenti è un’operazione che dipende dalla lettura dello storico: il 476 privilegia una lettura che crede che il motivo principale fosse la fine delle istituzioni più alte, il 410 (sacco di Roma dei Visigoti) l’analisi ricade sull’ambito etnico-militare, il 324 (fondazione di Costantinopoli) evidenzia i quadri territoriali e istituzionali, il 313 (editto di Milano) si concentra infine sul mutamento religioso. Non è mai il fatto a determinare il mutamento strutturale, ma è il mutamento strutturale a manifestarsi nel fatto singolo. Questo quadro non intende offrire l’immagine di una transizione morbida e pacifica, furono secoli di grandi conflitti e saccheggi, oltre che persecuzioni religiose. Questi eventi non erano nuovi alla storia di Roma, ma queste furono speciali perché portarono alla fine dell’impero romano e alla frammentazione di questo in nuovi poteri come i regni inglesi, romano-germanici, impero bizantino, e regno franco. mondo romano dal mondo non romano. Il limes è più che altro una fascia di incontro e scambio tra popolazioni dell’impero e quelle esterne. Non tutte le zone erano ugualmente romanizzate nell’impero, così come non tutte le zone barbare erano estranee all’influenza di Roma. Infatti le popolazioni barbare del limes erano simili alle parti periferiche dell’impero e le differenziava solo la mancanza di sottomissione nei suoi confronti. La definizione di barbari era usata per indicare i non-romani, tacito utilizza anche il termine germani, ma anche questo termine è problematico perché al tempo nessuna tribù si sarebbe mai identificata col termine “germanica”. I diversi gruppi potevano pensare sé stessi come Goti, seguaci di Alarico o Ripuari, ma sono tre tribù diverse che non hanno niente a che fare l’una con l’altra. Dunque sarebbe meglio utilizzare il termine barbari perché almeno questi popoli sapevano a cosa questo termine si riferiva. Recenti studi medievistici europei e in particolare austriaci hanno rinnovato molto l’approccio storiografico alla questione dell’identità di questi popoli, chiedendosi come questi si percepissero. La domanda riguarda l’etnogenesi, ovvero il momento genetico dell’identità di questi popoli. Si scopre che questo è l’esito di un processo continuo e sempre messo in discussione. Questo vale per ogni momento storico ma in particolare per questi popoli poco strutturati che vivevano fuori dall’impero romano. I popoli germanici erano composti da piccole tribù ed erano solamente queste ad essere oggetto di identificazione da parte degli individui. Durante i periodi militari più intensi queste tribù si legavano sotto un unico capo militare. Non si trattava dunque di gruppi omogenei sostenuti da alleanze ereditarie o legali, ma gruppi estremamente mobili che si sfaldavano a seconda dell’abilità del re nel condurre guerra. I barbari venivano accettati all’interno dell’esercito romano poiché questo era non solo sempre in cerca di soldati ma era anche disposto a promuovere i meritevoli indipendentemente dall’etnia dell’individuo. L’inclusione nell’esercito romano aiutò l’etnogenesi dei barbari poiché permise a questi di entrarvi in gruppi già formati e persino mantenere il proprio capo. Questo aumentò la solidarietà dei gruppi e rese possibile rafforzare l’identità del popolo barbaro, poiché nell’esercito le etnie barbare erano qualcosa di molto più definito di quanto non lo fossero nei regni barbari stessi. In generale l’inserimento dei barbari nell’esercito non si limitò ai piani bassi ma portò diversi condottieri stranieri a ricoprire i massimi ruoli militari, come i casi di Arbogaste e Stilicone. La crescente penetrazione di popolazioni barbare nel territorio romano dipendeva dalla pressione posa dagli Unni sull’Europa orientale, che scatenò una serie di migrazioni tra cui quella dei visigoti contro il limes del Danubio, a cui Roma rispose concedendo a questo popolo un massiccio stanziamento all’interno dei territori romani nel 375. I visigoti si impegnarono presto in saccheggi nei Balcani, inducendo l’imperatore Valente ad attaccarli, ma la battaglia di Adrianopoli del 378 si rivelò un disastro per Roma, e si concluse con la morte dell’imperatore. Da questo evento si cominciò a trattare i gruppi militari barbari diversamente, e si cominciò a impedire che i loro capi potessero salire di grado nell’esercito romano. Questo però non avvenne subito, in quanto il successivo imperatore Teodosio stabilì un foedus con i visigoti e accogliendoli nell’esercito in gruppi compatti guidati dai loro comandanti. Questa tendenza si definì in Oriente ma non in Occidente, troppo debole per attuare riforme così forti. Sono gli anni in cui si definisce la frattura fra Oriente e Occidente, fino alla spartizione dell’impero fra i figli di Teodosio. Il primo decennio del V secolo è importante perché vede una intensissima attività e mobilità militare di compagini difficilmente identificabili come romane o barbare, poiché queste ultime erano ormai già inquadrate nel sistema militare romano, che si muovevano o per conto dell’imperatore o di spontanea iniziativa. In ogni caso il limes romano perse efficacia e negli anni 406 407 diversi gruppi armati riuscirono ad entrare nel territorio imperiale. L’esito fu il sacco dii Roma del 410, la violazione del centro reale dell’Impero che da secoli nessun nemico aveva mai colpito. Questo evento fu il culmine di un processo che stava determinando una riduzione della capacità di azione dell’imperatore, in particolare nei settori settentrionali della Gallia. Questo processo può considerarsi d’avvio alla formazione delle civiltà romano-germaniche. Seguiamo tre capi militari barbari che agirono in direzioni molto diverse: • Arbogaste era un franco che alla fine del IV secolo ricopriva la funzione di comandante supremo dell’esercito romano dell’impero d’Occidente, sotto Valentiniano II; nel 392 si ribellò all’imperatore e lo uccise e fece incoronare al suo posto Flavio Eugenio, un altro funzionario dell’impero. Gli si contrappose Teodosio che nel 394 uccise Arbogaste ed Eugenio. • Stilicone era un vandalo che negli anni successivi assunse le stesse funzioni di Arbogaste sotto Onorio il figlio di Teodosio. Difese l’impero con successo contro i Visigoti di Alarico a Pollenzo nel 402 e contro le armate di Radagasio a Fiesole nel 406. Questa vittoria tuttavia lasciò aperto il campo ai popoli che tra il 406 e il 407 valicarono il Reno. Stilicone fu accusato di tradimento e ucciso a Ravenna nel 408. • Alarico era il re dei Visigoti ma al contempo era stato nominato comandante degli eserciti romani nell’Illirico. Nel 396 guidò la ribellione del suo popolo schiacciato tra gli Unni e l’impero d’oriente. Costantinopoli indusse Alarico a tentare uno spostamento verso l’Italia dove fu sconfitto da Stilicone e fu reinserito nei quadri dell’esercito romano. Nel 409 durante le guerre civili combattute in Occidente Alarico condusse le sue truppe a Roma e la assediò ottenendo un grosso pagamento, per poi l’anno successivo entrare in città e saccheggiarla. Fu da questi movimenti che ebbe origine il regno visigoto. Tutti e tre erano comandanti dell’esercito romano ma ognuno lo era per seguire le sue ambizioni. La cristianizzazione dell’impero Per comprendere la cristianizzazione dell’Impero è necessario tenere presente un’idea di pluralità. • Paganesimi, la religione romana di questi secoli non si limitava ai culti tradizionali ma si era arricchita di spunti religiosi provenienti dalle regioni sottomesse, tra cui soprattutto i culti salvifici che garantivano ai fedeli la vita ultra terrena. • Pluralità di questi stessi culti salvifici perché il cristianesimo non fu l’unica religione a professare la vita dopo la morte. • Pluralità dei cristianesimi perché le sacre scritture avevano lasciato il campo aperto a interpretazioni teologiche diverse che lungo i primi secoli del medioevo furono al centro di conflitti molto aspri. • Pluralità dell’istituzione ecclesiastica, poiché per tutto l’alto medioevo non si può parlare di una centralità papale ma di una superiorità del vescovo di Roma più che altro in termini di prestigio, in quanto successore di Pietro, la struttura portante dell’organizzazione ecclesiastica era invece costituita dalle singole sedi vescovili. La cristianizzazione non fu semplicemente la diffusione della religione cristiana ma la conversione alla regione delle strutture di potere, l’adozione del cristianesimo come religione ufficiale e ideologia fondante del potere imperiale. L’impero divenne cristiano nel IV secolo quando ancora il cristianesimo era religione minoritaria. Il punto di partenza per l’analisi di questo fenomeno sono le persecuzioni del III secolo, portate avanti dall’imperatore Decio (salito al trono nel 250). Le persecuzioni furono un elemento di novità, rispetto alla tradizionale tolleranza religiosa romana e furono prima di tutto espressione di una trasformazione del potere imperiale, che si evolse in una esaltazione della figura dell’imperatore. Un mutamento radicale si ebbe nel 303-304: nel giro di poco tempo si arrivò alla libertà di culto per i cristiani, cosa che portò entro la fine del secolo il cristianesimo a diventare la religione ufficiale dell’impero. Le tappe sono 3: 313 Editto di Milano. 325 Editto di Nicea. 380 Concilio di Tessalonica. Queste non sono tappe della diffusione della religione ma del rapporto di questa con il potere imperiale. L’editto di Milano è un evento molto noto ma di cui l’esistenza è incerta. Dopo la vittoria su Massenzio Costantino si limitò a confermare e porre in atto un decreto di Galerio di 311 che poneva fine alle persecuzioni e garantiva libertà di culto ai cristiani. Costantino viene dunque ricordato come colui che ha posto in atto il nesso fra cristianesimo e potere imperiale. La promozione della religione cristiana a religione imperiale derivò da esigenze ideologiche dell’impero, ovvero di riunire la frammentazione religiosa entro un fondamento che potesse al tempo stesso legittimare il potere imperiale. La scelta cadde sul cristianesimo perché rispondeva ai criteri di ricerca dell’impero: religione salvifica con connotazione moralistica che puntasse allo sviluppo dell’individuo. Il concilio di Nicea è il momento fondante del credo cristiano, in quanto qui i vescovi condannarono la tesi di Ario che diceva che Gesù il figlio era inferiore al padre invece di condividerne la sostanza. Questo punto era fondamentale per assicurare al cristianesimo il suo carattere salvifico. Il concilio di Nicea fu convocato da Costantino: un imperatore non ancora battezzato cercava di risolvere una questione teologica. Il suo fine era costituire una religione coesa e unitaria, priva di divisioni e che potesse fungere come religione ufficiale dell’impero. Si affermò così la centralità del concilio, ovvero l’assemblea dei vescovi come luogo di elaborazione teologica, e dell’impero come tutore dell’equilibrio interno della chiesa. Questo portò alla contrapposizione tra cristianesimo e arianesimo, che si diffuse rapidamente entro le popolazioni barbare durante il IV secolo. La forza di coercizione dell’impero si fermava però al limes e nulla poteva sulla diffusione in terre straniere. Il pieno consolidamento della religione cristiana va individuato nell’editto di tessalonica del 380. Con cui l’imperatore Teodosio ordinò ai sudditi di adottare il cristianesimo, dando inizio alla repressione delle forme religiose eretiche. Seguì la conversione di massa dei ceti più ricchi. inquadramento imperiale, nemmeno il foedus imperiale. Furono i primi cioè a non contrattare con Roma e ad affermarsi come aristocrazia fondiaria dominante. Gli unni erano invece una popolazione poco strutturata che trovò unità d’azione sotto la guida di un abilissimo capo militare, il re Attila. Già nei primi anni del V secolo gli Unni avevano costituito una minaccia per l’impero, premendo contro il limes e al tempo stesso combattendo le battaglie di Roma come mercenari. Nel 445 Attila prende il potere e guida il suo popolo in dure campagne interne all’impero, venendo sconfitto da Ezio nel 451 nella battaglia dei Campi Catalaunici. Due anni dopo Attila morì e gli Unni si disfecero: non avevano fatto il passo dal potere militare al potere strutturato, come avevo fatto i Vandali. Dopo la morte di Ezio e dell’imperatore Valentiniano III nel 454 la via agli eserciti e ai loro saccheggi si riaprì, come nel caso del saccheggio del 455 da parte dei Vandali. Durante il V secolo l’impero era operativo e il potere imperiale costituiva ancora oggetto ambito da parte di diversi generali dell’esercito, in maggior parte barbari. Nonostante questo è vero che tale potere cominciava a ridursi in quanto l’africa vandala era ormai del tutto indipendente, i romani abbandonavano l’Inghilterra a partire dal 410 e la Gallia si sottraeva progressivamente al dominio romano, prima solo la parte settentrionale e poi l’intera regione. La deposizione di Romolo Augustolo nel 476 da parte del generale sciro Odoacre, fu solamente la scelta obbligata che concluse un’epoca di continue successioni di imperatori fantoccio mossi da generali. Il 476 passò inosservato, molto di più che non la battaglia di Adrianopoli o il sacco del 410. La scelta di inviare le insegne imperiali a Costantinopoli mirava a ricompattare l’unità imperiale. L’obiettivo di Odoacre era quello di coniugare un’ampia autonomia militare al riconoscimento dell’impero, non si trattò di un colpo di stato poiché era ovvio che l’unico imperatore dotato di effettivo potere fosse quello d’oriente. Tuttavia l’imperatore Zenone non ritenne Odoacre un alleato a cui affidare tale compito, così fece in modo che l’Italia andasse nelle mani degli Ostrogoti di Teoderico. Il controllo di Odoacre era comunque solamente l’Italia dato che ormai solo questa era l’ambito di potere dell’imperatore di Occidente, che aveva perso il controllo di Gallia, penisola Iberica e Africa. Nei decenni centrali del secolo, su esempio dei vandali si crearono diversi regni nei territori dell’impero, governati da élite aristocratiche germaniche che non riconoscevano più l’autorità imperiale. Alla fine del secolo V si riconosce una geografia politica delineata: l’italia per pochi anni fu nelle mani di Odoacre, per poi essere conquistata dagli ostrogoti di Teoderico. La Gallia era per la maggior parte nelle mani dei Franchi, con l’eccezione delle zone controllate dai Burgundi (a sudest, attuale Borgogna) e dai visigoti a sud della Gallia e della penisola iberica, in cui erano presenti gli Svevi nell’attuale Galizia. I vandali controllavano la Tunisia e da qui la Sardegna, la Sicilia e la Corsica. Le isole britanniche erano divise in molte dominazioni autonome, in parte nelle mani di celti in parte invasori angli e sassoni. I nuovi regni Se si considera il quadro europeo tra V e VI secolo si nota un impoverimento della diversità archeologica: gli oggetti ritrovati sono più semplici e modesti, ma al tempo stesso una conservazione delle istituzioni politiche dell’impero, come se i regni fossero riproposizioni regionali delle forme politiche dell’impero. Questo indica un cambiamento su entrambi i piani fondato su uno spostamento degli equilibri su base regionale e sulla rottura dell’unità europea e mediterranea. La caduta dell’impero romano consegnò il potere all’élite militare germanica che conservò le istituzioni politiche anche se in versione semplificata poiché rimaneva nella memoria come un sistema efficace attraverso cui prelevare ingenti somme di denaro per finanziare le proprie attività. Inoltre il modello politico romano era efficace poiché affiancato da consiglieri e vescovi e funzionari di corifine romana, portatori di questa tradizione politica e amministrativa. Nacque un sistema politico nuovo che rielaborò le forme provenienti dalla tradizione romana, con una nuova centralità politica affidata alle assemblee, ovvero le riunioni dell’aristocrazia intorno ai re. Questo fu comune ad ogni regno germanico ma ognuno di questi cambiava in base ad alcuni fattori: • Maggiore o minore peso della aristocrazia romana ai vertici del regno. • Le forme di retribuzione dell’esercito. • Politica religiosa o incidenza della contrapposizione tra cristianesimo e arianesimo. • Ruolo politico dei vescovi e azione in quanto consiglieri del re. Il problema del prelievo delle tasse smise di essere tale per i regni romano-barbarici, in quanto per l’impero lo era nella misura in cui serviva per mantenere le spese per lo stipendio dei militari, dei burocrati e per approvvigionare la capitale. I germani non avevano questi problemi dato che non avevano una capitale, avevano una burocrazia molto più agile e l’esercito era costituito da tutto il popolo a cui l’élite veniva consegnata una ricompensa in terre e non in stipendi. La conseguenza fu che i regni romano-barbarici rinunciarono a prelevare le tasse, rompendo il meccanismo economico che aveva stabilito l’interdipendenza economica di regioni lontane nel mediterraneo. Questo implicò una minore quantità di ricchezza per il re sia il declino delle funzioni delle città sul piano fiscale e politico. Nel frattempo le aristocrazie rimanevano sottoposte all’autorità regia. Italia ostrogota Odoacre fondò un sistema di potere equilibrato ed efficiente, fondato su una piena collaborazione con l’aristocrazia senatoria, a cui il re garantì il predominio economico e sociale tutelando le sue enormi proprietà fondiarie e il controllo degli incarichi pubblici. Il carico fiscale destinato all’esercito non aumentò. Di fatto l’Italia tra il 476 e il 489 continuò a essere un mondo dominato un’amministrazione di stampo romano e protetto da un esercito germanico stipendiato grazie alle tasse. Odoacre si definì patricius, collocandosi nella gerarchia romana, e Rex gentium, che esprimeva il uso dominio non sull’Italia ma sull’insieme di popoli che costituivano il suo esercito. Il regno di Odoacre fu invaso dagli Ostrogoti di Teoderico, ma questa impresa militare deve essere intesa come un’iniziativa imperiale mossa dall’imperatore Zenone, che non approvava l’operato di Odoacre in Italia. Dunque si affidò al popolo degli ostrogoti che da tempo premeva sul limes italiano, alla guida di Teoderico, che a sua volta era stato ostaggio a Costantinopoli. Dal 474 Teoderico era al potere ed era stato un interlocutore importante di Zenone che lo appoggiò in guerre civili e che aveva combattuto per stanziare la presenza territoriale degli ostrogoti. Era un condottiero capace e che sapeva come mantenere gli equilibri tra funzionamento burocratici ed esercito. Zenone voleva allontanarlo da Costantinopoli e avvicinarlo all’Italia. 489 invasione dell’Italia da parte degli Ostrogoti, a cui si unirono Rugi e Gepidi, in quanto l’impresa prometteva grandi quantità di bottino. Le identità dei popoli erano quanto mai fluide, determinate da interessi circostanziali, si faceva parte del popolo che si sceglieva di seguire, o con cui si sceglieva di allearsi. Dopo alcune sconfitte Odoacre fu abbandonato dall’aristocrazia senatoria e si rifugiò a Ravenna, dove resistette a lungo fino al 493, quando fu costretto ad arrendersi e venne fatto giustiziare da Teoderico. L’amministrazione rimase legata alle forme imperiali, mantenendo il sistema di prelievo delle tasse e aggiungendo la possibilità di venire giudicati in base al diritto goto se si era goti (personalità del diritto). Furono i goti a trasformare le proprie forme di vita, essendo passati da una posizione marginale alla guida di un potere immenso come quello imperiale. L’amministrazione veniva espletata dal re coadiuvato dal consistorium, un concilio ristretto di romani e goti che includeva individui di grande livello culturale come senatori di fede cattolica o filosofi. Nonostante 30 anni di stabilità e pace sotto il regno di Teoderico non fu raggiunta la simbiosi fra goti e romani, ma solo una convivenza pacifica: i due popoli condividevano gli stessi spazi ma svolgevano funzioni diverse. Caratteristica fondamentale del regno di Teoderico fu la protezione delle chiese nonostante i goti fossero ariani. In Italia si stava affermando il potere politico della chiesa e soprattutto del vescovo di Roma, dunque la decisione di Teoderico di porsi a protezione di tutte le chiese del regno fu parte integrante della strategia di stringere rapporti con l’aristocrazia romana. Nel 498 durante lo scisma laurenziano in cui alla successione di Anastasio II salirono al soglio due papi, Simmaco e Lorenzo, entrambi si rivolsero al re, dando prova di quanto questi fosse accettato come erede della continuità dell’impero da parte della chiesa di Roma. Teoderico, forte della stabilità interna del regno italico, espanse il suo potere al di là delle alpi verso Pannonia, Dalmazia e Rezia, e tramite una politica matrimoniale si legò a Vandali, Franchi (sposando la sorella del re), Visigoti e Burgundi. Fu importante il rapporto coi visigoti che occupavano il sud della Gallia, e che si trovarono a combattere i franchi di Clodoveo nella battaglia di Vouillé nel 507, in cui quest’ultimo uccise il re visigoto Alarico II ponendo fine alle mire dei di dominio dei visigoti in Gallia meridionale. In seguito a questo evento Teoderico assunse il ruolo di protettore del figlio di Alarico II, Amalarico e così acquistò maggiore controllo sui visigoti. La fine del regno di teoderico fu caratterizzato da persecuzioni religiose contro i cattolici parallele a quelle contro gli ariani portate avanti in Oriente dall’imperatore Giustino a partire dal 518. Queste persecuzioni furono tuttavia la conseguenza dell’allontanamento progressivo dell’aristocrazia senatoria romana dal potere monarchico e un suo riavvicinamento all’impero. La guerra aperta comincio solo alla morte di Teoderico nel 526. Teoderico lasciò il potere ad Amalasunta come tutrice del nuovo re, il figlio Atalarico, che tuttavia morì prematuramente nel 534, così la regina sposò il cugino Teodato per preservare il potere, ma questo matrimonio diede risultati disastrosi in quanto i due coniugi scelsero due vie opposte: Amalasunta la rappacificazione con Giustiniano, mentre Teodato la guerra. Prevalse la posizione del marito che fece imprigionare la moglie per poi farla uccidere nel 535, dando il via ad un conflitto militare che finì per riportare l’Italia all’interno dell’impero. vantaggi e del prestigio che derivavano da questa posizione. Il popolo franco che prese il potere in Gallia nel corso del V secolo non era un popolo omogeneo, ma diviso in tribù, e soggetto ad un lungo processo di romanizzazione prima di salire al potere. Dal punto di vista religioso i franchi erano orientati per la maggior parte al paganesimo, a volta reinterpretato in ottica ariana. Il processo di romanizzazione vide protagoniste tutte le tribù dei franchi, sia quelle che si insediarono nel territorio romano che quelle che se ne tennero al di fuori, per esempio a tribù dei franchi salii si stanziarono all’interno dell’impero a partire dalla metà del IV secolo, entrando a far parte dell’esercito romano e combattendo quindi contro altre popolazioni barbare come quando si ruppe il limes del Reno e si batterono contro Vandali e Alani. I franchi erano dunque una parte importantissima dell’esercito imperiale, ma nei decenni centrali del secolo il ruolo dei franchi assunse un rilievo molto maggiore, dato che il dominio imperiale si ridusse a partire dalla Gallia settentrionale. Fu a questo pjunto che padre e figlio, re dei franchi di Tournai (dominazione della Gallia) completarono l’unione dei franchi in un solo regno e la sottomissione di gran parte della Gallia. La prima figura fu Childerico I che condusse una campagna sotto la guida del figlio di Ezio, Egidio, contro i Visigoti. Il merito di Childerico fu di connotare lo scontro in chiave religiosa, come una lotta contro l’arianesimo, e questo gli valse un grande riconoscimento da parte dei gallo-romani e dei vescovi. Nel 481 il successore di Childerico, Clodoveo, fu colui che conducendo una efficace politica militare riuscì ad affermare il proprio controllo su Fran parte della Gallia, avendo la meglio su una serie di dominazioni come i Burgundi in Borgogna, e i Visigoti dall’Aquitania alla Provenza. Dopo la battaglia di Vouillé del 507 si affermarono definitivamente i Merovingi sulle popolazioni germaniche della Gallia. Dopo pochi anni ci fu lka conversione di Clodoveo e del suo popolo al cristianesimo, e ciò avvenne in tempi brevi, senza causare contrapposizioni identitarie a base religiosa come nel caso degli Ostrogoti e dei Visigoti. L’impatto della conversione ebbe effetti importanti sugli equilibri interni del regno dei franchi come testimoniato alcuni decenni dopo da Gregorio di Tours, che parla della conversione del re Clodoveo da parte di Remigio vescovo