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Manueale di Storia Contemporanea - Detti Gozzini, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto manuale di storia contemporanea

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018
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Scarica Manueale di Storia Contemporanea - Detti Gozzini e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! STORIA CONTEMPORANEA 1. LA GRANDE GUERRA 1.1. Rischio 1914 Guerra prevalentemente combattuta sul suolo europeo, ma che coinvolse anche i più importanti stati extraeuropei: Giappone e USA. È la prima guerra ad assumere dimensioni mondiali e venne definita “Grande Guerra” per il gran numero di eserciti e per il grandissimo potenziale distruttivo a causa del massiccio uso bellico degli apparati industriali e delle tecnologie. Il numero di morti in poco più di 4 anni fu di circa 10 milioni. Essa provocò: • Scomparsa di 4 grandi imperi: russo (rivoluzione 1917); degli Asburgo; tedesco (diventa una repubblica democratica); turco (epilogo di una lunga crisi). • USA soppiantarono la Gran Bretagna diventando la nuova potenza mondiale. • Definitiva sconfitta dell’ancien régime e nascita della moderna società di massa. • Fine del “lungo Ottocento” iniziato con la rivoluzione francese e culminato nell’età dell’imperialismo. Nessuno aveva previsto una guerra del genere e i rapidi sviluppi degli eventi colsero di sorpresa gli stessi protagonisti, in quanto ci si aspettava di fare una “guerra lampo”. CAUSA: assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria-Ungheria, che rimase vittima di un attentato mentre si trovava in visita ufficiale nella capitale della Bosnia, Sarajevo, per conto di un gruppo irredentista slavo. Era il 28 giugno 1914. Il governo austro-ungarico reagì dando la corresponsabilità alla Serbia (mai dimostrata). Inoltre la Serbia era considerata a Vienna un grave pericolo in quanto nel 1912-13 essa aveva ottenuto grandi conquiste coloniali e l’attentato fu un pretesto per “dare una lezione” alla Serbia. Dopo l’appoggio tedesco (6 luglio), l’Austria impose l’ultimatum a Belgrado (23 luglio) con la richiesta di una serie di misure per far cessare ogni attività antiaustriaca in quel paese, con il dovere di rispondere entro 48 ore. Se avesse accettato, la Serbia avrebbe rinunciato alla propria sovranità e così rifiutò. Il 28 luglio 1914 l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia. Entrarono poi in gioco linee di alleanza che divisero in continente europeo: • La Russia, che sosteneva la Serbia, mobilitò le sue truppe • Controreazione della Germania che chiese alla Russia di revocare il provvedimento e alla Francia di rimanere neutrale, ma non ottenne risposte positive. Il 1° e il 3 agosto la Germania dichiarò guerra a Russia e Francia. Il 4 agosto invase il Belgio, territorio neutrale e a quel punto l’Inghilterra scese in campo in difesa di Francia e Belgio. L’Italia, pur appartenendo alla Triplice Alleanza, si disse neutrale. Il 23 agosto il Giappone mosse guerra alla Germania e ad ottobre alla Turchia. Successivamente interverranno la Bulgaria a fianco della Triplice Alleanza, l’Italia, la Romania, gli USA e la Grecia a fianco della Triplice Intesa. Nell’articolo 231 del Patto di Versailles del 1919 si individuò come causa scatenante la guerra l’aggressione tedesca e anche le analisi condotte successivamente diedero le maggiori responsabilità all’Austria e soprattutto alla Germania, le quali svilupparono una politica coercitiva che implicava la possibilità di una guerra. Russia e Francia stettero al gioco e accettarono il rischio di un conflitto. Tutti gli Stati cercarono di accrescere la propria sicurezza aumentando l’insicurezza degli altri e indurli a fare altrettanto (dilemma della sicurezza), innescando una spirale di tensioni e la corsa agli armamenti. Questo meccanismo fece sì che l’Austria percepisse un rafforzamento della Serbia . Inoltre la crescita del potere tedesco era una forte preoccupazione per gli stati confinanti e per l’Inghilterra, che temeva la propria supremazia (riarmo navale della GB a causa della flotta navale tedesca, che favorì l’avvicinamento a GB di Francia e Russia). Nacquero così due fazioni: • Triplice Alleanza: Austria, Germania, Italia. • Triplice Intesa: Inghilterra, Russia, Francia. Nel 1914 ci fu una disposizione strategico-militare offensiva in cui tutti gli Stati europei agivano in base a dottrine militari e piani strategici di tipo offensivo, fondati sul concetto della guerra di movimento e sul culto dell’offensiva. Inoltre la Germania puntava all’egemonia continentale, che era inaccettabile per l’Inghilterra, la cui leadership poggiava sulla conservazione di un ruolo arbitrale in Europa e un equilibro tra Francia e Germania. Inoltre la Francia voleva la revanche, cioè la rivincita sulla sconfitta del 1870 (guerra franco- prussiana). L’Austria aspirava a salvare l’integrità del suo impero e la Russia voleva espandersi verso Costantinopoli. Questa situazione di tensione, corsa agli armamenti, rivalità e movimenti nazionalisti provocò il conflitto. 1.2. Una guerra nuova Piano Schlieffen (dal nome del capo tedesco che l’aveva elaborato nel 1905): campagna veloce e risolutiva contro la Francia che prevedeva di attraversare il Belgio. L’offensiva tedesca non produsse gli effetti sperati e a settembre venne arrestata dagli anglo-francesi sul fiume Marna. Da qui si capì l’impossibilità di una guerra lampo. A Natale i due schieramenti erano bloccati sulle linee di trincea dalla Manica alla Svizzera. Si parlava quindi di guerra di posizione. Italia: intervenne nel 1915 a fianco dell’Intesa e tra 1915 e 1917 si impegnò contro gli austriaci in 11 battaglie sul fiume Isonzo. Nel maggio 1916 ci fu una spedizione punitiva avversaria (Strafexpedition) che venne fermata a fatica ad Asiago. Ci fu poi la sconfitta italiana a Caporetto (ottobre 1917). Nell’estate 1918 l’ultima offensiva tedesca sul fronte occidentale fu fermata sulla Marna e da lì partì il contrattacco dell’Intesa, culminato ad Amiens in agosto. Si trattò di una guerra di logoramento, con poche conquiste e molte vittime: 6,5 milioni di mutilati, 10 milioni di morti, 4 milioni di vedove e 8 milioni di orfani. Comparve anche il genocidio: il popolo armeno venne accusato di disfattismo e fu usato dal governo turco come capro espiatorio delle sconfitte belliche sfruttando l’antico contrasto religioso che divideva cristiani armeni dai turchi musulmani. Ci furono più di 300 mila vittime su 2 milioni di persone. I soldati iniziali erano circa 6 milioni e a fine guerra divennero 65 milioni, inoltre le novità consistevano nelle tecnologie avanzate utilizzate: nel 1915 i tedeschi lanciarono per la prima volta un gas asfissiante, inoltre furono perfezionate le armi già esistenti, e aerei da caccia e sottomarini ebbero un ruolo determinante. Usati anche: polvere da sparo senza fumo, cannoni a tiro rapido senza rinculo e mitragliatrici portatili. Comunicazioni: uso massiccio di telegrafo e telefono, ruolo delle ferrovie importante per trasportare truppe e approvvigionamenti. Decisiva risultò la guerra per mare: l’Inghilterra cercò di strangolare la Germania impedendole il rifornimento di materie prime e generi alimentati dall’estero con un blocco navale. La Germania rispose con una guerra sottomarina a inizio 1917 che fallì perché gli inglesi riunirono le imbarcazioni mercantili in convoglio protetti e perché nell’aprile 1917 intervennero gli USA. Inoltre il crollo della Russia a causa dell’arretratezza interna del paese spostò i rapporti di forza a favore degli Imperi centrali, ma l’entrata degli USA a favore dell’Intesa annullò il vantaggio. Tra marzo e luglio 1918 le linee alleate vennero sfondate più volte, ma le truppe tedesche che si spinsero a pochi km da Parigi erano ormai stremate e la loro pressione di esaurì prima della resistenza avversaria e così i tedeschi dovettero subire una controffensiva alleata a vasto raggio, finché il 4 ottobre chiesero un armistizio. La vera svolta delle operazioni viene individuata nella battaglia di Amiens dell’agosto 1918, la quale fu determinante grazie all’uso del carro armato: i 465 carri usati furono decisivi e così oltre alla Germania, fu anche la guerra di posizione ad essere battuta e la guerra poteva già essere finita. 1.3. Stato, industria e società nella guerra L’industria fu essenziale durante la guerra, perché permise agli eserciti il rifornimento delle armi. Dall’inizio del conflitto si assisté ad una grande sollecitazione con un’enorme crescita delle industrie degli armamenti (Krupp, Schneider, Vickers). Il fenomeno riguardò anche le acciaierie, i cantieri navali, le aziende chimiche e automobilistiche, insieme al grande uso di tecnologie. In Italia e Francia, fu grazie alla guerra che avvenne il fenomeno dell’industrializzazione. Si assisté ad un sistematico intervento dello stato sull’economia e punto di partenza di tale processo furono gli approvvigionamenti: nacquero uffici dedicati alla pianificazione della produzione bellica in Germania e nel Regno Unito, dove venne istituito un rigido controllo statale sull’economia. In Francia l’industria si modernizzò grazie ai finanziamenti pubblici e in Italia fu creato un Comitato governativo per la mobilitazione industriale. Le maggiori alterazioni furono nel campo della finanza: per pagare i costi della guerra c’erano tre modi imporre tasse, contrarre debiti e stampare carta moneta. L’aumento delle imposte indirette non bastò perché A luglio, a seguito di una sconfitta, ci fu una rivolta da parte dei soldati e operai nella capitale in cui mostrarono la volontà di uscire dalla guerra e di dare il potere ai soviet, ma senza risultati. A settembre ci fu un tentativo di colpo di stato da parte del capo dell’esercito Kornilov, sventato grazie alla mobilitazione del soviet di Pietrogrado e all’appoggio degli eserciti bolscevichi, che ne uscirono molto rafforzati, ottenendo per la prima volta la maggioranza all’interno dei soviet. Inoltre i bolscevichi Nogìn e Trockij assunsero la presidenza dei soviet di Mosca e di Pietrogrado, ma intanto nelle campagne la rivolta continuava. Lenin quindi decise che era il giunto il momento per la conquista violenta del potere da parte del proprio partito e fissò un’insurrezione con il comitato centrale bolscevico per il 25 ottobre 1917, giorno in cui era convocato il congresso dei soviet. La resistenza al Palazzo d’Inverno fu debole e così la sera stessa il congresso dei soviet proclamò la repubblica sovietica e approvò due decreti per la pace immediata e per la confisca delle terre e la loro assegnazione ai contadini. Lenin ribadì i decreti sulla pace e sulla terra e istituì il controllo operario sulle fabbriche, nazionalizzò le banche, le ferrovie e alcune industrie, concesse l’indipendenza alla Finlandia e alla Polonia e sancì il diritto all’autodeterminazione dei popoli del vecchio impero: tutti questi provvedimenti aumentarono il consenso da parte delle masse. A fine novembre le elezioni per l’Assemblea costituente mostrarono una maggioranza per i bolscevichi in luoghi come Pietrogrado, Mosca e la flotta del Baltico, ma nel complesso arrivavano solo al 25% dei consensi, mentre il 62% era per i socialrivoluzionari. L’Assemblea si riunì a gennaio 1918 e non riconobbe il potere sovietico e venne sciolta. Fu il primo segno autoritario dei bolscevichi. Incapace di reggere lo sforzo bellico, il nuovo governo chiese un armistizio e nel marzo 1918 fu firmata una pace a Brest-Litovsk. La nuova repubblica dei soviet cedeva la Finlandia, la Polonia, le province baltiche, l’Ucraina, parte della Bielorussia e della stessa Russia. I socialrivoluzionari di sinistra uscirono dal governo, ma in compenso la pace dette alla Russia un momento di respiro. 1.7. Dall’intervento americano alla fine della guerra -Francia: César Joffre viene sostituito nel 1916 da Robert Nivelle -Germania: Erich von Falkenhayn viene sostituito da Paul von Hindenburg e Erich Laudendorff -Inghilterra: il governo liberale di Herbert Asquith viene sostituito dal gabinetto di coalizione con i conservatori guidato da David Lloyd George -Germania: nel 1917 il cancelliere tedesco Theobald von Bethmann-Hollweg si dimette e apre la strada ad una vera dittatura Ne derivarono governi più forti e autoritari, ma anche una conduzione meno avventata delle operazioni militari. Una svolta decisiva nel conflitto avvenne con l’intervento degli USA nel 1917, dopo la guerra sottomarina tra Germania e Inghilterra, che colpì anche gli interessi americani, nonostante il presidente Woodrow Wilson aveva confermato la neutralità nel 1916. Infatti la crescita dei commerci con i paesi dell’Intesa aveva arricchito molto gli USA, ma li aveva anche esposti a dei rischi finanziari e la loro sconfitta sarebbe stata disastrosa per gli interessi americani. L’intervento americano rinforzò l’Intesa dal punto di vista ideologico. Wilson nel gennaio 1918 espresse in 14 punti il suo programma per la pace e per un ordine mondiale che scongiurasse nuovi conflitti, tra cui comprendeva libertà di commercio, riduzione degli armamenti, rispetto delle minoranze e formazione di una Società delle Nazioni. Ma le speranze di una pace negoziata morirono con la pace separata Brest-Litovsk: si ridusse infatti la disponibilità ad un accordo da parte degli Imperi centrali e il conflitto si trasformò in una guerra ad oltranza che sarebbe stata combattuta fino al limite estremo. Bulgaria e Turchia furono le prime a chiedere un armistizio, successivamente, il 3 novembre , fu la volta dell’Austria che rimase sola perché il resto dell’impero (Ungheria, Cecoslovacchia e gli slavi dei Balcani) si erano già distaccate. Il Kaiser Guglielmo II abdicò prima ancora che l’11 novembre venisse firmata la capitolazione del paese con l’armistizio che pose termine al conflitto. 2. IL DOPOGUERRA IN EUROPA: RIVOLUZIONE, REAZIONE, STABILIZZAZIONE 1.8. Versailles: speranze e realtà del dopoguerra Nel gennaio 1919 i delegati dei paesi vincitori si riunirono a Parigi per ridisegnare l’assetto dell’Europa: alla conferenza parteciparono il presidente Wilson (USA), il primo ministro Clemenceau (Francia), il primo ministro Lloyd George (Gran Bretagna) e il primo ministro Orlando (Italia), mentre furono esclusi i paesi vinti, ai quali vennero imposti i trattati senza possibilità di discussione. Vennero sanciti diversi trattati, tra cui il più importante fu il Trattato di Versailles del giugno 1919, che imponeva alla Germania: • Restituire l’Alsazia e la Lorena alla Francia • Cedere lo Schleswig del nord alla Danimarca • Cedere la Polinesia e parte dell’Alta Slesia e della Pomerania alla Polonia • Si creò così un “corridoio” fino a Danzica che separò la Prussia orientale dal resto della Germania • La regione carbonifera della Saar fu assegnata alla Francia per 15 anni • Le rive del Reno vennero smilitarizzate e occupate • Inghilterra e Francia si spartirono le colonie tedesche • La Germania dovette pagare 269 miliardi (divenuti poi 132) per i danni di guerra Altri trattati del settembre 1919 e agosto 1920 sancirono: • L’Italia ottenne Trentino, Sud Tirolo, Trieste, Istria • Austria tedesca e Ungheria vennero riconosciute indipendenti • Ungheria cedette la Transilvania ai rumeni e la Slovacchia ai cechi • Nascita della repubblica cecoslovacca • La Galizia andò alla Polonia • Nascita del regno di Jugoslavia con Serbia, Bosnia, Montenegro, Croazia e Slovenia • Indipendenza della Bulgaria • Alla Turchia rimase Istanbul e quasi tutta la penisola anatolica • Gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli vennero internazionalizzati • Smirne e le isole dell’Egeo andarono alla Grecia, il Dodecaneso e Rodi all’Italia, Cipro all’Inghilterra • Francia e Inghilterra si spartirono il Medio Oriente: Libano e Siria divennero mandati della Francia, Palestina e Iraq dell’Inghilterra • Londra aveva sotto la sua influenza anche Arabia e Yemen I paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica risultarono un insieme di diversi popoli, contenendo minoranze nazionali, differenze religione, economiche e sociali. Wilson fece introdurre nel Trattato di Versailles l’atto costitutivo della Società delle Nazioni, che avrebbe dovuto risolvere i conflitti internazionali, ma in realtà non svolse tali funzioni e rimase di fatto asservita agli interessi economici di Francia e Inghilterra. Inoltre il Senato americano non raggiunse la maggioranza necessaria per ratificare il trattato e così gli USA non aderirono alla Società delle Nazioni, tornando al loro isolazionismo. La pace imposta alla Germania con un “diktat” fu umiliante e punitiva e la cifra da pagare attuò una volontà di rivincita simile a quella della Francia dopo il 1870. Inoltre il trattato contribuì a indebolire la nuova repubblica democratica tedesca e aggravò la crisi finanziaria. A causa del ritardo nei pagamenti, la Francia nel 1923 occupò il bacino industriale tedesco della Ruhr, alimentano la tensione. L’Italia era insoddisfatta perché non aveva ottenuto la Dalmazia e le acquisizioni in Medio Oriente promesse dal Trattato di Londra. 1.9. La guerra civile russa e il “comunismo di guerra” Dal maggio 1918 al marzo 1920 la Russia visse una spaventosa guerra civile, scatenata dalle opposizioni di destra e dai socialrivoluzionari con l’appoggio delle potenze dell’Intesa e favorita da una terribile carestia, che unita al collasso industriale portò molti consensi ai bolscevichi. Il governo formato dai socialrivoluzionari non durò molto a causa dello scarso consenso dei ceti popolari. Inoltre in diverse zone del paese generali zaristi instaurarono delle dittature militari. L’estate 1918 fu critica per i “rossi” che controllavano ormai sono un territorio equivalente all’antico Principato di Moscovia, mentre i socialrivoluzionari scatenavano terrorismo, ma nonostante ciò i bolscevichi riuscirono a rialzarsi creando l’”Armata Rossa” grazie a Lev Trockij, che chiamò migliaia di ufficiali zaristi e ristabilì la disciplina, cercando di far leva sui contadini più poveri. Venne poi reintrodotta la pena di morte e la Ceka, una polizia spietata, divenne lo strumento primario di un regime di terrore, di cui rimase vittima anche l’ex zar Nicola II. Nell’ottobre 1919 Pietrogrado fu minacciata, ma i successi dell’armata rossa portarono alla riconquista di quasi tutti i territori occupati dai “bianchi”. All’inizio del 1920 la guerra era ormai conclusa, ma la repubblica sovietica sostenne un conflitto con la Polonia, il cui esercito invase l’Ucraina. Nell’agosto 1920 i russi furono sconfitti alle porte di Varsavia. Tra il 1914 e il 1921 ci furono circa 16 milioni di morti, con conseguenza il blocco delle nascite. Inoltre il clima generale portò la Russia ad un’arretratezza maggiore di quella prima della guerra. Fu abolito il libero commercio, le officine vennero nazionalizzate, si razionarono i pochi generi alimentari di consumo, si abolì la moneta e il lavoro divenne obbligatorio. Nel 1921 la produzione agricola era calata del 40% rispetto al 1913. Nell’inverno 1920/1921 il malcontento popolare dovuto alla fame e alle condizioni di vita esplose nella rivolta armata di varie province rurali e in alcuni scioperi a Pietrogrado, e nel 1921 ci fu una ribellione di marinai della piazzaforte di Kronstadt, che chiedevano la fine della dittatura del partito e le libere elezioni dei soviet, l’eliminazione degli aspetti più opprimenti del comunismo di guerra e una maggiore libertà economica per i contadini. La rivolta portò i bolscevichi a creare una nuova politica economica, la NEP, che avrebbe abolito le requisizioni, ma venne schiacciata nel sangue. 