di Reims, che poi fu seguito da tutto l’esercito e dal popolo. Il re Clodoveo venne così da Gregorio accomunato a Costantino in quanto anche lui aiutato da Dio sul campo di battaglia, portando grande legittimazione a Clodoveo, il quale trovò una alleanza molto forte, che sarebbe durata a lungo nella storia franca, con l’episcopato. L’integrazione tra gallo-romani e franchi non passò solo dall’alleanza tra potere regio e vescovile, ma anche e soprattutto dalla creazione di un ceto sociale dominante unitario e capace di integrare modi di vita sia romani che germanici. Se l’aristocrazia senatoria gallo-romana era molto interessata ai latifondi al radicamento in città e all’occupazione delle cariche ecclesiastiche, i gruppi. Franchi erano interessati alla guerra e al servizio del re. Lungo il VI secolo si creò un aristocrazia che seppe impegnarsi in tutti questi fronti: combatteva e accumulava terre, era vicina al re, ma attenta a radicarsi nelle città, tessera reti clientelari e occupava cattedre vescovili. L’aristocrazia era dunque mista, che a sua volta diede vita ad istituzioni ibride, dunque del tutto innovative. Le chiese franche e la diffusione del monachesimo in Occidente I vescovi erano aristocratici ricchi in cui si concentravano le funzioni di salvezza delle anime e che godevano della ricchezza derivante dai doni di chi cercava benevolenza per le proprie opere. Il vescovo era il vertice della vita religiosa regionale. Inoltre il vescovo era portatore di cultura non solo letteraria ma politica, in quanto era stata la chiesa a conservare le conoscenze istituzionali dell’impero, di cui si servirono a piene mani i re franchi. Questo rese il re molto dipendente dai vescovi. L’aristocrazia del VI secolo franca dunque univa la conoscenza delle istituzioni dell’aristocrazia senatoria con la competenza militare di quella franca. I vescovi non erano i soli individui religiosi importanti nel regno franco durante il VI secolo: anche i monasteri si erano espansi nel regno, già dal IV secolo infatti si hanno notizie di monaci in terra franca tra cui il più famoso è certamente Martino di Tours, figlio di un ufficiale dell’esercito originario dell’Ungheria, che dopo aver prestato servizio militare in Gallia si fece monaco per poi venire ordinato vescovo di Tours, dove morì nel 397 circondato da una fama di santità. Questa storia raccontata da Gregorio di Tours fa capire come nel IV secolo ancora monasteri e sedi vescovili non erano separate anzi i vescovi venivano scelti tra i monaci, che dovevano godere di origine aristocratica, capacità culturale e perfezione religiosa. Ci furono molte esperienze monastiche prima della forma benedettina a partire da quelle di San Gerolamo in Italia alla fine del IV secolo tra l’aristocrazia romana, oppure quella di Cassiodoro nel suo vivarium, in cui si studiavano i classici. La vita di Benedetto da Norcia ci è narrata da Gregorio Magno nei dialoghi, scritti mezzo secolo dopo la morte di San Benedetto. Benedetto era nato a Norcia nel 480 e dopo aver studiato a Roma si era ritirato in vita eremitica, poi cenobitica ed infine abbaziale. Fondò infine nel 529 il monastero di Montecassino dove scrisse la regola prima di morire nel 547. La regola fu scritta dunque al termine di una lunga esperienza nei monasteri, informata di tutte le difficoltà del caso, come quando Benedetto fu costretto a fuggire da Tivoli perché minacciato di morte dagli altri monaci. La regola non prevedeva gli estremismi della vita ascetica in voga in quel periodo e marginalizzava il lavoro manuale a favore della preghiera. Ora et labora non compare nella regola, è solo una formula riassuntiva del messaggio benedettino. La regola doveva essere interpretata dall’abate in base alle sue esigenze e a quelle dei monaci, e non conteneva a questo scopo precetti rigidi ma principi ispiratori come la centralità della preghiera e la moderazione nel cibo. La regola ebbe un grande successo e diffusione ma non divenne il modello per ogni monastero occidentale fino all’XI secolo. Inoltre non esisteva un’istituzione superiore benedettina che amministrasse tutti i monasteri; l’abate non aveva alcuna autorità superiore a cui obbedire. L’ascesi eremitica era destinata solo ai monaci più perfetti e scelti dall’abate, una tale organizzazione iniziò solo con l’XI secolo. Altra influenza importante erano i monasteri irlandesi pieni di monaci di grande spinta missionaria come Colombano che alla fine del VI secolo fondò diversi monasteri in Gallia per poi trasferirsi in Italia, dove fondò l’abbazia di Bobbio, caratterizzato da una forte connotazione penitenziale. I monasteri irlandesi ancora non erano dotati di organizzazione che li coordinasse, fino a quando tra l’VIII e XI secolo i monasteri confluirono all’interno del modello benedettino. La gallia del VI solo fu terreno fertile per i monasteri, che interagirono molto con l’aristocrazia tramite donazioni di esponenti di quest’ultima per garantire la salvezza della propria anima, la monacazione di nobili e la scelta di vescovi dai monasteri. I regni e l’aristocrazia La ragione della forza dei franchi rispetto agli altri regni europei fu la grande organizzazione che l’aristocrazia riuscì a darsi attorno alla figura del re. Questo fu reso possibile da una interpretazione dell’eredità romana adeguata alle nuove condizioni sociali, che diede come risultato la legge salica del 510, che da un lato riprendeva la cultura romana della legge scritta e dall’altro si discostava dalla tradizione imperiale per l’importanza data all’assemblea degli uomini liberi, il mallus, e dei quattro grandi uomini di diritto eletti per stabilire le leggi, senza nominare il re e dunque non accentrando il potere nelle sue mani. Il potere del re era un potere pratico, che si esercitava attraverso l’aristocrazia, che governava con i comes, o conti, i vari distretti dal punto di vista giuridico, militare e fiscale. Questo tipo di amministrazione distrettuale era un chiaro richiamo alla tradizione romana ma non diventò mai il sistema capillare che era quello imperiale, ma rimase sempre uno dei diversi modi in cui re e aristocrazia collaboravano e intessevano rapporti clientelari grazie ai quali il re poteva contare sulle sue truppe armate (dette Trustis). Il re era ricco ma non pagava l’esercito in stipendi, ma in terre, cosa che rese superfluo il prelievo fiscale che venne abbandonato tra il VI e il VII secolo. Perciò i merovingi furono molto più poveri dei loro contemporanei imperatori e re. Questo rendeva i re più dipendenti dal consenso aristocratico e meno capaci di redistribuire ricchezze ai propri trustis. Nonostante questo erano i re germanici più ricchi ed erano in grado di garantire rapporti clientelari favorevoli ai nobili, che si riunirono intorno alla figura del monarca, senza creare però una dinamica di corte accentrata verso una capitale, dato che il regno franco ne era privo. La nobiltà si riuniva presso il re nelle varie residenze collocate nel nord della Gallia. Se la tradizione germanica era di attribuire grandi poteri all’assemblea militare come l’elezione del re o le decisioni legislative, questi poteri nel regno franco si attenuarono molto in favore della mediazione aristocratica e del carattere dinastico della monarchia. Tuttavia le assemblee dell’esercito non scomparvero, ma ottennero mandato di ratifica nei temi prima citati e conservarono grande importanza nella pianificazione delle operazioni militari. Nacquero le assemblee regionali intorno al conte, come occasione di deliberazione politica e giudiziaria oltre che come ambito di risoluzione di conflitti locali. La frammentazione del potere del regno franco derivò dalla dinamica della successione al trono, su base dinastica. A partire dalla morte di Clodoveo nel 511. Di fatto tutta la storia franca del VI e VII secolo è una vicenda di continue fratture e ricomposizioni del regno e solo in brevi periodi ci sono re in grado di governare l’intero popolo franco. Si delinearono i fretta precise partizioni del territorio: i regni di Australia (nord-est germanico), di Neustria (nord-ovest), Burgundia (sud-est), Aquitania (sud-ovest). Inoltre le divisioni e le ricomposizioni avvennero sempre all’interno della famiglia merovingia, tale era l’influsso della figura di Clodoveo. Nonostante queste difficoltà il regno franco riuscì ad esercitare un’influenza indiretta anche sul mondo germanico come il ducato Questa instabilità politica veniva compensata dalla stabilità burocratica dello stato, che a sua volta si fondava sulla divisione fra incarichi civili e militari. L’impero d’oriente era strutturato intorno alla relazione tra capitale e province, centinaia di distretti in cui l’Impero era suddiviso. L’esercito era diviso nel corpo limitaneo e comitatenses, ovvero tra le truppe stanziate intorno al limes e quelle riunite intorno alla figura dell’imperatore. Il sistema burocratico fu il principale strumento per il prelievo fiscale a modello romano implementato da Costantinopoli. In particolare la principale tassa era l’annona, un’imposta sulla terra in proporzione a quante persone la lavoravano. Per riscuotere una tassa del genere si rendeva necessaria la redazione di un catasto che documentasse le terre e quanti le lavoravano. Questo comportava un dispendio economico molto elevato e dunque si prese il provvedimento di vincolare i lavoratori alla terra, creando la classe dei coloni, uomini liberi ma a cui veniva vietato di spostarsi verso altri fondi. L’organizzazione di questo sistema richiese la partecipazione attiva di molti giuristi provenienti dalle migliori scuole dell’impero, come Roma Costantinopoli e Beirut. Questo sistema si espresse al meglio con la grande riforma di Giustiniano, la redazione del Corpus iuris civilis, un insieme articolato di testi giuridici, che doveva risolvere il problema della sedimentazione di moltissime leggi promulgate in tempi molto diversi durante la storia di Roma. Il compito venne affidato a sette giuristi guidati da Triboniano che l’anno seguente redassero il codex, una raccolta molto selettiva delle norme dal periodo di Adriano al 529. Poi le institutiones, il digesto (raccolta in 50 volumi di testi di giuristi) e le novellae contenenti le nuove disposizioni imperiali emanate dopo la redazione del codex. I quattro testi in questione andarono a costituire il corpus iuris civilis. Tre elementi permisero la riconquista dell’africa romana e della parte meridionale della penisola iberica: stabilità del limes sul lato persiano, rinnovamento della ideologia universale dell’impero grazie alla rinascita giuridica, stabilità economica grazie alla politica fiscale. In questi anni questi tre elementi permisero il rinforzo della flotta imperiale al fine di tutelare i mari soggetti a scorribande di pirati, oltre a quello di cominciare spedizioni per conquistare l’africa vandala in particolare la Tunisia con la sua ricca produzione agraria. 533-534 conquista della Tunisia vandala da parte di Costantinopoli. Ben più faticose furono le altre campagne. La Spagna non fu mai riconquistata oltre la fascia costiera mediterranea tra Valencia e Cadice. Per l’Italia ostrogota ci vollero vent’anni di guerra (35- 53) per riportare la penisola sotto il controllo imperiale. La guerra arrivò ad una prima battuta d’arresto con la conquista di Ravenna del 540 e al confino degli ostrogoti oltre il po, per poi ricominciare dopo la salita al trono del re totila che riprese le ostilità espropriando terre all’aristocrazia senatoria. Belisario fu sostituito da Narsete che sconfisse i goti ponendo fine alla guerra nel 553, grazie ad una campagna mossa a partire dalla Dalmazia. Nel 554 Giustiniano emanò la Prammatica sanzione per ristabilire le condizioni precedenti al regno di Totila per quanto riguardava i possessi terrieri degli aristocratici, su cui si basava l’economia fiscale dell’impero. Il nuovo centro di governo imperiale fu posto nella figura dell’esarca di Ravenna mentre Roma fu lasciata al suo vescovo. 568 i Longobardi scendono dalle alpi e cominciano una campagna militare discontinua della penisola che porterà alla divisione della stessa in zone longobarde e zone imperiali. Le altre conquiste durarono poco: l’Africa resistette un anno prima della conquista araba, mentre la Spagna desistette alla forza dei visigoti nel 625. Giustiniano tentò anche la riunificazione religiosa dell’impero. Dibattiti teologici e identità locali Dibattiti nel V e VI secolo riguardavano la natura di cristo, le posizioni erano queste: • Nestorio vescovo di Costantinopoli nel 428 teorizzava che Maria non fosse la madre di Dio ma la madre di Cristo, cioè Gesù congiunto con il figlio, fu condannato nel 431 su iniziativa dell’imperatore Teodosio II al concilio d iEfeso del 431, sollecitato da Roma e Alessandria. • Monofisismo (mono physis) la natura divina e la natura umana venivano congiunte, venne condannato dal concilio di Calcedonia 451 perché cancellava l’integrità delle rispettive nature di Cristo. • Diofisismo conservava le due nature insieme ma divise. Fu il concilio di Calcedonia ad affermare Costantinopoli come sede patriarcale rispetto ad Alessandria e Antiochia. La lotta per la risoluzione di queste dispute teologiche si rifletteva nel campo della geopolitica che vedeva contrapposte le varie diocesi di Roma, Costantinopoli e Alessandria contro Antiochia e che dava connotazione religiosa ad una divisione del mediterraneo. Il monofisismo rimase in vita nelle zone che gravitavano intorno ad Alessandria, dato che adottare le disposizioni del concilio di Calcedonia sarebbe stato riconoscere la superiorità di Costantinopoli. Rifiutare le disposizioni dei concili significava asserire una indipendenza dal potere imperiale dunque Costantinopoli aveva tutti gl interessi a fare rispettare tali disposizioni. Per tenersi buoni i monofisisti d’Egitto Giustiniano condannò i Tre Capitoli che sostenevano tesi diofisiste estreme. Questa condanna venne accettata dal vescovo di Roma Vigilio ma non da Milano Aquileia e le diocesi del Nord Africa, le quali diedero vita ad uno scisma sanato solo nel secolo successivo. Il monotelismo di Eraclio, imperatore dal 610 al 641 fu un nuovo tentativo dii riunire le nature di cristo, stavolta in un telos, ovvero scopo indiretto alla salvezza ricondotto all’unità fondamentale dalla persona. Fu condannato nel concilio di Costantinopoli nel 681. Dopo questo concilio le parti meridionali dell’impor d’Oriente passarono in mani islamiche, mentre in Occidente il diofisismo era affamato e il nestorianesimo e il monofisismo erano sopravvissute in parti al di fuori del controllo imperiale. IL SISTEMA DI DOMINAZIONE ALTO MEDIEVALE Nobili chiese e re, ricchezze e poteri Il quadro politico territoriale dell’occidente tra VI e VIII secolo è molto più stabile rispetto ai due secoli precedenti, nonostante la presenza endemica di zone di guerra. Si tratta di regni maturi che sono passati attraverso l’integrazione delle popolazioni romane e germaniche, nella creazione di un nuovo popolo. Nobili e re Il rapporto tra aristocrazia e regno fu sempre di accordo in questo periodo del medioevo, per via del grande potere militare del sovrano. Nonostante questo li re era meno povero rispetto agli imperatori del passato e per questo motivo risultava più difficile radunare a sé i nobili. I visigoti conquistarono gli ultimi territori ancora in mano bizantina entro il 625. Inoltre si avvia il processo di cristianizzazione cattolica che ha come esito la scomparsa dell’arianesimo dal regno. Oltre a questo nel 654 viene completata la redazione delle leggi contenute nel Liber iudiciorum, sotto il regno di Recesvinto. In questo testo sono dominanti elementi presi dal diritto romano, a discapito delle tradizioni germaniche. L’ideale era quello di un impero in cui sovrano e vescovi collaboravano, e così accadeva nei concili di Toledo, in cui gli scopi della chiesa e del potere regio erano sempre gli stessi e gli uni in funzione degli altri. La centralizzazione del potere ebbe come risultato lo scoppio di frequenti lotte per il trono combattute dall’aristocrazia. Questo rafforzamento del potere regio comportò un indebolimento del controllo militare sul territorio, cosa che portò a sua volta alla sconfitta contro gli islamici nel secolo successivo. Le isole britanniche nel VII secolo restarono caratterizzate dalla frammentazione politica, anche in presenza di una rete di monasteri molto forte a cui era affidata al cura delle anime. La struttura politica. Era molto frammentata e si cercò di rimediare con una teoria giuridica distinguente diversi livelli di dominazioni. Il VII secolo britannico è segnato dal processo di cristianizzazione e dall’apertura ad influssi dalla Gallia. Rimase basso il livello di urbanizzazione. Sono attestati molti regni di diversa dimensione e importanza. Il principale cronista del tempo, il monaco Beda mostra di pensare all’Inghilterra come uno spazio unitario di civiltà. Esisteva una pluralità di regni a livello di importanza, tra cui i più importanti: Mercia e Northumbria, e altri come l’East Anglia, Wessex, Sussex, Essex e Kent. Tra il VII e il VIII si affermò il regno di Mercia su tutti i r ogni meridionali, cioè tutti tranne la Northumbria. Solo nel IX secolo potremo constatare l’esistenza di un regno inglese unitario. Nel regno dei franchi ci dobbiamo concentrare sul fatto che il territorio a partire dal VII secolo va incontro ad una parziale riduzione, anche se rimane un regno molto esteso (tutta la Francia e parte della Germania). I merovingia erano ritenuti i soli possibili re, per via della loro grande ricchezza e della loro politica matrimoniale condivisa con re di altri regni. Il controllo di questi sovrani era comunque discontinuo dato che il regno franco non aveva una capitale fissa e la corte del re si ritrovava così a muoversi lungo le diverse zone del regno in base alle emergenze militari. I pipinidi/carolingi emersero dall’aristocrazia franca del regno di Austrasia. Nel VII secolo nel contesto della lotta per il trono interna alla famiglia dei merovingi Pipino di Landen e Arnolfo di Metz appoggiarono Clodoveo II venendo ricompensati rispettivamente con la carica di maestro di palazzo del regno di Austrasia e vescovo di Metz. Il maestro di palazzo era il posto più elevato nel regno al di sotto del re. Era il capo della corte regia, colui che coordinava la vita politica intorno al re e attuava le decisioni regie. Diventò presto uno degli obiettivi principali della dinastia pipinide. Carlo martello nell’VIII secolo ricoprì contemporaneamente il ruolo di maestro di palazzo sin tutte le regioni del regno. Non fu comunque possibile per i pipinidi prendere il potere regio, nel 656 appartenevano alla chiesa e quelle signorili, oltre al fatto che non tutte le curtis regie osservavano questo ideale, in quanto questo era e nulla più quello delineato nel Capitulare de villis. Le fonti ci raccontano di mercati settimanali, confluenza dei prodotti curtensi nelle città e moneta nelle mani dei coloni. Capiamo i meccanismi economici se consideriamo che i proprietari franchi erano molto più ricchi rispetto ad altri aristocratici, e questa ricchezza derivava dall’estensione delle loro terre, da cui l’elevata pressione produttiva a cui venivano sottoposti i contadini e i servi, e di conseguenza l’appropriazione di elevati surplus di lavoro da spendere sul mercato. La curtis era dunque un sistema per gestire questa ricchezza: una insieme di scelte gestionali destiniate a offrire ai proprietari la massima redditività. Infatti anche se il commercio era debole non lo era del tutto, e i centri economici esistevano: la città era la domanda e la curtis era l’offerta. Le curtis stesse diventavano sedi di mercato, grazie alla potenza dei signori che erano i grado di portare grandi quantità di prodotti e dunque fissarne anche i prezzi. Abbazie come Nonantola o Bobbio erano in grado di portare sul mercato masse imponenti di grano o vino. I proprietari terrieri erano dunque figure attive sul mercato, e i contadini? qualera il ruolo del censo dovuto ai proprietari? I censi in natura, in prodotti e moneta non sono da dividere tra loro secondo un andamento progressivo o dividere ii vari modi di pagare il censo tra baratto e scambio economico. Per il proprietario poteva essere più retributivo raccogliere il censo in natura, al fine di accumulare prodotti da rivendere sul mercato. Tra i grandi proprietari troviamo anche i monasteri e la chiesa in particolare. Questi raggiungevano l’autosufficienza non entro le singole curtis, ma entro il patrimonio che comprendeva curtis in più luoghi. Il meccanismo economico è da introdurre in un contesto monetario affermatosi nei primi decenni dell’espansione carolingia che vedeva protagonista la libbra d’argento da 400g, divisa in 20 solidi e a sua volta divisi in 12 denari. Queste monete erano diverse solamente rispetto al loro valore di conto, in quanto a materiale era usato solamente l’argento. Questa moneta non era per l’utilizzo quotidiano, ma per il commercio. Il diffondersi delle monete sono segnali dell’apertura di rotte commerciali in Europa, in particolare in Europa settentrionale. Monete franche compaiono in Inghilterra e Frisia nell’VIII secolo, è un indizio del coinvolgimento di queste regioni in una rete di scambi che trovava polarità nell’Austrasia franca e si ampliava verso il Mare del Nord. Questo faceva parte di un processo di affermazione dell’egemone franca, in questo rientra anche la conversione piena dell’Inghilterra al cristianesimo, le missioni di Wynfrith verso l’attuale germania, la sottomissione dei Sassoni da parte di Carlo Magno e lo sviluppo di una rete commerciale che coinvolse le coste del mare del Nord. Grazie alla crescente pressione aristocratica sui contadini tramite l’organizzazione curtense, la popolazione dei centri urbani si consolidò soprattutto nelle parti settentrionale del regno come la Nustria e l’Austrasia, in città come Parigi, Colonia, Maastricht e Treviri, ma anche uno sbocco commerciale sulle sponde del mare del nord. Le popolazioni al di là di questo mare non possedevano vino o ceramica, per le quali gli unici canali di approvvigionamento erano i franchi stessi. Nascono nuovi centri urbani: gli emporia, finalizzati proprio allo scambio commerciale. Bisogna distinguere le varie città che si affacciavano sul mare del nord. Nel regno franco in centri come quentovic (estremo nord della Francia non lontano da Calais), e Dorestad (sul Reno, nella regione di Utrecht) gli emporia si estendevano su centri urbani pre esistenti, di cui costituirono uno sviluppo importante. In Inghilterra Londra e York erano diventati due città molto importanti dopo la rottura con l’urbanesimo romano del V secolo. In Scandinavia Ribe e Birka furono vere e proprie novità, in assenza di una precedente tradizione urbana. Altro evento commerciale erano le fiere che si tenevano con cadenza regolare in luoghi di rilievo politico o religioso come le fiere di Parigi, Saint-Denis o Piacenza. Al contempo i porti italiani iniziano una relazione commerciale con le diverse parti del Mediterraneo. I longobardi I longobardi in Italia Potremmo definire la dominazione longobarda come un regno germanico di seconda generazione, che si impose una secolo più tardi rispetto agli altri regni, e di conseguenza si trovava in un contesto diverso, di egemonia franca sui territori occidentali e di profonda ridefinizione dell’impero orientale. È probabile un origine scandinava dei longobardi, che nel I secolo si spostarono in Germania settentrionale, poi Pannonia (attuale Ungheria tra IV e V secolo). Qui i longobardi si inserirono vincendo le ostilità dei Gepidi, per poi subire le pressioni degli Avari, al tempo stesso stipularono un foesdus con l’impero combattendo come mercenari senza però inquadrarsi nell’esercito imperiale. La conquista dell’Italia del 568 assunse caratteristiche migratorie poiché insieme all’esercito si spostò l’intero popolo longobardo, ovvero anche le donne e i bambini. I longobardi erano infatti un popolo guerriero, il cui esercito era formato da tutti i maschi adulti liberi, e la migrazione verso l’Italia per via della sua debolezza politica e grande ricchezza, attirò a sé altri popoli desiderosi di bottino, e che si riconobbero nella figura del re longobardo Alboino, accelerando il processo di etnogenesi longobarda tramite influssi di altri gruppi armati. L’esercito longobardo era diviso in farai dal tedesco fahren che erano gruppi armati uniti in solidarietà militare e guidati dai duces, dotati a loro volta di grande autonomia, la quale verrà alla luce nell’espansione longobarda, in cui i duchi si spinsero verso Sud alla conquista di Spoleto e Benevento e tentarono anche una campagna