1.10. La rivoluzione in Europa e l’Internazionale comunista Nel 1919-1920 il numero di scioperanti divenne maggiore di quello prebellico (triplicato in Inghilterra, moltiplicato per 4 in Italia e Francia e per 16 in Germania) e l’insieme delle tensioni sociali fece apparire questo periodo come un “biennio rosso” e i conflitti di questi anni assunsero portata rivoluzionaria nei paesi dove la stabilità istituzionale era stata minata dalla guerra. • Germania: si diffusero “consigli” degli operai e dei soldati come una forma di rappresentanza alternativa a quella parlamentare. Il movimento consiliare, iniziato a novembre 1918 con l’ammutinamento dei marinai della base militare di Kiel, dilagò nel paese e l’imperatore Guglielmo II fu costretto ad abdicare lasciando l’incarico di cancelliere al leader socialista maggioritario F. Ebert. Nel gennaio 1919 l’esempio bolscevico spinse l’estrema sinistra a proclamare l’insurrezione a Berlino e la rivolta fu repressa dal governo socialdemocratico, e i leader comunisti Liebknecht e Luxemburg vennero assassinati dai Freikorps. Intanto si svolsero le elezioni per l’Assemblea costituente dove la socialdemocrazia ottenne la maggioranza e si alleò con i partiti di centro. La rivoluzione tedesca del 1918 instaurò una repubblica parlamentare, ma lasciò intatti sia il sistema economico-sociale, sia la burocrazia e l’esercito. • Austria: la transizione alla repubblica venne gestita dalla socialdemocrazia in accordo con i partiti borghesi senza che i consigli esercitassero alcun controllo sul potere politico. Si creò una frattura profonda tra Vienna “la rossa” e il resto del paese. • Ungheria: scoppiò una vera rivoluzione, dove il governo di coalizione tra liberali e socialdemocratici formato nel 1918 fu travolto dal malessere a causa della fame, disoccupazione e dalla perdita di vasti territori. Nel marzo 1919 il neonato partito comunista, sotto la spinta di operai, si unì a quello socialdemocratico per creare un governo guidato dal comunista Béla Kun che proclamò la repubblica sovietica. Ma questo tentativo fallì perché l’Ungheria fu assalita dai rumeni e dai cechi, appoggiati dall’Intesa e Kun si dismise. Così l’ammiraglio Horthy instaurò una dittatura controrivoluzionaria. La caduta della repubblica sovietica in Ungheria non fece perdere le speranze ai bolscevichi russi, che nel 1919 fondarono una nuova organizzazione internazionale, la terza dopo quella del 1864 e 1889, il Comintern, l’Internazionale Comunista. I bolscevichi puntarono sulla creazione di forti e omogenei partiti comunisti e nell’estate 1920 il II Congresso del Comintern impose ai suoi aderenti di separarsi dai socialisti riformisti. Tale politica raccolse alcuni successi in Germania dove si fece del partito comunista un partito di massa, e in Francia dove si costituì un partito comunista. Una svolta ci fu nel giugno 1921, durante il III Congresso, che inaugurò la politica del “Fronte Unico” fra comunisti e socialisti. 1.11. Il caso italiano: la crisi del dopoguerra e l’avvento del fascismo L’Italia fu il paese dopo la Germania che la III Internazionale ritenne più prossimo alla rivoluzione. Nel 1910-1920 ci fu un aumento degli scioperi operai, che ottennero successi come la giornata lavorativa di otto ore, cui si aggiunsero moti popolari come quello contro i caroviveri e l’esplosione di conflittualità nelle campagne. Gli scioperi fecero ottenere un aumento dei salari e procurarono alle “leghe rosse” il controllo del collocamento dell’”imponibile di manodopera”, così che i lavoratori divennero assunti direttamente dal sindacato. Ciò fu possibile anche grazie ai nuovi mezzi di comunicazione di massa, come cinema e radio , che contribuirono a migliorare l’informazione e l’intrattenimento. Negli USA, tra il 1921 e il 1963 gli apparecchi radio aumentarono da 50mila e 31 milioni. In Europa fu lo stato a promuovere l’uso di tali strumenti, soprattutto nei paesi totalitari , in cui venivano usati per popolarizzare la figura dei dittatori. Dal 1922 nacquero le trasmissioni della radio sovietica. Solo la radio inglese mantenne una certa autonomia dallo stato. 1.14. Produzione in serie, nuova organizzazione del lavoro e dello sviluppo economico Dopo la guerra negli USA venne attivato un circolo virtuoso tra produzione e consumo: la produzione in serie di beni di consumo durevole (auto, elettrodomestici), la quale teneva bassi i prezzi finali delle merci, e alti i livelli di occupazione; inoltre i salari consentivano l’acquisto di questi prodotti anche alle classi lavoratrici. Si producevano in serie oggetti standardizzati, anche grazie all’uso delle prime catene di montaggio nel 1913 a Detroit per conto di Henry Ford, il quale cominciò a produrre in serie la Ford modello T, la cui estrema standardizzazione permise di abbattere i tempi di lavorazione, moltiplicare le capacità produttive e ridurre i prezzi. Questo legame tra produzione e consumo di massa prese il nome di “fordismo”. Negli anni ’20 gli USA detenevano il 45% della produzione mondiale, inoltre ci fu un incremento produttivo dei paesi extraeuropei (Giappone, Brasile, Canada, Australia, Argentina, India) e dei paesi rimasti neutrali nel conflitto (Svizzera, Svezia, Olanda). Aumento dell’uso di elettricità e petrolio in sostituzione del carbone e ridimensionamento dell’industria pesante a favore di settori chimico e metalmeccanico. Accanto ai trust e ai cartelli comparvero le holdings, che concentravano nelle proprie mani i pacchetti azionari delle maggiori imprese, accentuando l’intreccio tra banca e industria. Negli USA fu però necessario varare delle leggi antitrust per limitare il potere delle maggiori corporation e per difendere la possibilità delle imprese più piccole di operare sul mercato. Charles Maier parlava di “capitalismo organizzato” o “corporatismo” per intendere il patto sociale contrattato tra poteri forti dell’economia e della politica, dal quale restavano escluse le classi più basse. Dopo la metà degli anni ’20 ci furono le prime sperimentazioni di corporativismo. Molti governi non osteggiarono la ventata inflazionistica, perché una contenuta svalutazione della moneta riduceva il debito pubblico e favoriva una crescita economica trainata dalle esportazioni. Ma l’inflazione divenne presto incontrollabile e provocò una caduta della produzione e ridusse il potere d’acquisto dei consumatori. La Germania fu il paese maggiormente colpito, dove si ebbe una iperinflazione, che fu decisiva nel produrre un clima di terrore e pausa che sarebbe stato utile per l’ascesa di Hitler. A causa di questo fenomeno, si innestò un circolo vizioso grazie al governo americano, che nel 1924 varò un programma di investimenti in Germania che prese il nome di Piano Dawes: si attivò un flusso di capitali da USA a Germania, da Germania alle potenze sue creditrici e da queste a USA. Questo meccanismo sorresse la ripresa europea, ma contribuì a creare fragilità, in quanto questa politica implicava la rinuncia ad assumere un ruolo di centro propulsore e di garante degli equilibri mondiali capitalistici. In questo clima si aggiunse il problema delle politiche monetarie, in cui la Gran Bretagna fu la principale protagonista, che nel 1925 varò il gold exchange standard, in sostituzione del vecchio sistema di scambi in vigore da prima della guerra (gold standard). Questo sistema prevedeva invece che all’oro si affiancasse proprio la sterlina come mezzo di pagamento internazionale. Ne derivò un aumento della percentuale in valuta delle riserve delle banche stesse, ma per alcuni esso fu un danno irreparabile, perché rese rigidi i rapporti di scambio tra le valute e limitò gli spazi di manovra delle autorità monetarie nazionali per controllare i rispettivi cicli economici. 1.15. La crisi del 1929 Il 24 ottobre 1929 l’indice della borsa di New York crollò verticalmente segnando un ribasso pari al 50% del valore dei più importanti titoli azionari scambiati, esito di una febbre speculativa che aveva raggiunto negli anni precedenti livelli altissimi. Fino ad un certo punto il valore dei titoli era stato diretta espressione della fase espansiva dell’economia americana e dal 1928 gli investitori acquistavano azioni con l’obbiettivo di rivenderle a breve nella certezza di lucrare facili guadagni. La crescita del mercato borsistico era quindi maggiore di quella della produzione e del consumo e si creò così una “bolla speculativa”: il valore dei titoli cresceva vertiginosamente senza alcun rapporto con i valori economici reali. La discesa dei titoli proseguì velocemente perché moltissime azioni vennero svendute dai loro detentori nella speranza di limitare le perdite. Il crollo della borsa si riversò su quello bancario: i risparmiatori ritirarono i propri depositi provocando il fallimento di migliaia di banche e il blocco degli investimenti. Solo l’immissione di un gran numero di denaro avrebbe potuto arrestare o rallentare la crisi. Dalle banche la crisi si propagò sulle industrie, la cui produzione si dimezzò in tre anni: i prezzi industriali diminuirono più del 50%, quelli agricoli del 25% determinando un calo della produzione agricola che rese insufficiente l’approvvigionamento delle città. Crebbe inoltre il numero dei disoccupati (13 milioni nel 1933). La crisi durò dal 1929 al 1933 e le sue proporzioni la resero drammatica, perché sopraggiunse alla fine di una lunga fase di espansione, inoltre si estese anche negli altri paesi del mondo. Gli effetti più disastrosi si ebbero in Germania, perché dipendeva maggiormente dagli investimenti americani e il suo sistema economico era ancora molto fragile: la produzione industriale si dimezzò e i disoccupati salirono da 2,5 a 6 milioni. Particolarmente colpiti furono anche i paesi produttori ed esportatori di materie prime come Argentina e Brasile. Meno grave fu l’impatto della crisi in Francia e Gran Bretagna: in GB la crescita limitata degli anni venti rese meno acuta la portata della crisi. Effetto analogo si registrò in Italia, dove l’espansione della prima metà del decennio era stata bloccata nel 1927 dalla rivalutazione della lira. Il sistema del gold exchange standard accelerò la crisi e venne spazzato via dalle misure di svalutazione delle monete con cui i governi cercarono di contrastarla. Ci fu così un crollo economico internazionale. Negli USA fu elaborato un progetto di riforma del sistema capitalistico: il New Deal, che assegnò allo stato compiti di regolazione dell’economia e di intervento a sostegno delle fasce più deboli della popolazione. Questo sistema ridimensionò il potere delle grandi corporation e costruì un modello di stato sociale introducendo le assicurazioni contro le malattie, l’indennità di disoccupazione e altri ammortizzatori sociali. Si crearono poi nuovi posti di lavoro rialzando così il livello dei salari e dei consumi. L’obiettivo era quello di ridurre la disoccupazione. La crisi del 1929 si sommò alla Grande Guerra e generò così una diffusa disaffezione per la democrazia e per il sistema parlamentare. Così regimi come il fascismo e il comunismo sembravano promettere l’alba di un nuovo mondo, nel quale lo stato avrebbe provveduto ai bisogni di ciascuno, sacrificando la libertà alla sicurezza. 1.16. La cultura del Novecento. La ferita della guerra La prima guerra mondiale portò ad un senso di smarrimento di fronte alla possibilità del progresso e al futuro del genere umano, che colpì anche la cultura. Montale scrisse la raccolta “Ossi di seppia”; il francese Benda scrisse un libro intitolato “Il tradimento dei chierici”, indicando i chierici come gli intellettuali responsabili di aver abdicato alla loro funzione di guida. In questa situazione mancò del tutto il sottofondo di speranza, fiducia e di provocazione scanzonata e ottimistica del decennio precedente. Pirandello ne “Sei personaggi in cerca d’autore” sintetizzò l’estraneità e lo spaesamento del ceto medio italiano e europeo alla vana ricerca di punti di riferimento nel proprio percorso individuale e collettivo. Spengler ne “Il tramonto dell’occidente” raccoglieva l’eredità della guerra come un segnale di esaurimento del ciclo vitale dell’intera civiltà europea. (vedi altri esempi pag. 61,62,63,64,65) 4. GLI STATI UNITI 1.17. Gli Stati Uniti come potenza mondiale Durante la guerra le truppe americane persero 100.000 uomini, relativamente pochi rispetto alle vittime europee; questo anche perché il suolo del paese era rimasto immune e perciò il conflitto mondiale segnò una svolta nei rapporti di forza economici tra USA e il resto del mondo. I debiti dei paesi europei erano altissimi e gli USA erano diventati creditori di circa 3,7 miliardi di dollari, segnando così il declino dell’Europa e l’ascesa americana. Nonostante ciò, gli USA mantennero una politica isolazionistica, dovuta anche alla paura e alla diffidenza per le condizioni politiche europee e per il timore che un “contagio” rivoluzionario si propagasse dalla Russia dei soviet anche al nuovo continente. Così il “red scare”, la paura dei rossi, iniziata negli USA dopo la guerra, si combinò con l’americanismo, un sentimento di orgoglio nazionale e separazione nei confronti degli europei. Ci fu inoltre un risentimento verso il presidente democratico Wilson e la sua politica estera che tendeva a rendere gli USA la garante del nuovo ordine internazionale. Così nel 1920 la maggioranza repubblicana respinse il Trattato di Versailles e non ratificò l’adesione alla Società delle Nazioni, e lo stesso anno Warren Hardings vinse le elezioni presidenziali, in cui anche le donne parteciparono al voto. Nel 1921 vennero aumentate le misure protezionistiche, aumentando i dazi doganali sulle importazioni e limitando il numero di immigrazioni: ci fu così un drastico calo degli ingressi annuali nel continente. Inoltre si vietò la fabbricazione e la vendita di alcolici. Nel sud del paese nacque un movimento chiamato Ku Klux Klan, che raggiunse 5 milioni di adesioni e coniugava la difesa dell’americanismo con il razzismo e praticava la violenza nei confronti degli avversari, considerati nemici della patria. Inoltre il proibizionismo favorì la diffusione di organizzazioni criminali (gangster e racket) che, oltre al contrabbando di alcolici, taglieggiavano le imprese e gestivano il gioco d’azzardo e la prostituzione. Il più famoso era Al Capone, che nel 1932 fu arrestato per evasione fiscale. 1.18. Il boom degli anni venti: americanismo e fordismo Negli anni Venti l’economia americana entrò in un ciclo espansivo che durò per tutto il decennio: tra il 1922 e il 1929 l’indice della produzione industriale salì di quasi 2/3, mentre quello della disoccupazione oscillò intorno a tassi del 3-4% della popolazione. Ciò era dovuto ad un aumento dei posti di lavoro, ad un aumento della produttività, che crebbe del 43% grazie alle innovazioni tecnologiche applicate alla produzione in serie, secondo i principi del “taylorismo”. Si svilupparono nuovi settori industriali (chimico, elettronico, radiofonico, aviazione), in particolare quello automobilistico (Ford e General Motors), in cui l’applicazione del taylorismo si accompagnò ad una crescita degli investimenti in macchinari, impianti, attrezzature specializzate. Migliorò inoltre il potere d’acquisto dei lavoratori e buona parte di questi beni di consumo erano venduti a rate, ricorrendo alla pubblicità. Il reddito nazionale crebbe così di 2/3 rispetto al 1913, ma la prosperità si concentrava nelle classi urbane medio-alte, mentre il calo mondiale dei prezzi fu risentito soprattutto dal mondo agricolo, che vide circa 1 milione di contadini abbandonare le campagne per cercare fortuna nelle città. Era l’età del jazz, la nuova musica nata la tra popolazione di colore di New Orleans, e del charleston ballato dalle flapper, cioè le ragazze emancipate e anticonformiste. In questo contesto, il partito repubblicano, dopo la morte di Hardings nel 1923, conquistò tutti i mandati presidenziali del decennio successivo, prima con Calvin Coolidge e poi con Herbert Hoover. C’era un’idea liberista di fondo in politica interna e isolazionista in politica estera. Allo scoppiare della crisi del 1929 Hoover reagì impreparato, minimizzando l’accaduto e riducendolo ad una semplice crisi e nel 1930 alzò ancora le già consistenti barriere doganali contro l’importazione di merci straniere, ma facendo così peggiorò la situazione perché incoraggiò provvedimenti analoghi negli altri paesi e danneggiò le esportazioni americane con ulteriori effetti depressivi sulla produzione e sull’occupazione. Tra il 1932 e il 1933 i disoccupati arrivarono a 13 milioni. Fu così che nel 1932 il democratico Franklin Delano Roosevelt vinse le elezioni con una maggioranza molto più ampia di quella ottenuta da tutti i suoi predecessori. 1.19. Roosevelt e il New Deal Dal 1928 Roosevelt era il governatore dello stato di NY, dove aveva sperimentato un programma di assistenza verso i disoccupati e una politica di impulso alle opere pubbliche. Una volta diventato presidente, occorreva abbandonare il liberismo e impegnarsi in una lotta contro la crisi e la disoccupazione. Roosevelt chiese così al parlamento ampi poteri e si rivolse direttamente alla nazione con il programma radiofonico Fireside Chats, letto in prima persona. Nel suo governo fu affiancato da tecnici e consulenti di diverso ordine politico (brain trust), ma con il comune obbiettivo di interventismo statale. Tra i primi provvedimenti ci fu la svalutazione del dollaro e il riordino della circolazione monetaria per controllare l’inflazione. Si introdussero controlli sul mercato azionario e venne creata una Società Pubblica per le Garanzie Assicurative a copertura dei piccoli risparmiatori. Per l’agricoltura si approvò una legge che prevedeva l’intervento dello stato per regolare la produzione ed evitare gli eccessi. Inoltre ci furono delle facilitazioni creditizie che rilanciarono l’attività delle campagne. Nel 1936 il reddito agricolo risultò cresciuto del 50% circa. Nacque poi un ente pubblico, la Tennessee Valley Authority, incaricato di opere idrauliche, rimboschimento e irrigazione per regolare le acque del fiume Tennessee e sfruttarle per la produzione di energia elettrica. Nel 1920 un politico di estrema destra, W. Kapp, guidò i gruppi paramilitari che avevano represso l’insurrezione di estrema sinistra nel 1919, in un colpo di stato che però non ebbe successo. Alle elezioni successiva la SPD fu sconfitta, e crebbero le opposizioni di sinistra e di destra. Il partito cattolico del centro ruppe l’alleanza con i socialisti e costituì un governo minoritario assieme al Partito tedesco del popolo. Ci furono moltissime ondate di violenza, alimentate dall’estrema destra: 400 uomini politici vennero uccisi tra il 1919 e 1922. Si aggiunsero difficoltà nella politica estera: nel 1923 truppe belghe e francesi occuparono la Ruhr per il mancato pagamento delle riparazioni. Sulla Germania si abbatté la più grande inflazione mai vista in un paese occidentale, aggiunta alla miseria e alla disoccupazione che crearono contrasti interni. Per stabilire ordine, il presidente del Partito del popolo, G. Stresemann, sciolse i governi socialcomunisti della Sassonia e della Turingia, inoltre vennero repressi tentativi insurrezionali comunisti. Stresemann avviò una politica di risanamento finanziario creando la nuova valuta Rentenmark, così da far tornare l’inflazione alla norma e rilanciare l’economia tedesca. A ciò contribuì anche l’allentarsi della tensione internazionale, la restituzione della Ruhr e il sostegno degli USA, che nel 1924 con il Piano Dawes, abbassò le rate annuali delle riparazioni e concesse alla Germania un prestito di 800 milioni di marchi. Tra 1924 e 1929 la produzione industriale aumentò del 50% e nel 1929 grazie al Piano Young (successore di Dawes) vennero ridotte ancore le rate delle riparazioni. Anche i rapporti con la Francia migliorarono e nel 1925 venne creato il Trattato di Locarno, che sancì l’intangibilità delle frontiere tra Germania, Francia e Belgio, e la smilitarizzazione della Renania. Nel 1926, dopo aver firmato arbitrari con Francia, GB, Belgio, Cecoslovacchia e Polonia, entrò nella Società delle Nazioni. Anche a livello culturale ci furono novità: nacque il movimento architettonico del Bauhaus, che diede autonoma dignità al design industriale. Il cinema espressionista tedesco ebbe fama mondiale. Nonostante ciò la disoccupazione non fu ridotta dallo sviluppo economico, arrivando nel 1927 a 2 milioni di persone. Alle elezioni presidenziali del 1925 vinse Paul Hindenburg, che segnò un netto spostamento a destra dell’elettorato. 1.23. L’Europa centro-orientale La guerra aveva lasciato molti problemi aperti nei nuovi stati, i quali erano deboli e minati da contrasti etnici che in alcuni casi avevano come bersaglio le minoranze ebraiche. Essi erano caratterizzati da un’agricoltura arretrata, chiusa all’innovazione. Gli unici paesi che fecero eccezione furono l’Austria e la Cecoslovacchia, contraddistinte da una consistente base industriale. Austria: grande contrasto tra campagna e città. Nel 1919 il partito socialista ottenne una grande maggioranza relativa alle elezioni, ma nel 1921 i socialisti furono espulsi dal governo e si radicalizzò una situazione economico-sociale peggiore di quella tedesca. Ci furono diverse battaglie interne, come quella ingaggiata dai ceti agrari contro la “Vienna rossa” che culminò nel 1927 con l’incendio del palazzo di giustizia di Vienna. La crisi del 1929 ebbe ripercussioni molto pesanti come il crollo della banca Credit-Anstalt, accentuando le propensioni filonaziste e filotedesche dei nazionalisti. Dopo il successo alle elezioni del partito nazista nel 1932 il governo del cristiano Engelbert Dollfuss si diresse verso l’autoritarismo, sciogliendo i partiti nazista e socialista, creando così un nuovo regime di tipo “clerofascista”. Nel 1934 ci fu la sconfitta definitiva del movimento operaio, anche se Dollfuss venne assassinato. L’asse Roma-Berlino del 1937 però privò l’indipendenza austriaca che l’Italia le aveva garantito, aprendo così la strada all’Anschluss, cioè l’annessione dell’Austria alla Germania. Cecoslovacchia: consolidò la democrazia grazie ad un’economia e società progredite. Il paese applicò una serie di riforme, come quella agraria nel 1919 e le tensioni dovute alle differenze etniche, religiose e culturale furono contenute entro i limiti della legalità repubblicana, attraverso un sistema di autonomia provinciale. I conflitti etnici si aggravarono però negli anni ’30 a causa della crisi, trovando come apice la regione di frontiera dei Sudeti, abitata da 3 milioni di cittadini di lingua e cultura tedesca. Così la Cecoslovacchia non avendo alleati dovette lasciare la regione alla Germania. Polonia: la nuova repubblica era uscita dal Trattato di Versailles con frontiere sicure ad occidente, ma senza confini definiti ad est. La “linea Curzon” affidava la sovranità del paese a regioni abitate in maggioranza da polacchi, ma il movimento nazionalista guidato da Pilsudski rivendicò i territori orientali anticamente appartenuti alla Polonia, impegnandosi in una guerra inutile con la Russia sovietica nel 1920. I conflitti interni dovuti a diverse minoranze nazionali crearono instabilità e nel 1926 Pilsudski fece un colpo di stato instaurando la dittatura. Ungheria: nel 1919 l’ammiraglio Miklos Horthy venne proclamato reggente del restaurato regno d’Ungheria e con l’appoggio degli agrari instaurò un regime autoritario. Il problema del paese rimase la questione agraria , che non fu risolta nemmeno dai successori di Horthy: 3 milioni di contadini erano senza terra e un quarto del territorio era in mano ad un migliaio di latifondisti. Nel 1935 le opposizioni conquistarono la maggioranza alle elezioni, ma vennero precluse al governo. Negli anni ’30 il movimento nazista delle Croci Freccia, guidato da Ferenc Szalasi, conquistò grandi consensi e si affermò nel 1939 come la maggiore forza di opposizione. Romania: il problema della terra era molto rilevante. Nel 1930 il rientro del re Carol II impresse al paese una svolta a destra e una conseguente violazione delle norme costituzionali da parte del sovrano e la legittimazione dei movimenti antisemiti e fascisti. Nel 1937 vennero introdotte le leggi antisemite e nel 1938 Carol II sospese la costituzione e formò un governo di unità nazionale, che sarebbe stato sostituito da una dittatura militare durante la guerra. Jugoslavia: nel 1929 il re Alessandro I sciolse il parlamento e i partiti per domare la ribellione di croati e sloveni. Anche qui il sovrano intervenne direttamente nell’involuzione autoritaria. Bulgaria: il leader contadino Aleksandar Strambolijski venne ucciso nel 1923 da un cruento colpo di stato militare sostenuto dal re Boris III, che limitò la libertà dei partiti e ridusse il parlamento a semplice organo consultivo. Grecia: una serie di rivolte militari portò il paese alla restaurazione della monarchia nel 1935, seguita da una dittatura del generale Ioannis Mataxas. 6. IL FASCISMO 1.24. La costruzione del regime Mussolini, dopo la marcia su Roma, godeva di una larga maggioranza alla Camera grazie al fiancheggiamento dei liberali e di una parte di cattolici. Inoltre era supportato anche dalla Corona, dagli ambienti economici dominanti e da gran parte del ceto medio. Tra i primi compiti, Mussolini di occupò in un’opera di trasformazione delle istituzioni liberali. Nel 1922 creò il Gran consiglio del fascismo, che aveva il compito di elaborare la linea d’azione del governo. Nel 1923 fu istituita la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, un corpo militare chiamato “camicie nere”. Si continuò inoltre a cercare di reprimere le forme si opposizione. Nel 1923 venne varata la Legge Acerbo, cioè una legge elettorale maggioritaria con la quale si attribuiva il 65% dei seggi alla coalizione che avesse raggiunto il 25% dei voti. Nel 1924 il fascismo visse un momento di crisi: il leader socialista Giacomo Matteotti denunciò alla Camera i brogli elettorali e le violenze commessi dai fascisti nella campagna elettorale, fu quindi sequestrato e ucciso da un gruppo di squadristi. Il suo assassinio ebbe un’eco vastissima nell’opinione pubblica e i partiti di opposizione reagirono abbandonando il Parlamento (secessione dell’Aventino) con lo scopo di incrinare l’intesa tra fascisti e fiancheggiatori provocando l’intervento del re, il quale però si astenne da ogni iniziativa. La crisi fu così superata con un’ulteriore forzatura che accelerò il processo di fascistizzazione del paese. Con la collaborazione del ministro della giustizia Alfredo Rocco vennero varate una serie di leggi: • nel 1925 fu ripristinata la lettera dello statuto Albertino svincolando il governo dal voto di fiducia del Parlamento e abolendo la distinzione tra i poteri; • nel 1926 vennero introdotte pesanti restrizioni alla libertà personale e alla vita politica con una legge per la difesa dello stato: scioglimento dei partiti antifascisti, confino di polizia per gli oppositori, istituzione di un Tribunale speciale per la difesa dello stato, pena di morte per chi attentasse la sicurezza dello stato, soppressione delle libertà di associazione e di stampa. • Nel 1925 la Confindustria sottoscrisse con i sindacati fascisti il Patto di Palazzo Vidoni, che escludeva dagli accordi contrattuali tutti gli altri organi sindacali; • Nel 1925 fu creata una legge che proibiva lo sciopero dei sindacati; • Nel 1927 venne istituita la Carta del lavoro dal Gran consiglio; • Nel 1928 fu varata una nuova legge elettorale che prevedeva una lista unica da approvare o respingere in blocco. Mussolini fu il primo, nel 1925, a parlare di Stato totalitario, e queste pretese totalitarie furono ridimensionate dall’esistenza di altri componenti come la Chiesa, la Corona, le forze armate, che furono convinti sostenitori del fascismo. Significativo fu l’atteggiamento della Santa Sede, la quale nel 1923 osteggiò la linea antifascista del segretario del Partito popolare Luigi Sturzo, costringendolo alle dimissioni e nel 1926 non si oppose allo scioglimento dei partiti. Nel 1929 Pio IX concluse con Mussolini i Patti Lateranensi, i quali la chiesa si era sempre rifiutata di concedere allo stato liberale. Essi prevedevano il reciproco riconoscimento tra Regno d’Italia, con capitale Roma, e lo stato della Città del Vaticano. Un concordato concesse infine molti privilegi alla chiesa: effetti civili del matrimonio religioso, insegnamento obbligatorio della dottrina cattolica nella scuola pubblica, rispetto dell’autonomia dell’Azione cattolica. 1.25. Il regime: repressione e consenso La repressione si abbatté principalmente sull’opposizione antifascista, contro la quale vennero emanate le “leggi eccezionali” nel 1926. Il Tribunale speciale venne prorogato fino al 1943 comminando 42 condanne a morte e altre punizioni come il confino di polizia e carcere. Nel 1926 venne arrestato il leader comunista Antonio Gramsci, il quale morì nel 1937 dopo carcere e confino. I comunisti furono gli unici che cercarono di conservare una labile presenza organizzata nel paese e negli anni ’30 crearono Giustizia e Libertà: una nuova formazione politica che si proponeva di conciliare liberalismo e socialismo, il cui leader Carlo Rosselli fu assassinato nel 1937 dai fascisti. Collegato alla repressione del dissenso, il fascismo cercò di coinvolgere le masse nella vita pubblica, organizzandole e mobilitandole per ottenere il consenso, cercando di creare un’ideologia totalitaria ispirata al nazionalismo, al militarismo, alla gerarchia e all’esaltazione del duce. Sotto la guida del segretario Achille Starace, dal 1931 al 1939 il PNF raggiunse 2,5 milioni di iscritti, grazie ad una forma propagandistica che cercava di estendere a tutto il paese la propria rete capillare. Inoltre il fatto di non avere la tessa poteva costare il posto di lavoro e quindi questo fu un motivo di adesione per molti dei quali volevano ottenere occupazioni e avanzamenti di carriera. Vennero create organizzazioni di massa come: • bambini, adolescenti e giovani vennero raggruppati nei Figli della lupa, nel Balilla e negli Avanguardisti, dove apprendevano la cultura militare e trovavano luoghi di socializzazione • gli universitari vennero raccolti in Gruppi universitari fascisti (GUF) e godevano di maggiori libertà • vennero creati i Gruppi femminili fascisti e le Massaie rurali così che anche le donne potessero svolgere una sorta di apprendistato politico e acquisirono maggiore visibilità pubblica. Nel 1926 fu creata l’Opera nazionale dopolavoro per impiegare il tempo libero, che offrì ai lavoratori teatri, cinema, turismo popolare, colonie estive, di cui ne giovò maggiormente il nord. Nel 1937 fu creato il ministero della Cultura popolare (Minculpop) per esercitare il controllo sul sistema scolastico e sull’organizzazione della cultura. Dal 1936 iniziò la politica antiebraica, che culminò nel 1938 con le leggi per la difesa della razza, che esclusero gli ebrei dalla scuola e dagli impieghi pubblici e vietarono i matrimoni “misti”. L’antisemitismo non era un elemento costitutivo del fascismo e questa politica corrispose ad un tentativo di alleanza con il nazismo tedesco. La persecuzione ebraica riguardò 50.000 persone. 1.26. Economia e società Mussolini salì al potere dopo il superamento della crisi postbellica. Il mutamento del clima economico internazionale dovuto alle scelte protezionistiche dei governi europei si ripercosse anche in Italia, dove nel 1925 fu reintrodotto il dazio sulle importazioni di grano e zucchero. La propaganda venne fatta principalmente dal Gauleiter (capodistretto) della NSDAP di Berlino Joseph Goebbels, principale creatore del mito del Führer, il quale seppe usare con maestria i moderni mezzi di comunicazione di massa. Hitler fu un leader carismatico e mostrò la sua ideologia nazista in Mein Kampf (la mia lotta, 1925/26) dove descrisse il progetto di stato razziale che era il cuore del suo programma. In particolare furono gli ebrei ad essere protagonisti di violenze da parte del regime nazista, considerati dei “parassiti” e responsabili dello stato di prostrazione della Germania. Nella visione di Hitler, antisemitismo e antibolscevismo erano strettamente collegati . La chiave propagandistica dell’affermazione della NSDAP fu il nazionalismo: l’idea di una riscossa contro l’umiliazione subita dalla Germania sconfitta nella guerra mondiale e la pace punitiva inflitta dai vincitori. Su queste basi la NSDAP ottenne un gran successo elettorale non solo tra i ceti medi, ma nell’insieme della società tedesca, guadagnando consensi anche tra operai, contadini e ceti medio-alti. Nell’ottobre 1931 ci fu a Bad Harzburg un incontro dei partiti di destra, con esponenti dell’aristocrazia, finanza e della grande industria, in cui si raggiunse un accordo tra Hitler e l’industriale A. Hugenberg, leader del partito nazionalpopolare, per candidare la destra alla guida del governo. A quel tempo era il partito di Hugenberg ad avere sostegno degli industriali. Alle elezioni presidenziali del 1932 fu confermato Hindenburg che ottenne il 53% dei suffragi, mentre Hitler solo il 37%. A questo punto il capo dell’esercito Kurt von Schleicher in accordo con Hitler, manovrò per far cadere Bruning. Il programma del successore Franz von Papen mirava a “costituzionalizzare” l’estrema destra e emarginare la SPD. In un clima di guerra civile le SA scatenarono violenza contro i socialdemocratici e i comunisti. Alle nuove elezioni di aprile 1932 i nazisti divennero il primo partito e gli avversari non seppero approfittare della situazione di stallo creatasi subito dopo, così a novembre 1932 un gruppo di industriali e di latifondisti chiede a Hindenburg di conferire a Hitler la carica di cancelliere. Appoggiato dall’esercito e dal potere economico, il 30 gennaio 1933 Hitler venne incaricato di formare il governo e costituì un gabinetto di coalizione. 1.30. Il Terzo Reich La dittatura fu fondata su un partito unico e venne costituita in soli 6 mesi. Il 1° febbraio 1933 venne sciolto il Parlamento, il 27 febbraio venne incendiato il Reichstag, la sede del Parlamento. Quest’attentato, attribuito ai comunisti, fu il pretesto per un altro attacco: i principali esponenti del partito comunistica vennero arrestati e il 28 febbraio Hindenburg firmò un nuovo decreto che soppresse a tempo indeterminato i diritti costituzionali fondamentali, come la libertà di stampa, di opinione, di associazione. Nonostante ciò alle elezioni di marzo 1933 la NSDAP ottenne il 44% dei voti, analogo a quello dell’insieme delle opposizioni socialdemocratica, comunista e cattolica; così Hitler fu costretto a formare un nuovo governo di coalizione con il partito nazionalpopolare. Il 21 marzo 1933 il capo delle SS Heinrich Himmler aprì il primo campo di concentramento a Dachau per gli oppositori politici; alla fine di luglio i detenuti di tutti i Lager creati erano già 27mila. Il nuovo parlamento dovette firmare una legge che conferisse i pieni poteri al governo, e questa legge passò grazie all’assenza dei comunisti e di parte di quelli socialdemocratici. Questo provvedimento consentiva al governo di legiferare in contrasto con la Costituzione, gli riservava la gestione dei trattati internazionali e attribuiva al cancelliere la facoltà di firmare decreti al posto del presidente. Dopodiché il governo mise sotto il controllo degli uomini della NSDAP tutte le istituzioni pubbliche e private. Vennero distrutti i partiti operai, i sindacati e il Partito cattolico del Centro decise di sciogliersi nel luglio 1933. Vennero inoltre espulsi gli ebrei dalle cariche pubbliche. Sotto la direzione di Goebbels, la radio divenne la voce del regime, al quale la stampa fu asservita tramite la censura e la soppressione delle pubblicazioni non allineate. Nel 1933 vennero bruciati pubblicamente tutti i libri degli autori considerati antinazionali. Il 14 luglio 1933 una legge vietò la ricostituzione dei partiti, così l’unico partito riconosciuto restava la NSDAP. Nel febbraio 1934 Hitler rafforzò la propria alleanza con le forze armate: la Wehrmacht (forze armate tedesche) fu dichiarata unico organo militare della nazione, mentre alle SA furono riservati i compiti di formazione politica e paramilitare. Le forze armate iniziarono quindi ad applicare una politica di “arianizzazione” nel paese. Il 30 giugno 1934 Hitler avviò la “notte dei lunghi coltelli”, nella quale le SS assassinarono il capo delle SA Rohm e buona parte delle SA, insieme agli antichi oppositori di Hitler e ai suoi possibili concorrenti. Paradossalmente quest’avvento venne accolto con favore dalla popolazione, ansiosa che finissero le angherie delle SA. Nell’agosto 1934, dopo la morte di Hindenburg, Hitler assunse anche la carica di presidente della repubblica, così il suo potere divenne illimitato. Il sistema nazista era un sistema di dominio, in cui si applicava repressione verso gli oppositori grazie all’efficienza della Gestapo (polizia segreta di stato) e delle SS, entrambe dipendenti da Himmler. Oltre agli oppositori politici, nei campi di concentramento entrarono anche criminali, vagabondi, immigrati, omosessuali, zingari, testimoni di Geova ed ebrei. Distintiva del regime fu la politica razziale, sostenuta dal forte sostegno all’incremento demografico. Vennero infatti concessi prestiti alle coppie in cui la moglie rinunciasse al lavoro per dedicarsi alla famiglia, e ci furono trattamenti privilegiati alle famiglie con più figli. Le donne, come in Italia, furono escluse dai diritti politici e civili al voto, dall’istruzione e della carriera professionale. La persecuzione degli ebrei fu uno dei maggiori obiettivi di Hitler, il cui circa mezzo milione di persone furono vittime di repressioni. Il 7 aprile 1933 una legge epurò gli ebrei impiegati nelle amministrazioni stati e comunali e altri provvedimenti esclusero dall’esercizio della loro professione docenti universitari, avvocati, medici, artisti di origine ebrea. Nel 1935 le Leggi di Norimberga vietarono matrimoni misti tra ariani ed ebrei, esclusero la cittadinanza a chi non fosse di sangue tedesco e privarono gli ebrei dai diritti civili. La notte tra il 9-10 novembre 1938 (notte dei cristalli) vennero saccheggiati 7000 negozi, assassinate 91 persone e incendiate 200 sinagoghe. Circa 26mila ebrei vennero internati nei campi di concentramento. Successivamente alcuni campi di concentramento di trasformarono in campi di sterminio con strutture dedicate alla morte di massa. 