oltre le alpi, ai danni dei franchi che però li respinsero. Durante la loro discesa in Italia individuarono delle sedi fisse su base del tutto autonoma rispetto al potere del re. Si parla dunque non di ducati veri e propri ma sedi ducali, poco definite territorialmente, in quanto il potere di un duca si estendeva fin dove non andava a scontrarsi con un altro duca. Il re longobardo doveva essere forte fisicamente e un valente guerriero, e queste erano le prerogative per la scelta dei duchi, infatti il re longobardo era elettivo, scelto dall’assemblea dell’esercito ma di fatto dai duchi. Dopo la conquista dell’Italia 568-569, Alboino viene ucciso nel 572 in una congiura. A lui succede Clefi che regna solo per due anni, prima di essere ucciso. Dal 572 al 584 i Longobardi rimasero senza un re dato che l’impegno militare era finito e i duchi ritennero che un re sarebbe stato solo d’intralcio al loro potere. Le pressioni dei Franchi costrinsero i duchi ad eleggere un nuovo re nel 584. Il re che scelsero fu Autari, figlio di Clefi, scelto per la sua ascendenza. D’ora in poi i longobardi ebbero sempre un re, scelto su base a volte dinastica a volte elettiva. Fino a quando il potere passò alla vedova Teodolinda che sposò il duca Agilulfo: da questo momento in poi i re successivi discendevano per la maggior parte da questa coppia. La costituzione dell’egemonia regia si compì tra il VII e VIII secolo. Allo stesso tempo si cerca di individuare una capitale, e la scelta ricadde su Pavia, dato che Roma e Ravenna erano precluse poiché appartenevano all’impero. Pavia era già stata residenza di Teoderico, e la preferirono a Milano, e divenne sede degli organismi che facevano capo al re e lo rimase fino all’XI secolo. I centri politci e militari dei Longobardi furono le città, il declino delle quali non era dovuto interamente alla conquista longobarda, ma era la manifestazione del mutamento delle funzioni cittadine nel passaggio da una politica fiscale a quella altomedievale. Longobardi e Romani Partiamo dalla coppia Teodolinda e Agilulfo: nessuno dei due era longobardo di sangue, la prima era bavara e il secondo era turingio, e questo dice molto sulla flessibilità etnica del potere longobardo. L’identità longobarda dunque non era qualcosa di dato stabilmente ma soggetta a un continuo processo di costruzione. Un segno di questo processo di etnogenesi è dato dalla redazione della cosiddetta orino genesi Longobardorum, un racconto dell’origine dei longobardi fino alla costruzione del regno d’Italia. L’oggetto del racconto è il momento ordinario dell’identità del popolo dei longobardi, e viene scritto un secolo dopo lo stanziamento in Italia, rispondendo all’esigenza di stabilire la coesione etnica indebolita dall’assimilazione con la popolazione romana. Il termine Romani sembra riferirsi agli abitanti delle terre ancora in mano imperiale. Al momento dell’invasione dei longobardi i ceti aristocratici romani vennero emarginati, persero le loro ricchezze poiché ne vennero espropriati. Vennero costretti ad emigrare nelle terre imperiali e a riunirsi attorno alle sedi vescovili di Ravenna e Roma. Nel giro di qualche generazione la contrapposizione Longobardi-Romani venne meno tramite la convivenza, i matrimoni misti e l’assimilazione degli stili di vita fino a culminare nell’VIII secolo in cui l’appartenenza la popolo e esercito longobardi era una questione territoriale e non etnica. La religione longobarda al tempo della discesa in Italia era paganesimo tradizionale e cristianesimo ariano, caratteristica germanica di influenza romana (l’arianesimo fu condannato a Nicea nel 325). Non si delineò una vera e propria contrapposizione tra cattolici e ariani, ma l’arianesimo divenne un perno attorno a cui i Longobardi poterono consolidare una propria identità etnica distinta dai Romani: all’interno delle città c’erano vescovi e sacerdoti ariani al fianco di quelli cattolici, come dice Diacono del regno di Rotari, re ariano. Teodolinda è il simbolo della fluidità dell’identità longobarda, dato che non solo non era longobarda ma era anche cattolica. Al suo fianco Agilulfo restò ariano, ma acconsentì al battesimo cattolico del fidlio Adaloaldo e appoggiò la missione di Colombano e la sua fondazione dell’abbazia di Bobbio nel 614. Nel popolo della corte abbiamo dunque una lunga convivenza di arianesimo e cattolicesimo, con una lieve tendenza verso il cattolicesimo. Solo nell’VIII secolo il regno longobardo fu totalmente cattolico. Nonostante questo i vescovi non furono mai obiettivo politico per le élite del regno dato che non furono capaci di inquadrare i sudditi entro l’autorità del re. La lenta e contrastata conversione al cristianesimo contribuì all’ostilità del vescovo di Roma nei confronti del regno longobardo. dell’Italia del sud riunendo le dominazioni di origine longobarda e bizantina del continente e annettendo poi la Sicilia araba. Impero carolingio, ecclesia carolingia Dal regno all’impero Il regno merovingio tra il VII e VIII secolo vide l’affermarsi dei pipinidi tramite l’iniziativa militare, la costruzione di una rete clientelare nell’aristocrazia dell’Austrasia e l’occupazione della carica di maestro di palazzo nei diversi regni franchi, e infine la protezione a Wynfrith. Dunque se Pipino il III depose Childerico III fu solo per via dell’esistenza di una costruzione di potere anteriore. Per come viene narrata la storia negli annali del regno dei franchi si racconta che il papa Zaccaria diede la sua benedizione al re pipinide prima ancora dell’incoronazione, am questo è considerato inattendibile dagli storici, dunque si pensa che l’incoronazione sia stata voluta dalla grande aristocrazia. Il colpo di stato portò a rinchiudere Childerico in un monastero, tagliargli la lunga chioma e facendo ungere re Pipino da Wynfrith, iniziando una nuova tradizione derivante dalla bibbia e dall’unzione di David. Dopo venne anche l’unzione di Saint Denis di papa Zaccaria a Pipino e ai suoi figli Carlo e Carlomanno. Ora pipino godeva del titolo di patricius, il protettore di Roma. Al contempo Pipino era preoccupato di ottenere legittimazione del suo potere, dunque si affrettò a commissionare gli annali che abbiamo citato prima, una seconda unzione da parte di Stefano II, e l’alleanza stabile con Roma. Venne creato ad hoc l’argomento dei merovingi re fannulloni, che continuò ad essere alimentato fino a cinquant’anni dopo il colpo di stato di Pipino. La sconfitta dei longobardi non portò alla conquista franca, dunque non scoppiarono guerre tra franchi bavari e longobardi anche grazie alle politiche matrimoniali messe in atto dalla vedova Bertrada in cui i figli Carlo e Carlomanno sposarono le figlie del re Desiderio. Dopo la morte di Carlomanno Carlo si mosse in una più chiara prospettiva di espansione. Cominciò dunque la campagna d’espansione militare che valse a Carlo il soprannome di Magno, che lo portò a conquistare gran parte dell’Europa Occidentale che comprendeva Francia, Olanda, Germania, Svizzera, Austria, Italia settentrionale. La conquista più importante fu quella dell’Italia perché fu quella che garantì a Carlo l’alleanza con il papa e che gli valse la trasformazione del regno in impero. l’Italia da parte sua non venne conquistata in intera parte, ma solo la parte settentrionale, mentre continuavano a esistere parti soggette all’impero bizantino, il ducato di Benevento prima autonomo poi sotto l’influenza dei Normanni a partire dal XI secolo, e la parte appartenente a Roma, ovvero il Lazio e Romagna. La conquista della penisola iberica fu modesta: una serie di conflitti si succedettero dal 778 (sconfitta dei franchi inflitta dai baschi a Roncisvalle) all’813 in cui si costituì la Marca Hispanica, fascia territoriale immediatamente a sud dei pirenei nel regno franco. Più incisive le campagne a Oriente in particolare contro i Sassoni, iniziaste nell’VIII secolo per assoggettare un popolo bellicoso e forte militarmente già autore di diverse incursioni in Occidente. Quando salì al potere Carlo la campagna divenne di vera e propria conquista, dotata anche di una connotazione religiosa (i sassoni erano pagani), dunque nel 772 Carlo Magno fece distruggere l’Irminsul, un idolo di grande importanza per la religiosità sassone. La guerra vide la fondazione di diverse diocesi all’interno del territorio sassone, contro cui la guerra continuò dal 772 all’803. La Baviera fu posta sotto stretto controllo per limitare le mire autonomistiche del duca Tassilone, vassallo dei re carolingi. Venne anche costruita una grande circoscrizione politico militare, la cosiddetta marca orientale, destinata a tenere sotto controllo le popolazioni slave pagane estranee al dominio carolingio. Il dominio carolingio si estendeva fino alle marche che erano zone di confine in zona iberica e austriaca in particolare, che Carlo usava come luogo di comunicazione con i popoli estranei all’impero. Nel caso della marca austriaca carlo sconfisse gli avari e impose l’egemonia franca alla popolazione degli slavi resa possibile dalla presenza militare nella marca. Carlo fece inoltre costruire una fortificazione conto le incursioni danesi intorno alla zona del mare del nord. Il papato, dopo la socnfitta longobarda, si impegnò nel rafforzamento dell’egemonia in Italia centrale, ma ad un certo punto Leone III dovette rifugiarsi in territorio franco perché minacciato dai suoi oppositori. Carlo pose Leone sul soglio papale e in cambio Leone III incoronò Carlo imperatore, imponendo la figura di Carlo come superiore a qualsiasi altro sovrano in Europa. Incoronare carlo imperatore era molto utile anche al papa che aveva bisogno del suo appoggio sia contro i nemici esterni in Italia che contro i nemici interni alla società romana. La nozione chiave non fu quella di impero ma di imperatore. Rimase comunque viva una certa tensione fra papato e impero: alla fine del VIII secolo comparve un documento falso, la donazione di Costantino, che attestava la cessione al patto di tutte le regioni occidentali dell’Impero. Il papato non usò la donazione non rivendico il. Controllo su regioni che andassero al di là delle terre della Chiesa, ma la stessa creazione di questo documento indica che l’alleanza con i franchi non era l’unica opzione politica per la Chiesa. L’incoronazione di Carlo Magno inasprì ulteriormente i rapporti di Roma con Bisanzio che già erano tesi per via della diffusione del movimento iconoclasta. Il titolo di imperatore era per definizione universale e dunque non era accettabile avere due imperatori, tra l’altro Carlo era inserito n continuità con Costantino in persona, e ciò non lasciava dubbi sulla sua ambizione universale. Inoltre la rivalità tra Bisanzio e i franchi era già iniziata prima dell’incoronazione pre via della scelta di espandere le missioni ad est, tenere concili ecclesiastici e di fondare una nuova capitale: Aquisgrana. Conti, vassallo liberi I rappresentanti regi sorvegliavano i sudditi e il potere regio. Il potere si fondava sul coordinamento dell’aristocrazia laica e delle chiese. L’aristocrazia laica era composta da conti, funzionari incaricati di governare a nome del re un territorio al cui interno assolvevano di fatto tutte le funzione spettanti al re come la guida militare, giustizia, prelievo. Alcune aree, poste ai confini o comunque militarmente delicate, erano organizzate in circoscrizioni più grandi, le marche, affidate ai marchesi. La forza dell’impero si fondava nella capacità di separare la loro potenza personale da quella esercitata a nome dell’imperatore. Conti e marchesi venivano assegnati a regioni lontane da quelle di provenienza, i suoi poteri personali erano nettamente distinti dai poteri derivanti dalla loro delega. Le cose cominciarono a cambiare dal IX secolo, quando le funzioni comitali divennero più stabili fino a diventare vitalizie e ereditarie. Questo legò insieme potenza dinastica e territoriale, portando le stesse famiglie a regnare sulle stesse terre per decenni. I legami tra re e realtà locali erano anche garantite dai missi regis, inviati del re. Le competenze di questi funzionari sono meno chiaramente definibili. Talvolta avevano ambito territoriale specifico, altre volte no. Alcune volte collaboravano con l’ordinamento comitale, altre volte erano da soli. L’ascesa al potere dei pipinidi si era fondata sullo stabilimento di un sistema clientelare a sfondo militare che era composto da tutta l’aristocrazia austrasiana. Questi rapporti di fedeltà personale si conformavano in maniera più definita entro la fine del VIII secolo, secondo il modello vassallatico. Ili vassallo era in origine una condizione sociale bassa al servizio di un signore, ma sotto Pipino III si constata un cambiamento del significato: divenga un uomo che giura fedeltà militare a un potente, impegnandosi a servirlo e a combattere per lui, ottenendo in cambio protezione e un sostegno economico. Un buon esempio è il duca di Baviera Tassilone vassallo di Pipino III, come viene raccontato negli annali del regno dei franchi. La rete di fedeltà passava attraverso tutta l’aristocrazia franca. I maggiori aristocratici basavano il loro potere sul seguito armato di cui si circondavano, questa era una rete clientelare di vassalli, fondata sulla fiducia personale. La stessa forza dei re carolingi era costituita dalla capacità di coordinare l’aristocrazia franca e di tradurre il coordinamento in forza militare, ponendosi al vertice del sistema vassallatico. Non tutti i vassalli regi diventavano conti, ma i conti venivano scelti tra i vassalli regi. Ludovico il Pio emise una legge secondo cui chi veniva nominato conte doveva prestare giuramento al re. Avere obblighi militari non significava avere compiti amministrativi. Le funzioni comitali erano un’estensione dei compiti vassallatici ma anche la possibilità di aumentare il proprio potere per gli aristocratici. I carolingi si muovevano con una prospettiva statale: volevano infatti costruire un apparato di governo centrale e locale tramite un sistema di deleghe e responsabilità. Il governo era il coordinamento dell’aristocrazia. il coordinamento si basava a sua volta sulla capacitò dei re di mantenere l’equilibrio fra redistribuzione di ricchezze e servizi resi dai nobili, ovvero i due termini del legame clientelare che univa la corona all’aristocrazia. Questa capacità venne meno nell’IX secolo. Altro motivo di vanto per i re carolingi era la possibilità di poter eludere la connessione con l’aristocrazia e dialogare direttamente con i pauperes, i poveri dal punto di vista economico. Ci sono molti documenti di gruppi di contadini che si rivolgono al conte o al re per chiedere di essere difesi da un potente che cerca di sopraffarli, molto spesso la chiesa. I gruppi rurali potevano dunque accedere liberamente alla giustizia regia. Le chiese carolingie I chierici non potevano diventare conti, poiché non potevano portare la spada, dunque si vedono spesso nei panni di missi regi in cui il compito amministrativo e giudiziario prevaleva su quello militare. I vescovi si sentivano parte dello stesso progetto dell’imperatore che era quello di garantire la giustizia in territorio franco. Nella cooperazione vescovile con il potere imperiale venivano impiegate le diverse risorse della chiesa, come la direzione delle anime all’obbedienza al re, la cultura per redigere le leggi, le grandi la pietra di origine meteorica meta di pellegrinaggi. Sul piano religioso prevalevano forme di politeismo corrette da tendenze al monoteismo, come la gerarchia che conduceva ad un dio superiore. Muhammad nacque nel 570 a La Mecca da un ramo minore della potente tribù dei Quraishiti, e iniziò la sua predicazione religiosa nel 612 in seguito ad alcune visioni che lo convinsero di essere il profeta incaricato di declamare la parola di Dio. Il Corano, che deriva dalla trascrizione della predicazione di Maometto che venne messa per iscritta solo in seguito alla sua morte, è direttamente la parola di Dio. La predicazione di Maometto era un pericolo per l’aristocrazia della Mecca poiché questa giovava molto dai pellegrinaggi verso la Ka’ba, che erano politeistici. Dunque Maometto fu costretto a scappare a Yathrib, dando inizio ad uno dei momenti fondativi dell’Islam, cioè l’Egira, che portò a cambiare il nome della città a Medina, ovvero città del profeta. Maometto qui radicalizza le sue posizioni politiche, riunisce sotto la umma, la comunità dei fedeli, un gruppo etnicamente diversificato che andò a costituire un’organizzazione politico-militare che gli permise di ritornare a La Mecca dove seppe coinvolgere i Quraishiti più potenti e modificare il culto della Ka’ba in senso monoteistico. Alla morte di Muhammad la religione islamica aveva assunto un ruolo guida alla Mecca e nell’intera penisola araba, un potente fattore di coesione ideologica che permise di dare unità politica a forse prima disperse e su questa base avviare un’azione militare che nel giro di pochi anni sottomise agli arabi territori di straordinaria ampiezza. I successori di Muahammad, i califfi, a partire dagli anni 30 cancellarono l’Impero persiano e ottennero importanti vittorie ai danni di Bisanzio conquistando Siria e Palestina e avviando la conquista del nordafrica a partire da Alessandria d’Egitto. Cartagine cadde nel 698, fino a conquistare nell’VIII secolo la Spagna visigota. L’espansione si arrestò nel 717-718. I limiti territoriali si attestano in seguito alla conquista della Spagna e alla sconfitta subita a Costantinopoli, ma si espansero a Oriente in Uzbekistan e alla valle dell’Indo. Si contrapposero fin dalla morte del profeta, tre fazioni: • I sunniti che si rifacevano alla sunna, la tradizione, ritenevano che il califfo dovesse essere eletto sulla base del consenso degli anziani all’interno della tribù di Muhammad. • Gli sciiti, seguaci di Alì (cugino e genero di Muhammad) che davano la massima importanza al carisma familiare e ritenevano che il califfo dovesse essere scelto all0interno della famiglia del Profeta. • I Kharigiti su posizioni in qualche modo opposte perché ritenevano che il califfo dovesse essere scelto solo per merito. La rottura si realizzò nel 661 con l’uccisione di Alì e l’ascesa al potere dei sunniti, e la funzione callifale fu assunta dalla tribù degli Omayyadi, il cui potere si estese su gran parte della penisola anche se rimasero attivi alcuni centri settori in opposizione, che si rifacevano cioè all’autorità di Alì. Gli Omayyadi posero fine al califfato elettivo e mantennero il potere fino al 750, fu sotto i primi Omayyadi che si completò l’espansione territoriale dell’Islam. Per gli Omayyadi l’Islam era la religione degli arabi, e questo li pose in rapporti difficili con le popolazioni sottomesse. All’interno della società islamica esistevano due disuguaglianze: arabi e non arabi e islamici e non islamici. La divisione di fede non si tradusse in persecuzione, ma nell’obbligo dei non islamici di pagare una tassa specifica. La divisione interna ai fedeli islamici non era invece formalizzata e il sistema di potere islamico era un sistema in cui i nuovi fedeli potevano integrarsi solo legandosi come clienti a una tribù araba. Sotto il regno degli Omayyadi il centro politico divenne Damasco, in Siria, riducendo Mecca e Medina a semplici città religiose, inoltre tra il VII e VIII secolo si sistemò definitivamente la religione islamica, nel momento di maggiore espansione dell’impero arabo e dunque risentendo di parecchie influenze esterne derivanti dai popoli conquistati. Nonostante queste influenze l’Islam si impose come religione araba, in quanto si sviluppo parallelamente all’espansione della cultura e della lingua arabe su tutto il territorio conquistato. Questo processo troverà il suo compimento con l’ascesa al potere degli Abbasidi e con lo spostamento del centro califfale a Baghdad. La perdita di Tunsia ed Egitto fu un duro colpo per l’Impero Bizantino, che dovette dare maggiore importanza alla Sicilia e ridisegnare i suoi orizzonti politico-militari. Dal punto di vistas amministrativo e fiscale il califfato fu un erede del sistema imperiale. Bisanzio: crisi e organizzazione dell’impero L’espansione dell’Islam sottrasse all’impero bizantino ampi territori del mediterraneo orientale e meridionale, privandolo dunque del sostegno economico di alcune delle zone più produttive dell’impero. Allo stesso tempo l’ascesa dei carolingi si oppose ideologicamente alla continuità imperiale che deteneva Bisanzio, in quanto l’imperatore per essere tale avrebbe dovuto essere uno solo. L’impero bizantino dunque nasce in seguito al questi stravolgimenti politici del VII e VIII secolo, i quali gli tolsero la prospettiva universale ma lo rafforzarono dal punto di vista regionale polarizzata intorno all’Egeo e attorno alla capitale, per la quale appare la definizione di Impero bizantino. Per comprendere i mutamenti di questa fase bisogna guardare la crisi post-giustinianea, in cui le conquiste militari erano risultate effimere, le pressioni dei popoli ostili più forti e le tensioni interne all’esercito per mancanza di stipendi sempre più intense. Infine le tensioni religiose avevano reso difficili i rapporti sia con la cristianità occidentale che con le popolazioni monofisite ai limiti dell’impero, condannati a partire dai concili del V e VI secolo. Svolta militare con Eraclio che sconfisse l’impero persiano, che fu tuttavia la premessa per la vittoria del dominio islamico. Con Eraclio si ebbe una grande riforma del sistema amministrativo che introdusse il sistema di ordinamento tematico. Se nei primi secoli dell’impero si conservavano la netta separazione tra potere amministrativo e potere militare e dall’altro un esercito stipendiato grazie alle tasse prelevate nelle province cerealicole. La riduzione territoriale e la costante pressione militare suggerirono agli imperatori di consegnare poteri amministrativi ai comandanti militari in alcune regioni dell’impero. Si abbandonò il sistema provinciale di Costantino in favore dell’organizzazione per temi: il tema era in origine un termine militare ma finì per indicare un particolare tipo di struttura istituzionale di una particolare regione. I militari assegnati a queste terre non venivano stipendiati ma venivano concesse loro terre e esenzioni fiscali. La causa di questo fu la conquista da parte islamica delle regioni più produttive dell’impero, cioè Egitto e Tunisia. Leone III nel 730 vietò con un editto la venerazione delle immagini sacre, aderendo all’orientamento iconoclasta alla ricerca di una religione più austera che ricollocasse l’imperatore al centro della mediazione religiosa, eludendo dunque il culto delle immagini. la pressione militare richiedeva la massima coesione intorno alla figura dell’imperatore, e la scelta dell’iconoclastia doveva servire a favorire proprio questo. Tuttavia questo non accadde, anzi creò molte divisioni all’interno e all’esterno dell’impero per via del fatto che le immagini sacre erano estremamente importanti nel culto monastico e laico, e all’esterno per via del fatto che questa scelta poneva in netta contrapposizione la chiesa di Bisanzio con quella di Roma. La condanna formale del culto delle immagini arrivò nel 754 durante il concilio di Hierea, sotto il regno di Costantino V. Il concilio fu però subito messo in discussione per via del fatto che a esso non parteciparono vescovi di chiese occidentali, né degli altri patriarcati orientali: fu una scelta della sola chiesa bizantina, dei vescovi compresi nei soli territori dell’impero. I più feroci oppositori di questa decisione furono i monaci, che furono costretti a fuggire per via di persecuzioni. La pressione si attenuò con Leone IV asceso al trono nel 775 e con la vedova Irene che assunse la reggenza in nome del figlio. Il concilio di Nicea del 787 riaffermò il culto delle immagini, ma ciò non pose fine alle tensioni fra i sostenitori di una tesi e quelli dell’altra. L’iconoclasmo fu riaffermato in forme più moderate già nell’815 ma in questi anni la sua funzione politica andò esaurendosi: il potere dei monaci appariva ora ridotto, era stata riaffermata l’assoluta centralità del potere imperiale di derivazione divina, ed erano infine complessivamente sotto controllo le minacce militari esterne. Nel concilio di Costantinopoli dell’843 l’iconoclasmo fu condannato definitivamente. La rottura con roma fu ricomposta infatti solo durante il IX secolo con la condanna dell’iconoclasmo. Questa vicenda si inserì nella lunga serie di allontanamenti e avvicinamenti che segna la storia del rapporto tra patriarcati di Roma e Costantinopoli. Le articolazioni del mondo islamico e bizantino Nel 750 si compì un cambio di potere ai vertici del califfato: gli Omayyadi furono deposti dagli Abbasidi, discendenti da uno zio du Muhammad. Gli