1.31. La politica economico-sociale e l’organizzazione del consenso Il regime nazista affrontò una pesantissima crisi economica e un’altissima disoccupazione e Hitler affidò la soluzione al problema a Hjalmar Schacht, governatore della Reichsbank e ministro dell’economia, il quale attuò una politica dirigista di intervento statale in cui fino al 1934 vennero stanziati 5 miliardi di marchi per creare posti di lavoro. Venne inoltre creata una rete autostradale per incrementare la motorizzazione privata. Nel 1936 i disoccupati erano calati da 5,5 milioni a 1,5 e la ripresa produttiva favorì una crescita dei redditi e dei consumi privati, aumentando il benessere della popolazione. Questi risultati furono ottenuti anche grazie ad una scelta al riarmo, infatti nel 1938 le spese militari toccavano il 50% del bilancio statale. Nel 1936 Schacht fu sostituito da Hermann Goring, ministro dell’aviazione e capo della Luftwaffe (aeronautica militare) e da allora la preparazione militare ebbe un’assoluta rilevanza. Venne inoltre favorito il settore chimico e furono penalizzati quelli che producevano beni di consumo. Non ci furono provvedimenti per ridurre la grande proprietà latifondista dell’est, che continuò a produrre beni di consumo come patate e cereali. La piccola proprietà venne invece tutelata e controllata con una legge sulla successione dei poderi. Inesistente fu la meccanizzazione e la modernizzazione delle campagne. I contadini non avvertirono quindi grandi miglioramenti. A fine 1938 l’economia tedesca aveva aumentato il deficit e mancavano risorse primarie come generi alimentari. Per uscire da tale situazione era necessaria una politica di accordi internazionali o una guerra. La scelta bellica seguiva il programma hitleriano, inoltre alla vigilia della guerra i disoccupati non esistevano praticamente più e ai lavoratori Hitler riservò un’attenzione particolare: la propaganda insisteva sulla denominazione di Partito nazionalsocialista dei lavoratori e rosso era lo sfondo delle bandiere con la svastica. Nel 1933 era nato il Fronte tedesco del lavoro, che aveva un compito educativo e formativo (scioperi e strumenti di difesa dei lavoratori venivano banditi). Nel 1934 venne promulgata una legge per l’ordinamento del lavoro nazionale, secondo la quale tutti i lavoratori dovevano obbedienza ad un capo. Grazie ad una politica che teneva i prezzi bassi, nel 1937 i salari reali tornarono a livelli precedenti alla crisi, ma ciò era prodotto dell’allungamento delle ore di lavoro e non delle retribuzioni. L’aumento delle ferie retribuite invece, aprì la strada alla gestione del tempo libero, anche se questo riguardava maggiormente i settori del ceto medio e non gli operai. Il regime incoraggiò l’uso del tempo libero a fini di intrattenimento e evasione, promuovendo il cinema e lo sport (nel 1936 Berlino fu la sede delle Olimpiadi). Come in Italia, anche le chiese svolsero un ruolo importante: solo pochi pastori si schierarono contro il regime, mentre la maggior parte ne condivise i progetti, pur prendendo le distanze dalla dottrina della razza e dalle violenze delle SA. La chiesa cattolica si espresse contro il nazismo ma nel 1933 modificò il suo atteggiamento dopo un concordato, anche se questo concordato venne più volte violato. Nel 1937 papa Pio XI promulgò l’enciclica Mit Brennender Sorge, in cui condannò l’ideologia nazionalsocialista e nel 1938-1939 lavorò ad un’altra enciclica contro l’antisemitismo, ma morì prima di finirla e il successore Pio XII non continuò il lavoro. Per cercare di aumentare il consenso di massa, vennero inoltre promosse grandi manifestazioni annuali, trasformando la politica in un’estetica di massa. 1.32. L’imperialismo nazista Ad aumentare il consenso nazista fu anche la politica estera. Lo spirito di rivalsa suscitato dalla sconfitta e dalla Pace di Versailles, venne soddisfatto dai successi di una politica estera aggressiva e dalle annessioni territoriali a partire dal 1935. Nel 1933 la Germania uscì dalla Società delle Nazioni con lo scopo di usare la propria forza piuttosto che una politica di accordi diplomatici. Nel 1934 fallì il primo tentativo di annettere l’Austria, dato dall’obbiettivo di riunire tutti i tedeschi nel suo territorio. Nel gennaio 1935 un plebiscito popolare sancì il ritorno nel Reich della regione carbonifera del Saar. Nel marzo 1936, raggiunto un grandissimo numero di uomini nell’esercito tedesco, i nazisti entrarono senza difficoltà nella regione della Renania, che doveva invece rimanere smilitarizzata secondo la Conferenza di Versailles. Nel 1937 Hitler dichiarò che la guerra sarebbe stata scatenata entro il 1938, indicando i suoi obbiettivi principali: Austria e Cecoslovacchia, e ribadendo la sua priorità strategica dell’espansione verso est per conquistare lo “spazio vitale”. Questa decisione suscitò critiche e perplessità da parte del ministro degli esteri, del ministro della difesa e dal capo maggiore dell’esercito e così Hitler decise di sbarazzarsi di loro. La persecuzione antiebraica venne ulteriormente accentuata, in concomitanza della “notte dei cristalli” e alla vigilia della guerra quasi nessuna impesa commerciale appartenenti ad ebrei era sopravvissuta. Nel 1938 la Germania annetté l’Austria e i Sudeti, nel 1939 la Boemia e la Moravia, con lo smembramento della Cecoslovacchia. Il 1° settembre 1939, con l’invasione della Polonia, la Germania nazista dichiarò la seconda guerra mondiale. Nello stesso giorno venne approvata la pratica dell’eutanasia da Hitler, così che 70.000 cittadini tedeschi affetti da handicap fisici o mentali vennero assassinati all’insaputa dei familiari. Nel 1941 il personale della SS venne trasferito da questi ospizi ad Auschwitz e negli altri campi di sterminio. 8. LA RUSSIA SOVIETICA 1.33. La NEP e il socialismo in un paese solo Dopo il periodo di crisi dovuto alla guerra, la società sovietica entrò in una fase di ripresa grazie alla NEP (nuova politica economica), varata nel 1921, che rimase in vigore fino al 1928. Tra le decisioni ci fu la revoca delle requisizioni dei generi alimentari e la loro sostituzione con un’imposta in natura, pagata la quale i contadini potevano disporre dei loro prodotti. Venne inoltre sostituita l’imposta in natura sui prodotti agricoli con una tassa progressiva in denaro, ripristinando un’economia salariata. Nel 1925 venne permesso ai contadini di affittare la terra e di assumere manodopera salariata. Nel settore industriale fu abolito il lavoro obbligatorio, si ammise l’esistenza di piccole imprese private e si favorirono gli investimenti di capitale straniero. Grazie a questi interventi la produzione crebbe e i mercati si estesero. La NEP fu un’economia mista, il commercio privato veniva incoraggiato, ma quello con l’estero rimane in mano allo stato assieme alle banche, ai trasporti e alle grandi industrie. Lo stato mantenne quindi il controllo dei settori chiave dell’economia. Nel 1921 fu creato un ente di pianificazione economica con competenze generali, chiamato Gosplan. I risultati della NEP furono positivi: ci fu una grande crescita della popolazione, che nel 1927 recuperò i livelli del 1913; emerse un nuovo ceto di piccoli commercianti e imprenditori chiamati nepmen. Nelle campagne si accentuarono le differenze tra braccianti e contadini poveri, medi e ricchi, tra i quali nacque uno strato di piccoli imprenditori chiamati kulaki, i quali nel 1928 divennero capro espiatorio degli insuccessi dell’agricoltura sovietica secondo Stalin. Lenin definì la NEP una forma di “capitalismo di stato”. Essa di fatto permise alla Russia di riprendersi dalla sua arretratezza. La società e l’economia russa erano allora dominate dal settore rurale, dalla piccola produzione autonoma, e dalle piccole unità commerciali, cui si accompagnavano una piccola grande industria e un’amministrazione statale che impiegava un vero esercito di dipendenti. In questo contesto si consolidò il ruolo dello stato e del partito comunista, che controbilanciò la democratizzazione dei rapporti economici e sociali portata dalla NEP. Uno dei grandi problemi del sistema fu costituito dai contadini, i quali permearono della loro mentalità arcaica l’intera società russa e ciò stabilì un ostacolo per la modernizzazione e la trasformazione in senso La nuova politica fu detta dei “fronti popolari” e nel 1934 il VII Congresso del Comintern la ratificò, mettendo in primo piano l’obiettivo della lotta per la pace contro il fascismo, in cui però venne imposta anche la difesa dell’URSS. Nel 1939 però, dopo l’invasione della Germania in Cecoslovacchia, Stalin fece inversione di rotta e stipulò un trattato di non aggressione con la Germania, che fissava le sfere di influenza dei due paesi e assegnava all’URSS non solo la Polonia orientale, ma anche Estonia, Lettonia, Finlandia e Bessarabia. Questo patto, notto come Patto Molotov-Ribbentrop screditò la politica unitaria dei comunisti europei, disorientò i movimenti antifascisti e facilitò l’aggressione nazista alla Polonia. Nel 1941 però l’URSS venne attaccata da Hitler e si trovò impreparata a fronteggiare le armate tedesche. 9. ASIA, AFRICA E AMERICA LATINA TRA LE DUE GUERRE 1.37. I primi movimenti anticoloniali Durante la prima guerra mondiale 100.000 soldati indiani erano morti nelle Fiandre e in Medio Oriente, 20.000 erano stati i caduti e quasi 200.000 i magrebini arruolati nell’esercito francese. Tra i 14 punti proposti da presidente Wilson come base per un nuovo ordine internazionale c’era anche l’istituto del “mandato”, che stabiliva il principio della salvaguardia degli interessi dei popoli nativi di sostegno delle colonie e attribuiva alla potenza coloniale europea un ruolo di sostegno per il raggiungimento delle capacità di autogoverno. Nonostante ciò, l’arretratezza economica di questi paesi li rendeva insufficienti come mercati per le merci europee in eccedenza. L’art. 22 dello statuo della Società delle Nazioni indicava come soluzione il principio dei tre mandati: 1. Periodo transitorio di tutela istituzionale finalizzata al raggiungimento della piena indipendenza (Francia in Siria e Libano, Gran Bretagna in Iraq e Transgiordania). 2. Amministrazione coloniale sotto la supervisione della Società delle Nazioni (ex colonie tedesche come Togo e Camerun, affidate alla Francia). 3. Incorporazione nel dominio della madrepatria (ex possedimenti tedeschi come isole Caroline, Marianne e Marshall annesse all’impero giapponese). Inoltre la guerra aveva indebolito la forza e l’autorità degli imperi, ad esempio la Gran Bretagna aveva concesso l’indipendenza al Nepal già durante il conflitto e riconobbe nel 1919 il regno nato in Afghanistan. L’esempio della rivoluzione bolscevica invece poteva essere seguito da tutti gli stati alla ricerca della libertà e infatti nacquero partiti affiliati all’Internazionale comunista in India, Cina, Indonesia, Sudafrica, Egitto, Palestina e Siria, che avevano come obiettivo quello di difendere gli interessi delle masse più povere del paese. Nacquero anche dei movimenti anticoloniali borghesi, che assunsero posizioni nazionaliste. Secondo Francia e GB le popolazioni extraeuropee non erano preparate ad un sistema democratico indipendente; in particolare la sovranità assoluta della madrepatria era difficile da applicare dove esistevano consistenti popolazioni di razza bianca, non di molto arretrate rispetto alla potenza inglese. Così nel 1931 lo Statuto di Westminster trasformò in legge i risultati di una conferenza imperiale del 1926. La Gran Bretagna e i suoi dominions (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica e Terranova) furono definiti “comunità autonome all’interno dell’impero britannico, uguali per condizione, senza essere subordinate l’una all’altra negli affari interni ed esterni, unite da una comune fedeltà alla Corona e liberamente associate in quanto membri del Commonwealth britannico delle nazioni”. Ogni paese poteva inoltre avere la propria costituzione. Nel 1932 la Conferenza di Ottawa stabilì un regime di preferenza commerciale all’interno del Commonwealth, per raggiungere l’autosufficienza economica del resto del mondo. Le importazioni dai dominions nel 1936 raggiunsero il 39%, mentre le esportazioni inglesi verso gli stessi paesi salirono dal 22 al 49%. 1.38. Il Giappone In Estremo Oriente l’impero giapponese puntava ad eliminare ogni influenza straniera dal paese. Dopo la guerra più di 70.000 soldati vennero inviati in Siberia, dove combatterono insieme ai controrivoluzionari “bianchi” contro l’Armata rossa. Sfruttando la debolezza della Russia e l’indebolimento della GB, il Giappone rafforzò la propria presenza nella regione cinese della Manciuria. Durante la guerra inoltre si era sviluppata l’industria pesante e crebbero le esportazioni di prodotti finiti e le importazioni di materie prime e macchinari. Il Giappone era cresciuto più del doppio rispetto alle altre potenze industriali e nel 1920 la sua industria cotoniera era la seconda del mondo. Nonostante ciò, nel 1918 scoppiarono dei tumulti tra i contadini giapponesi, esasperati dall’aumento dei prezzi del riso e fecero assalti ai magazzini e alle stazioni di polizia in città e campagne. L’espansione industrial favoriva invece i quattro maggiori zaibatsu (Mitsui, Mitsubishi, Sumimoto e Yasuda), ma la pressione di questi interessi condizionò gli indirizzi governativi. Il partito al potere, il Seiyukai, legato allo zaibatsu Mitsui, varò una politica di forte sviluppo della flotta militare e così il Giappone divenne la terza potenza navale dopo USA e GB. Nel 1921 il presidente americano Warren Harding convocò una conferenza a Washington dei ministri degli Esteri di tutte le potenze marinare e venne fissato un tetto massimo di tonnellaggio, il Giappone inoltre dovette restituire la regione dello Shantung alla Cina e stipulò un accordo con GB, USA e Francia. Era la prima volta che si realizzava un’intesa per la restrizione degli armamenti. Nonostante ciò la flotta giapponese mantenne il suo primato nell’Oceano Pacifico, mentre GB e USA si divisero tra Pacifico e Atlantico. Nel 1925 venne introdotto il suffragio universale maschile e vene dato un forte impulso alla scolarizzazione primaria. Nonostante gli sviluppi, rimaneva fondamentale l’ideologia del tenno, cioè il culto dell’imperatore e lealtà e obbedienza dovevano essere alla base. La crisi del 1929 provocò un crollo generalizzato dei prezzi, ma nel 1931 il ministro delle Finanze Korekiyo Takahashi varò una politica di intervento statale che dette rinnovato impulso alle spese militari e alle esportazioni, svalutando la moneta nazionale (yen). Nel 1930 una conferenza a Londra regolamentò la produzione dei vari tipi di navi da guerra di cui non si era parlato a Washington, tra cui sottomarini. Nel 1931 in Manciuria l’armata giapponese innescò un incidente con le truppe nazionaliste cinesi e occupò la città di Mukden, ma nel febbraio 1932 venne proclamata l’indipendenza del Manciukuo, uno stato controllato dai giapponesi a capo del quale fu posto l’imperatore cinese. La Società delle Nazioni condannò l’iniziativa e non riconobbe il nuovo stato, ma nel maggio 1933 il Giappone uscì dalla Società delle Nazioni. Intanto c’era una continua crescita dell’esercito della Kodoha, che promulgava l’assoluta fedeltà all’imperatore e il 15 maggio 1932 alcuni di essi uccisero il primo ministro Tsuyoshi Inukai: esso fu il primo di una serie di atti terroristici, che culminarono con un colpo di stato il 26 febbraio 1936, quando tentarono di colpire la residenza del capo del governo e il quartier generale della polizia a Tokyo. L’azione fallì ma il nuovo esercito presieduto dall’ex ministro degli esteri Koki Hirota fu condizionato dal potere militare. Nel novembre 1936 venne firmato il patto Anticomintern con la Germania nazista. Nel luglio 1937 il Giappone iniziò la conquista della Cina, occupando Pechino, Shanghai, Canton e Nanchino. La popolazione di Nanchino fu sottoposta a uno di più grandi saccheggi della storia. 1.39. La Cina e il Sudest asiatico Nel 1912 la Repubblica Cinese non godeva di un adeguato consenso popolare e il controllo del paese rimase nelle mani dei governatori militari delle province chiamati “signori della guerra”, il cui potere aumento dopo la guerra. Inoltre permaneva un’agricoltura arretrata e in larga misura fondata sull’autoconsumo, che rendeva miserabili le condizioni dei contadini, la cui durata media di vita era di 33 anni. L’economia rurale venne influenzata parzialmente dalla penetrazione occidentale, favorendo la formazione di latifondi basati sulla proprietà privata. Ma la scarsità della terra era aggravata dai primi segni di un forte incremento demografico provocato dall’abbassarsi della mortalità, a sua volta dovuto alle vaccinazioni e ad alcuni miglioramenti igienici. Il 4 maggio 1919 studenti, impiegati e commercianti manifestarono a Pechino contro la subordinazione della Cina agli interessi stranieri. Su queste basi, nel 1921 venne formato il partito comunista cinese a Shanghai. Nel 1923 il presidente del partito al potere (Goumindang), Sun Yat-Sen, promosse una collaborazione con i comunisti cinesi e con l’Unione Sovietica. Nel 1926 il suo successore lanciò una “spedizione verso nord” contro i signori della guerra. Vennero così conquistate Nanchino, Shanghai. Dopodiché il presidente Chiang pose fine all’alleanza con i comunisti, che vennero massacrati. Nel 1928 Chiang entrò a Pechino e instaurò il proprio governo nazionalista. Intanto il partito comunista si riorganizzò nelle campagne sviluppando le proprie basi sociali tra i contadini. Nei primi anni Trenta Chiang fece una serie di offensive armate ai comunisti, che sotto la guida di Mao Zedong risposero con una nuova tattica di guerriglia con attacchi improvvisi. Nel 1934 100.000 uomini dell’Armata Rossa di Zedong iniziarono la “lunga marcia” di un anno, e l’appoggio dei contadini risultò decisivo per la loro sopravvivenza. Dal 1931, l’attacco al Giappone e alla Manciuria aveva modificato il quadro politico del paese. Chiang decise di temporeggiare e cedere terreno ai giapponesi nella speranza di un aiuto da parte degli USA. I comunisti decisero di porre fine alla guerra civile per fronteggiare il nemico comune. Nel 1936 i generali del Goumindang costrinsero Chiang a trattare con il rappresentante comunista Zhou Enlai, e così nacque una strategia comune per una “lotta di lunga durata” contro l’invasore. Nel 1937 le truppe giapponesi iniziarono l’invasione, intanto il partito comunista continuava ad ottenere successi e consensi e le campagne cinesi rimasero decisive nel fornire sostegno alla guerriglia contro i giapponesi. Il secondo conflitto mondiale si concluse con la resa del Giappone, così la Cina fu liberata. Ma nel 1946-47 il capo dei Goumindang fece diversi attacchi alle basi del partito comunista nelle campagne cinesi. Nel 1948 i comunisti passarono alla guerra manovrata contro le truppe nazionaliste, le sconfissero e nel gennaio 1949 entrarono a Pechino. Il 1° ottobre 1949 venne proclamata la Repubblica popolare cinese. Nell’Indocina francese, nel 1927 venne creato un Partito nazionale ispirato all’esempio del Goumindang, ma nel 1931 venne fondato il Partito comunista del Vietnam che iniziò ad organizzare la rivolta indipendentista tra i soldati e i contadini. Si creò così una dialettica politica simile a quella cinese, tra un partito moderato e un partito radicale. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e la sconfitta militare delle Francia rafforzarono le posizioni del partito comunista, che nel 1937 conquistò la maggioranza alle elezioni. Nel 1941 venne creato il Fronte per l’indipendenza del Vietnam. Il 2 settembre venne proclamata l’indipendenza del paese. Nella colonia olandese dell’Indonesia il sentimento nazionale venne guidato da un partito musulmano, il Saraket Islam, a cui si contrappose negli anni ’20 il partito comunista indonesiano, che nel 1927 organizzò insurrezioni popolari a Giava e Sumatra, represse dagli olandesi. Nel 1927 venne poi fondato il Partito Nazionale, sotto la guida di A. Sukarno che si pose l’obbiettivo di un’indipendenza limitata alla politica interna. L’Olanda respinse la richiesta e mise fuori legge il partito. Sukarno fu prima costretto all’esilio e poi chiamato a far parte del governo di occupazione voluto dal Giappone nel quadro della “Sfera di coprosperità della Grande Asia Orientale”. Dopo la resa giapponese Sukarno proclamò l’indipendenza dell’Indonesia, divenuta effettiva dopo il 1949. Nelle Filippine, nel 1933 venne promessa l’indipendenza dagli USA a partire dal 1945. 1.40. L’India Le campagne indiane erano ancora più povere di quelle cinesi e la durata media di vita era 23 anni. L’impero britanno aveva promosso la commercializzazione dell’agricoltura attraverso ferrovie e irrigazione, mentre l’abbondanza di cotone e juta aveva favorito lo sviluppo dell’industria tessile, ma i profitti economici erano interamente assorbiti dai ricchi. Il regime coloniale britannico sfruttava la divisione religiosa tra hindu e musulmani, favorendo questi ultimi perché più moderati sul problema dell’indipendenza nazionale. Il movimento anticoloniale indiano fu dominato da Gandhi, chiamato anche Mahatma (grande anima), il quale nell’Ottocento aveva guidato le proteste degli indiani in Sudafrica elaborando una forma politica fondata sulla resistenza passiva e la disobbedienza pacifica alle leggi ingiuste. Nel 1919 egli guidò un giorno di astensione dal lavoro, digiuno e preghiera, contro una legge del governo inglese in India. Alla fine dello stesso anno la Gran Bretagna concesse all’India una nuova Costituzione , che fissava una “diarchia” tra il Parlamento indigeno e il governo. Nel 1920 i seguaci di Gandhi conquistarono la maggioranza nel Partito del Congresso. Gandhi si batté inoltre contro gli aspetti più arcaici del costume religioso indiano, come l’estrema subordinazione della donna. Alla fine del 1929 le prigioni indiane tenevano 5000 prigionieri politici, tra cui Gandhi e la moglie, il quale dopo essere stato rilasciato lanciò un’altra campagna per la produzione di sale contro il monopolio britannico. Gandhi riprese la sua compagna della disobbedienza e nel 1932 venne nuovamente arrestato. Lo sciopero della fame da lui intrapreso ebbe un eco mondiale e contribuì alla ripresa del negoziato con Londra, che nel 1935 condusse ad una nuova Costituzione. 1.41. Il Medio Oriente e il Maghreb Durante la prima guerra mondiale gli inglesi avevano fomentato la rivolta dei popoli arabi contro l’impero ottomano promettendo loro indipendenza, ma la conferenza di Sanremo e il trattato di Sèvres (aprile-agosto 1920) tradirono queste aspettative e l’intera regione del medio-oriente fu spartita in mandati coloniali affidati da Francia e GB. rivoltarono e nel 1911 portarono alla ribalta capi di origine contadina come Pancho Villa, Emiliano Zapata e nel 1914 dettero il potere al nuovo presidente Venustiano Carranza. Nel 1917 la nuova costituzione introdusse il suffragio universale e la giornata lavorativa di 8 ore, seguita da un programma di riforma agraria fondata sull’esproprio dei latifondi e della restituzione degli ejidos occupati abusivamente dai latifondisti. Inoltre vennero nazionalizzate le risorse del sottosuolo come il petrolio. Nel 1920 Carranza venne ucciso e Villa fu costretto alla resa dalle truppe guidate da Victoriano De La Huerta, Plutarco Caless e Alvaro Obregòn. Quest’ultimo divenne il nuovo presidente che dovette affrontare un periodo di instabilità. Dal 1934 al 1940 il nuovo presidente fu Làzaro Càrdenas, che rilanciò la riforma agraria: gli ejidatarios (assegnatari di terre espropriate dal governo) crebbero del 15% della popolazione nel 1934 e del 32% nel 1940. Càrdenas mise in discussione i rapporti di subordinazione economica che legavano il Messico all’Occidente, e nel 1937 nazionalizzò i diritti di compagnie come la Standard Oil e la Royal Dutch Shell. Il governo statunitense sospese l’importazione di argento messicano e quello inglese ruppe le relazioni diplomatiche. Nel 1926 in Nicaragua scoppiò un’insurrezione nazionale capeggiata da Cesar Sandino, così gli USA inviarono le proprie truppe per cercare, invano, di pacificare il paese. Nel 1928, nonostante l’opposizione statunitense, il Nicaragua venne stigmatizzato dalla VI Conferenza degli stati americani. Il presidente degli USA Roosevelt affermò nel 1933 la necessità di un mutamento, sostenendo la politica del “buon vicinato” e nella VII Conferenza degli stati americani, il segretario di stato Cordell Hull confermò questa linea firmando una risoluzione che proibiva a tutte le nazioni del continente ogni ingerenza negli affari di un’altra nazione. Ne seguì un disimpegno militare che riportò a casa le truppe statunitensi impegnate in America centrale. Il ritiro delle truppe dalla Repubblica Dominicana nel 1924 fu seguito dall’ascesa della guardia nazionale locale, il cui comandante Rafael Trujillo divenne presidente nel 1930, sostenuto da ceti finanziari e proprietari terrieri, il quale governò fino al 1961. In Nicaragua, dove il disimpegno statunitense avvenne nel 1933, il comandante della guardia nazionale, A. Somoza, fece uccidere Sandino e nel 1936 assunse il potere, che tenne fino al 1979. A Cuba il potere fu preso da F. Batista nel 1940 che divenne il capo del governo: anche qui la penetrazione dei capitali statunitensi nella coltivazione e nella raffinazione della canna da zucchero aveva favorito la riconversione dei ceti borghesi locali dalla proprietà terriera alle attività finanziarie, ma la crisi del 1929 aveva intensificato il conflitto sociale e nel 1933 il partito comunista cubano era il più forte dell’America latina, grazie al consenso della classe operaia. In Sudamerica la crisi del ’29 evidenziò i limiti di un’economia priva di basi produttive indipendenti. Il Venezuela basava l’economia solo sull’esportazione di petrolio, che attrasse buona parte dei capitali nordamericani ed europei in fuga dal Messico. La dittatura di Gomez aprì le porte alle compagnie petrolifere straniere, i cui rappresentanti nel 1922 crearono una legge che fissò il regime delle royalties (diritti di concessione dei pozzi pagati in percentuale sugli utili del governo locale). La politica del “buon vicinato” però creò le condizioni per un cambiamento, possibile soprattutto per gli stati più estesi e forti del continente. Questa svolta assunse il volto del populismo : un progetto neoconservatore che intendeva ampliare le basi sociali dello stato con la formazione di partiti di massa. In Perù, il progetto populista trovò strumento nell’Alianza Popular Revolucionaria Americana (APRA), fondata nel 1924, che si proponeva di realizzare l’unità politica dell’America Latina come condizione per sconfiggere l’imperialismo statunitense, nazionalizzando terre e industrie. L’APRA si diffuse in Bolivia, Ecuador, Brasile, Paraguay e Venezuela. Il partito aprista peruviano però non riuscì a realizzare i suoi programmi e per tutti gli anni ’30 combatté contro il governo conservatore e clericale del generale Benavides, che nel 1937 lo mise fuori legge. Il progetto di un capitalismo indipendente subì una sconfitta anche nel 1932-35 con la guerra del Chaco (regione petrolifera del Paraguay contesa dalla Bolivia), per interessi contrapposti di due compagnie straniere: la Standard Oil (sosteneva la Bolivia) e la Shell (aiutava il Paraguay). La guerra finì con un compromesso, ma entrambi i paesi continuarono a farsi colpi di stato. Il progetto populista ebbe più successo in Brasile, grazie a G. Vargas, che fu al potere dal 1930 al 1945. Egli si scontrò con il partito integralista, un movimento a carattere fascista, e il Partito comunista. Nel 1935 represse un’insurrezione comunista e due anni dopo Vargas promulgò una nuova Costituzione che conferiva pieni poteri al presidente e istituiva un sistema economico di natura corporativa. Il suo regime aveva punti in comune con i regimi dittatoriali europei. Fece alcuni interventi sociali (ferie, assistenza medica, 8 ore lavorative) e migliorò il comparto industriale facendo triplicare la produzione del 1939 rispetto al 1919, soprattutto nel meccanico, metallurgico e chimico. In Argentina la crisi del 1929 interruppe la politica riformatrice del Partito radicale e dal 1930 il paese fu retto da governi conservatori, espressione degli interessi dei grandi proprietari terrieri e dei grandi allevatori. Nel 1936 il partito comunista fu messo fuori legge e il primo progetto populista arrivò solo nel 1946, con l’elezione del presidente J. D. Péron, ministro del Lavoro e autore di misure a favore per i lavoratori. 10. LE ORIGINI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE 1.44. Un conflitto annunciato Le cause della Seconda Guerra Mondiale avevano origine nei trattati di pace della Grande Guerra, che non avevano risolto le divisioni del continente europeo e contenevano le premesse per nuovi conflitti. Si è infatti parlato di una “guerra civile europea” come sfondo e causa della seconda guerra mondiale. Le potenze europee non erano più capaci di risolvere da sole i conflitti che le dividevano, inoltre pesò negativamente l’assenza dell’URSS. Il paese che tentò di imporre nel modo più rigido il rispetto dei trattati fu la Francia, che si attenne alle restrizioni e ai pagamenti delle riparazioni da parte dei paesi sconfitti e in particolare della Germania. Questo dettato dal fatto che la Francia tentava di svolgere un ruolo egemone nel continente dopo il crollo della potenza tedesca. La Gran Bretagna, che doveva fare da garante, esitava a schierarsi a difesa degli interessi francesi perché riteneva che la pace punitiva imposta alla Germania dovesse trasformarsi in una sistemazione che tenesse conto del desiderio della Germania di alleviare le conseguenze della sconfitta. Francia e Italia erano interessate a combattere le tendenze revisioniste : la prima per salvaguardare la posizione di vantaggio acquisita a Versailles, la seconda per chiudere definitivamente la questione dell’Alto Adige e le mire jugoslave sui suoi territori di confine. Nel 1923 il cancelliere tedesco Stresemann annunciò la fine della “resistenza passiva” all’occupazione francese della Ruhr, mostrandosi disponibile a ricontrattare il pagamento delle riparazioni e allentando la tensione europea. Nel 1924 gli USA attenuarono il loro isolazionismo, varano con Francia, Gran Bretagna e Germania il piano Dawes. Nel 1925 venne varato il Trattato di Locarno, che confermò l’intangibilità delle frontiere tra Germania, Francia e Belgio e la smilitarizzazione della Renania. Intanto la Francia firmò trattati di alleanza con Cecoslovacchia e Polonia, mentre la Germania firmò degli arbitri con Francia, Gran Bretagna, Belgio, Cecoslovacchia e Polonia. La Francia continuò a perseguire un’egemonia continentale, mentre la Gran Bretagna tentò di bilanciare il peso francese con quello della Germania. L’Italia intervenne confusamente, prima avvicinandosi alla Jugoslavia, poi intervenendo pesantemente in Albania e sostenendo il revisionismo ungherese. L’URSS, esclusa dal trattato di Locarno, lo interpretò come un assenso alle rivendicazioni tedesche verso est e quindi come una minaccia. Nel 1929-30 ci fu una svolta negativa dovuta alla crisi, in cui gli USA tornarono al loro isolazionismo, i maggiori paesi accentuarono la spinta protezionista e in Germania e Italia ci furono vere e proprie forme di autarchia. Nel 1932, con la conferenza di Stresa, fallirono in tentativi di invertire questa tendenza e trasformare il settore danubiano-balcanico in area di libero scambio. Nel 1930 la Germania propose invano l’unione doganale con l’Austria e richiese la parità degli armamenti con gli altri paesi. Alla conferenza di Ginevra nel 1932 Gran Bretagna e USA si mostrarono disponibili di fronte alle richieste tedesche, mentre la Francia rimase rigida. Alla fine fu concessa la parità di armamenti. Nel 1933 la Germania si ritirò dalla Conferenza e abbandonò la Società delle Nazioni. L’aggressione giapponese contro la Cina in Manciuria fu la prima prova dell’inefficienza della Società delle Nazioni e l’attacco dell’Italia in Etiopia ne fu la conferma. Quest’ultima guerra provocò una modifica delle alleanze: determinando un avvicinamento della Germania all’Italia che fu sancito nel 1936 con l’Asse Roma-Berlino. A far precipitare il mondo verso il nuovo conflitto fu la determinazione di Hitler che infranse progressivamente le clausole dei trattati di pace. Le potenze reagirono creando a Stresa un fronte diplomatico, ma non ebbe effetto. La preoccupazione dell’ascesa tedesca spinse Stalin a uscire dall’isolazionismo, e venne accolto da Francia, che tra il 1932 e 1935 strinse una serie di accordi. La Francia inoltre lavorò per rinnovare un patto difensivo tra i Paesi della Piccola Intesa (Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia) e favorire l’Intesa Balcanica tra Lettonia, Estonia e Lituania. Intanto l’URSS firmò nel 1933 accordi con Afghanistan, paesi balcanici, Persia, Polonia, Romania, Turchia e con l’Italia, dichiarandosi disposta ad entrare nella Società delle Nazioni. Per combattere il fascismo, l’Urss spinse il movimento comunista a una politica di fronte popolare, formalizzata nel 1935 al VII congresso del Comintern. L’Urss veniva vista come un’incognita dalle potenze occidentali e la politica dell’appeasement riconosceva tardivamente la legittimità di una revisione degli accordi di pace e accettava la Germania nazista come interlocutore più affidabile dell’Urss. La guerra per Hitler, a cui si preparò dal 1936, era una scelta ideologica e la sua determinazione gli conferì un netto vantaggio su paesi che erano contrari all’impegno bellico. 1.45. La penisola iberica e la guerra di Spagna La Spagna, che rimase neutrale nel primo conflitto, era un paese diviso. L’incremento della domanda estera aveva sviluppato la base industriale nel nord del Paese, soprattutto in Catalogna, dove rinacque un movimento autonomista. Il resto del territorio rimaneva in condizioni arretrate in mano all’aristocrazia tradizionalista, dove vigeva un’economia di autoconsumo. Il paese era governato dal re Alfonso XIII, che si appoggiava alla chiesa e alle forze armate, anche queste ultime avevano perso potere nel 1898 a causa della sconfitta contro gli USA, che avevano privato la Spagna di gran parte del suo impero. Nel 1921 ci fu una grande crisi, che si concluse nel 1923 con un colpo di stato effettuato in Marocco dal generale Miguel Primo De Rivera con l’appoggio del re. Egli fu inoltre in grado di ridurre la disoccupazione e dare impulso alla produzione industriale. Inoltre, grazie all’alleanza con la Francia, tra il 1925 e il 1927 Primo de Rivera portò a termine la repressione della rivolta anticoloniale in Marocco. Nonostante ciò non mancava il malcontento, dovuto alla miseria delle masse rurali e alle aspirazioni democratiche. Nel 1930 Primo de Rivera diede le dimissioni dopo una disfatta subita dai monarchici e nel 1931 alle elezioni municipali Alfonso XIII abbandonò il paese. Alle elezioni ottenne la maggioranza l’alleanza formata da socialisti e repubblicani di sinistra. A dicembre 1931 venne promulgata una nuova Costituzione repubblicana che sancì il suffragio universale, la libertà religiosa e introdusse la separazione tra stato e chiesa. Nel 1932-33 il governo, guidato dal repubblicano Manuel Azana, sciolse l’ordine dei gesuiti. Un punto importante era costituito dalla riforma agraria, in quanto le campagne erano popolarizzate da un arretrato latifondo estensivo. Ma socialisti e repubblicani, concordi sulla necessità di espropriare le terre non coltivate, avevano due visioni diverse: • i socialisti volevano renderle ad uso collettivo, • i repubblicani volevano destinarle a piccoli proprietari indipendenti. Nel 1932 venne creata una legge di compromesso che ebbe però effetti limitati, fu espropriato solo lo 0.5% delle terre in due anni. Inoltre nel gennaio 1933 scoppiò a Barcellona un movimento anarchico, che si estese ad altre zone del paese con scioperi promossi dal sindacato. Alle elezioni del 1933 le destre, alleate in un fronte unico, conquistarono la maggioranza relativa ai seggi e si aprì così il “biennio negro”, in cui le sinistre risposero con scioperi nelle grandi città. Si accesero rivolte in diverse zone del paese, e nel 1934 il socialista Largo Caballero fece un tentativo insurrezionale, il quale venne represso dai reparti della Legione straniera di stanza in Marocco comandati da Francisco Franco. Gli insuccessi spinsero le sinistre spagnole a creare un Fronte popolare, che riuniva repubblicani, socialisti, comunisti e parte degli anarchici. Alle elezioni del 1936 esso conquistò una misurata maggioranza. Ma la vittoria del Fronte spinse i cattolici, guidati da José Maria Gil Robles, ad abbandonare l’idea di una conquista pacifica del paese. Si rafforzarono così i partiti estremi, tra cui la Falange, fondata nel 1933 da José Antonio de Rivera. Nel luglio 1936 scoppiò una lunga guerra civile, per motivazioni interne contro il governo, che divenne presto uno scontro tra fascismo e antifascismo. L’Italia sostenne la ribellione franchista e la Germania utilizzò il conflitto per mettere a prova la propria aviazione, usando il bombardamento. Nel 1937 la città di Guernica fu rasa al suolo. Sull’altro fronte arrivarono aiuti militari dall’URSS e migliaia di volontari antifascisti arrivarono da diversi paesi per sostenere la repubblica, creando le “brigate internazionali”. Sostenuti dalla chiesa e dall’esercito, i ribelli conquistarono vaste zone della Spagna, mentre Madrid, Barcellona e le zone più ricche rimasero in mano ai repubblicani, cui restò fedele la marina. Nel 1937 i partiti di destra si unirono nella Falange, che divenne uno strumento di propaganda franchista. Intanto le forze repubblicane ebbero diversi contrasti interni. Nel gennaio 1939 i franchisti conquistarono Barcellona e la guerra civile si concluse a marzo con la caduta di Madrid. Un mese dopo il governo di Franco annunciò l’adesione all’Asse tra Italia, Germania e Churchill chiese aiuti agli USA, che dal giugno 1940 mandarono armi e munizioni. Dopo aver denunciato l’alleanza con la Francia collaborazionista, la Gran Bretagna ne attaccò la flotta in Algeria, instaurando un blocco navale nell’Atlantico e nel Mediterraneo. L’aviazione tedesca concentrò i bombardamenti su Londra, con lo scopo di costringere il governo a cedere e trattare la pace, ma gli inglesi seppero resistere grazie all’efficace difesa dell’aviazione e delle postazioni antiaeree inglesi, le prime a sperimentare il radar. Gli inglesi subirono 11 mesi di bombardamenti e ci furono circa 13mila vittime in soli 3 mesi. Il 14 novembre a Coventry vennero distrutti 70.000 su 75.000 edifici e morirono 1000 persone. La “battaglia d’Inghilterra” però segnò la prima battuta d’arresto dei tedeschi, che decisero di fare un blocco navale per impedire l’arrivo degli aiuti americani. Questa fu la “battaglia dell’Atlantico”, in cui si fronteggiarono la flotta britannica e i sottomarini tedeschi. 1.48. Dalla guerra europea alla guerra mondiale L’ingresso dell’Italia coinvolse anche le rispettive colonie. Da Londra il generale Charles De Gaulle chiamò i francesi alla resistenza, creando il movimento per la “Francia libera”, in cui si schierarono le colonie del Ciad e dell’Africa equatoriale, Tahiti, la Nuova Caledonia e le Nuove Ebridi. Nell’agosto 1940 De Gaulle e Churchill firmarono un accordo che portò in settembre allo sbarco di un contingente anglofrancese nel Senegal. L’intervento dell’Italia aprì nuovi fronti in Africa Orientale, al confine tra Libia e Egitto e nella penisola balcanica. Nell’agosto 1940 l’Italia, diretta dal maresciallo Rodolfo Graziani, invase la Somalia britannica e attaccò l’Egitto, ma la loro superiorità numerica fu bilanciata dall’artiglieria e dei mezzi corazzati britannici. Nel dicembre 1940 la controffensiva inglese arrestò gli italiani vicino a Tripoli, in Libia. All’insaputa di Hitler l’Italia invase la Grecia a ottobre 1940 e dopo alcuni successi iniziali, avvenne la controffensiva greca che rimando gli italiani in Albania. Nel marzo 1941 lo sbarco britannico a Salonicco costrinse Mussolini a chiedere aiuto alla Germania. L’intervento tedesco fu risolutivo nei Balcani. Un colpo di stato abbatté Belgrado, che aveva aderito all’asse e così Hitler costrinse alla resa l’esercito jugoslavo. Lo stato federale nato nel 1919 si smembrò in Croazia e Serbia, mentre Germania e Italia si divisero la Slovenia. Anche la Grecia passò sotto il controllo tedesco. Altri successi furono nell’Africa del nord, in cui l’Afrikakorps (corpo di spedizione nazista in Africa) si affiancò all’Italia nel febbraio 1941 e respinse gli inglesi oltre la frontiera egiziana. Intanto la Gran Bretagna riuscì ad allontanare il Medio Oriente dalla minaccia tedesca. Gli italiani furono costretti ad abbandonare l’Etiopia. A metà 1941 tutto il continente europeo era sotto controllo diretto o indiretto della Germania. Le cose cambiarono con l’intervento di URSS e USA nella seconda metà del 1941. Per i tedeschi l’attacco all’URSS era fondamentale e una vittoria avrebbe portato la Gran Bretagna a firmare la pace. Lo scontro tra URSS e Germania sul fronte orientale produsse il più alto numero di vittime di tutta la guerra e la popolazione sovietica contò 20 milioni di morti. L’operazione Barbarossa, cioè l’attacco all’URSS, iniziò il 22 giugno 1941 e fu la più grande spedizione militare mai realizzata con 4 milioni di militari, 3500 carri armati e 3000 aerei. I tedeschi giunsero in poco tempo vicino a Mosca, dove l’offensiva si arrestò fino a luglio, dopo grandi sconfitte sovietiche. Hitler decise di spostarsi sul fronte sud dove mirava al grano dell’Ucraina, al carbone del Donetz e al petrolio del Caucaso . Dopo aver occupato Kiev e l’intera Crimea, ordinò di avanzare verso Leningrado e Mosca, ma l’avanzata si arrestò l’8 dicembre, per la controffensiva sovietica. La guerra si estese al Pacifico, dove il 7 dicembre 1941 i giapponesi attaccarono la base di Pearl Harbor nelle Hawaii, dove si trovava la flotta americana che ebbe gravissimi danni. I giapponesi attaccarono anche la flotta britannica affondando due corazzate e conquistarono la Birmania e l’Indonesia. Nel dicembre 1941 USA e Gran Bretagna dichiararono guerra al Giappone, Germania e Italia agli USA. Da qui la guerra comprese anche l’America del Nord, l’Australia, la Nuova Zelanda e rimase esclusa solo l’America latina. 