Abbasidi rimasero al potere fino al XIII secolo, spostarono la capitale da Damasco a Baghdad, fecero perdere al dominio islamico la connotazione etnica araba, in favore di quella esclusivamente religiosa. Il dominio abbaside articolò diversamente il potere politico rispetto agli Omayyadi, garantendo maggiore autonomia agli emiri (i funzionari assegnati alle varie parti del dominio islamico) tanto che Al-Aghlab fu concesso di trasmettere la dignità all’interno della propria famiglia, gli Aghlabiti che mantennero il potere in Nord Africa per un secolo e mezzo e realizzarono la conquista della Sicilia, mentre l’emiro dell’Egitto si rese del tutto autonomo insieme alla sua famiglia, i Fatimidi che rivendicarono per loro stessi il titolo califfale (910) che conservarono fino alla fine del XII secolo. La dominazione della Spagna meridionale da parte degli arabi fu condotta in armonia con i regni cristiani, e fu portata avanti da un emiro scappato dal collo di stato che portò alla salita al trono degli abbasidi. Soprattutto l’emirato di Al-Andalus contenne una popolazione molto variregata, che comprendeva l’aristocrazia araba, le truppe berbere provenienti dal Nordafrica e stanziate qui al Mediterraneo, Ungari, risiedenti nelle steppe dell’attuale Ungheria, e i Normanni, provenienti dalla Scandinavia. Questi gruppi non invasero Francia Germania e Inghilterra con campagne militari di massa, ma con spedizioni minori volte al saccheggio. I saraceni erano un gruppo di etnia mista dedito alla pirateria nella zona meridionale del Mediterraneo già a partire dagli anni 60 del IX secolo. Il salto di qualità avvenne alla fine del secolo con la fondazione di basi permanenti sulla costa settentrionale del Mediterraneo, la principale essendo Fraxinetum, nella baia di Saint-Tropez, da cui partirono spedizioni di saccheggio nell’entroterra e sulle Alpi che cessarono solo dopo il 972, quando il conte di Arles e il marchese di Torino si allearono per distruggere la base saracena. Ci sono pervenute solo testimonianze prodotte nelle chiese e nei monasteri, che attestano un’atmosfera di paura e insicurezza, oltre che di malcontento per l’incapacità di porre freno alle violenze di queste bande di guerrieri. Tra la metà del IX e la metà del X si contano 30 spedizioni ungare in Germania e in Italia. Questa popolazione si spostava a cavallo attraverso l’Europa Orientale e sempre a cavallo combatteva, fino a spingersi dentro il territorio carolingio e saccheggiare importanti città come Pavia o la Lorena. Nelle dure lotte politiche che segnarono il regno italico nella prima metà del secolo X i diversi aspiranti al trono assunsero gruppi ungari perché combattessero al proprio servizio. Furono i cambiamenti politici interni al regno post-carolingio che portarono alla fine delle incursioni ungare: nel 955 nella battaglia di Lechfeld condotta da Ottone I di Sassonia forte di un nuovo e più efficace controllo sul regno di Germania, gli ungari vengono sconfitti e comincia una fase di trasformazione del loro regno ad opera di Ottone. Nei decenni successivi le scorrerie cessarono e gli Ungari si convertirono al cristianesimo, l’Ungheria divenne stabile alleata della Germania. Lo sviluppo degli scambi nel mare del Nord aveva stimolato la mobilità dei popoli scandinavi su due livelli: commercio e pirateria. Questa mobilità si sviluppò in tre direzioni diverse: Russia, Inghilterra e le coste settentrionali dell’Europa. In queste zone popolazioni affini vennero identificate con nomi diversi: in Russia Vareghi, in Inghilterra Vichinghi e in Francia Normanni. A est prevalse la dimensione commerciale, le navi a fondo piatto permettevano di salire grandi fiumi consentirono un commercio in profondiità ai Vareghi che vennero anche chiamati Rus. Questi seppero trasformare la loro attività commerciale in stanziamento stabile fondando emporia che dovevano fungere da luoghi di scambio, e che si costituirono col tempo come insediamenti abitativi, che crebbero demograficamente fino a che alcuni di essi come Kiev e Novgorod assunsero centralità politica nei confronti del territorio circostante e nel corso del X secolo diedero vita a costruzioni politico territoriali autonome. Il principato di Kiev divenne uno delle maggiori dominazioni dell’Europa Orientale. In Occidente l’azione militare dei Normanni può essere scandita in tre fasi: • Prime operazioni di rapina sulle coste dell’Inghilterra e della Frisia a partire dai primi decenni del IX secolo. • Decenni centrali del secolo le incursioni crebbero di scala con flotte di decine di navi che permettevano di risalire i fiumi e attaccare Londra (851) o Parigi (855). • Alla fine del IX secolo le incursioni si trasformarono in insediamenti stabili all’interno dei regni inglesi della Mercia e dell’East Anglia e nel nord del regno franco, attorno alla foce della Senna; quest’ultimo fu riconosciuto dal re Carlo il Semplice che nel 911 investì di questa regione il capo normanno Rollone dando vita al ducato di Normandia. Anche in quest’ultimo caso si avviò un processo di assimilazione culturale e politica: i Normanni si convertirono al cristianesimo e il ducato divenne analogo agli altri principati territoriali che si spartivano il territorio francese e si coordinavano attorno al re, anzi divenne centro di stabilità militare poiché conteneva con la sua forza altre possibili incursioni normanne. Tra il X e XI secolo il mare del Nord era normanno, tra Danimarca, Scandinavia, Normandia e Inghilterra si confrontavano poteri regi diversi ma strettamente collegati da parentele e alleanze. Il re knut riuscì ad unificare nei primi anni del XI secolo i regni d’Inghilterra, Danimarca e Norvegia. Il potere dei re Il potere regio smise di disporre della legislazione di carattere generale a partire dal secolo X e XI, e si limitò invece all’elargizione di diplomi a singoli individui o comunità. Questo non significa che il potere regio fosse diminuito ulteriormente: possedeva ancora grandi ricchezze e poteva ancora occupare posizioni di forza con l’aristocrazia, ma non più in modo diretto: ormai le terre appartenenti ai signori dovevano essere riconosciute come autonome e la posizione regia era quella della constatazione attiva, ovvero del riconoscimento della proprietà aristocratica ma al contempo la conservazione del potere di indirizzare e legittimare la vita pubblica ivi amministrata. I diplomi regi erano ritenuti molto importanti dall’aristocrazia poiché servivano a legittimare i propri possedimenti oltre ogni dubbio e pretesa di signori rivali, inoltre si trattava di una concessione molto costosa in quanto poteva comportare un lungo viaggio alla corte del re e i doni da consegnarvi. La crisi post-carolingia non annullò il potere regio ma portò ad una ridefinizione del suo ruolo politico, fondata su alcuni caratteri comuni a tutti i regni, territori meno estesi, rapporti con aristocrazia, ridotta capacità di influenzare dinastie e chiese, impossibilità di manovra con leggi generali. Si formarono quattro regni: Germania Italia Francia e Borgogna. Non si trattava di stati odierni: con confini definiti e sistemi politici distinti. Le aristocrazie di ognuno di questi regni erano legate le une alle altre in modo molto profondo, e ciò impediva di separare le politiche dei diversi regni. La Borgogna si affermò alla fine del IX secolo come regno autonomo sotto il potere dei Rodolfingi, tra Alpi e Rodano, a cavallo di quelle che sono Francia e Svizzera francese. Nel 933 sotto Rodolfo II si conquistò la Provenza, ma la crisi dinastica iniziata con la morte di Rodolfo II aprì la strada ai re di Germania per affermare il patronato e il controllo sulla Borgogna, fino ad acquisirla completamente a partire dal 1034. Italia A partire dalla morte di Carlo il Grosso nell’888 l’Italia visse vicende parallele a quelle degli altri regni ex-carolingi. Alla fine della dinastia nessuno poteva vantare discendenze sufficienti a salire al trono per diritto, dunque dall’888 al 961 si estese una fase di scontri politici e militari molto violenta, che vedeva opposti principalmente i marchesi del Friuli e quelli di Spoleto. Berengario del Friuli fu incoronato re nell’888, ma fu sconfitto da Guido di Spoleto l’anno successivo, dunque Guido. Viene incoronato re nell’889 e imperatore nell’891. Berengario non scomparve ma si ritirò nelle sue terre, fino alla morte di Guido nell’894, anno in cui venne di nuovo incoronato re e poi imperatore nel 915, e regnò fino alla sua morte nel 924. Dovette fronteggiare gli attacchi di Lamberto di Spoleto (figlio di Guido) e di Ludovico di Provenza, che si risolsero con la morte del primo nell’898 e nell’accecamento del secondo nel 905. La battaglia non era solo tra questi aspiranti, ma tra gruppi parentali marchionali che cercavano di controllare la corona direttamente o indirettamente. A questo gruppo appartenevano Berengario, Guido e Lamberto, ma del tutto analoghi erano gruppi come i marchesi di Ivrea e di Tuscia. Settori della grande aristocrazia italica chiesero a Rodolfo di Borgogna di rivendicare la corona contro Berengario, e la battaglia fra questi due durò fino all’uccisione di quest’ultimo, che tuttavia non rese campo libero a Rodolfo che si trovò a scontrarsi con Ugo di Provenza, che lo sconfisse e lo costrinse a ritornare in Borgogna nel 926. Ugo tenne la corona fino al 946 fino a quando non la lasciò al figlio Lotario, il quale dovette fronteggiare le aspirazioni del nipote da parte di madre di Berngario I, il marchese d’Ivrea Berengario II. Alla morte di Lotario la corona passò a Berengario II nel 950, ma non era nemmeno questo un periodo di pace poiché Ottone I volle imporre la sua egemonia sull’italia, dunque affermò il suo controllo sul regno italico unendo i regni di Germania e Italia. Germania L’ultimo re carolingio dei Franchi orientali fu Ludovico il Fanciullo, che morì nel 911m lasciando il posto per re nuovi che non ereditarono la corona dai propri antenati. Il nuovo re veniva scelto dall’insieme dei duchi; ma tale principio dovette sempre convivere con tendenze dinastiche di famiglie aristocratiche. La storia di questo regno dal X secolo in avanti può essere letta nell’ottica della convivenza tra potere principesco e potere regio, elettivo e dinastico. Nei momenti di forza della corona era il secondo a prevalere ma sin mementi di crisi dinastica era il primo. Alla morte di Ludovico nel 911 divenne re Corrado di Franconia, che venne però osteggiato da alcuni settori dell’aristocrazia perché non era considerato un re valido, dunque si oppose a lui Enrico di Sassonia, con cui il re arrivò ad un accordo di non ingerenza del potere regio nei territori sassoni. Alla morte di Corrado Enrico venne scelto come nuovo re, e la corona si trasmise all’interno della dinastia dei duchi di Sassonia, fino alla morte di Enrico II nel 1024. Nel 925 Enrico sottomise il regno di Lotaringia (fascia tra Germania e Francia) e Ottone I conquistò l’Italia con una campagna iniziata nel 951. Ottone si ritrovò ad operare in un contesto molto complesso: le fazioni interne all’aristocrazia di chi sosteneva Berengario II e chi la regina Adelaide, vedova di Lotario, poi la fazione di Berengario, normanna e inglese entrarono a stretto contatto, e il potere regio diventò più centrale. La conquista araba della penisola iberica aveva dissolto l’unità visigota: la parte centrale e meridionale era diventata l’emirato di Al-Andalus, mentre a Nord si erano formati i regni delle Asturie e Pamplona/Navarra. La convivenza tra emiri e cristiani fu segnata indubbiamente da una tensione di fondo, ma che non portò né a tentativi di conquista integrale del territorio da parte degli arabi né di riconquista cristiana. I re cristiani cercarono di fomentare la lotta per il potere e l’instabilità politica sostenendo certe fazioni all’interno dell’emirato invece di altre. In patibolare a fare questo fu il regno delle Asturie, il cui centro politico si spostò da Oviedo a Leòn (diventò noto come regno di Leòn). Già dalla fine del IX secolo erano presenti le basi ideologiche della Reconquista spagnola, come l’opposizione militare su base religiosa, l’azione militare degli emiri come guerra giusta, eccetera. Nel X secolo l’emirato e i regni cristiani non erano entità contrapposte in modo assoluto, ma diverse realtà regionali protagoniste di un’intensa dinamica politica, non sempre fondata sullo scontro armato. Solo nell’XI secolo e in concordanza della prima crociata si ebbe la Reconquista come forma strutturata e ideologicamente organizzata di campagna militarereligiosa per l’espansione territoriale ai danni dell’emirato, che tuttavia raggiunse risultati solo a partire dal XIII secolo. Modelli di ordine sociale Il potere aristocratico dopo la caduta dei carolingi aveva iniziato a lottare non più per avvicinarsi al re ma per impadronirsi del potere regio, e questo li aveva resi i veri protagonisti della scena politica dei secoli X e XI. I re non erano più in grado di creare aspetti politici locali, ma solo di condizionarli o legittimarli. Gli esponenti dell’aristocrazia erano i discendenti degli ufficiali pubblici, le chiese vescovili e monastiche e i nuovi nuclei signorili. Ebbe inizio dunque l’elaborazione di nuove forme di amministrazione e di ordine sociale, che ebbe origine non nelle corti regie ma nelle sedi vescovili. Una trasformazione così profonda non incise sulle forme di vita a tutti i livelli am indusse i gruppi intellettuali a un ampio processo di riflessione sulle forme del potere: la questione chiave. Era come si potesse costruire un ordine in assenza di un efficace potere politico. Una trasformazione così profonda non incise solo sulle forme del potere: la questione chiave era come si potesse costruire un ordine in assenza di un efficace potere regio. Il modello più noto è quello trifunzionale: in breve nei primi anni dell’XI secolo due vescovi del Nord della Francia, Adalberone di Laon e Gerardo di Cambrai enunciarono la teoria che il corpo sociale dovesse essere diviso tra chi pregava, chi lavorava e chi combatteva. Il punto centrale era la reciprocità delle tre funzioni. Questa concezione aveva radici lontane, una fondamentale tripartizione della società la si vede negli strati più profondi della cultura indoeuropea; ed ebbe un lungo futuro, dato che fu ripresa in molti testi ed immagini. L’importante è notare che questa ideologia trovò nuova linfa dalla situazione politica del tempo, ovvero la debolezza del potere monarchico di Roberto il Pio (figlio di Ugo Capeto) che poneva in pericolo la chiesa di fronte alle scorrerie dei signori locali. Modello diverso era quello proposto dalle paci di Dio. Alcuni vescovi del sud della Francia a partire dagli ultimi anni del X secolo convocarono delle assemblee di chierici e laici destinate a ristabilire la pace in una regione. In queste assemblee venivano radunate reliquie in grandi quantità e su di esse veniva pronunciato un giuramento di rispettare le norme che avrebbero permesso il raggiungimento della pace. La novità non erano le norme in sé stesse, già affermate dalla legge carolingia, ma il fatto che fossero volute dalla collettività. La differenza maggiore era che se da un lato la violenza dei laici cercava di essere contenuta ripartendo le sfere della società a diversi compiti, dall’altro si cercava di farlo riunendo i corpi sociali. Nuove chiese e nuovi poteri La riforma della chiesa iniziò nel XI secolo ma nel X ci fu la riforma monastica di Cluny, e la diffusione di nuove forme di religiosità, a più chiaro orientamento eremitico, e dall’altro lato un maggiore coinvolgimento dei vescovi nelle strutture del potere locale. 909-910 il Duca Guglielmo d’Aquitania- un potente principe che controllava territori sparsi nel sud della Francia, dai Pirenei alla Borgogna fondò l’abazia di Cluny nella diocesi di Mâcon, e l’affidò all’abate Bernone. Nulla di nuovo, tra il X e XI secolo furono centinaia i monasteri fondati da nobili. La prima peculiarità di questa fondazione fu la rinuncia del duca a qualsiasi controllo sulla vita intera del monastero, e alla nomina dei futuri abati. Al contempo il monastero fu libera anche dal controllo del vescovo di Mâcon, poiché la benedizione del monastero era affidata direttamente al vescovo di Roma. Gli abati cluniacensi diedero una interpretazione molto specifica della regola, che arrivò a dare maggiore importanza alla liturgia e alla preghiera rispetto al lavoro manuale. La preghiera assunse dunque aspetti sempre più solenni e una speciale attenzione alla preghiera per i defunti. Queste caratteristiche assicuravano un alto beneficio spirituale a coloro che si trovavano nelle vicinanze di Cluny e dunque che ripagavano con ricchi versamenti di denaro e patrimoni fondiari. Fu dunque un modello di vita religiosa integrato al sistema di dominio aristocratico. Nel giro di pochi decenni i cluniacensi acquisirono una grande fama all’interno e all’esterno del regno di Francia, e questo spinse ad incaricare Oddone, il secondo abate, a riformare alcune abbazie antiche importanti in declino dal punto di vista della disciplina e della spiritualità (Fleury, San Paolo, San Pietro a Pavia). Altra grande novità che sarebbe derivata dalla innovazione cluniacense fu la costituzione di una rete di monasteri coordinati dall’abbazia borgognona, una congregazione di enti religiosi che riconoscevano la propria guida nell’abate Cluny. La congregazione era composta in parte da abbazie antiche che si sottoposero all’autorità di Cluny, ma per la maggior parte da priorati sprovvisti abati in quanto l’unico abate era quello di Cluny. Le basi della congregazione furono posti dal X secolo con gli abbazia di Oddone e Maiolo poi a cavallo tra ili X e XI secolo, poi di Odilone dal 994 e 1049: in tutto questo periodo l’abbazia ottenne grande prestigio. I priorati si diffusero così durante l’XI secolo ini Germania, Spagna, e Italia. Si diffuse anche il modello di congregazione che venne adottato dalla abbazia di fruttuaria in Piemonte, anche se nessuna raggiunse mai il prestigio di Cluny. Il punto massimo del trionfo cluniacense avvenne nel 1088 con l’elezione al soglio pontificio di Oddone, priore di Cluny, che assunse il nome di Urbano II. A lui si deve la proclamazione della prima crociata, fenomeno destinato a trasformare in modo importante i rapporti con il Mediterraneo. Oltre a Cluny altra. Esperienza. Riformatrice fu quella di Romualdo che si concentrò sulla vita eremitica, e che fondò nel 1023 il monastero di Camaldoli che manifestò una grande forma di attrazione dando vita a un movimento che dopo la morte di Romualdo trovò un punto di riferimento in Pier Damiani, grande figura del riformismo il cui impegno per la chiesa si coniugava con l’esperienza eremitica. Non si trattava in questi monasteri dell’ermetismo tradizionale ma un ermetismo comunitario che era nato in quanto il cenobitismo era considerato troppo legato al secolo. Comincia così un ideale di religiosità più legata alla penitenza e alla povertà, quando Cluny faceva vanto della sua ricchezza. Dopo la caduta del potere carolingio i vescovi assunsero pieno controllo delle città in quanto i funzionari nobili si rivolgevano sempre più ai loro terreni di proprietà. Un caso specifico del potere vescovile è il diploma concesso da Ottone I al vescovo di Parma nel 962. La concessione al vescovo uberto è enorme: Ottone gli assegnò tutti i beni fiscali compresi nella città e nel comitato, le mura, ogni diritto di prelievo in città e per una fascia di tre miglia attorno il potere giudiziario sugli abitanti della città. In pratica il vescovo ottenne tutti i poteri spettanti al conte. Il diploma concesso al vescovo di Parma era uno dei tanti concessi alle sedi vedovili da parte degli Ottoni, che consegnavano queste concessioni al partito più favorevole agli interessi imperiali. Dal punto di vista regio il senso politico. Di queste operazioni si coglie considerando i meccanismi di trasmissione del potere comitale. I conti sapevano di essere ancora detentori di cariche derivate dal potere regio, ma il vincolo che li univa al re si era molto indebolito. Era più conveniente per il re concedere poteri al vescovo in quanto questi non poteva avere eredi legittimi e inoltre intervenire eventualmente sulla successione dinastica di un conte sarebbe stato troppo radicale, anche per un re potente come Ottone III. Altro importante elemento dei vescovi era che avevano legami importanti con la società e i ceti eminenti, in quanto gli aristocratici di livello più elevato erano al contempo i chierici che affiancavano il vescovo, o in alternativa la clientela vassallatica vescovile. Queste famiglie fungevano da guide militari e intermediari dell’autorità vescovile sulla società. I diplomi potevano essere concessi al vescovo e ai suoi concives, come accadde nel caso del diploma concesso da Enrico II nel 1014 al vescovo di Savona e ai cittadini di Savona tutelando questi dalle ingerenze di conti e marchesi. Spesso i diplomi confermavano semplicemente un processo già iniziato da anni, come nel caso degli arcivescovi di Milano, che agirono al comando della città e di una vasta clientela vassallatica pur senza ottenere mai un diploma imperiale che ratificasse tale potere. Le concessioni si concentrarono nell’età dei re sassoni da Ottone I a Enrico II per attenuarsi nei secoli centrali del XI secolo, quando il rapporto tra impero e vescovi fu intaccato dalla riforma. Qualche anno dopo lo scisma si aprì la questione delle elezioni dei papi. In assenza di procedure certe ogni elezione poteva essere contestata. Così successe per esempio al momento dell’elezione di papa Benedetto X, nobile romano imposto dalla famiglia dei tuscolani in un momento di debolezza dell’impero. Il breve pontificato di Benedetto X portò alla reazione di un gruppo di intellettuali riformatori che prese in mano la reazione, contestando le modalità irregolari della sua elezione. In particolare Ildebrando di Soana nominato da Leone IX amministratore della chiesa romana e al servizio di tutti i papi riformatori di quei decenni. Ildebrando acquisì tanto potere da imporre come papa il vescovo di Firenze Gerardo che fu eletto sotto il nome di Niccolò II. Il nuovo papa una volta consacrato presentò nel concilio di Roma del 1059 un diverso sistema di elezione del papa che limitava il diritto di voto ai cardinali vescovi, lasciando uno spazio ambiguo al potere imperiale. La sottrazione dell’elezione papale dal ristretto ambito romano contribuì a dare un rilievo universale al papato. Fu in questo contesto che si svolse il pontificato di Ildebrando di Soana, salito al trono papale con il nome di Gregorio VII. Il momento del conflitto Sotto il pontificato di Gregorio VII si raggiunse il massimo conflitto tra papato e impero. L’obiettivo del papa era l’inquadramento dell’intera società e dei poteri laici in una gerarchia unica con al vertice il papa. Ildebrando di Soana aveva partecipato attivamente a tutte le grandi battaglie riformatrici dell’XI secolo, fino alla sua elezione per acclamazione tutt’altro che regolare nel 1074. In Italia l’accoglienza del suo progetto riformatore di purificazione del clero fu accolto molto tiepidamente. Una parte del clero concubinato preferì abbandonare gli ordini rispetto alla propria relazione coniugale. In Germania le reazioni furono ancora più violente: l’arcivescovo di Brema rifiutò di obbedire ai legati gregoriani e impedì loro di convocare il concilio. Al concilio di Erfurt riunito nel 1074 il clero locale accusò Gregorio di essere eretico e di sostenere dogmi folli come l’imposizione del celibato ecclesiastico. Davanti a queste ostilità Gregorio VII rispose attaccando il clero ribelle: nel concilio di Roma del 1075 venne attaccata la legittimità delle investiture vescovili da parte dei laici. L’investitura laica dei vescovi era tradizione diffusa nell’ex impiego carolingio, e in Francia e Germania era il re a nominare i candidati, spesso appartenenti alla famiglia del re nel caso della Germania anche prima degli Ottoni, e a deporre quelli non graditi. Era inoltre all’imperatore che il vescovo giurava fedeltà sotto il regno di Enrico III. Dunque nel concilio si dispose che nessun chierico o prete riceva in alcun modo una chiesa dalle mani di un laico, gratuitamente o per denaro. Fu poi aggiunto nei concili del 1078 e del 1080 che nemmeno l’imperatore poteva investire i vescovi della loro carica. Gregorio VII inserì nel suo registro il dictatus papae, 27 tesi in cui si sosteneva quali poteri appartenessero solo al papa: deporre un vescovo, unire episcopati, spostare vescovi da una diocesi all’altra, usare insegne imperiali e scomunicare o persino deporre imperatori. A questa onnipotenza del papa corrisponde una indiscussa superiorità giurisdizionale: nessuno poteva giudicare il papa o modificare le sue decisioni. Dopo la deposizione del vescovo di Milano per simonia, Gregorio aveva nominato al suo posto Attone, Enrico IV nominò il suddiacono Tedaldo aprendo un contenzioso lunghissimo e di estrema violenza, che coinvolse l’episcopato dell’Impero e i potentati laici del regno italico. I due antagonisti ricorsero ad ogni mezzo a disposizione per delegittimare l’altro, concili, elezioni,retorica eccetera. La teoria alto-medievale dei due poteri che si dividevano le sfere di governo dell’umanità ne uscì annichilita. Nel concilio di WOrms del 1076 Gregorio VII fu deposto dai vescovi riuniti sotto l’Impero, mentre nel sinodo romano di un mese dopo du scomunicato e deposto Enrico IV. Quest’ultimo rispose che la sua autorità proveniva da Dio e non dal papa, e sulla base della volontà divina doveva liberare la chiesa dal tiranno. Enrico IV aveva dalla sua parte la forza militare e la maggior parte dell’episcopato, dunque riunì più volte concili a cui parteciparono vescovi romani e tedeschi, fino al momento in cui non si elesse un nuovo papa (antipapa per la chiesa di Roma) nella figura del vescovo Guiberto, arcivescovo di Ravenna. Per dieci anni Guiberto governò come pontefice riconosciuto dall’Impero. Con la mediazione di Matilde di Canossa nel 1077 Enrico chiese perdono e dopo tre giorni Gregorio lo concesse, ma il conflitto riprese più violento di prima. Nel concilio di Roma del 1080 Gregorio scomunicò e depose nuovamente l’imperatore. Enrico scese a Roma insediando Guiberto e facendosi incoronare imperatore nel 1081. Gregorio assediato fu salvato dai Normanni, divenuti ora fedeli del papa ma dovette abbandonare Roma per morire in esilio a Salerno. Da questi scontri sia il papa che l’imperatore uscirono indeboliti in quanto deporre uno o l’altro si era rivelata cosa alquanto facile e la sovrapposizione delle scomuniche da entrambi i lati causò sconcerto presso le masse di fedeli-sudditi. In realtà tra gli effetti reali del conflitto emerse proprio il ruolo assunto dalle popolazioni locali: indipendentemente dagli scontri tra papato e impero la vera influenza sulla vita concreta delle chiese furono le scelte prese di volta in volta dai laici nelle città. I papi continuarono a sostenere la visione rigorista di Gregorio, rinnovando periodicamente il divieto di ricevere investiture di chiese da parte dei laici. Urbano II impose nel 1095 il divieto per i chierici di prestare giuramento di fedeltà a un laico; impedendo in altre parole, qualsiasi subordinazione feudale di un ecclesiastico a un laico. Il papa Pasquale II aveva raggiunto un accordo con i re di Francia e Inghilterra, che rinunciarono all’elezione dei vescovi. Cercò un accordo con Enrico V per la rinuncia dei vescovi ai poteri temporali, ma questo scatenò la rivolta di quest’ultimi, tanto che Enrico V sconfessò il patto con il papa. Allora pasquale II sospese l’incoronazione dell’imperatore, ma fu arrestato e dopo due mesi riconobbe il potere del re di investire con anello i vescovi. Anche questo causò proteste da parte romana dunque il papa dovette ritrattare il privilegio nel concilio lateranense del 1112 e a confermare la condanna di Enrico. Le due funzioni non potevano essere separate, dunque nel conciilio di Worms del 1122 Enrico V e Callisto II trovarono un accordo che rispettava nei fatti le complesse relazioni tra i due poteri: al papa spettava l’investitura con anello e pastorale , mentre al re l0investitura dei regalia con lo scettro. In Germania le elezioni dei vescovi e degli abati erano fatti in presenza dell’imperatore, mentre nelle altre parti dell’Impero veniva prima la consacrazione e dopo sei mesi l’investitura. Un accordo regionalizzato che rifletteva uno stato delle cose già in atto. Pretese universali e definizione istituzionale della Chiesa Nel periodo delle lotte per le investiture raramente i papi ufficiali risiedevano a Roma, erano per lo più o in viaggio nelle terre dell’Impero da cui provenivano oppure in esilio. Il papato uscì dal conflitto sdoppiato e militarizzato, un centro di potere politico in grado di influenzare le politiche dei regni europei. Il papa rivendicava un ruolo di guida delle anime che prescindeva dai confini territoriali, e questo conferiva al papa un popolo vastissimo di sudditi. Su questa visione ideologia poggiò l’elaborazione del sistema istituzionale, che andava di pari passo con l’esigenza di costruire un sistema di inquadramento delle popolazioni entro la fede cristiana, e dunque della definizione di un’ortodossia dottrinale. La religione doveva essere definita solo da uomini di chiesa, poiché il messaggio evangelico era stato affidato a Pietro. Lo spazio per. Altre fedi e per altri modi di rivivere la scelta religiosa doveva adeguarsi ai limiti imposti dalla chiesa di Roma. L’intensa produzione normativa del periodo del conflitto dipese dalla lunga serie di concili in cui di volta in volta le questioni principali della riforma gregoriana si andavano definendo in maniera più precisa. Furono realizzate raccolte delle decisioni conciliari e di lettere pontificie, e per mettere ordine su queste materie complesse un maestro di nome Graziano attivo a Bologna in torno al 1140 mise insieme una raccolta di canoni chiamata Decreto, in cui vennero raccolti concili lettere papali passi biblici intorno alle materie di diritto ecclesiastico. Lo sviluppo di un ceto di giuristi esperti nel diritto fu un evento fondamentale per la chiesa perché sempre più i funzionamenti interni della chiesa vennero sottoposti a regole giuridiche come elezioni, sinodi, concili, concessioni di benedici e rapporti con le chiese locali, amministrazione dei sacramenti, liturgia, ruolo del clero parrocchiale e altro ancora. I canonisti non assumevano principi giuridici universali in base ai quali decidere delle questioni particolari, ma partivano dai casi particolari da risolvere con equità. In ogni caso si rivelò necessario definire con più precisione una gerarchia ecclesiastica. Da un lato i vescovi erano legati alle proprie diocesi, in cui esercitavano il controllo dell’elargizione dei benefici, dei sacramenti, e soprattutto giudicavano le cause ecclesiastiche della diocesi, ma dall’altro i papi limitarono questa libertà di azione dei vescovi inviando loro rappresentanti chiamati legati apostolici, che dovevano risolvere i conflitti in corso e inviare la risoluzione a Roma. Le competenze giuridiche da questo momento in avanti furono distribuite rispetto alla gerarchia interna della Chiesa, per cui alcune questioni erano di pertinenza dei parroci, poi dei vescovi e poi dei papi. Negli ultimi anni del secolo XII si affermò una nuova procedura giudiziaria: l’investigazione d’ufficio, che partiva dalla <<fama>>, ovvero le voci che circolavano riguardo il cattivo operato di un chierico. Nel caso in cui i crimini del chierico suscitassero scandalo, questo avrebbe dovuto essere processato e punito. Grazie a questo strumento giudiziario era possibile controllare tuti i gradi della gerarchia, anche i vescovi. Proprio negli anni finali del XII secolo si modifico la titolatura del papa, che invece di essere vicario di Pietro diventò vicario di Cristo. Il primato sacro e spirituale si affermò insieme ad una razionalizzazione dell’articolazione istituzionale della curia romana. Intorno al papa si formò un sacro collegio di cardinali, mentre il governo era affidato alla curia con uffici, tribunali e camera apostoli che gestiva le finanze della chiesa di Roma. Ricordiamo che a Nei decenni centrali del secolo XII si delineò una dimensione più costrittiva e individuale della penitenza. Il dolore interiore per un peccato commesso doveva essere confessato al prete e solo dopo la confessione e l’assolvimento da parte del prete il fedele poteva tornare nel gregge dei fedeli. Il matrimonio cominciò ad essere considerato un sacramento a partire dagli anni della riforma, sottopose a un controllo assai stretto la vita sociale dei fedeli: le loro parentele, l’espressione degli affetti personali e le strategie di alleanza che non dovevano contrastare con il libero arbitrio degli sposi. Infine la morte con i riti di estrema unzione, venne interpretata come la soglia di entrata nel regno dei cieli, e divenne dunque uno strumento potentissimo per la tenuta della società. Fu istituita una comunicazione dei vivi con i morti: non solo le preghiere per i morti potevano abbreviarne le pene nel purgatorio, ma anche lenire i dolori e accumulare un capitale di meriti che aiutava l’anima del defunto a lenire i suoi dolori nel regno di mezzo. Le indulgenze erano la pratica di acquistare parti di questo capitale di meriti per i propri parenti nel purgatorio. Prende così forma una economia della vita religiosa, persino dopo la morte: i laici cercavano assicurarsi le sepolture nei luoghi migliori oltre alle cerimonie che meglio avrebbero accordato la loro ascesa al paradiso. Anche la lotta alle eresie comportò una spinta alla definizione dell’identità della chiesa come istituzione: la maggior parte dei testi sugli eretici provengono da chierici e da monaci, che spiegano il perché una posizione diventa o meno eretica. Queste fonti descrivono gli eretici sempre come folli, in quanto praticavano magia nera o sesso degenerato. I movimenti eretici rifiutavano spesso i sacramenti e il legame con la chiesa di Roma, richiamandosi allo spirito santo interno alla loro anima, oltre alle richieste economiche della chiesa come le decime sui raccolti. • 1018 Aquitania, persone che rifiutano il battesimo e praticavano castità e digiuno. • 1022 alcuni canonici di Orlean, negano battesimo, eucarestia e culto dei santi. Vengono accusati di manicheismo. • 1025 Arras, guidati da Gandolfo, che predicava l’abbandono del mondo, castità carità e lavoro manuale oltre alla inutilità dei sacramenti. Eretici divennero tutti quelli che rifiutavano la mediazione della chiesa tramite i sacramenti. Furono accusati di eresia anche coloro che pretendevano di predicare il vangelo, esempio di questo fu Valdo di Lione, mercante al servizio del vescovo. Riformatore di Lione. Aveva fondato una comunità pauperistica dove predicava e leggeva il vangelo tradotto in volgare. Ottenne in un primo momento il supporto del papa nel concilio laterano III del 1179 da Alessandro III, che però gli proibì di predicare il vangelo. Valdo rifiutò e fu condannato come eretico nel 1184. Diverso il caso delle sette dualiste come i catari. Queste sette vennero scoperte intorno al 1140 in Germania e poi in Francia meridionale e in Italia, si attribuiva una dottrina apertamente non cristiana: dualismo di fondo che riconosceva due principi, il bene e il male come coesistenti e in conflitto continuo fra di loro. Ai catari si attribuisce l’organizzazione da vera anti-chiesa. In alcune fonti cattoliche si racconta di una organizzazione tale e quale quella della chiesa, con diocesi, vescovi e preti e addirittura un papa venuto dall’Oriente. La provenienza orientale del culto e il collegamento con sette orientali aumentavano l’alone misterioso del catarismo. Le fonti raccontano di migliaia di fedeli in Italia, di intere città in Francia come Beziers e Albi. Tali ricostruzioni sono però poco attendibili in quanto non è stato possibile trovare fonti che non provenissero dai protagonisti di tali sette. La repressione invece fu sicuramente violenta con migliaia di condanne, esempio la decretale di Lucio III ad abolendam preparata insieme al.l’imperatore Federico Barbarossa nel 1184, in cui si colpirono tutte le eresie, qualunque nome avessero assunto, in quanto l’eresia è prima di tutto disobbedienza. Il compito di informare i vescovi era conferito a uomini di fiducia della chiesa locale, lasciando al loro arbitrio l’individuazione di ciò che era normale o meno. Nel 1199 la bolla papale Vergentis in senium equiparò l’eresia a un reato di lesa maestà. Punibile con l’espropriazione dei beni e della possibilità di fare testamento. La guerra, la Chiesa, la cavalleria Per via dell’assenz adi un potere centrale a tutela delle chiese Roma cominciò a legittimare la violenza a tutela dell’ordine costituito, al fine di incanalare la violenza delle scorrerie degli eserciti dei signori locali. Seguendo questa logica i papi decisero di dare una torsione militaristica al pellegrinaggio religioso verso Gerusalemme, e così si giunse alla promozione di una spedizione militare condotta da quattro armate franco-normanno-tedesche che avrebbero dovuto prendere la città sacra. Nacquero nuovi stati cristiani nell’Oriente musulmano e nuove forme di unione di vita religiosa e militare, gli ordini monastici cavallereschi. Il controllo su questa classe armata fu debole per diverse ragioni: indebolimento della fedeltà, attenuazione del servizio militare a favore del signore, ampia disponibilità dei benefici ricevuti che potevano essere venduti. Oer fare fronte alla disobbedienza lo strato alto del ceto militare serrò i ranghi e aumentò le occasioni di sequestro del bene concesso, chiamato d’ora in poi feudo, in caso di disobbedienza. Vennero diffusi modelli letterari di cavalieri ideali a rafforzare l’idea di una comune appartenenza ad un ceto eletto, dedito alla guerra e ligio al dovere. Il ceto militare rimase tuttavia un ceto mobile contraddistinto unicamente dall’uso professionale delle armi, ma differenziato al suo interno per ricchezza, non tra nobili e non nobili, ma fra potenti e meno potenti. Il controllo della violenza e le paci di Dio I racconti della violenza dei gruppi armati durante il X e XI secolo sono raccapriccianti, violenze inaudite perpetrate da Ungari, Vichinghi e mali cristiani che attaccano le chiese, usurpano le terre e uccidono contadini e monaci. L’ordine che veniva invocato era tuttavia diverso da quello carolingio, invece di essere universale l’ordine proposto era regionale e localizzato. Portatori di questa idea erano i fautori delle paci di Dio. Diffuse soprattutto nella Francia del Sud, in Aquitania. Erano riunioni di vescovi di una o più diocesi che invocavano la cessazione delle violenze in nome di Dio. Era lecito continuare a combattere una guerra giusta o sotto il comando di una autorità legittima. Erano dunque tentativi di difesa dei beni della chiesa dagli attacchi degli aristocratici. Sacralizzazione della guerra e le prime crociate Viene ad affermarsi una dimensione religiosa della guerra come difesa della fede che coinvolse anche la cavalleria come ceto armato. Nei decenni successivi al 1050 si sviluppò la tendenza per conquistare o liberare le regioni periferiche dell’Europa in mano agli infedeli. I papi riformatori sostennero attivamente queste guerre. Già sotto Leone IX bande di cavalieri furono radunate in difesa di Roma contro i Normanni, che le sconfissero facilmente a civitate nel 1053. 1063 Alessandro II concesse la remissione dei peccati per chi fosse partito a combattere in Spagna i musulmani dopo l’assassinio di Ramiro I d’Aragona. Sempre contro i normanni anche Gregorio VII schiera una milizia di San Pietro nel 1074, ma furono gli stessi normanni a riconoscersi come fedeli vassalli pontifici, e vennero dunque invitai a difendere la fede guidando l’espansione delle armate cristiane nelle terre in mano agli infedeli. Gli appelli alla guerra santa si fecero più insistenti sotto Gregorio VII. In una lettera del 1073 contemporaneamente: non erano rari i casi in cui un vassallo avesse giurato fedeltà a 10 signori alla volta, e se contiamo che il rapporto di fedeltà durava in genere 40 giorni, condurre una era quasi impossibile. Da un editto dell’imperatore Corrado II del 1037, emanato n seguito ad una rivolta dei vassalli minori di Milano, era stato definita l’impossibilità di privare un vassallo del suo beneficio e la possibilità invece per questi di trasmetterlo in eredità. Si aprì inoltre la possibilità di alienare i pendici con una vendita o una sotto-infeudazione che sottraeva al signore la scelta del nuovo concessionario. Si arrivava in tal caso a una rottura del legame di fiducia tra vassallo e signore. Col tempo anche l’aristocrazia cominciò a vendere i feudi ricevuti dal re. A un secolo dall’editto dei benefici, nel 1136, l’imperatore Lotario III lamentava le conseguenze della prassi di pensare il feudo come una cosa propria. Le conseguenze furono una ridotta capacità degli eserciti regi e dei grandi signori del regno: il legame tra servizio e feudo era orami scisso, tanto che i giuristi del XII secolo definirono il feudo. Come diritto reale, vale a dire relativo alle cose, attribuendo al vassallo quasi gli stessi diritti del proprietario. Si trattava comunque dii categorie giuridiche fluide, che non facevano che riflettere la realtà circostante, la quale contraddiceva le solite usanze rispettanti ii concetti di beni in concessione o allodio (piena proprietà). Furono inventate nuove dorme di protezione dei diritti del signore: come la commise, ovvero il sequestro del feudo in caso di disobbedienza, che permetteva di intervenire in maniera coercitiva contro i vassalli infedeli, ma che provocava anche conflitti armati. Altra possibilità era il ligio, una fedeltà privilegiata che si doveva a un signore in particolare, questo strumento permetteva d amministrare la fedeltà in maniera più circoscritta e permetteva di circondarsi di una schiera più prossima di vassalli. Le pratiche negoziali fra signori e vassalli, fatte di ricatti e conciliazioni dominarono il medioevo in tutta Europa. La giustizia amministrava le dispute e redistribuiva le terre in accordo con le due parti, quando possibile. Raramente tuttavia il verdetto finale assegnava a solo una persona il possesso a uno dei due litiganti. Era sempre meglio ottenere l’approvazione del perdente del processo, in quanto era l’unico modo di risolvere veramente la disputa. Non esistette mai una rete di fedeltà piramidale che culminava con il re, ma piuttosto una orizzontale, contrattata caso per caso dai signori e i loro vassalli. L’ideale cavalleresco e la socialità cortese L’invenzione di un ideale cavalleresco in letteratura servì a fornire a questo ceto armato un etica del mestiere: il cavaliere ideale combatteva contro nemici più forti, prepotenti e persecutori dei deboli, al fine di trovare la propria identità. Il cavaliere divenne uno status sempre più codificato nel corso del XII secolo, in particolare il rituale dell’addobbamento, rito d’entrata nella cavalleria con consegna delle armi da parte del signore, giuramento, e veglia in chiesa. Non bisogna idealizzare il cavaliere come diffusa autonoma della società medievale. La regolamentazione del ceto militare rispondeva ad un esigenza reale e non ideale, in un periodo in cui le alleanze si erano andate definendosi in modo molto mobile. Nel rituale di addobbamento prevaleva un aspetto politico molto concreto: l’entrata nel mondo adulto da parte di un erede, e la sua capacità di difendere il feudo. Tale avvenimento poteva attirare reazioni ostili da parte di signori detentori di una parte del possesso in questione, o che avanzavano pretese su di esso. I legami di parentela erano spesso molto intricati e portavano dunque a lotte di successione che a loro volta dovevano essere inquadrate intorno ad una rete di alleanze e protezioni definite. Spesso durante il rito di addobbamento il principe riuniva tutti i suoi alleati cavalieri per mostrare pubblicamente la sua potenza. Nonostante gli alti ideali cavallereschi le guerre feudali non avevano nulla di eroico, poiché si basavano solo sull’assedio e sul saccheggio dei territori circostanti. Forse per rimediare a questa carenza di combattimenti onorevoli vennero creati i tornei, combattimenti ristretti a pochi campioni, che non coinvolgano l’esercito intero. Tale pratica ebbe molto successo presso le maggiori corti europee. Dal punto di vista simbolico si mostrava il valore in combattimento del singolo, sul piano sociale, si poneva come punto di incontro dei cavalieri di livello diverso in un rito che aumentava la socialità interna, sul piano politico serviva infine ad affermare il controllo del signore sulle forze militari del proprio territorio. vi è un dibattito riguardo la novità dell’ordine cavalleresco nel periodo centrale del medioevo: alcuni sostengono sia un ceto sociale nuovo a partire dagli strati umili della società, mentre altri lo riconducono al ceto armato dell’impero carolingio. In ogni caso le differenze regionali impediscono di ricondurre questa entità ad una sola interpretazione. I termini linguistici che si rivolgono ai protagonista di tale ordine sono inoltre spesso vari e ambigui, cosa che confonde gli storici. Sul piano militare il termine miles indica un combattente a cavallo contrapposto ai pedites e ai rustici, contadini. Identifica in altre parole un ceto superiore dotato di forza militare e potere di coercizione. L’ordine dei cavalieri o degli uomini armati era a sua volta molto variegato: lo strato superiore era composto dai grandi aristocratici discendenti dell’elite carolingia, che avevano costruito il loro potere sul servizio fornito al re; già a partire dal X secolo vi era corrispondenza semantica tra nobilis e indicava una generica ma ben visibile preminenza sociale. Lo strato centrale era molto composto e poteva rivestire più ruoli oltre a quello militare, poteva inoltre essere dislocato in diverse corti periferiche o addirittura città; gruppo mobile e molto instabile, che rivendicava assieme ai diritti di beneficio anche una considerabile libertà d’azione. In alcune regioni come quelle tedesche, al servizio armato accedevano anche i ministeriali, uomini armati di condizioni quasi servile, agli ordini di una nobiltà militare impenetrabile ai soggetti minori. Difficile dire se l’addobbamento e il titolo di cavaliere fossero sufficienti per l’accesso ad un ceto basso di nobiltà, esistevano però certamente casi di milites che ascendevano fino alle sfere più alte del servizio armato, ma non era affatto scontato, ma l’esito di una lunga ascesa e strategica scelta dei signori da servire. Esisteva dunque una comune identità corporativa dei combattenti a cavallo, ma almeno uno alla metà del secolo XIII non coincisero. Non tutti i cavalieri erano nobili. Prima di esserlo i cavalieri sarebbero dovuti passare dallo stadio della signoria. Il medioevo era più signorile che feudale. Il dominio signorile I secoli X e XII furono teatro di un grande cambiamento dei rapporti di potere: si indebolì la capacità regia di controllo, si frammentarono i distretti affidati a conti e marchesi mentre le aristocrazie costruirono poteri locali autonomi, ovvero signorie di piccole e piccolissime dimensioni. Le signorie erano costruzioni politiche attuate dal basso senza delega, valorizzando basi locali del potere, come terra castelli e clientele armate. Il processo fu comune a tutta l’Europa carolingia, ma i modi in cui si diffuse fu diverso a seconda delle regioni. I poteri signorili partivano dal possesso fondiario, in quanto solo chi possedeva la terra poteva imporre il controllo sui vicini più deboli, ma fu un salto di qualità rispetto al potere dei signori feudali dell’impero carolingio, in quanto ora si trattava di un controllo politico su tutti i vicini e non solo sulla fascia produttiva della popolazione circostante, e ciò fu reso possibile dal controllo dell’ordine dei cavalieri che iniziò a partire dal XI secolo. Un potere senza deleghe: terre castelli e clientele Le dinastia potevano essere nobili o ecclesiastiche ed erano più le analogie che le differenze, in particolare: terre, clientele e legami famigliari. La nobiltà aveva sottomesso i contadini tramite il sistema curtense mentre la chiesa riceveva terre e ricchezze sin cambio della salvezza delle anime dei fedeli. Già dall’impero carolingio la terra aveva rivestito un ruolo centrale con le curtes, che sottomettevano i contadini all’autorità di un grande proprietario terriero in diversi villaggi. Altra funzione sociale dei proprietari terrieri fu giocata nell’ambito della protezione verso gli abitanti dei villaggi, in quanto l’autorità regia rappresentata dai conti e dai marchesi stava progressivamente svanendo e inoltre questi funzionari dirigevano le loro attenzioni principalmente alle città o ai villaggi da cui traevano maggior profitto. Risale a questo periodo l’incastellamento, spesso associato nella letteratura alle invasioni di Saraceni e Ungari, ma recentemente collegato ad una esigenza di trasformare la preminenza economica del signore in controllo politico e materiale, attraverso una roccaforte in cui collocare contingenti militari al proprio servizio. Fu proprio la militarizzazione della signoria la ragione principale dell’incastellamento, mentre la causa fu l’indebolimento del potere regio coincidente con il