1.49. Il conflitto in Asia e l’intervento americano L’espansionismo giapponese si fondava su un’ideologia fondata sulla superiorità razziale del Sol Levante sui colonizzatori bianchi, alimentando un progetto di “liberazione” dei popoli asiatici, ma sotto la supremazia giapponese. L’obiettivo di Tokyo era creare una “Sfera di coprosperità della Grande Asia Orientale”, che doveva sostituire l’impero nipponico a quelli europei. Il Giappone optò per una diretta amministrazione militare dei territori, anche se la Birmania, le Filippine e gli stati malesi e l’Indonesia furono riconosciuti formalmente indipendenti nel 1943. Inoltre la conquista militare risolse il deficit giapponese di energia e materie prime necessarie a proseguire la guerra. Ma questa logica tolse credibilità alla loro pretesa di emancipare i popoli coloniali dal dominio europeo e dette contributo allo sviluppo di movimenti nazionali e indipendentistici. L’impero nipponico mirava a ricavarsi il proprio “spazio vitale” e la guerra di aggressione contro la Cina, iniziata nel 1931 e ripresa nel 1937 rappresentò la direttrice nord dell’espansionismo. Il crollo della Francia e l’accerchiamento dell’Inghilterra aprirono le strade per l’espansione verso sud, verso le colonie europee, anche se il governo di Funimaro Konoe voleva mantenersi a nord e continuare i rapporti con Washington. Intanto cresceva l’influenza delle forze armate , che miravano a sud e al confronto con gli USA. Nel settembre 1940 i giapponesi sbarcarono in Indocina e imposero un protettorato sulla Thailandia, intanto il governo giapponese firmò un nuovo Patto Tripartito con Germania e Italia, che mirava all’aiuto reciproco. Tokyo si mantenne però neutrale nel conflitto e nell’aprile 1941 stipulò un patto di non aggressione con l’URSS. Inoltre nascose agli europei le trattative con cui cercò di ottenere da Washington il riconoscimento delle sue aspirazioni in Asia e nel Pacifico. L’attacco di Pearl Harbour venne fatto il 20 ottobre 1941, quando salì al governo il generale Hideki Tojo. Esso pose fine all’isolazionismo americano. Dopo la disfatta francese, Roosevelt aveva come nemico principale la Germania. Nel marzo 1941 fu approvato il Lend-Lease Act, una legge “affitti prestiti” che autorizzava forniture belliche ai paesi amici a condizioni vantaggiose. Ad agosto Roosevelt e Churchill vararono la Carta Atlantica, in cui venivano definiti i progetti per un futuro ordine internazionale fondato sul rifiuto delle guerre di aggressione e di conquista., sulla libera circolazione delle merci e dei capitali e il libero accesso alle materie prime. Con l’entrata americana il conflitto divenne una lotta politica tra fascismo e antifascismo. Tra dicembre 1941 e gennaio 1942 si tenne una conferenza a Washington che gettò le basi delle Nazioni Unite: una grande alleanza antifascista. Dopo l’embargo sul petrolio e sull’acciaio destinati al Giappone, nel luglio 1941 gli USA sequestrarono i beni giapponesi esistenti nel paese, congelando i loro crediti. A novembre chiesero a Tokyo di porre fine all’aggressione contro la Cina. L’intervento americano pose fine alla guerra lampo. Quasi 700.000 milioni di franchi furono imposti alla Francia per contributi di occupazione, ai territori dell’est furono estorti materie prime e lavoro umano. L’Armata Rossa, ritirandosi, riuscì a trasferire al sicuro 10 milioni di lavoratori e impianti industriali, che assicurarono all’URSS una produzione di cannoni superiore a quella tedesca. Lo sfruttamento delle risorse dei paesi conquistati consentì alla Germania di mantenere buone condizioni di vita e fino al 1944 le razioni alimentari furono soddisfacenti, in quanto i generi alimentari furono ripartiti equamente a tutti gli stati sociali. Fu decisivo il lavoro dei 7 milioni di civili deportati, che insieme ai prigionieri di guerra coprirono il 20% della forza lavoro. La guerra spostò il baricentro dell’economia dall’Europa agli USA, anche perché quest’ultimi non subirono distruzioni territoriali. Inoltre il 40% delle armi usate su fronte occidentale e il 35% sul fronte orientale furono di fabbricazione americana. Il reddito nazionale crebbe più del doppio rispetto al 1940 e la produzione aumentò del 15% annuo tra 1940 e 1944, grazie anche all’adozione di nuove tecnologie. 11.4 Il “nuovo ordine europeo” e la Shoah Le conquiste tedesche ebbero gravissimi effetti sulle popolazioni, che furono maltrattate, rapinate, sfruttate e deportate in massa a causa di un progetto di dominio che non poté essere integralmente realizzato grazie alla sconfitta finale. Nel luglio 1940 fu lanciato il “nuovo ordine europeo”, un progetto che designava il futuro del continente dopo la conclusione della guerra, in cui espansionismo e razzismo erano alla base. Si riempiva di contenuto la teoria dello “spazio vitale”, fondato sulla supremazia della razza tedesca, in cui al centro c’era la Grande Germania, accresciuta dalle annessioni di Austria, Alsazia, Lorena, Lussemburgo, Boemia, Moravia e Polonia. Attorno ad essa c’erano i paesi satelliti del Patto tripartito (Italia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Finlandia). Il terzo anello era costituito dai paesi dell’Europa settentrionale occidentale, sottoposti all’occupazione nazista e allo sfruttamento economico. La Germania fu particolarmente crudele nei territori balcanici, in particolare quelli sovietici e polacchi, dove la guerra fu concepita come sperimentazione di dominio totale (rapina economica, decapitazione delle classi dirigenti, deportazioni e sterminio di massa). Qui venne programmato ed eseguito lo sterminio delle “razze inferiori”: ebrei, zingari e slavi. Dal 1939 venne previsto il trasferimento degli ebrei dalle campagne in recinti edificati nelle maggiori città (ghetti). Il governatore nazista della Polonia, Hans Frank, intendeva sfruttare la manodopera ebraica per incrementare la produzione industriale e si scontrò con il capo delle SS Heinrich Himmler, che voleva la deportazione degli ebrei verso est per eliminarli. Nell’estate 1942 si concluse l’elaborazione del “Piano generale per l’est”, che programmò la deportazione in Siberia di 31 milioni di persone “razzialmente indesiderabili”: per i 5-6 milioni di ebrei residenti nell’area era già prevista l’eliminazione. Le conquiste territoriali tedesche misero in mano ai nazisti un altissimo numero di ebrei, e l’idea di trasferirli fuori dal Reich divenne impraticabile, così si fece strada l’ipotesi di fare della Polonia un “contenitore” di ebrei. Dall’ottobre 1941 numerosi ebrei andarono nei ghetti polacchi, dove le condizioni di vita divennero insostenibili e morirono a decine di migliaia per la scarsità di cibo, epidemie, alta densità abitativa e pessime condizioni igieniche. Tra aprile e maggio 1943 il ghetto di Varsavia insorse, ma la battaglia si concluse con la sconfitta e la distruzione del quartiere ebraico. Dall’estate 1941 le Einsatzgruppen delle SS iniziarono a fucilare le popolazioni degli insediamenti ebraici che trovavano sul loro cammino. Intanto i Lager, che erano stati concepiti come luoghi di detenzione e punizione per gli oppositori, gli indesiderabili e, dopo la notte dei cristalli, per gli ebrei, dal settembre 1941 un decreto chiamato “notte e nebbia” dispose la deportazione di una parte di prigionieri di guerra e dei sospetti di resistenza al Terzo Reich. In Polonia ne furono edificati di nuovi, tra cui il più grande ad Auschwitz, in Slesia, costruito nel 1940 e composto da 3 campi, con la capacità di 100.000 prigionieri. Il secondo fu Birkenau, in cui nell’inverno 1941 entrarono in azione le camere a gas , collegate a forni crematori per lo smaltimento dei cadaveri. Vicino ad Auschwitz furono costruite una fabbrica dell’industria chimica IG-Farben e altre minori. Nei campi si separavano le persone abili al lavoro da quelle inabili, destinate allo sterminio immediato. Altri campi polacchi (Chelmno, Treblinka, Belzek, Sobibor) furono dotati di strutture simili, e avevano il vantaggio di svolgere le operazioni in modo più segreto. A partire dall’estate 1941, la “soluzione finale” del problema ebraico fu pianificata il 20 gennaio 1942 in un incontro che riunì a Berlino i massimi gradi delle SS: gli ebrei sarebbero stati trasferiti prima in Polonia, nei ghetti di transito e ai lavori forzati. La selezione naturali li avrebbe decimati e i restanti sarebbero stati eliminati. Con la Shoah vennero sterminate 6 milioni di persone in circa 40 mesi, cancellando gli insediamenti ebraici dell’Europa orientale, la loro cultura e la loro lingua (yiddish). Circa 1 milione di nazisti di diverse nazionalità collaborarono al rastrellamento e alla deportazione degli ebrei. Nonostante la massima segretezza delle operazioni, le notizie iniziarono a filtrare in Occidente fin dall’estate 1942 a Londra e in Vaticano, le cui reazioni però furono caute e reticenti. 5. La guerra totale. Vittime civili, collaborazionismo e Resistenza La guerra di sterminio nazista sul fronte orientale determinò una rottura di civiltà, che ebbe effetti sui suoi stessi nemici. L’armata rossa, nella sua controffensiva verso ovest, si macchiò di violenze a danno della popolazione tedesca, che costarono la vita alla maggioranza delle 800.00 vittime civili sofferte dalla Germania. Su 70 città tedesche, 23 furono distrutte al 70% e 47 al 50%. Londra subì la distruzione di 250 ettari di superficie urbana, mentre Berlino e Amburgo superarono i 2000 ettari. Negli USA, i cittadini di origine giapponese furono chiusi nei campi di concentramento. Nell’agosto 1945 le prime bombe atomiche americane sganciate sulle città di Hiroshima e Nagasaki provocarono più di 200.000 vittime civili. Intanto nacquero forme di collaborazionismo e Resistenza, che impegnarono uomini politici, governi e semplici contadini, i quali agirono per molteplici motivi. • In Norvegia (con Vidkun Quisling) e in Olanda (con Anton Mussert) si praticò una politica collaborazionista basata su una convinta adesione al nazismo e su pregiudizi razziali e antibolscevichi. Quisling divenne il capo del governo norvegese nel 1942, mentre Mussert divenne il Fuhrer del popolo olandese. • Il caso croato e slovacco si segnalano per un connubio di nazionalismo e cattolicesimo, che alimentò lo sviluppo di regimi fascisti e antisemiti. In Slovacchia ci furono conflitti tra movimenti nazisti e gruppi cattolico-nazionalisti guidati da Jozef Tito, che Hilter appoggiò in segno di conciliazione con la chiesa. La Croazia, divenuta indipendente dopo la disgregazione della Jugoslavia, fu in balia di Ante Pavelic e dal 1941 anche dello stato e del governo. Durante la guerra Pavelic, oscillò tra Germania e Italia, per rafforzare l’autonomia croata. • L’Ungheria si dimostrò collaborazionista, ma furono costretti ad arrendersi nel 1944 all’occupazione tedesca. sbarazzarsi di Mussolini e trattare la pace, rafforzata il 10 luglio dallo sbarco in Sicilia degli alleati. Era però evidente la debolezza dei gruppi antifascisti. Il fascismo cadde dopo una congiura di palazzo, attuata dai gerarchi dissidenti e dai vertici dell’esercito sotto la cauta direzione della monarchia. Il 25 luglio 1943 Mussolini venne arrestato per volere del re, il quale affidò il governo a Pietro Badoglio, ex capo di stato maggiore delle forze armate. Venne però proclamata la prosecuzione della guerra e si richiesero aiuti alla Germania per contrastare gli alleati e nel contempo vennero fatte trattative segrete con gli angloamericani per l’armistizio, che venne firmato il 3 settembre e annunciato dagli alleati l’8 settembre 1943. Così Badoglio, insieme ad una parte del governo, alle forze armate, al re e alla famiglia, fuggì da Roma. Intanto ci furono episodi di resistenza: • Nell’isola di Cefalonia 11.000 soldati della Divisione Acqui opposero ai tedeschi una strenua resistenza, ma vennero fucilati sul posto. • 600.000 militari italiani rifiutarono la resa e furono internati in campi di concentramento nazisti, dove 40.000 vennero uccisi. • Il 9 settembre gli alleati sbarcarono a Salerno, dove furono contrastati dai tedeschi e il fronte si arrestò sulla “linea Gustav”, da Caserta al Sangro, lasciando l’Italia centrosettentrionale in mano tedesca. Intanto si fece strada la lotta per la liberazione del paese da parte di una minoranza e il 9 settembre 1943 il Comitato di liberazione nazionale (CLN) chiamò gli italiani alla resistenza contro i tedeschi, segnando così la transizione italiana da fascismo a democrazia. Dopo la conferenza di Teheran il fronte italiano divenne secondario per gli angloamericani, fino al 25 aprile 1445 quando tutta l’Italia venne liberata e riunificata. L’Italia del sud rimase sotto la giurisdizione del governo Badoglio, ma sotto tutela angloamericana. Nel 1943 gli alleati proclamarono di voler liberare l’Italia dal fascismo. Dopo l’8 settembre i partiti antifascisti crearono il Comitato di liberazione nazionale per organizzare la resistenza e assumere la guida politica del paese. Vi aderirono: • Il Partito democratico del lavoro di Ivanoe Bonomi, formato da politici del periodo prefascista • Il Partito liberale • Il Partito socialista di unità proletaria (PSIUP) • La Democrazia cristiana (DC), fondata nel 1942 da Alcide De Gasperi • Il Partito d’azione (erede del movimento Giustizia e Libertà) • Il Partito comunista (PCI) Il CLN soffriva di una debolezza politica e chiese invano l’allontanamento del re. La situazione cambiò nel marzo 1944 con il riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’URSS, che aprì la strada alla “svolta di Salerno”. Dopo che il leader comunista Palmiro Togliatti accantonò la pregiudicale antimonarchia, i partiti del CLN entrarono nel governo del sud per estendere l’unità del fronte antifascista e non contrastare la volontà degli alleati. Il 4 giugno 1944 venne liberata Roma e al re subentrò come luogotenente il figlio Umberto e il presidente del CLN Ivanoe Bonomi assunse la guida del governo. Nel centro-nord i tedeschi liberarono Mussolini, che si mise a capo di uno stato collaborazionista contrapposto al sud, creando la Repubblica Sociale Italiana (RSI) e insediandosi il 23 settembre 1943 a Salò, sul Lago di Garda. Essa attrasse migliaia di militari fedeli all’alleanza con la Germania e Mussolini riuscì a creare un esercito di 50.000 uomini, cui si affiancò una milizia di partito di 150.000 uomini e la Guardia nazionale repubblicana. Essa fu profondamente dipendente dai tedeschi. Alla Resistenza, oltre ai partigiani, parteciparono i militari che non si arresero dopo l’8 settembre, gli internati dei campi nazisti e quelli del riconosciuto stato del sud, i deportati nei Lager. I partigiani erano 9000 alla fine del 1943, 82.000 nell’estate del 1944, 150-200.000 al momento dell’insurrezione, nell’aprile 1945. I caduti furono 35.000, 21.000 i mutilati, 9.000 i deportati in Germania. Tra il 1943 e 1945 in Italia si combatterono 3 guerre: una guerra nazionale di liberazione dallo straniero, una guerra “di classe” che mirava ad una trasformazione dei rapporti sociali e una guerra civile tra italiani. Come in altri paesi, la politica fu una componente decisiva della Resistenza: alle brigate di Garibaldi (guidate dai comunisti) si affiancarono le brigate di Matteotti (socialiste), Giustizia e Libertà (azioniste) e quelle “verdi” (cattolici, monarchici e “senza partito”). Alla fine del 1944 il governo Bonomi delegò il Comitato di Liberazione Nazionale dell’alta Italia (CLNAI), che ottenne l’appoggio degli alleati e riuscì a mantenere il controllo di alcune zone libere, dove si costituirono delle “repubbliche partigiane”: Val d’Aosta, Val d’Ossola. I reparti della Wehrmacht attuarono rappresaglie a Boves (Piemonte), a Marzabotto (Emilia) e a Roma. Il movimento partigiano riuscì a superare le difficoltà nell’autunno 1944, preparando l’insurrezione finale in concomitanza dell’offensiva angloamericana, lanciata il 1° aprile 1945. 12. BIPOLARISMO E GUERRA FREDDA 1.50. Il mondo nuovo del dopoguerra La seconda guerra mondiale pose fine ad un ciclo che venne chiamato dagli storici “Guerra del trent’anni del Novecento” e segnò la definitiva scomparsa dell’antico regime e dei grandi imperi multietnici, cancellati dalla Grande Guerra. Dopo la prima guerra erano sorti nuovi e più agguerriti nazionalismi, da cui erano scaturiti i regimi totalitari in Italia e Germania, mentre nell’URSS ci fu l’autocrazia. Con 51 milioni di morti, la seconda guerra mondiale segnò la conclusione di un’epoca di catastrofi, in cui Auschwitz e Hiroshima simboleggiarono il lato oscuro e distruttivo della forza raggiunta dall’uomo. La fase che si aprì nel 1945 segnò l’avvio di un nuovo ciclo economico che in tutto l’occidente si svolse per circa trent’anni, all’insegna della crescita straordinaria della produzione e dei consumi, che venne definita “età dell’oro” del capitalismo. Gli equilibri del mondo mutarono completamente e per la prima volta il potere mondiale si divise tra URSS e USA, ognuno con le rispettive zone di influenza, che dettero corpo alla Guerra Fredda. Scegliere la protezione e l’alleanza diplomatica di una significava optare per un’idea precisa di società. Negli anni 50-60 un moto di indipendenza scosse l’Africa e l’Asia con risultati diversi sul piano della crescita e del benessere di essi. Le nuove nazioni africane e asiatiche ottennero il proprio seggio nell’ONU. Intanto nuove instabilità e conflitti si accesero in Corea, Medio Oriente e Vietnam. La sconfitta statunitense in Vietnam aprì una nuova fase di instabilità negli equilibri internazionali, l’URSS ne approfittò per mirare all’espansionismo militare, dando il via alla “seconda guerra fredda”. Dopo quasi trent’anni di stabilità monetaria dal 1944, grazie agli accordi di Bretton Woods , il mercato dei cambi entrò in una fase di accentuata fluttuazione. Nuovi soggetti economici divennero importanti, come l’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio, che alzò i prezzi provocando una recessione in tutto l’Occidente. In questi anni ci furono trasformazioni delle economie più sviluppate: il terziario divenne più importante delle fabbriche, fino a designare una nuova società “post-industriale”. Un numero crescente di posti di lavoro venne spostato nei paesi in via di sviluppo, dove la manodopera era meno costosa. La tecnologia informatica divenne sempre più avanzata e accessibile. Tutto ciò contribuì a accrescere la distanza tra l’Occidente e i paesi del terzo mondo. 