rafforzamento dei poteri locali nei villaggi rurali. Se il regno non poteva proteggere i sudditi questi si rivolgevano a chi poteva, dunque a questo punto i candidati erano chiesa presso le città e grandi possessori terrieri presso le campagne. I castelli servivano da luogo fortificato entro cui ci si sarebbe potuti rifugiare in caso di attacco di predoni, in cambio però. Sudditi dovevano offrire corvée per la manutenzione dell’edificio stesso. La popolazione che il castello si offriva di accogliere era molto diversificata: da una parte il signore con la sua famiglia, poi i contadini sotto la sua influenza, e infine i vicini con cui non aveva alcun rapporto formale ma che avevano bisogno della sua protezione. Si affermò dunque la capacità del signore di sostituirsi al potere regio nel garantire la sicurezza, ma questa deve essere messa in collegamento con il ricorso alle milizie armate dei cavalieri. Lo strumento privilegiato dai signori per mantenere l’ordine era il legame vassallatico con guerrieri o altri signori minori, e il loro compito era duplice: combattere contro i signori nemici e minacciare L’atto di fondare un monastero serviva anche a cementificare le solidarietà famigliari, evidenziarne l’estensione e i limiti con inclusioni e silenzi. Il signore doveva inoltre proteggere il monastero, e l’insieme di doveri e diritti passava dal signore al suo erede, e il monastero diventava così un simbolo della famiglia. Con la fondazione di un monastero gli equilibri della famiglia vengono definiti una volta per tutte, ed era molto importante dato che lo statuto giuridico di un individuo dipendeva innanzitutto da ciò. che aveva ereditato. Tuttavia la fondazione di un monastero non era solamente utile alla dinamica interna alla famiglia, ma anche per i sudditi del signore, in quanto dal monastero era possibile ricevere terre in concessione o benefici vassallatici. Produzione e prelievo in un età di sviluppo Il dato fondamentale del XI secolo è che i contadini diventarono sudditi: i signori avevano assunto in tutto e per tutto le funzioni regie una volta ricoperte dai funzionari, tra cui proteggere, prelevare le tasse e giudicare. Usavano dunque il loro potere per prelevare dai sudditi la maggior quantità di prodotti e denaro. La vita aristocratica era infatti estremamente dispendiosa in quanto il dovere sociale del signore era quello di donare a parenti, monasteri o chiese, vassalli e alleati ingenti quantità di beni, questo era funzionale a mantenere il proprio potere sul territorio. Per sostenere queste spese i nobili dovettero attuare politiche di intenso prelievo fiscale anche in concomitanza con un rilevante sviluppo economico e demografico che si estese dal XI al XIII secolo. Le famiglie contadine si allargarono, e si divisero il lavoro, si moltiplicarono i flussi migratori e gli spostamenti di popolazione che abitarono gli insediamenti rurali in funzione di colonizzazione. Collocare gli uomini diventò presto il nuovo problema amministrativo dei signori nel XII secolo, se insediarli nei pressi del castello o fondare nuovi borghi eccetera. In questi anni s svilupparono nuove tecniche per l’agricoltura a partire dagli strumenti: gli attrezzi in ferro vengono utilizzati molto di più in particolare gli aratri a versoio nei terreni pesanti delle terre umide strappate alla foresta. I cistercensi erano famosi per la loro lavorazione del ferro, esisteva un legame stretto fra aratro in ferro, numero di arature possibili e tempi di lavorazione del terreno diviso in riposo e semina. Il ricorso ai cavalli per trainare l’aratro permetteva arature più profonde e frequenti, aumentando produttività dei semi, osservazione attenta dei cicli favorì la diffusione del riposo dei campi per non esaurire in cicli troppo brevi le capacità del terreno. In ampie zone d’Europa l’investimento nell’agricoltura fu redditizio. Il sistema economico che aveva permesso questo balzo in avanti era pur sempre quello signorile. In questo periodo i prelievi signorili aumentarono di quantità e numero. Alcuni erano di origine pubblica come il fodro che era in origine destinato al mantenimento dell’esercito regio, l’Albergaria ovvero il dovere di mantenere i costi dell’alloggiamento del re, la taglia era la tassa per il contributo alla difesa e gravava su tutti i residenti, il focatico era sui nuclei famigliari, e infine i telonei (tasse sui pedaggi), e quelle sull’uso dei boschi, dei fiumi e dell’acqua. Dal pagamento in lavoro i contadini passarono al pagamento in denaro. Il lavoro dei contadini fu più libero, meno condizionato dalle specifiche richieste di prestazioni d’opera, ma rimane il fatto che in mano signorile confluiva una quota importante delle risorse. L’azione politica contadina I contadini erano una realtà assai stratificata: si andava dal bracciante che non sarebbe sopravvissuto senza prestare lavoro nei campi, al medio proprietario terriero che disponeva di un patrimonio fondiario su cui si poteva permettere di assumere dei braccianti salariati. Tra questi due estremi diverse figure intermedie come affittuari e piccoli proprietari. La diversificazione però non era solo economica, ma anche politica in quanto gli strati più elevati dei contadini potevano entrare nei rapporti di clientela che facevano capo ai signori e alle chiese locali. Per i signori questi contadini benestanti svolgevano piccoli incarichi amministrativi come controllare mulini e forni, oppure riscuotere i censi, in cambio di protezione o servizi. Ora tratteremo dei comuni rurali. I comuni rurali erano tutti quei casi in cui la popolazione di un villaggio si organizzava o agiva collettivamente sul piano politico e si dava una piccola struttura istituzionale. Si trattava in buona misura di imitazioni dei comuni cittadini, e ci fanno capire il funzionamento della politica rurale e che il potere signorile non era assoluto e fondato unicamente sulla forza, ma era sempre in qualche modo contrattato. Le fonti migliori sono le cosiddette franchigie, gli atti che raccolgono i diritti e doveri dei sudditi e dei signori, a volte nate dalla debolezza contingente di un signore, che finì per portare all’esenzione da alcune imposte. Erano previste delle penalità a chi violasse gli accordi, e questo ci mostra come non ci troviamo di forte ad una concessione da parte di un potere superiore ma ad una contratto tra due parti. ovviamente non si tratta di due parti pari fra loro. L’accordo per spartirsi i lavori di fortificazione mostra come questa fosse interesse comune di sudditi e signori. Altro dato importante sono le clausole iniziali, ovvero le garanzie relative alla giustizia signorile e al possesso delle terre. Un esigenza fondamentale dei sudditi era quella di trovarsi di fronte ad un potere regolato e limitato. Le rivolte contadine non puntavano mai ad una abolizione della signoria ma a ottenere il rispetto delle norme fondamentali, come il riconoscimento del possesso delle terre, imposizione fiscale prevedibile e tollerabile, una giustizia efficace. Infine la concessione dei beni comuni, selve, paludi e pascoli che avevano sempre un grande peso nell’economia contadina. Insieme alla rivoluzione agricola avvenne dunque anche una rivoluzione insediativa, tendenza all’accentramento della popolazione in luoghi di convivenza collettiva. In questo contesto si svilupparono i centri urbani dell’Europa medievale. Gli insediamenti funzionali alla colonizzazione furono esentati da prelievi fiscali e obblighi signorili. Le città nell’Europa medievale Le basi dello sviluppo urbano La nascita della città non è un oggetto definito che procede per tappe prestabilite, piuttosto è da intendere come un processo di trasformazione continua di più elementi materiali e culturali: popolazione, diritti, rapporti di potere, scambi economici, attività produttive, mentalità, rivendicazioni di autonomia. Ci sono tre elementi in particolare da considerare: • Legame con il territorio: natura economica e demografica, Pirenne attribuiva la nascita dei centri urbani a una nuova classe di abitanti, per di più mobili, come i mercanti. Tuttavia la sua posizione è stata abbandonata. Lo sviluppo dei centri urbani deve essere messo in stretta relazione di quello dei centri rurali. Le città che sorgevano lungo percorsi commerciali importanti attiravano molti abitanti, ma nella grande maggioranza dei casi si trattava di città medio-piccole che attiravano nuovi abitanti dalle campagne circostanti. Il territorio circostante rappresentò sempre un nodo di scambio indispensabile per la città. • La capacità di trasformare la condizione degli abitanti. Due dati ricorrono costantemente: la dipendenza dal signore dei cittadini. Alla metà del XI secolo i legami di dipendenza degli abitanti con i signori erano ancora forti. Il suolo dove si costruivano le case spesso era del signore e gli abitanti pagavano un censo come qualsiasi altro abitante della zona, senza contare la presenza di numerosi servitori dei signori sottoposti al loro dominio personale. Inoltre i cittadini sia immigrati che originari tendono a riconoscersi come membri di un insieme sociale nuovo, che condivide diritti e doveri derivanti da una comune appartenenza alla città. Li univa una comune aspirazione all’autonomia delle proprie attività economiche, che erano alleggerite dalla fiscalità diretta e dalla influenza del signore. Il più grande elemento di novità fu infatti il costruirsi di un nuovo statuto giuridico del cittadino, dotato di una particolare libertà personale, estesa anche alle persone di origine servile, e una solidarietà necessaria per inviare richieste univoche ai cittadini. A questo scopo erano indirizzati a questi fini. • Rapporti fra centri urbani e centri di potere signorile, alcune volte furono di collaborazione come i duchi di Normandia e la fondazione di città come Caen, o i conti di Fiandra che favorirono il popolamento di alcune zone del loro principato con la promozione di diversi centri urbani come sedi mercantili (Bruges, St. Omer, Ypres). Sotto il conte Filippo d’Alsazia (1157-1191) tali centri furono inseriti in un sistema economico di produzione e di scambio a lungo raggio, protetto dal principe. In queste città gli abitanti ottennero presto la proprietà dei suoli abitativi, dopo aver acquistato il censo dal signore. A questa forma di autonomia si aggiunsero alcuni privilegi giudiziari, l’esenzione da alcune imposte sui beni commerciali. Il permesso di costruire le mura come protezione e delimitazione dello spazio urbano. Privilegi simili erano presenti anche in città tedesche del Reno, come Colonia e Worms, o della Mosa come Liegi. Sempre in Germania ci sono molte città di fondazione signorile da parte di famiglie potenti: Zhärnigen fondano almeno sette città in sette anni tra cui Friburgo, Villigen e Berna. I signori impostarono uno schema urbanistico a croce, impostato su una strada mercato ducati nazionali ma aveva poca influenza su di essi al di fuori della Franconia dove si concentravano i possessi demaniali dell’impero. I regni dunque avevano dei possedimenti propri, in quanto avevano bisogno di una base materiale per attestare la loro esistenza a livello formale. Non erano dunque molto diversi dagli altri principati territoriali se non per una tendenza egemonica e il vertice coincidente con il re. Altra difficoltà per i regni era il coordinamento delle alleanze feudali che non controllavano direttamente: un vassallo di un vassallo del re, non era un vassallo del re. Gli uffici regi infine, erano controllati dall’alta aristocrazia che a volte si opponeva a volte collaborava con il re, in quanto se da un lato aveva dei doveri nei confronti della corona, dall’altro doveva radicare la sua influenza sul territorio. Il sistema di potere medievale imponeva la necessità di possedere le basi materiali della vita delle persone, al fine di controllare le persone stesse. Questo perché il potere sulle persone era una cosa come un altra e in quanto tale poteva essere venduta. L’Inghilterra alla conquista del duecento In seguito alla battaglia di Hatings del 1066 ci fu un completo rovesciamento delle istituzioni precedenti e sostituzione immediata delle élite aristocratiche da parte dei baroni normanni. Il rovesciamento ci fu e i baroni si imposero come classe dominante e come gente del re. Tuttavia i normanni non trovarono ili deserto e fondarono il loro dominio su una base solida di istituzioni pubbliche, riallacciandosi così alla tradizione locale per aumentare il consenso. L’Inghilterra prima della conquista era diviso in circoscrizioni di origine militare e fiscale chiamate shares, assegnate a uffici pubblici ealdormen o earl. Al di sotto degli shares esistevano circoscrizioni minori, le hundreds, formate da tithing, gruppi di dieci famiglie. Queste unità godevano di ampia autonomia e avevano come fine principale l’amministrazione della giustizia. I processi applicavano il folkright, e il mantenimento dell’ordine la pace era centrale anche per il re. Al contrario dei re francesi che avevano smesso di emanare capitolari, i re inglesi continuavano a fare leggi, da re Athelstan del 939 al re Knut 995-1035. Anche Guglielmo riprese la collaborazione con l’amministrazione locale della giustizia, e la sua incoronazione riprese molti aspetti tradizionali tra cui la protezione delle chiese e del popolo. Tuttavia i baroni normanni che seguirono il re nell’invasione esigevano in cambio della loro fedeltà le terre degli aristocratici inglesi, oltre che grande autonomia una volta insediativisi, e inoltre controllo sulle azioni del re. Dunque il re si trovava a metà fra le pretese degli aristocratici e l’esigenza di fondare il suo potere sul popolo. Guglielmo che era contemporaneamente duca di Normandia, dovette nominare un suo rappresentante in Inghilterra: un giustiziere, che governava in sua vece. Eliminò inoltre i conti e istituì gli sceriffi, incaricati di amministrare la giustizia e controllare le finanze nei singoli shire. Tutti i liberi furono dichiarati sudditi del sovrano e tutte le possessioni dei baroni fu sottoposta a concerto obblighi di fedeltà militare nei suoi confronti. Gli storici hanno spesso fatto coincidere con questo periodo l’inizio del feudalesimo inglese, con una gerarchia di proprietari terrieri che partiva dal re, per passare a baroni, vescovi, nobili e uomini liberi. Tuttavia non è del tutto vero in quanto la proprietà era ancora ereditaria nella maggior parte dei casi, oppure ottenuta in seguito a conquiste militari. Non tutte le terre dunque, erano originariamente di concessione regia, ma in un periodo successivo ad una villetta invasione Guglielmo decise di inquadrare le terre conquistate sotto il modello feudale, così che i grandi proprietari fossero vincolati a servire nell’esercito o contribuire in denaro. Guglielmo necessitò di sapere quanti fossero gli abitanti effettivi delle terre inglesi prima e dopo la conquista, dunque ordinò il primo censimento della storia medievale: il Domesday book, il re voleva sapere infatti quante fossero le terre che appartenevano ai baroni, quali fossero gli obblighi di ciascun proprietario e a quanto ammontavano i beni del regno. Il domesday book fu organizzata per contee, per scendere poi a feudi, alle hundreds o centene, alle ville e infine ai manor, l’unità di base della proprietà contadina. In questo modo si poteva mantenere il controllo su baroni e sudditi allo stesso tempo. Enrico I, figlio di Guglielmo e suo secondo successore, mantenne un assiduo rapporto con il popolo che a suo modo di vedere costituiva un ostacolo all’arroganza dei baroni. In occasione della sua elezione Enrico I emanò la carta delle libertà in cui ripristinò le antiche usanze inglesi contrapponendole alle nuove norme normanne, troppo oppressive nei confronti degli uomini liberi in quanto baroni e i loro vassalli esigevano tasse eccessive e non motivate sulla tutela dei minori, i matrimoni la riassegnazione dei feudi dopo la morte del tenutario. Con la carta Enrico si ergeva a difensore della parte del popolo oppressa, limitò il potere dei baroni istituendo un sistema di controllo sul passaggio ereditario delle terre e di punizione delle loro malefatte, inoltre rafforzò la giustizia regia nelle sedi locali. Il successore di Enrico fu Stefano di Blois a cui si contrappose la figlia di Enrico, Matilde; questa guerra per la successione portò ad un rafforzamento del potere dei baroni: non solo si impossessarono delle cariche pubbliche come quella degli sceriffi, ma cercarono anche di renderle ereditarie. Il successore, Enrico II intese porre rimedio a questo stato di violenza. Il regno di Enrico II 1154-1189 è stato forse il periodo più importante per l’Inghilterra del secolo XII, con il matrimonio con Eleonora d’Aquitania unì la Normandia, L’Inghilterra e l’Aquitania e sotto il suo governo presero forma più definita le istituzioni monarchiche del regno inglese. Il sistema era fisso, incentrato sul giustiziere e cero primo ministro delegato del re, e sulla curia regia, composta dai grandi del regno, laici ed ecclesiastici che dovevano esprimere formalmente consenso alle decisioni del re. A questi si aggiunse lo scacchiere responsabile delle finanze pubbliche con potere di controllo su tutti gli ufficiali, compresi gli sceriffi: due volte l’anno questi potenti ufficiali dovevano fare un minuto rendiconto del loro operato finanziario e giuridico. Il. Secondo sistema era mobile e comprendeva un collegio di giudici itineranti nelle singole contee, rinite in sei circuiti da percorrere nel corso dell’anno. Enrico inoltre costituì il sistema delle giurie dei dodici uomini saggi nelle comunità, incaricati di giudicare i colpevoli e tenerli in custodia fino all’arrivo dei. Giudici regi, e per quelli che non potevano aspettare il loro Enrico potenziò le funzioni giudiziarie della corte centrale a Londra, che divenne un vero tribunale aperto a tutti i sudditi del regno. Così i casi discussi davanti al re aumentarono di anno in anno e formarono la materia per una nuova corte di giustizia situata a Westminster (il Bench). Ancora una volta i re puntavano sulla regolazione della giustizia per tenere il regno unito e in pace. Il potere giudiziario era utile soprattutto per ridimensionare le pretese dei baroni sui sudditi liberi, e così Enrico emanò una norma che garantiva diritto di successione ai vassalli dei feudatari maggiori assicurando loro la trasmissione ereditaria dei feudi ricevuti in beneficio dai loro signori. Oltre a queste iniziative Enrico recuperò una vecchia consuetudine di chiamata alle armi, ordinò a tutti i sudditi possessori e liberi di partecipare all’esercito con un armamento proporzionale al reddito. Era chiaro il fine ideologico e al tempo stesso fiscale del re dato che inquadrava i sudditi in una dipendenza diretta dal re. Queste grandi riforme furono accompagnate da strumenti di governo molto innovativi: Enrico fu il primo a utilizzare l’inchiesta sull’esempio del Domesday book per redigere un elenco dei feudi militari o dei. Feudatari che non avevano prestato giuramento al re. Inoltre incaricò una commissione per ogni cenetta incaricata di verificare i redditi dei residenti. Il controllo di Enrico sui baroni cominciò a vacillare per via della elevata pressione fiscale che si rese necessaria per mantenere le guerre del re. La crisi del regno fu accentuata dalla lotta dinastica fra i due figli di Enrico II: Riccardo, re tra il 1189 e. 1199 e Giovanni Senzaterra 1199-1216. Sotto il regno di Giovanni i rapporti con i baroni si fece sempre più teso per via della resistenza di questi a prestare servizio fuori dal regno. Dopo la sconfitta di Giovanni da parte di Filippo Augusto il primo fu costretto ad firmare un documento di concessioni assai ampie al popolo, conosciuto come Magna Charta, che riprendevate antiche libertà concesse da Enrico I, ma in realtà configurava un nuovo equilibrio potere fra il re e i baroni. La carta era un patto di limitazione delle prerogative regie in ambito fiscale (il re non poteva imporre tasse senza il consenso dei baroni) e feudale, riguardo soprattutto la trasmissibilità del feudo. La libertà politica protagonista del documento era quello di potere possedere beni al riparo delle molestie degli ufficiali pubblici. Il regno di Francia da Luigi VI a Filippo Augusto • Ducato d’Aquitania: apparteneva alla dinastia di Guglielmo IX • Contee di Tolosa e Provenza, con importanti centri commerciali come Marsiglia, Montpellier e Narbonne. • Bretagna e Normandia gravitavano in una sfera mista con poteri condivisi con l’Inghilterra. • La contea di Champagne che forniva molti degli ufficiali regi era in mano a una dinastia di conti da sempre molto riottosi alla eventualità sottomettersi al re. • La contea di Fiandra potentissima economicamente non si percepiva minimamente come parte del regno francese. Di questa situazione politica i re del regno di Francia avevano preso coscienza da tempo e per questo redigevano diplomi solo diretti a enti religiosi del dominio compreso nella regione dell’Ile de France. I nobili a capo delle altre entità regionali non riconoscevano più il re nemmeno come erede simbolico dell’impero carolingio, essi avevano creato una corte di castellani fedeli, di grandi vassalli in competizione che riconoscevano al principe la superiorità e il comando. Nelle città c’erano anche casi di una amministrazione gestita da uomini fedeli solo al principe, e non ai suoi vassalli maggiori. Luigi VI 1108-1137 cercò di disciplinare i castellani ribelli e contenere l’avanzata di Enrico I duca di Normandia e re d’Inghilterra oltre a fronteggiare le aspirazioni dei conti di Fiandra e di Champagne-Blois. Il fronte interno era quello più promettente; sostenuto da alcuni vescovi e da un consigliere autorevole come Sugerio abate di Saint-Denis, da molti ritenuto il vero inventore della monarchia, Luigi VI si lanciò in una serie. Di battaglie punitive contro potenti locali interni ed strettamente legata alle vicende della Francia meridionale: Navarra, Aragona, Leòn e Castiglia erano formazioni territoriali fluide e la loro esistenza come regni fu intermittente, fra unioni dinastiche e separazioni successive. La Castiglia assorbì Leon, ma con due fasi di separazione tra il 1065 e il 1072 e poi fra il 1157 e il 1230. Navarra e Aragona furono unite fino al 1134 per poi avere due sovrani diversi. Il conte di Barcellona divenne fomentante dell’Aragona quando Raimondo Berengario IV sposò la figlia di Ramiro II d’Aragona. La divisione dei due regni non era netta come ci si aspetterebbe, anzi furono innumerevoli i casi di collaborazione protezione scambio e alleanza fra re spagnoli e i diversi potentati delle città della frontiera. Alfonso VI di Castiglia per esempio cacciato dal fratello trovò ospitalità presso il califfato di Toledo e intervenne a suo favore una volta diventato re contro una fazione nemica che aveva occupato la città. Il famoso cid, Rodrigo Diaz 1043-1049 un cavaliere castigliano esiliato. Da Alfonso celebrato nei poemi cavallereschi prestò servizio presso diversi principe musulmani. Senza contare i grandi scambi della cultura latina con quella araba, con la traduzione di moltissime opere nelle due lingue. Era comunque vero che la guerra all’infedele era un motivo ricorrente nel discorso politico a partire dalla concessione papale alle spedizioni di cavalieri nel 1063 e nel 1085 in funzione pre-crociata. I re spagnoli si servirono spesso di questo armamentario retorico nelle loro battaglie contro i califfati per esempio: • 1085 conquista di Toledo da parte di Alfonso VI di Castiglia • 1118 occupazione delle Baleari da parte dei Catalani e di Saragozza da parte degli Aragonesi Si trattò. In ogni caso di conquista temporanee e gli Almoravidi ripresero le loro terre in breve tempo. Le guerre combattute durante la prima metà del XII secolo furono dunque infruttuose, ricordiamo le cavalcate dei re spagnoli che però non erano vere e proprie spedizioni militari ma razzie e saccheggi. La crisi Almoravide iniziò per via della insofferenza mostrata dai sudditi dell’Andalusia nei confronti del governo oppressivo che imponeva le tradizioni musulmane e perseguitava i cristiani. La crisi iniziò con la presa del Marocco da parte della setta degli Almohadi, che riuscì anche ad espandersi in Andalusia. Tra il 1144-47 riuscirono a prendere anche le maggiori città della regione ed elessero come capitale Siviglia. Nel 1195 l’esercito musulmano aiutato da alcuni cristiani ribelli al re inflisse una dura sconfitta all’esercito di Alfonso VIII di Castiglia ad Alarcos. La. Reazione iniziò nei primi anni del Duecento con la proclamazione di una crociata antimusulmana nel 1211da parte di Innocenzo III. Nel 1212 il re castigliano vince. La battaglia di Las Navas e