1.51. La Golden Age Dopo la fine della seconda guerra mondiale si aprì una fase chiamata “golden age”, a causa di un grande sviluppo economico che non fu interrotto da alcun momento di crisi. In questo periodo il reddito pro capite del mondo salì dal 1.3% al 2.9% annuo, anche se lo sviluppo non fu estero in maniera equa in tutto il mondo, ma interessò soprattutto i paesi a capitalismo sviluppato, ed in particolare il Giappone e l’Occidente europeo. Negli USA il reddito pro capite crebbe del 2.5% annuo, in Giappone del 8.1% e in Europa del 4.1%. In Asia fu del 2.9%, in America latina del 2.5% e in Africa del 2.1%, ma i redditi di partenza di questi ultimi paesi erano assai inferiori a quelli occidentali. Le differenze tra nord e sud del pianeta si accentuarono ulteriormente a causa del balzo dei paesi più sviluppati. Un forte sviluppo caratterizzò l’URSS, grazie ad una pianificazione centralizzata che privilegiò l’industria pesante a scapito dell’espansione dei consumi. In questo periodo i tassi di inflazione non furono elevati (2.7% in USA, 4.3% in Europa, 5.2% in Giappone), la disoccupazione media fu inferiore al 2% e il debito pubblico rimase entro i limiti. In Europa ci fu una forte riduzione delle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi. Tutto ciò fu possibile grazie ad un elevato livello di cooperazione e solidarietà internazionale e grazie alla stabilità monetaria. Nel 1944 una conferenza angloamericana fatta a Bretton Woods, aveva definito il sistema economico e monetario internazionale del dopoguerra, in cui fu importante l’intervento dell’economista Keynes . La stabilità degli scambi internazionali era garantita dall’uso del sistema monetario del gold dollar standard, basato sulla convertibilità in oro del dollaro, così da rendere gli USA una superpotenza economica. Fu inoltre creato un Fondo Monetario Internazionale (FMI) e una Banca Mondiale per promuovere lo sviluppo dei paesi più arretrati. Tutto ciò favori gli scambi internazionali che aumentarono del 7% annuo, mentre il tasso di crescita globale delle esportazioni passò dallo 0.9% al 7.9%. Nacquero poi una serie di organismi che scandirono le tappe dell’integrazione europea: • Nel 1947 il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) • Nel 1948 l’Organizzazione per la cooperazione economica europea, divenuta nel 1961 l’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo (OCSE) che raggruppava i paesi sviluppati del mondo • Nel 1945 l’Unione europea dei pagamenti • Nel 1951 la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) • Nel 1957 la Comunità economica europea (CEE) Allo sviluppo della golden age contribuirono diversi fattori: 1. Grande disponibilità della manodopera industriale a basso costo, nuove possibilità lavorative nell’industria che determinarono una migrazione dalle campagne alle città anche al fine di raggiungere condizioni di vita migliori. 2. Ritardo iniziale dell’Europa rispetto agli USA a causa del divario tecnologico (vedi p. 215) 3. Benefici effetti del coinvolgimento dello stato nell’economia dopo l’affermarsi di politiche economiche keynesiane e dalla corrispondente diminuzione del potere dei grandi gruppi d’interesse, che assicurarono largo consenso sociale alla crescita economica. Secondo Keynes, lo stato non doveva sostituire l’economia di mercato con un’economia pianificata, ma regolamentarla facendola funzionare al meglio e riducendo le disuguaglianze dei redditi. In questo senso, la politica economica dei governi stimolò l’economia nelle fasi di rallentamento e la frenò in quelle espansive, riducendone la tendenza a procedere con un andamento ciclico e stabilizzando i redditi. Lo stato creò industrie statali e parastatali, creando un sistema misto di imprese private e pubbliche che furono cruciali nel sostenere lo sviluppo economico e il mutamento sociale. Furono inoltre messe in atto politiche di redistribuzione del reddito e di difesa dei ceti più deboli attraverso il fisco. Queste politiche del welfare comportavano una spesa sociale che passò dal 25% del reddito dei paesi europei al 45%. Si affermarono due modelli di welfare state: 1. Liberale americano: concepiva l’intervento dello stato come un’estrema risorsa a cui ricorrere quando fossero insufficienti la famiglia o la carità privata. A godere dei benefici erano solo coloro che ne pagavano i costi. 2. Socialdemocratico: aveva un carattere sistematico e non residuale. A godere dei benefici erano tutti i cittadini. La continua crescita economica tuttavia consentì ai paesi di coprire la spesa sociale, mantenendo in equilibrio le entrate e le uscite. La fine di questa espansione si colloca nel 1973, quando l’OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries) stabilì un fortissimo aumento del prezzo del greggio, che salì da 3 a 12 dollari a barile. Fu una decisione politica per danneggiare i paesi favorevoli a Israele in seguito alla guerra del Kippur. I suoi effetti furono devastanti e causarono una lunga fase di crisi economica mondiale perché tutti i paesi industrializzati, a parte USA e URSS, dipendevano quasi interamente da questa fonte di energia. Precedentemente, nel 1971, il nuovo presidente degli USA, Richard Nixon, aveva posto fine alla convertibilità del dollaro in oro e con essa al modello di cooperazione internazionale. Gli USA avviarono così una politica di protezionismo doganale e di blocco dei prezzi e dei salari. Ma a segnare il declino della golden age, furono proprio i suoi effetti. La crescita di grandi potenze come il Giappone e la Germania fece sì che alla leadership statunitense si sostituisse un oligopolio, creando rapporti economici e monetari più instabili. Inoltre vennero meno fattori come la riserva di forza lavoro a basso costo proveniente dall’agricoltura e lo stimolo costituito dal gap tecnologico fra Europa e USA. In più le scelte produttive furono spesso subordinate a logiche politiche. Inoltre questo periodo di età dell’oro si addiceva ad un ristretto gruppo di paesi, in quando nelle aree più arretrate del mondo la situazione fu molto diversa. A proposito Ander Gunder Frank e Samir Amin fecero le “teorie della dipendenza”: i paesi poveri non avrebbero potuto avvicinarsi a quelli ricchi seguendo lo stesso percorso perché il sottosviluppo non era uno stadio iniziale, ma un prodotto del capitalismo e lo si sarebbe superato solo infrangendo il rapporto di subordinazione e spoliazione delle risorse naturali. La crescita economica del 1945-1973 ebbe effetti pesanti sull’ambiente, aggravando l’inquinamento del pianeta. I suoli e le acque vennero contaminati a causa dell’uso dei fertilizzanti chimici e antiparassiti, lo smog urbano, gli scarichi industriali, le piogge acide e i gas inquinanti. A settembre 1947 i delegati di nove partiti comunisti crearono il Cominform, come risposta politica al piano Marshall, anche se si rivolgeva anche ai paesi occidentali e a quelli centro-orientali. • Nei Balcani i partiti comunisti avevano preso potere autonomamente, guidando la resistenza armata e l’insurrezione contro il nazismo. • In Jugoslavia, Albania e in Bulgaria l’aiuto dell’Armata Rossa era stato minimo e al momento della creazione del Cominform i comunisti avevano già pieno potere. • In Romania, Polonia e Ungheria le coalizioni tra comunisti, socialisti e partiti contadini misero fuori legge i partiti ostili all’URSS. • In Cecoslovacchia il passaggio al potere comunista fu traumatico e tra 1947 e 1948 si registrò una perdita di consensi del Partito comunista. Ci furono tensioni interne al governo e nel febbraio 1948, 12 ministri non comunisti si dimisero sperando che il presidente della repubblica formasse un governo senza comunisti, ma egli (Benes) lasciò che si formasse un governo di uomini fedeli a Gottward. Alcuni giorni dopo il ministro degli esteri fu trovato ucciso e il “colpo di stato” di Praga si concluse il 6 giugno con le dimissioni di Benes. Il governo di coalizione venne sostituito con un governo che aveva dietro di sé l’esercito sovietico. La Germania era oggetto di discussione. Nel febbraio 1948 inglesi e americani avevano creato un governo provvisorio nelle zone controllate da loro e dai francesi, accentuando l’integrazione con il piano Marshall. Ad aprile il comandante sovietico di Berlino decise che le persone in entrata e in uscita dalla parte orientale dovevano avere la sua autorizzazione. A giugno i paesi occidentali attuarono una riforma monetaria nella zona da loro controllata. Nella notte tra 23 e 24 giugno Berlino venne isolata dal resto della Germania orientale, posta sotto il controllo sovietico e fu esclusa dai rifornimenti energetici e alimentari. Così gli USA organizzarono un ponte aereo per rifornire i berlinesi di merci. Il blocco dell’ex capitale durò fino a maggio 1949. Nello stesso mese fu costituita ad ovest la Repubblica federale tedesca e in ottobre nacque ad est la Repubblica democratica tedesca. Dopo tre anni dalla fine della guerra, gli alleati che insieme avevano sconfitto il nazismo si trovavano sull’orlo di una guerra. Stalin approfittò della presenza dell’armata rossa, delle debolezze occidentali e dei partiti democratici, e della forza dei comunisti per costruire, in una sembianza di legalità, dei regimi sottomessi a Mosca. Si mostrò invece cauto nelle zone in cui la presenza sovietica non era riconosciuta, come in Iran, Turchia, Grecia, Cina. L’idea di un nemico forte e aggressivo spinse gli USA ad abbandonare la propria posizione isolazionista. Negli USA come in URSS si assisté ad una tendenza a semplificare la realtà internazionale, sopravvalutare la forza dell’avversario e considerare l’Europa come incapace di esprimere una politica propria. Fu scelto il terreno ideologico per ottenere la massima coesione interna e il maggiore consenso alla propria azione internazionale. Il modo in cui il confronto si manifestò, cioè il sistema ideologico della guerra fredda, fu effetto delle scelte delle dirigenze americane e sovietiche, preoccupate di raccogliere consenso all’interno e costituire un chiaro punto di riferimento all’esterno. 1.54. La guerra di Corea e la stabilizzazione della guerra fredda Nel 1948 Truman vinse le elezioni, mentre a indebolire Stalin fu lo “scisma jugoslavo”. Infatti la Lega dei comunisti jugoslavi era il più grande partito aderente al Cominform dopo quello sovietico e il suo gruppo dirigente, guidato da Tito, voleva sviluppare un regime socialista secondo il modello sovietico, ma in piena autonomia. Per volere di Stalin, nel giugno 1948 il Cominform condannò la deviazione ideologia jugoslava ed espulse la Lega dei comunisti, accusando Tito di tradimento. La condanna di Tito sottolineò la definitiva stalinizzazione delle democrazie popolari e la volontà dell’URSS di voler avere sempre più controllo sui paesi del proprio blocco. Successivamente, l’accusa di “titoismo” divenne pretesto per una serie di epurazioni. La fondazione della Repubblica popolare cinese estese il conflitto est-ovest dandogli una dimensione mondiale. Si accentuò l’anticomunismo americano, mentre l’URSS si prefigurò come terza potenza mondiale. URSS e Cina avevano bisogno di una collaborazione: la prima per rafforzare l’unità del campo socialista e la propria influenza in Asia, la seconda per fronteggiare l’isolamento internazionale. La vittoria di Mao Zedong in Cina e la protezione dell’URSS, furono i presupposti della guerra di Corea, iniziata nel 1950. Il paese era diviso in due: a nord il regime comunista della Repubblica democratica popolare di Corea, a sud quello autoritario e filoamericano della Repubblica di Corea guidata da S. Rhee. Il 25 giugno l’esercito nordcoreano attraversò il confine conquistando quasi l’intero sud del paese. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU autorizzò quindi un’azione militare contro gli aggressori. In poche settimane la controffensiva ribaltò la situazione e gli eserciti americano e sudcoreano arrivarono alla frontiera tra Corea e Cina. I dirigenti cinesi allora inviarono i propri volontari per sostenere la Corea del nord, i quali respinsero gli avversari. Il comandante del sud MacArthur propose di attaccare direttamente la Cina e minacciò l’uso della bomba atomica. Truman però, preoccupato per il rischio di un nuovo conflitto, richiamò in patria MacArthur e così iniziarono le trattative per l’armistizio, che durarono due anni. La guerra finì il 27 luglio 1953 e non modificò la situazione coreana, ma produsse 2.5 milioni di morti e feriti e la distruzione del 43% delle strutture industriali e il 33% delle abitazioni. Nell’area del sudest asiatico l’espansione comunista minacciava di estendersi in Indocina. In Iran il governo nazionalista tentò di nazionalizzare i giacimenti petroliferi del paese contro gli interessi delle compagnie britanniche e americane, ma venne bloccato nell’agosto 1953 da un colpo di stato attuato grazie all’appoggio statunitense. Questo fu possibile grazie alla CIA (Central Intelligence Agency), attuata dalla Casa Bianca nel 1947 iniziò un programma di “covert operations”, con lo scopo di garantire con mezzi illegali la difesa degli interessi statunitensi nei paesi esteri. Nel giugno 1953 Berlino venne scossa da manifestazioni operaie che sottolinearono il complicarsi delle relazioni con l’URSS. In questa situazione, la morte di Stalin, avvenuta nel marzo 1953, aumentò l’instabilità. I nuovi leader si mostrarono propensi ad una politica di “coesistenza pacifica” con l’Occidente. Il nuovo segretario americano John Foster Dulles affermò la necessità di una nuova strategia della politica estera degli USA, opponendo al “containment” di Truman il “roll back”: una controffensiva per ridimensionare l’influenza sovietica nel mondo, con alla base il principio della “massive retaliation” da opporre ad ogni atto ostile della politica estera sovietica per scoraggiare ulteriori attacchi. Nel 1956 però, la grave crisi che scosse l’Europa orientale non vide tentativi di ingerenza da parte statunitense e l’irrigidimento della Casa Bianca si tradusse in una forma di pressione sull’Europa perché accettasse di partecipare in misura più consistente alle spese militari della NATO. La guerra fredda portò ad un’enorme corsa agli armamenti e dopo il 1945 la quota delle aziende belliche americane e sovietiche salì oltre il 70% e la complessità delle nuove tecnologie incrementò le spese militari che salirono da 15 miliardi a testa tra URSS e USA, a 50 miliardi a testa nel 1962. Gli USA non avevano problemi ad affrontare queste spese, mentre l’URSS dovette penalizzare l’industria leggera produttrice dei beni di consumo e si conseguenza peggiorò la qualità della vita dei suoi cittadini. Nel 1952 americani e sovietici fecero esplodere le prime bombe a idrogeno, aumentando il timore di un conflitto nucleare. I paesi europei sotto l’influenza americana però rimanevano esposti ad un eventuale attacco sovietico. Nel 1954 la Francia, sconfitta in Vietnam nella battaglia di Dien Bien Phu, rinunciò al trattato per la Comunità europea di difesa, l’alleanza militare sottoscritta nel 1952 insieme a Italia, Gran Bretagna, Olanda, Lussemburgo, Belgio e Germania occidentale. Questa comunità rappresentava il tentativo di dotare il vecchio continente di un apparato difensivo autonomo, anche se integrato alla NATO. I problemi del riarmo tedesco e della protezione nucleare statunitense trovarono soluzione nell’ingresso della Germania nella NATO e la creazione nell’ottobre 1954 dell’Unione europea occidentale. A ciò, gli USA affiancarono una serie di trattati: • Nel 1954 la SEATO (South East Asia Treaty Organization) che univa USA ad Australia, Nuova Zelanda, Filippine, Thailandia • Nel 1955 il patto di Baghdad tra Gran Bretagna, Turchia, Iraq, Iran e Pakistan. Nel 1955 si cristallizzò la divisione dell’Europa: gli otto paesi dell’Est stipularono il Patto di Varsavia, un trattato che stabilì un comando militare unificato sotto la guida di Mosca. Nel 1954 si tennero inoltre due importanti conferenze: 1. A Berlino con la partecipazione delle nazioni vincitrici della guerra (USA, Francia, GB, URSS) che si concluse con un nulla di fatto. 2. A Ginevra, fu estesa alla Cina comunista, riconoscendo il ruolo egemone di Pechino nel Sudest asiatico. Si raggiunse una soluzione provvisoria sulla questione del Vietnam, dividendo il paese lungo il 17° parallelo in due entità autonome appartenenti alle sfere di influenza: il nord fedele al blocco sovietico e il sud sotto l’influenza francese e americana. In questa situazione, i paesi che non si schierarono rischiavano di rimanere isolati e di doversi piegare alla forza delle due superpotenze. A tale pericolo erano esposti gli stati che erano stati resi liberi dalle colonie e i quali erano interessati ad una collocazione internazionale il più possibile autonoma dai due blocchi. Nel 1955, 29 paesi “non allineati” si riunirono a Bandung, in Indonesia, e firmarono un documento che ribadiva i principi della Carta delle Nazioni Unite, anche se ebbe valore più simbolico che pratico. 1.55. Equilibrio bipolare ed Europa unita Nel febbraio 1956 il nuovo leader sovietico Nikita Chruscev denunciò i crimini di Stalin al XX congresso del Partito comunista dell’URSS, a giugno nuove sommosse operaie furono represse nel sangue in Polonia; a novembre l’intervento dell’Armata rossa pose fine a una rivolta antisovietica scoppiata in Ungheria. Gli USA rinunciarono ad ogni intervento diretto nella crisi, tuttavia sia per USA che per URSS, più cresceva l’estensione spaziale della loro zona di influenza, più aumentava la difficoltà di esercitare il proprio dominio, anche per il fatto che la decolonizzazione aveva moltiplicato il numero degli stati sovrani, ponendo sempre maggiori problemi di controllo. Una riprova si ebbe nel 1956 con la questione del canale di Suez: dal 1948 la regione del Medio Oriente era stata riorganizzata su indicazione delle Nazioni Unite per far posto al nuovo stato di Israele. La nazione era nata per volere dell’opinione pubblica mondiale, anche a causa del fatto che la Shoah era stata possibile per la mancanza di uno stato ebraico. Ma la nascita di Israele venne vista come un sopruso dagli stati arabi confinanti, soggetti a limitazioni territoriali e spostamenti di popolazione. Nel 1948-49 Egitto, Giordania, Siria, Iraq e Libano attaccarono gli israeliani, anche se non vennero sconfitti. Sotto la guida del socialista David Ben Gurion, Israele venne consolidato un regime democratico parlamentare e contraddistinto da un’originale esperienza di colonizzazione del deserto attraverso strutture collettivistiche chiamate kibbutz. In Egitto si instaurò nel 1952 un regime militare nazionalista guidato da Gamal Abd el-Nasser, che aspirava alla piena indipendenza economica. L’Egitto si era rivolto agli USA per avere forniture militari, ma senza successo. Nasser allora aderì alla conferenza di Bandung e allacciò relazioni con il blocco orientale, offrendo all’URSS una regione senza alcuna influenza. Nel luglio 1956 l’Egitto annunciò la nazionalizzazione del canale di Suez, ancora controllato dalle truppe britanniche, allarmando così GB e Francia. Su pressione di Londra e Parigi, Israele attaccò le truppe egiziane nella zona del canale. Gli USA intanto presentarono alle Nazioni Unite una risoluzione che chiedeva il ritiro degli aggressori. L’approvazione sancì il totale isolamento di Israele, Francia e Gran Bretagna. A ristabilire l’ordine fu l’ONU, che attraverso i caschi blu, occuparono le fasce di frontiera tra Egitto e Israele, garantendo il cessate il fuoco. Alla presenza diretta di Francia e GB nel canale, si sostituì la presenza indiretta delle due superpotenze, impegnate a fronteggiarsi: gli USA attraverso l’asse privilegiato con Israele, l’URSS con la penetrazione nei paesi arabi e il condizionamento del loro processo di indipendenza. La decolonizzazione alterò gli equilibri interni e il ruolo politico dell’assemblea dell’ONU. A fine anni cinquanta l’ingresso dei nuovi stati nell’organizzazione, pose fine all’egemonia americana e dette vita ad una nuova maggioranza eterogenea, più vicina all’URSS. Il mutamento dei rapporti di forza dell’ONU era il riflesso dei problemi di egemonia che la rivoluzione anticoloniale apriva ad entrambe le superpotenze. L’URSS creò programmi statali di assistenza economica e militare in cambi della concessione di basi strategiche: all’inizio degli anni ’60 esistevano 25 paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Tra il 1957 e 1958 si tenne al Cairo una seconda conferenza in cui parteciparono 44 delegazioni e vide l’ascesa dei paesi africani alla testa di uno schieramento meno neutralista e più antiamericano. Nel 1961 una terza conferenza, a Belgrado, ristretta ai paesi che non appartenevano ad alleanze militari, mise in evidenza la debolezza del movimento. L’anno dopo la guerra scoppiata per il possesso del Tibet tra India e Cina mise in luce le profonde contraddizioni che lo attraversavano. Questa situazione però servì a restituire libertà di movimento all’iniziativa europeista, così il presidente della CECA, Jean Monnet, avviò i primi passi per il processo di integrazione europea, con l’obiettivo di allargare la sfera di integrazione comunitaria delle politiche industriali del comparto siderurgico ad altri settori chiave dello sviluppo economico. Nel 1957 furono firmati a Roma i trattati per la costituzione dell’Euratom e della Comunità Economica Europea (CEE). • Euratom: prevedeva che la principale fonte di energia del futuro sarebbe stata quella nucleare e che i sei stati partecipanti (Italia, Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo) mettessero in comune le risorse necessarie, anche se la Francia non si precluse la possibilità di un armamento nucleare autonomo. Nel novembre 1967 l’ONU invitò Israele a ritirarsi dai territori occupati e ad aprire trattative con gli stati arabi sulla base di un reciproco riconoscimento, anche se ciò non venne fatto. In Unione Sovietica la sconfitta dei paesi arabi si aggiunse alle difficoltà derivanti dalle tensioni con la Cina e la crisi esplose nell’Europa orientale, dove forti spinte riformatrici presero corpo nel 1968. In Polonia esse vennero represse dal regime, mentre in Cecoslovacchia furono attuate dal governo di Aleksander Dubcek da parte delle truppe del Patto di Varsavia, che nell’agosto 1968 repressero la cosiddetta “primavera di Praga”, segnalando la fragilità del blocco sovietico, a cui si aggiunsero nel 1970 una serie di moti operai in Polonia. Il Vietnam e la Cecoslovacchia simboleggiarono così i due modi diversi con cui USA e URSS affrontarono la crisi degli anni sessanta, in quanto le vicende di questi due paesi provocarono forti ripercussioni al centro dei due imperi. Nel 1968 nacque un grande movimento giovanile che ebbe epicentro nella “primavera di Praga” e in occidente trovò nel Vietnam, in Cuba e nella Palestina gli emblemi di una rivolta contro l’imperialismo. Le diverse risposte di USA e URSS al movimento avrebbero dato negli anni 60 agli USA un ridimensionamento del proprio ruolo imperiale e all’URSS un rilancio di una politica di potenza, segnando una nuova fase del confronto. 