da quel momento le vittorie cristiane si moltiplicano e tra il 1212 e il 1240 i territori mano ai principi cristiani raddoppiarono, con la fondazione di nuovi insediamenti di cristiani in Estremadura e Andalusia. La Catalogna e l’Aragona conquistarono le Baleari (Maiorca e Minorca) e il regno diValencia assicurandosi uno sbocco sul Mediterraneo. Il ripopolamento era in realtà iniziato fin dal XI secolo, prima dell’occupazione politica di quelle regioni, la creazione di villaggi dicristiain abitati da contadini e cavalieri era parte integrante della Reconquista. Agli abitanti venivano concessi ampi lotti di terra ma erano incaricati anche di difenderla. militarmente.le terre erano distribuite in base alla capacità militare. Nell a parte centrale della penisola vicino a Toledo la popolazione era mista e gli abitanti della città erano cristiani ebrei e musulmani. Più a sud troviamo più monasteri che fondarono villaggi nella Mancia, come l’ordine di Calatrava. Con il progredire della conquista il destino della popolazione difese musulmana divenne sempre più un problema, risolto con emarginazione economica e politica e spaziale, recludendo i musulmani in quartieri etnici nelle città o relegati nelle campagne. I re spagnoli si trovavano spesso di fronte a realtà indipendenti e fortemente identitarie, con le quali il potere monarchico dovette rappportarsi in modo pattizio, fino a convocare assemblee di grandi del regno con città e corti comunali: le curie generali o cortes che deliberavano sui grandi temi della politica regia. Questa molteplicità di presenze istituzionalizzate, carattere fortemente militare dell’aristocrazia del regno e la necessaria condivisione delle decisioni maggiori in assemblee composite rimasero caratteristiche di fondo dei regni spagnoli per lungo tempo. La Germania e l’impero La Germania del secolo XI presenta un quadro più stabile rispetto ai regni vicini. I quattro ducati di Franconia, Sassonia, Baviera e Svevia erano ben saldi nelle mani dei nobili che coordinavano conti e castellani. C’erano marche di frontiera dove famiglie intraprendevano politiche di espansione nei territori orientali come l’Austria, la Stiria e Brandeburgo, ma anche i ducati più lontani di Pomerania e Slesia, confinanti con il regno di Polonia. Ci fu inoltre una grande crescita demografica in Germania nei secoli XII-XIII: da 4 milioni a 8 di abitanti, che alimentò una forte emigrazione verso est, dove i principi tedeschi chiamavano coloni per stabilizzare i propri dominati. Seguì di conseguenza una emarginazione crescente delle popolazioni slave originarie di quei territori. L’impero come istituzione funzionava comunque ad intermittenza e l’imperatore veniva eletto per tradizione dai principi dei quattro ducati maggiori e basava il suo potere principalmente sui possedimenti del ducato di Franconia, che era considerevole ma non abbastanza da afferrare assoluta superiorità nei confronti degli altri principi suoi concorrenti. Il problema degli imperatori già dai primi decenni del XI secolo fu quello di resistere alle ribellioni dei vassalli, a partire dall’elezione di un secondo imperatore da parte di Gregorio VII in Rodolfo di Rheinfelden, e poi i successori di Enrico V Lotario III e Corrado III, provenienti da una casata precedente e scelti per la loro debolezza. Il potere personale delle dinastie nobili dei ducati era basato sulle grandi proprietà, e questo unito all’ereditarietà delle cariche portava i nobili a slegarsi dalla autorità imperiale in caso di conflitto, così che si crearono ducati che si credevano svincolati dalla fedeltà all’imperatore. Nel 1136 Lotario III mise in guardia sulla difficoltà di allestire un esercito quando i nobili avevano alienato tutti i benefici ricevuti dalla corona e non prestavano più servizio militare. In questo contesto iniziò il regno di Federico I di Hofenstaufen di Svevia, chiamato Barbarossa, il quale riuscì a riunire la Germania dei quattro ducati in quarant’anni di regno. Nel 1158 ordinò la pace generale dell’impero, e promosse paci territoriali nei territori tedeschi. In secondo luogo si appellò al diritto feudale per confiscare i ducati ai principi ribelli come fece nel 1180 con Enrico il Leone, potentissimo esponente della casa di Welfen. Ogni volta che Federico entrava in possesso di un ducato lo divideva in due diminuendo la forza dei singoli principati, così fece per la Sassonia e la Baviera. Creò due nuovi ducati in Austria e in Stiria e cercò di rafforzare la sua base patrimoniale in Franconia attraverso un’opera di passaggi di feudi, alla fine del suo regno i principi laici erano 20 e altrettanti quelli ecclesiastici. I risultati vennero raggiunti grazie ad un attuazione del diritto feudale. Nella dieta di Roncaglia del 1158 Federico stabilì che ogni potere pubblico doveva provenire dal re attraverso una investitura formale, rifacendosi al diritto romano. Usò questa legge per rafforzare le sue prerogative feudali. Si rinnovò inoltre il divieto di alienare i feudi, di venderli o dividerli, di giurare fedeltà a più signori. Barbarossa cercò dunque di instaurare un potere imperiale che fosse al culmine di una gerarchia feudale. La dieta di Roncaglia riguardava tuttavia principalmente l’Italia. Le guerre italiane di Federico richiedevano l’appoggio dei principi che non sempre erano favorevoli al prolungamento della presenza militare in Italia. Dopo Federico Barbarossa scoppiarono nuovi dissidi sotto Enrico VI che cercava di imporre il diritto di successione dinastica all’impero abbandonando il criterio elettivo. In cambio di questo aveva proposto ai nobili la possibilità di trasmettere i propri feudi ai propri figli in linea maschile e femminile. I principi tedeschi rifiutarono la proposta. Enrico VI aveva raggiunto una posizione di forza grazie al matrimonio con Costanza d’Altavilla, ultima erede dei re normanni, dalla quale ebbe nel 1194 un figlio chiamato Federico Ruggero, poi Federico II. Nonostante le ribellioni siciliane del 1190 che elessero come re un figlio illegittimo di Ruggero III, Tancredi conte di Lecce, Enrico riuscì a entrare a Palermo nel 1194 e farsi eleggere re di Sicilia. Il figlio dunque si ritrovò ad ereditare il titolo di imperatore e re di Sicilia dal padre. Il regno di Sicilia Costanza d’Altavilla era l’ultima esponente della famiglia che aveva conferito unità alla moltitudine di cavalieri normanni che si erano stanziati in Sicilia durante l’epoca delle grandi invasioni dell’Europa da parte dei normanni nel 1013-1016. Furono successivamente utilizzate dai Longobardi come mercenari che combattessero in guerre interne o contro i bizantini. Un primo gruppo si stabilì ad Aversa nel 1030, e si impadronì del principato di Capua 1058. Altri gruppi. Si espansero in Campania, Calabria, Puglia, costruendo basi di un potere locale disperso ma con tendenze egemoniche sulla regione. I baroni normanni esercitavano un controllo molto violento sulla popolazione, chiedevano più tasse ai contadini e alle chiese. Non avevamo un ordinamento gerarchico all’interno di un sistema istituzionale unico. La vecchia aristocrazia longobarda e bizantina in Campania e in Puglia fu in buona parte sostituita dai cavalieri normanni, in altre parole divennero signori di castello attraverso matrimoni e alleanze. Faticò anche ad affermarsi una dinastia di signori regionali, fino agli anni 70 in cui si impose la famiglia degli altavilla come un punto di riferimento nel coordinamento dei territori conquistati. Erano presenti in Sicilia Puglia e Calabria intorno al 1040 (Guglielmo Braccio di Ferro edu al servizio dei bizantini e del principe di Salerno), e i vari discendenti della famiglia seppero sfruttare non solo le debolezze dei potentati bizantini ma anche la contrapposizione fra papa e imperatore. Drogone, fratello di Guglielmo, fu eletto conte di Puglia dal duca di Salerno, e duca nel 1047 dall’imperatore Enrico III. Il fratello Umfredo riprese il titolo di duca di Puglia dopo la morte di Drogone e creò un rapporto più stretto con il papato. Il titolo passò ad un nuovo membro della famiglia chiamato Roberto il Guiscardo, nel 1059, con un giramento di fronte al papa. Roberto e Ruggero operarono su più fronti con un intento non più occasionale. In Puglia occuparono Bari, forte e riconosciuto. Altra usanza fu quella dell’incinerazione delle terre dei vassalli morti senza eredi oppure con eredi minorenni, i quali erano costretti a riacquistare il feudo a prezzi elevati. I La frenetica attività dei censimenti dipende dal fatto che i re dovevano monitorare le proprietà dei signori del loro regno. Altro fattore da cui dipendeva il successo di un regno erano i funzionari pubblici che fino alla prima metà del XII secolo venivano affidati per via ereditaria ai grandi vassalli di rango principesco, mentre al dii fuori dei territori regi ili controllo dei centri abitati e dei castelli era totalmente in mano ai signori territoriali. Verso la fine del secolo la tendenza si invertì, e a corte emersero persone di ceto medio, di origini non nobili come cavalieri, chiericii, agenti contabili di provenienza urbana, che presero il posto dei grandi vassalli. Il controllo sul territorio dai punti di vista fiscale e giuridico erano essenziali per assoldare i vassalli per scopi militari. Gli agenti locali chiamati balivi o siniscalchi diffusi già dalla prima metà del XII secolo in Normandia, Fiandra, Borgogna e dal 1190 anche in Francia, divennero collettori locali del fisco regio: curarono la raccolta delle tasse, individuarono nuovi soggetti tassabili e nuove fonti di reddito. Su un piano le corti monarchiche erano naturalmente superiori ai loro vicini: quello dell’elaborazione culturale giuridica delle forme di sapere, in quanto ponevano il re. Come. Vertice politico in base a cui gli altri poteri dovevano conformare il proprio spazio di azione. Il re assumeva. Funzioni di pacificatore, di difensore dell’ortodossia, detentore legittimo dei poteri pubblici, tutte funzioni che servivano a identificare i contorni di questa maestà in costruzione. Nuove strutture politiche nell’Italia medievale: città e comuni La città medievale è stata spesso oggetto di interpretazioni storiografiche ideologiche: nell’ottocento era considerata come centro abitativo latino contrapposto ai possedimenti feudali germanici, nel novecento è oggetto di attacchi violenti che vedono nella città la culla del sentimento municipalista della borghesia italiana, ma negli ultimi anni si è cercato di attaccare il mito storiografico cittadino su basi meno ideologiche, in particolare si mette in dubbio l’effettiva capacità della città di coordinare l’ambito territoriale in modo coerente. Nascita del comune consolare: rappresentanza autonoma delle forze cittadine Le città italiane si presentavano come comunità senza capo, che si governava al di fuori di un ordine gerarchico di poteri delegati. Il conte carolingio del secolo IX era un ricordo remoto, poiché i suoi discendenti si erano recati nel castello del loro contado lasciando la città a sé stessa. I suoi dipendenti come i visconti e gli avvocati conservarono diritti economici ma ora da dividere con il vescovo. Questa era la figura di maggior rilievo: guidava la vita cittadina e ne assicurava l’unità religiosa oltre a detenere importanti diritti pubblici: mercato, dazi sulle merci, giustizia civile, che costituivano il suo potere sulla vita pubblica. Tuttavia il vescovo non prese mai il posto del conte nella gerarchia regale come avvenne in Germania e in Francia. In questi paesi spesso il titolo di conte poteva essere assegnato ai vescovi. In Italia i vescovi ricevettero privilegi molto importanti dall’imperatore ma non la carica di conte. ii vescovi erano anche signori feudali, che dovevano amministrare il consenso che ricevevano dai loro vassalli cittadini, e per questo la città fu il centro di grandi tensioni sociali, a cui il vescovo era tenuto ad applicare soluzioni equilibrate. Le famiglie di. Tradizione militare giuravano fedeltà al vescovo in cambio di terre e benefici, e grazie a questi mantenevano il prestigio della dinastia, ma non rinunciavano ad usurpare terreni appartenenti alla chiesa. I conflitti interni di questo tipo venivano giudicati dalla curia episcopale che aveva le caratteristiche delle corti feudali. Gli imperatori intervennero durante il XI secolo molto spesso a favore dei vescovi, ma l’equilibrio interno della città era molto complesso e comprendeva alleanze e cooperazioni forzate fra diversi gruppi sociali influenti, il vescovo e i suoi soldati. In molte città urbane i cittadini erano gli abitanti di estrazione non militare, distinti in base a livelli di ricchezza e mestiere. La parte alta della cittadinanza era composta da alcune categorie di professionisti distinti dai semplici abitanti: giudici, avvocati, grandi mercanti. I giudici davano forma ai governi cittadini fissando le regole di funzionamento, inquadrando l’azione di controllo degli uomini da parte del vescovo, assistendo direttamente i cittadini nelle questioni giudiziarie. Affiancavano i giudici negli strati più alti della società le élite economiche come i mercanti, i cambiatori (che valutavano e cambiavano le diverse monete) e i prestatori di denaro. Questi costituivano un ceto tecnico necessario al governo della città. La collaborazione dei vescovi con queste élite cittadine assicurava solidarietà reciproca nella difesa dei propri privilegi. Al di sotto troviamo tutti gli abitanti senza particolari qualifiche, esposti alle angherie dei vassalli del vescovo, ma capaci di farsi sentire nelle assemblee pubbliche in cui venivano prese le decisioni più importanti. Il vescovo era il mediatore degli interessi divergenti all’interno della città. Le dispute che minavano la pace interna della città erano risolte dal presule, che imponeva un giuramento collettivo volto a preservare la pace. Chi infrangeva questo giuramento veniva escluso dalla comunità e cacciato dalla città. Nel 1088 a Pisa scoppiò una disputa tra famiglie nobili per la conquista di alcuni lotti di terra, e a risolverla fu il vescovo Daiberto con una tregua (o lodo) che imponeva a tutti l’obbligo del rispetto. Della pace, vietò di innalzare le torri oltre una misura fissa e affidò ad un consiglio comune il compito di amministrare la pace imposta con l’accordo in questione. Esisteva dunque una istituzione formata da buoni cives, che agiva sotto la protezione del vescovo. La struttura politica della città aveva già preso forma. Nel corso del XI secolo le città crescevano per numero di abitanti, attività economiche, rilievo culturale e importanza delle decisioni politiche prese nelle assemblee e palazzi episcopali. Queste decisioni crebbero di importanza fino a influenzare la vita dei cittadini fuori dalle mura, nel contado. Questa crescente rilevanza politica delle città portò a creare una nuova istituzione a cui affidare il governo della vita pubblica. Fra il 1090 e il 1120 compaiono in quasi tutte le città italiane dei magistrati chiamati consoli, un richiamo alla gestione della repubblica romana in cui il potere era gestito da due consoli eletti ogni anno. Il consolato medievale era però molto diverso da quello romano: era formato da un numero variabile di membri, da quattro a sei, a volte anche dodici, che si riunivano in genere nel palazzo del vescovo, inoltre provenivano spesso da famiglie di vassalli del vescovo, della media e alta democrazia urbana, con l’apporto determinante dei giudici, e che finivano per difendere i privilegi delle classi alte. Le somiglianze con il modello antico invece erano: la durata annuale della carica, il carattere elettivo della nomina che si contrapponeva al semplice prevalere dei più forti in ambito urbano. I consoli italiani a differenza di quelli tedeschi e francesi non erano nominati da un superiore ma eletti da un organo collettivo della città: l’assemblea generale dei cives, detta concio che li investiva del potere di governo. Nel corso degli anni si coinvolse la parte cittadina più attiva nel governo della città, così si istituì iil consiglio cittadino formato da un centinaio di persone che affiancasse i consoli nelle scelte più importanti. Prese piede in Italia una politica parlamentare, in consiglio si potevano avanzare richieste, discutere le decisioni, contestare l’operato dei consoli ed eleggere i consoli futuri. Nel corso del XII secolo i consoli si garantivano quando riuscivano a fare approvare le loro proposte dalla maggioranza del consiglio. Il principio di maggioranza entrò nella politica del comune italiano. Fra cittadini e istituzioni si affermava un legame diretto, rafforzato da un giuramento reciproco. Dei consoli verso la civitas e dei cives verso i consoli. Era un patto giurato di natura pubblica chiamato breve, che legittimava i consoli ad agire come rappresentanti della comunità, a servirsi di strumenti giuridici come il bando (cacciata dalla città) e regolare la vita economica della collettività. Queste prime carte giurate mostrano quindi una città consapevole della propria struttura istituzionale, consapevole anche che un governo pubblico doveva avere un surplus di potere da contrapporre alle forze ostili o riluttanti a sottomettersi al volere dei nuovi magistrati. La scelta di appartenere al comune in altre parole non era così libera. Le decisioni prese del comune erano immediatamente valide per tutti. e sottomessi alla dinastia con una piccola capitale: è il caso dei Saluzzo e dei Monferrato in Piemonte, del Patriarcato di Aquileia in Friuli; della contea di Este e dei Da Romano in Veneto e di altre numerose famiglie detentrici di contee intorno alla città. l’Italia alto medievale dunque non era un arazzo di comuni, ma di tessere molto diverse: reti punteggiate da signorie autonome, principati signorili che inglobavano città minori, territori senza città, popolati da una rete di villaggi rurali; e ancora costellazioni piccole città indipendenti da un centro maggiore. Alcune tendenze erano chiare, come l’importanza delle città che sorgevano sul mare: le cosiddette repubbliche marinare: Genova, Pisa,Venezia, (Amalfi era di minore importanza nel XII secolo). Queste erano diventate grandi empori commerciali, nonché centri con forti istituzioni cittadine, consolari le prime due, già orientata verso un modello regale Venezia che era governata da un doge. Pisa e Genova si lanciarono alla conquista del Mediterraneo occidentale, creando colonie nei principali approdi del tempo, dalle coste nordafricane, saccheggiate dai pisani nel 1087, alla Sicilia, di recente liberata dal dominio arabo, inoltre una lunga lotta contrappose le due città per il controllo della Sardegna e della Corsica. Anche Venezia la più dinamica e più ricca, costruì un ampio dominio sull’adriatico e sui porti d’oriente usando. Sapientemente forza militare e penetrazione economica (famose le colonie di Cipro e Creta). Anche nell’Italia continentale abbiamo linee di espansione evidenti. Milano appariva già come città di indiscussa supremazia politica ed economica nella regione padana. Dopo una serie di. Vittoriose campagne militari contro centri più piccoli ma pericolosi concorrenti economici come Lodi, Como, Pavia e Cremona, Milano divenne il terminale dei traffici commerciali tra Italia e terre d’Impero, e un centro di potere politico che irradiava il suo dominio sia sul Piemonte che sull’Emilia settentrionale. Le città emiliane come Piacenza, Parma, Reggio, Modena, Bologna si erano giovate dei commerci lungo il Po e la Via Emilia. Le città crescevano costantemente soprattutto Bologna, sede della prima università italiana, anche se i territori del contado non erano ampi e un0agguerrita piccola nobiltà di castello rendeva la vita politica interna agitata. La toscana aveva città con territori più estesi come Pisa, Siena, Firenze, Arezzo, Lucca, e si combattevano palmo a palmo i confini di territorio ancora da definire. In Umbria e nelle Marche la dimensin dei centri urbani era di taglia minore, eccetto il caso di Perugia, la media delle città era di 5-6000 abitanti. Erano abitate da una borghesia campagnola, dipendenti da un’economia agraria. La varia composizione economico-sociale rende ancora più sorprendente l’adozione di un sistema politico comune delle città. Durante il XII secolo le città dell’Italia centro-settentrionale divennero comuni, sperimentano le stesse forme di governo e usarono un medesimo linguaggio per rappresentarsi e comunicare fra loro. A favorire questa omogeneità di fondo del sistema politico comunale concorsero vari fattori: la circolazione di idee e di uomini fra i centri urbani delle varie regioni, la spontanea diffusione di forme assembleari di autogoverno nelle comunità rurali, la funzionalità della forma consolare per governare le città di diversa taglia e misura. Infine la necessità di fronteggiare la sfida posta al sistema cittadino italiano dalle pretese dell’Impero nei decenni fra il 1154 e il 1183, sotto il regno di Federico I di Hofenstaufen. I comuni alla prova della guerra Parte integranti della fase di definizione dei comuni è lo scontro con l’impero di Federico Barbarossa. l’Italia alla Germania sembrava al tempo stesso unita e divisa, distante dai modi delle terre dell’Impero. Ottone vescovo di Frisinga, cancelliere imperiale zio di Federico I di Svevia, nella sua Historia definisce i lombardi come amanti della libertà, pretendevano di eleggersi i consoli da soli, e si dimostravano aperti verso le classi inferiori, tanto che addirittura gli artigiani partecipavano alla guerra con i cavalli. Per i tedeschi questo era un mondo alla rovescia e fuorilegge. La cavalleria era un ordine chiuso e limitato alla nobiltà, le città dovevano essere sottomesse all’impero. Il primo impatto con gli italiani fu traumatico per l’imperatore: in una riunione tenuta a Costanza due ambasciatori di Lodi si recarono vestiti di stracci dicendo che Milano aveva inflitto innumerevoli sofferenze ai lodigiani, che per questo motivo avevano giurato di non abitare mai più nella stessa città dei milanesi. Così l’imperatore chiamò Milano a riparare all’offesa alla dignità imperiale. I milanesi tentarono di comprare con denaro contante il diritto di controllare Lodi e Como, un oltraggio inaudito alle orecchie dei cronisti imperiali. Federico rifiutò e mise al bando i milanesi dando inizio alla guerra. 1155 conquista imperiale di Asti e distruzione di Tortona. 1158 ritorno in Italia, conquista di Brescia e saccheggio di Milano. Durante la dieta di Roncaglia del 1158 Federico aveva rivendicato il potere imperiale su tutti i territori dell’Impero, e pretese la restituzione di tutti i diritti regi usurpati dalle città: le tasse (il foro), l’elezione dei consoli, i palazzi pubblici, imposte sulle strade e sui fiumi, una lista. Così lunga che avrebbe svuotato l’autonomia dei comuni. Dopo la distruzione di Milano del 1158 Federico impose alle città ribelli dei rettori di nomina imperiale, i cosiddetti podestà imperiali. Il governo di questi podestà è ricordato dalle città soggette come violento dispotico ed esoso: i podestà erano famosi per la loro rapacità nel prelievo fiscale per le guerre imperiali. L’ambito fiscale dunque diventò un argomento centrale per le città italiane, non solo per l’elevata pressione dei. Funzionari dell’impero, ma perché questi versamenti non restavano in città ma alimentavano un sistema di dominio sovra cittadino e centralizzato. Il sistema fiscale aveva smesso di essere un sistema di integrazione di cittadini in una comunità e aveva iniziato ad essere un segno di sottomissione infamante, in quanto esteso solo ai sudditi del signore. 1162 Federico Barbarossa attacca per la seconda volta Milano, radendola al suolo con l’aiuto dei lodigiano. Anche i comuni alleati dell’Impero come Cremona, Pavia, Reggio Emilia, Modena, Verona che avevano ricevuto numerosi privilegi ed esenzioni, vedevano nel governo imperiale una minaccia grave alla propria autonomia. Le città venete avevano formato una lega di comuni alleati impegnati a prestarsi aiuto in caso di attacco. L’idea funzionava e venne ripresa anche dalle città lombarde nel 1168, con la fondazione della Lega Lombarda. Fu una alleanza tattica tra centri urbani in conflitto fra loro che sospendevano le ostilità per difendersi da un pericolo maggiore. Per questo entrarono nella lega, anche se non senza riserve, le città nemiche di Milano come Cremona, Como, Lodi e Bergamo, insieme alle alleate storiche: Brescia, Piacenza e Bologna. La lega era governata dai. Rettori, eletti da tutte le città, aveva un tribunale proprio per risolvere le controversie fra i comuni e coordinava sul piano militare le azioni delle singole città, spostando eserciti e aiutando i membri in difficoltà. Si diffuse dunque un modello coerente di città comunale, governata da consoli eletti, gravitante su un territorio di pertinenza del comune intoccabile da parte delle altre città. L’alleanza potè durare anche grazie all’appoggio del papa che conferiva alla lega un supporto ideologico molto forte, essendo ora l’emblema della libertà contro la tirannia dell’impero. Le azioni militari più efficaci furono quelle di disturbo, anche per via del fatto che Federico Barbarossa non poteva contare sul totale appoggio dei principi nelle sue campagne militari in Italia, oltre al fatto che le città a lui alleate nella penisola erano poco fidate, in quanto fornivano aiuto ma solo in cambio di ingenti privilegi che minavano l’autorità dell’imperatore stesso, il quale nonostante questo li accordava. Dopo un decennio di battaglie non risolutive nel 1176 avvenne lo scontro di Legnano in cui i comuni lombardi sconfissero l’esercito imperiale, e l’evento ebbe un effetto formidabile sul piano della propaganda politica. I comuni erano a tutti gli effetti i difensori della Libertà, che coincideva con <<indipendenza dall’impero>>. La diplomazia tuttavia prevalse: nel 1177 il papa strappò all’imperatore una tregua di cinque anni, la pace di Venezia e allo scadere dei cinque anni si raggiunse una concordia definitiva fra impero e città, a Costanza. La. Pace di. Costanza fu interpretata in modo diverso dai protagonisti: l’imperatore la considerava una grazia imperiale concessa generosamente, che permetteva ai comuni di godere di diritti di origine regia. I comuni assunsero il documento come carta costituzionale, e da quel momento le città non furono più messe in dubbio dall’imperatore: nel 1183 Federico mise fine alle guerre d’Italia. Federico si dedicò così ad imprese guerresche considerate più valorose come la crociata e la liberazione di Gerusalemme, che era stata riconquistata da Saladino nel 1187. Partì nel 1188 ma morì mentre attraversava il fiume Salef sui monti della Cilicia. In Italia la fine del conflitto con l’imperatore fece emergere nuovi conflitti politici e sociali. A prestare servizio militare erano gli stessi cittadini del comune, chiamati allea armi e costretti così.ad abbandonare la loro attività. Questi venivano impiegati come pedites, ovvero soldati appiedati senza cavallo, e obbedivano agli ordini di una nobiltà spesso dispotica. Nel servizio militare era evidente la divisione in classi sociali del corpo cittadino, e dopo la vittoria della lega contro l’imperatore i soldati cominciarono a chiedere a gran voce maggiore rappresentanza, denunciando l’oligarchia di un ceto consolare ormai nelle mani delle grandi famiglie. L’affermazione del comune aperto: podestà, consigli e governi di popolo Tra gli ultimi anni del XII e gli inizi del XIII, scoppiarono sempre più violente rivolte di cittadini appena immigrati oppure di ceto medio o inferiore, contro l’iniqua ripartizione delle tasse imposte dai consoli in occasione delle spedizioni militari. La protesta era rivolta contro la ristrettezza del sistema rappresentativo e sulla sua sordità alle richieste di maggior giustizia sociale, oltre alla prepotenza di un ceto militare che moltiplicava le guerre senza badare agli interessi della città. I milites, dunque i nobili che prestavano servizio militare ricevevano un cospicui risarcimento dal comune per le perdite subite in battaglia, dunque erano due volte avvantaggiati sul piano fiscale: erano esenti dalla maggior parte delle imposte e in più si accaparravano una parte delle entrate del comune un proprio magistrato, sempre forestiero e a tempo chiamato Capitano del Popolo che guidava il Consiglio del Popolo. Nei comuni in cui prevalse questa nuova formula si instaurò un nuovo governo dominato direttamente dal gruppo dirigente delle Arti. A Bologna presero il nome di Anziani, a Firenze e Perugia i Priori, a Siena i Nove: nomi diversi per esperienze simili, un governo collegiale formato dal Podestà, dal Capitano, dai due consigli (del comune e del Popolo) coordinati dalle Arti. Una volta giunto a potere il Popolo si divise in gruppi egemoni che dirigevano la vita politica della città. Il dominio delle cosiddette Arti maggiori a Firenze non è solo un mito storiografico. Ci fu un alleanza a più livelli, spesso non coordinati, fra grandi commercianti e i banchieri che tendevano a limitare la partecipazione politica e la libertà d’azione economica dei gruppi artigianali minori. A Siena il dominio degli intermediari del denaro si alleò con le compagnie mercantili formando uno dei governi più stabili della storia comunale, il governo dei Nove. A Bologna la situazione era più complessa. I banchieri finanziavano il comune, e lo tenevano in pugno con i crediti, ma furono i notai a influenzare l’indirizzo politico del governo. Questi erano animati da un impeto ideologico esasperato, ed erano i custodi della politica del controllo totale caratteristica delle città italiane nella seconda metà del Duecento. Si accelerò il processo di razionalizzazione delle pratiche di governo: in primo luogo i residenti venivano censiti e divisi per parrocchie, quindi i contribuenti divisi in soggetti al fodro, antica tassa regia, e in estimi già moderni con valutazione reale della ricchezza individuale. Le dichiarazioni dei contribuenti venivano trascritte in grandi registri e alla somma dei beni dichiarati veniva attribuito un valore totale che rappresentava la cifra di estimo di quel civis, la sintesi della sua ricchezza. Questo processo avviò la riscossione delle tasse su base proporzionale alla ricchezza reale dei cittadini, la quale costituiva una mezza rivoluzione poiché per la prima volta si andavano ad intaccare i patrimoni dei ricchi. Nella pratica le cose andarono in maniera diversa: i più ricchi pagavano più tasse, ma erano presenti precauzioni a tutela degli aristocratici. Una di queste era l’esenzione dall’estimo dei capitali mobili, gli sconti per i crediti non pagati erano concessi con generosità e dare soldi al comune onera avvertito come una perdita di capitale, ma come investimento. Molte famiglie di banchieri trovavano vantaggioso prestare al comune e mostrarsi generosi benefattori della collettività. Oltre a queste categorie giuridiche di cittadini (residenti e contribuenti) si elaborarono liste secondarie di appartenenti ai consigli, a società territoriali e corporative, agli uffici comunali, con la possibilità di incrociare e ricopiare i dati ogni volta che le esigenze amministrative richiedevano di isolare un gruppo particolare di persone: chi non era iscritto all’estimo, chi non pagava le tasse, chi non si presentava in consiglio e così via. Non sfugge il significato politico di questo sistema e il grande salto di astrazione compiuto dal comune di Popolo nei metodi di governo. Il presupposto era il controllo delle condizioni individuali dei cittadini, un controllo da attuare con strumenti completi ma sintetici e facilmente aggiornabili. Da questo momento tutte le relazioni fra cittadino e istituzioni furono formalizzate all’interno di un sistema contabile e facilmente consultabile, in modo da riconoscere immediatamente il cittadino. Anche la politica repressiva del comune trasse profitto da questa rivoluzione, formando elenchi di appartenenti alla parte riconosciuta come nemica e posta al bando. La giustizia divenne più severa, fatto salvo il fatto che tutti avevano il diritto di presentarsi davanti al tribunale per difendersi. Si fornirono ai giudici poteri maggiori per scoprire e punire le infrazioni contro l’ordine pubblico, in particolare quei reati violenti dovuti allo sfoggio di potenza della nobiltà militare. Si presero inoltre provvedimenti severi contro le speculazioni economiche dei grandi proprietari, in città si pose un limite ai prezzi degli affitti delle case. Nei confronti del contado si vietò di accumulare frumento per i periodi di carestia per fare aumentare il prezzo e di esportare grano fuori del contado. Il contado fu oggetto di una profonda ristrutturazione delle sue articolazioni amministrative. Fino alla prima metà del Duecento il tentativo del comune di creare un territorio fedele alla città aveva portato alla formazione di una rete di alleanze, acquisti, e pattuizioni in grado di coordinare una pluralità di persone (il problema è come intendere le pluralità di persone, in base a cosa questa pluralità di persone viene riunita sotto un certo potere). Negli anni finali del duecento le pretese della città aumentarono e il controllo sul contado si fece più stretto: esso fu diviso in sezioni corrispondenti ai quartieri della città dei quali erano i prolungamenti, al loro interno queste partizioni furono divise in aree minori affidate ad un ufficiale cittadino, il vicario o il podestà responsabile della condotta degli abitanti; i castelli furono controllati direttamente da contingenti militari anch’essi di provenienza urbana. Soprattutto si imposero una serie di fiscali e annonari che scaricavano sul contado una parte rilevante del mantenimento della città e della sua popolazione in crescita. Agli estimi cittadini si aggiunsero così quelli sul contado, che definivano le tasse da imporre a ciascun villaggio in base ad un calcolo degli abitanti- il calcolo era spesso approssimativo e iniquo, che non teneva conto dei fenomeni di spopolamento e di mobilità della popolazione del contado, costretto così a pagare la stessa cifra anche in caso di riduzione degli abitanti. Si irrigidirono inoltre le forme di accoglienza degli immigrati di provenienza rurale, i quali venivano accettati in città solamente se integrabili nel sistema economico della città. Nonostante queste. Tensioni il comune di Popolo ottenne una legittimità più alta del regime podestarile: senza dubbio una legittimità fondata sulla disciplina, ma anche su una reale compartecipazione agli interessi collettivi attraverso un sistema di rappresentanze a catena che avvicinavano membri delle associazioni di mestiere con gli organismi dirigenti del Popolo e dunque con le istituzioni comunali. I meccanismi elettivi delle corporazioni moltiplicarono i rappresentanti delle singole società in piccoli consigli societari che a loro volta eleggevano i Priori o gli Anziani. allo stesso tempo molti provvedimenti esaminati nei consigli maggiori del popolo e del comune provenivano da impulsi delle società di Arti. I governi popolari erano più legalistici e più aperti e partecipati, ma non durarono più a lungo dei predecessori. La divisione in gruppi di famiglie alleate contro una parte avversa si era diffusa durante le guerre contro Federico I e Federico II tra il 1226 e il 1250. In quel periodo le famiglie si contrapposero in guelfi, alleati del papa, e ghibellini, alleati dell’imperatore. La scelta dipendeva spesso da fattori diversi, sociali o personali invece che una fedeltà all’impero. In molte città una di queste due parti divenne un’istituzione, con i loro consigli e podestà dando modo ai nobili esclusi dal consiglio del Popolo di tornare in politica nel gruppo dei guelfi o dei ghibellini. Si aggiunsero oltre ai conflitti di classe anche i conflitti tra fazioni. Per questo il popolo cercò di combattere eccessiva carica di violenza di queste forze centrifughe, facendo del tema della pace l’ideale politico della città. Non era una scelta remissiva ma un tentativo di sostenere l’equilibrio fragile tra governi di popolo e fazioni grazie ad una potente molla ideologica che legittimasse governi sempre più di parte. Il mantenimento della pace era spesso una pratica di imposizione, e legittimava procedure di emergenza. Molti comuni di Popolo emanarono a fine duecento leggi speciali chiamate ordinamenti di giustizia o antimagnatizie, per assicurare la pace interna contro i magnati. I magnati erano tutti quei grandi, ricchi, potenti, cavalieri, e grandi mercanti e banchieri che imitavano la nobiltà, che si opponevano al comune e lo minacciavano con atti di sovversione violenta. A queste persone fu vietato di prendere parte a pratiche comunali, fu imposto un regime speciale nelle questioni giudiziarie, e infine a molti di coloro che non rispettavano questi precetti fu comminato il bando e l’esilio dalla città. Il comune poteva dunque spostare gli individui ribelli o inaffidabili dalle liste di inclusione a quelle di esclusione. In questi anni il Popolo si propose come unica forza politica capace di perseguire il bene comune, ripreso dalla Politica di Aristotele, portatrice di un sistema consolare aperto e difensoredel benessere collettivo e della uguaglianza giuridica. Tuttavia questa posizione perse poiché non riuscì ad affermare queste prerogative senza il ricorso alla forza e le tensioni fra fazioni portarono ad un rigetto della forma comunale, portando all0investitura di una singola figura di prestigio proveniente da famiglia nobiliare. Si tratta del dominus che si impose grazie ad alleanze con le istituzioni del Popolo, così a Milano dagli anni quaranta del duecento fino al 1277 si formò un alleanza fra la credenza di S. Ambrogio e la famiglia dei della torre, che occupò la carica di podestà della stessa credenza, maggiore organizzazione di Popolo. Tuttavia non si trattò di una svolta definitiva ma dell’ingresso in una fase di sperimentazione che poteva anche ricondurre ad adottare il sistema comunale. La delega del potere ad un podestà straniero perse la sua efficacia una volta che nuove organizzazioni politiche reclamarono il loro posto nel consiglio della città. prevedeva una struttura istituzionale ben definita, con ministro generale, ministri provinciali e capitolo. Negli ultimi anni Francesco si ritirò sul monte della Verna e ricevette il dono delle stigmate, come riferisce nel suo Testamento. In esso ribadì i punti fermi della spiritualità ma avvertì anche la distanza che si rea creata tra la fraternità di pellegrini itineranti che aveva immaginato all’inizio e l’ordine che aveva sotto gli occhi, sempre più sottomesso al potere del papa. In seguito alla sua morte nel 1226 le sue parole divennero campo di battaglia interno all’ordine. Su richiesta di alcuni frati Gregorio IX emanò nel 1230 una bolla che limitava l’osservanza stretta dei precetti evangelici contenuti nelle lettere di francesco: erano consigli e non prescrizioni dato che lui non poteva obbligare poiché si riferiva alla totalità dei chierici senza il consenso dei frati e dei ministri. Nel 1239 il capitolo generale limitò l’accesso all’ordine ai soli chierici, istruiti in grammatica e logica. Nel 1254 a minori e ai predicatori fu assegnato l’ufficio di inquisitori contro l’eresia, l’apparato repressivo speciale che coordinava i tribunali vescovili delle diocesi europee. Nel 1260 il maestro generale Bonaventura da Bagnoregio riformò le costituzioni dell’ordine e scrisse. Una nuova storia di Francesco, la legenda major approvata dal capitolo generale nel 1263 come versione ufficiale. Nei decenni successivi l’ordine tornò a dividersi su molti temi come la natura del messaggio francescano che non andava interpretato ma vissuto in prima persona, adesione a un modello radicalmente evangelico di povertà,, in base al. quale l’ordine non poteva possedere nulla; sulle forme organizzative dell’ordine diffuso in tutti i paesi europei. All’inizio del trecento la formazione di un gruppo di rigoristi della povertà chiamati spirituali portò ad una rottura profonda in seno all’ordine dei minori. Non solo i frati non dovevano possedere nulla ma neanche l’ordine stesso. Questo pose problemi alla chiesa che non si era mai chiesta se possedere beni fosse o meno in contraddizione con il messaggio di Cristo. I mendicanti e l’inquadramento dei fedeli Il successo dei frati minori fu eccezionale: divennero maestri di università e scuole, consiglieri di re e principi, e venivano riconosciuti dal popolo come nuovi pastori di anime. Questo successo era dovuto al fatto che incarnavano una fede religiosa vicina al popolo, le prediche erano in volgare, le questioni teologiche venivano semplificate e ricondotte ad esempi. Tratti dalla vita quotidiana ben nota agli stessi frati, che spesso provenivano dal contesto urbano e conoscevano di persona coloro ai quali predicavano. Il male peggiore era la superbia, ovvero la presunzione di potere decidere. Del proprio destino, e la penitenza e la povertà erano necessarie per riconoscere che le sorti umane dipendono da Dio. In alcuni predicatori (esistevano diversi indirizzi) questo portava ad un accettazione della propria posizione all’interno della società in funzione dell’armonia della comunità. La predicazione doveva dunque condurre alla confessione. Esistevano manuali di confessione redatti dagli esponenti degli ordini mendicanti, che servivano a classificare i peccati degli individui in base al loro status, alla loro età, alla disposizione a peccare. Ogni categoria sociale aveva i suoi peccati, e due persone diverse compiendo le stesse azioni potevano stare peccando in maniera diversa. Il sacerdote confessore doveva così essere addestrato a rivolgere al fedele le domande adeguate a condurre una confessione completa. Il sacerdote diventava un giudice di un piccolo processo dove il sacerdote giudicava la coscienza del fedele in un foro speciale detto “foro penitenziale”. I laici cominciarono però a rivendicare il diritto ad una vita religiosa più partecipativa, in reazione al tentativo gregoriano di inquadrare questa solo entro la sfera ecclesiastica. Nacquero così associazioni di laici penitenti, che predicavano l’astensione dalla vita mondana come i banchetti e dal lusso. Tra questi ordini troviamo i poveri valdesi, gli umiliati, o i poveri lombardi. La Chiesa rispose cercando di fornire una forma istituzionale a queste associazioni attraverso la formula della confraternita, imponendo loro di fornirsi di una regola scritta che regolasse la vita interna del gruppo e l’obbedienza al clero diocesano. Molte confraternite si specializzarono nella carità pubblica, altre nell’assistenza ai malati, fondando ospedali e ricoveri per pellegrini. Questa galassia di movimenti laicali fu ricondotta sotto l’ala dei frati minori. In una bolla del 1289 papa Niccolò IV (primo papa proveniente dai minori) affermò che penitenti dovevano essere affidati ai francescani poiché fondati da San Francesco, anche se ciò non era vero. Dunque gli ordini mendicanti istituirono dei “terz’ordini” composti da laici penitenti, che vennero delegati ad opere di carità pubblica, in obbedienza al vescovo. La partecipazione dei minori all’ufficio dell’Inquisizione fu ufficializzato da Innocenzo IV nel 1254, ma ci sono fonti che attestano minori inquisitori ben prima di quella data. In Francia del Nord troviamo frati inquisitori già nel 1227, nel 1236 e a Tolosa nel 1237. Nel 1254 l’Inquisizione diventa un’istituzione della Chiesa romana. Innocenzo IV aveva diviso l’Italia in due province: una assegnata ai predicatori, (Emilia, Lombardia, Piemonte, Liguria) e una ai minori (Marca di Treviso, Marca di Ancona, Romagna e Toscana). La procedura degli inquisitori era chiamata inquisitio ex officio. Non era diretta unicamente contro l’adesione ad una fede eterodossa o eretica, ma anche e soprattutto contro la frequentazione di un gruppo sospetto, l’adesione alla setta, il prestare aiuto anche indiretto o anche solo la semplice conoscenza. La battaglia era dunque contro la rete sociale che sosteneva l’eresia, non solo il singolo eretico. La procedura comprendeva che all’arrivo in un villaggio l’inquisitore proclamasse l’inizio di un periodo di grazia durante il quale chiunque avrebbe potuto confessare o riferire alle autorità ecclesiastiche i propri peccati o quelli di qualcun altro, e in cambio sarebbe stato perdonato. Si tentava così di colpire i membri più deboli della setta. Era previsto anche il ricorso alla tortura per estorcere una confessione, e una volta andata a buon fine l’eretico poteva scegliere se abiurare o se mantenere la propria fede. Il fine dell’inquisizione non era quello di sterminare gli eretici, ma di convincerli all’abiura. Nonostante questo le pene per gli irriducibili erano severe: Innocenzo IV, nella bolla ad extirpanda del 1252 aveva inserito nella legislazione ecclesiastica un esplicito assenso alla pena di morte da infliggere agli eretici penitenti, che dovevano essere giustiziati e bruciati. L’uso politico dell’eresia Federico II introdusse il reato di eresia nell’ambito politico, dopo aver combattuto i patarini in Sicilia ed essersi così schierato al fianco della chiesa. Aveva equiparato il reato di eresia a quello di lesa maestà, ma il suo progetto venne meno quando nel 1245 durante il Concilio di Lione venne scomunicato dal papa, cosa che iniziò una lunga guerra tra papato e impero, continuata anche sotto i due eredi di Federico: Manfredi e Corradino, dopo la morte di Federico nel 1250. Rimanevano in Italia potentissimi dominati fedeli al partito dell’Imperatore e oppositori della chiesa, a cominciare dal più forte capo ghibellino: Ezzelino da Romano, velocemente definito dalla chiesa come l’esempio perfetto di tiranno eretico, violento e dispotico contro i suoi sudditi. Venne dunque dichiarata una crociata contro di lui, guidata dal legato pontificio. Grazie agli sforzi della chiesa la violazione dell’ortodossia religiosa era equiparata ad un crimine di stampo politico: la disobbedienza ai dogmi era disobbedienza alla Chiesa. Per questo però era necessario l’intervento dei sovrani cristiani dell’Europa medievale. Filippo il Bello vs Bonifacio VIII, e il conflitto contro i templari sono esempi della nuova affermazione del potere regio. Il conflitto con Bonifacio VIII verteva sulla difesa dell’immunità pontificia dal fisco e dalla giustizia dei re. Filippo IV il Bello aveva forzato la mano in due occasioni: aveva imposto il pagamento delle tasse al clero francese durante la guerra mettendo sotto processo un vescovo. Bonifacio VIII reagì in modo violento: minacciò il re di scomunica riaffermò il potere del papa su tutti i principi laici (la Unam Sanctam). L’autorità temporale doveva essere sottomessa a quella spirituale. Non era la prima volta che le idee teocratiche entravano nel teatro politico europeo, ma in questo caso lo scontro non verteva sulle idee ma sulla capacità di esercitare un potere reale su un territorio. Bonifacio eletto papa nel 1294 in seguito alle contrastatissime dimissioni di Celestino V era un papa potente, di grande cultura giuridica, spregiudicato nel. Governo della chiesa e violento nel rapporto con i poteri laici. Tuttavia aveva molti punti deboli, a partire dalla famiglia rivale dei Colonna, che aveva sconfitto alle elezioni pontificie, le resistenze dei comuni allo stato della chiesa e i cardinali oppositori in tutta Europa. Filippo il Bello si contrapponeva a Bonifacio denunciandolo come un papa eletto illegalmente ergendosi come il. Vero protettore della chiesa. Coadiuvato da un gruppo di giuristi che stavano ridisegnando la dimensione della maestà dal punto di vista giuridico Filippo mandò il suo cancelliere Guglielmo di Nogaret ad Anagni, per catturare Bonifacio e impedirgli di pubblicare la scomunica del re nel 1303. Dopo un mese Bonifacio morì e iniziò una delle più grandi crisi della Chiesa medievale. Venne iniziato un processo contro Bonifacio nello stesso 1303, poi ripreso nel 1308 e nel 1311. Le accuse erano molto gravi: eresia e. condotta sessuale deviata. Il processo a Bonifacio inoltre si aggiungeva al processo contro i templari che custodivano il tesoro regio. La mattina del 7 ottobre con un ordine impartito da tutto il regno Filippo fece arrestare i generali dell’ordine e tutti i templari del regno. Le accuse erano la rinnovazione del crocifisso e l’adorazione del demonio. Il re agisca contro una trasgressione dell’ordine della natura, noi che siamo costituiti dal Signore sul posto di osservazione dell’eminenza regia per difendere la fede della Chiesa. In pochi anni il reato di stregoneria e sodomia divenne l’accusa comune rivolta agli oppositori politici della corona. Sia il re di Francia che il papa Giovanni XXII seguirono questo modulo. Il papato venne spostato in Avignone nel 1309, come esilio da Roma per via della corruzione del papa Bonifacio VIII. Per il pontefice avignonese il demonio esisteva e abitava nella zona oscura degli uomini, non nell’inferno. Contro questo patto sacrilego bisognava usare procedure speciali, rompere i sigilli del segreto interiore, svelare l’occulto e rendere manifesto il pericolo. Il papato di Giovanni XXII risentì della cattività avignonese, che rendeva difficile la gestione di un territorio vasto come l’Italia da parte di un papa che gli abitanti ritenevano straniero. Nonostante questo i 70 anni avignonesi permisero al papato di fornirsi di nuovi assetti amministrativi: i registri
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