13. LA DECOLONIZZAZIONE 1.58. Il diritto dell’autogoverno Alla vigilia del secondo conflitto mondiale quasi 40.000 km quadrati di terre e 710 milioni di persone erano sottoposti al dominio coloniale. Nel 1945, su 51 nazioni rappresentate all’ONU al momento della sua formazione, Asia e Africa ne contavano 9 e 3. Il 14 agosto 1941 Chruchill e Roosevelt avevano riaffermato nella Carta Atlantica l’idea di “decolonizzazione” come base di un mondo futuro retto da rapporti pacifici e paritari tra gli stati. Il contributo dei popoli coloniali nella lotta contro il nazismo era stato significativo ed esigeva dei riconoscimenti. La Carta delle Nazioni approvata nel 1945 riconobbe l’esistenza di territori “non-self governing”. La novità fu l’introduzione di controlli periodici da parte di commissioni d’inchiesta nominate dall’ONU per accertare i progressi compiuti verso l’indipendenza. Francia e Inghilterra però, distrutte dall’esito della guerra, dovettero allentare il proprio controllo politico e militare sulle colonie e a fine guerra l’Inghilterra dichiarò l’intenzione di estendere lo status di dominion del Commonwealth a tutti i suoi possedimenti coloniali mentre la Costituzione francese del 1946 concesse la cittadinanza a tutti i sudditi dell’impero. Gli USA invece applicarono la strategia di “imperialismo formale” in Giappone e nell’Europa occidentale, concedendo aiuti in denaro per favorire la ripresa economica e controllare in modo indiretto la vita politica e la gestione delle risorse. Il governo inglese tentò un simile piano chiamato “piano Colombo” con un programma di sovvenzioni finanziarie a ex colonie come India e Pakistan, ma non riuscì a limitare l’autonomia di questi paesi. Intanto sia le potenze alleate che il Giappone avevano cercato di suscitare nel campo nemico interventi indipendentistici, per arrivare alla libertà nazionale e all’autogoverno. L’invasione giapponese aveva determinato forti movimenti di resistenza nazionale e nel 1941-42 aveva sconfitto la Francia in Indocina, l’Inghilterra in Birmania e l’Olanda in Indonesia. In Birmania e Indonesia i leader dei movimenti anticoloniali collaborarono con le autorità di occupazione nipponiche; mentre in Malesia organizzarono la guerriglia antigiapponese con il sostegno degli alleati. In Vietnam lottarono fino al raggiungimento dell’indipendenza. La fine della guerra portò quindi alla ribalta nuovi soggetti politici. Nel 1947 la conquista dell’indipendenza dell’India mostrò all’Asia che l’obiettivo era raggiungibile e ciò venne confermato poco dopo dalla Cina. 1.59. I movimenti di liberazione in Asia La conquista dell’indipendenza in India, il 15 agosto 1947, aprì una nuova fase che ebbe due problemi: tensioni religiose fra maggioranza hindu e minoranza islamica e lo sviluppo economico che significava una lotta contro la fame. Il contrasto religioso verteva sulla possibilità di integrare la popolazione islamica in uno stato indiano unitario e ciò fu sostenuto da Gandhi, ma gli islamici rivendicavano la creazione di una nazione separata. Durante la guerra la Lega musulmana era cresciuta. Il conflitto tra induisti e musulmani esplose subito dopo la guerra e dopo la proclamazione d’indipendenza si decise di costituire due stati diversi: l’Unione indiana a maggioranza induista e il Pakistan a maggioranza musulmana. La divisione portò circa due milioni di vittime e Gandhi fu assassinato nel 1948 da un fanatico hindu. Era una soluzione precaria perché il Pakistan era diviso in due parti separate da 1700 km di territorio indiano. Ci furono numerosi conflitti tra i due stati e la fase più critica si ebbe nel 1971, quando il Bengala orientale si staccò dal Pakistan costituendo un nuovo stato: il Bangladesh. A tutto ciò si aggiunse il separatismo e il terrorismo dei sikh, i membri di una setta religiosa che nel 1947 abbandonarono le terre assegnate al Pakistan. L’India fu governata per 40 anni dal Partito del congresso. Il primo ministro Nehru (1947-1964) avviò il processo di modernizzazione con il sostegno degli USA, ma cercò di rimanere equidistante dai due blocchi e fu uno dei promotori del movimento dei non allineati. Nehru voleva rendere l’India un paese democratico e stabilì l’uguaglianza giuridica dei cittadini e la parità dei sessi e promosse una maggiore giustizia sociale. Attuò una riforma agraria e varò una programmazione economica che prevedeva un ruolo molto attivo dello stato: bacini di irrigazione, industrie pesanti, centrali idroelettriche, infrastrutture. Il primo paese asiatico a diventare indipendente furono però le Filippine , divenute repubblica nel 1946. Durante la guerra ottennero da Tokyo la promessa di una piena sovranità. Esse furono insieme al Giappone il laboratorio della strategia di imperialismo informale attuata dagli USA nel Pacifico. Contro un’indipendenza a sovranità limitata si sviluppò un movimento di guerriglia comunista che rese il governo debole, il quale era retto da un Partito laburista, fedele agli USA. In Birmania nel 1945 la Gran Bretagna gli conferì nel 1945 lo status di dominion. Nel 1947 alle elezioni per l’Assemblea costituente, la Lega popolare antifascista per la libertà ottenne la maggioranza. Gli sviluppi successivi però fecero sì che l’Unione federale birmana costituita nel 1948 non intrattenne legami con il Commonwealth. Intanto nel sud del paese scoppiò una guerriglia comunista, che le forze governative non riuscirono a domare completamente. In Malesia la resistenza britannica all’indipendenza fu più forte e venne concessa solo nel 1957. Venne poi costituita nel 1963 la federazione della Malaysia, comprendente Malesia, Borneo britannico e Singapore. Nell’Indonesia di Sukarno, divenuta indipendente con la resa giapponese, il compito di restaurare il dominio coloniale dell’Olanda fu assunto dalle truppe anglo-australiane. Nonostante le soluzioni prese nel 1946 dall’ONU, nel 1948 i settori più radicali del movimento indipendentista e i comunisti continuarono a premere per una piena sovranità. Nel 1948 fu instaurato un governo dei soviet nella città di Maduin sull’isola di Giava, scatenando la repressione armata olandese contro comunisti e Sukarno. Nel 1949 il consiglio di sicurezza dell’ONU ordinò la cessazione delle ostilità e l’Olanda riconobbe l’indipendenza all’Indonesia. Le attività di guerriglia in questi paesi asiatici continuarono anche oltre il conseguimento dell’indipendenza. L’incontro con l’economia monetaria dei paesi sviluppati e la crescita demografica sconvolsero infatti gli equilibri sociali delle campagne, determinando un’estrema popolarizzazione della proprietà terriera. A questa guerriglia si aggiunsero poi le divisioni etniche e nacquero movimenti contro le minoranze. 1.60. La lunga guerra del Vietnam La Francia cercò di conservare il proprio impero. La Costituzione evitava ogni riferimento esplicito all’indipendenza delle colonie. In Indocina però nel 1945 il leader comunista Ho Chi Minh proclamò l’indipendenza del Vietnam annunciando l’elezione di un’Assemblea costituente, introducendo la giornata lavorativa di otto ore, l’uguaglianza dei sessi e un sistema di istruzione pubblica rivolto alla popolazione (80% analfabeta). La Francia intendeva invece creare una federazione dei suoi possedimenti che le riservasse il potere di mediare tra i cinque paesi della penisola, la difesa militare, l’emissione di moneta, la politica estera e quella economica. Nel 1945 questa posizione fu appoggiata da USA, GB, e Cina, quest’ultima retta da un governo di coalizione tra comunisti e il Guomindang. La conferenza di Postdam incaricò le truppe del Goumindang di disarmare i nuclei di resistenza giapponese nel nord del Vietnam. Per i francesi la loro presenza era una garanzia contro il predominio del Vietminh, il Fronte dell’indipendenza del Vietnam creato dai comunisti nel 1941. Intanto i francesi avevano riconquistato il sud del paese, reprimendo i Vietminh. La minaccia cinese e l’indifferenza sovietica spinsero Ho Chi Minh a scegliere una trattativa tra la Francia e la Repubblica democratica del Vietnam del nord e nel 1946 ci fu un primo accordo che prevedeva la sostituzione delle forze cinesi con reparti francesi e l’apertura di un negoziato per definire la sovranità del paese. Intanto in Francia crescevano le pressioni per una riconquista coloniale. Nel novembre 1946 i francesi dell’Indocina bombardarono il quartiere cinese della città e un mese dopo i reparti vietnamiti del comandante Vo Nguyen Giap attaccarono i quartieri europei di Hanoi, la capitale del Vietnam del nord: iniziava la guerra d’Indocina. Nel 1949 la Francia costituì nel sud del paese uno stato vietnamita sotto la guida dell’imperatore dell’Annam, Bao Dai, mentre URSS e Cina popolare riconoscevano la Repubblica del nord. La monarchia di Bao Dai trovò un solido sostegno finanziario negli USA, che nel 1953 sostenevano 2/3 delle spese di guerra. Nel 1953 la Francia lanciò un’offensiva militare in tutta l’Indocina e costituì un caposaldo a Dien Bien Phu, nelle zone controllate dal nemico. Le truppe vietnamite però circondarono i soldati francesi della base, che capitolò nel maggio 1954. Nel 1954 si svolse anche la Conferenza internazionale di Ginevra, per tentare di trovare una soluzione al conflitto. Cina e URSS riuscirono ad imporre la presenza del Vietnam del nord e parteciparono anche Vietnam del sud, Cambogia, Laos, USA e GB. La Francia cercò di trovare una via d’uscita onorevole al conflitto ormai perso. La soluzione fu trovata costituendo due stati indipendenti divisi dal 17° parallelo e gli accordi proibivano ai due stati vietnamiti la stipula di alleanze militari e prevedevano le elezioni entro due anni. Nessuno rispettò le condizioni e nel nord ci fu un’involuzione autoritaria che portò all’esodo di un milione di cattolici verso il sud, la costruzione di un regime a partito unico, la nazionalizzazione della vita produttiva e l’esproprio della grande proprietà terriera. Nel sud ci fu una fase di instabilità politica che portò nel 1955 alla proclamazione della repubblica. Nel dicembre 1960, dopo il restauro del potere nel presidente Diem Ngo Dihn, alcune fazioni si riunirono creando il vietcong (comunisti vietnamiti), nel Fronte di liberazione nazionale del Vietnam del sud (FNL). Il FNL lanciò un’offensiva armata nella regione del delta del fiume Mekong che provocò la reazione degli USA e nel 1962 venne stabilito a Saigon un comando americano per intensificare l’iniziativa militare del Vietnam del sud. Il risultato fu un’energica guerriglia contro il vietcong. Gli USA, per non perdere l’ultima base nel sudest asiatico nell’agosto 1964 fecero uno scontro navale nel golfo del Tonchino e il Senato americano diede il potere al presidente Jonhson per difendere la libertà degli alleati asiatici. (?) Il Vietnam del nord fu colpito da molti bombardamenti e nel gennaio 1968 l’esercito nordvietnamita lanciò una controffensiva che costò molte vite, ma fu decisiva per convincere gli USA dell’impossibilità di una vittoria. A marzo Washington annunciò la fine dei bombardamenti e a maggio il nuovo presidente Nixon proseguì il disimpegno del suo paese, completato nel 1973. La guerra civile vietnamita continuò fino al 1975 quando le forze del nord conquistarono Saigon e unificarono il paese. La guerra del Vietnam aveva coinvolto anche Cambogia e Laos e in questi paesi il conflitto si risolse con il successo dei comunisti: nel Laos la guerra civile si concluse nel 1975 e in Cambogia prevalse la fazione filocinese dei “khmer rossi”. 1.61. I paesi arabi e Israele Nel Medio Oriente la guerra aveva accresciuto la forza del movimento panarabo, in cui Francia e GB avevano rinnovato promesse di indipendenza in cambio dell’appoggio bellico contro la Germania. Nel 1944 durante una conferenza, Egitto, Transgiordania, Iraq, Libano, Arabia Saudita e Yemen avevano promosso la formazione di una Lega Araba e l’anno dopo approvarono una Carta che poneva come obiettivo l’indipendenza dei popoli arabi. Nel 1946 le truppe anglo-francesi evacuarono la Siria e il Libano, che rimasero in mano ai movimenti nazionali. Inoltre venne creato lo Stato di Israele, che segnò la prima penetrazione informale degli USA. Tra le due guerre gli insediamenti ebraici in Palestina erano avvenuti pacificamente attraverso lo sfruttamento delle terre acquistate dagli arabi in strutture collettive come i kibbutz. Le oscillazioni della politica inglese e la guerra radicalizzarono gli ebrei di Palestina, che vennero chiamati nel 1945 alla lotta armata. Nel 1947 la GB rinunciò al proprio mandato e l’ONU si espresse a favore della divisione della Palestina in due stati (uno ebraico e uno palestinese, con Gerusalemme zona internazionale sotto il controllo delle Nazioni Unite), ma ci furono ancora scontri armati. Per sabotare il piano dell’ONU nell’aprile 1948 l’Irgun attaccò il villaggio arabo di Deir Yassin, uccidendo 200 civili; il mese dopo fu proclamato lo Stato di Israele. Nel 1949 Israele si estese su un territorio quasi doppio rispetto a quello fissato dall’ONU, mentre la Cisgiordania fu annessa alla Transgiordania e la striscia di Gaza all’Egitto. Nonostante ciò, fu l’unico paese in grado di sconfiggere l’analfabetismo e conseguì modesti risultati nella diversificazione della base produttiva. Castro fece una serie di riforme istituzionali, e nel 1975 le mise in una Costituzione che lasciava ampi margini di autonomia alle amministrazioni locali. Nel 1980 tra quarti di famiglie cubane possedevano un televisore e un frigo. La vittoria castrista fu un modello per vari movimenti rivoluzionari latinoamericani, come il Fronte sandinista in Nicaragua, i Tupamaros in Uruguay, i Montoneros in Argentina, il Movimento de la izquierda revolucionaria in Cile. Questo fascino fu simboleggiato dalla figura di “Che” Guevara, un medico argentino compagno d’armi di Castro, che alla Conferenza tricontinentale del 1966 riunì a L’Avana le formazioni antimperialiste del Terzo Mondo FINIRE PAG. 263 264 14. L’OCCIDENTE 1.62. Anticomunismo e sviluppo: l’American way of life La guerra aveva lanciato l’economia degli USA in modo impressionante: dal 1939 al 1945 il prodotto nazionale lordo passò da 88.6 a 198.7 miliardi di dollari, la produzione industriale raddoppiò, i disoccupati calarono e i redditi delle famiglie aumentarono. A fine guerra però era necessario rallentare questo processo per riconvertirsi alla produzione di pace senza provocare crisi deflattive. La pace fu seguita da una forte inflazione: i prezzi aumentarono del 50% e gli operari iniziarono a rivendicare aumenti salariali con un’ondata di scioperi. Nel 1945 il presidente Truman lanciò il Fair Deal: un piano che prevedeva aumento dei salari, lo sviluppo dell’edilizia popolare e ospedaliera, l’estensione delle leggi di assicurazione. A ciò si oppose però una minoranza repubblicana, che iniziò a mobilitarsi attraverso la propaganda, riuscendo a riavere la maggioranza alle elezioni del 1946. Nel 1947 iniziò un programma di indagini contro i “potenziali sovversivi” tra i dipendenti pubblici, che in 5 anni coinvolse milioni di cittadini creando sospetti e inclinando il sistema democratico. Inoltre nel 1947 il Congresso approvò il Taft-Hartley Act che limitava i diritti sindacali e la libertà di sciopero, ma ciò non impedì ai sindacati di aumentare sempre di più. Il clima generale era caratterizzato da un acceso anticomunismo e iniziò un periodo di “caccia alle streghe” che oltre a colpire il partito comunista e persone ree di spionaggio a favore dell’URSS, colpì sindacalisti, intellettuali, artisti e fautori delle politiche sociali rooseveltiane. Questo atteggiamento derivava dalle tensioni sociali prodotte da un’esasperata competizione. La bomba atomica sovietica e la guerra di Corea portarono ansie nel paese, che trovarono come portavoce il senatore Joseph McCarthy, il quale scatenò una campagna inquisitoria usando una lista di agenti comunisti infiltrati nel Dipartimento di stato. Nel 1950 venne approvato l’Internal Security Act, che legalizzò la schedatura dei sospetti di simpatie comuniste. Nel 1953 furono giustiziati i coniugi Rosenberg, colpevoli di spionaggio a favore dell’URSS, R. Oppenheimer fu sospeso dai suoi incarichi nella Atomic Energy Commission con l’accusa di avere simpatie di sinistra. Infine, nel 1954 il partito comunista fu messo fuorilegge. Questo periodo noto come “maccartismo” fu caratterizzato da un clima di intimidazioni e conformismo che limitò la libertà di opinione ed ebbe ripercussioni nel sistema giudiziario. I repubblicani però riuscirono a tornare al potere dopo 20 anni, con il generale D. Eisenhower nel 1952, il quale dopo la fine della guerra di Corea e dopo la morte di Stalin nel 1954, pose fine al “maccartismo”. La guerra di Corea contribuì alla crescita economica, infatti dal 1949 al 1953 l’indice di produzione industriale salì da 97 a 136 e il salario medio passò da 2800 a 3200 dollari. Inoltre, tra il 1950 e 1952 le spese militari passarono da 13 a 43 miliardi di dollari e nel 1954 l’indice della Borsa di Wall Street tornò ai livelli precedenti la crisi del 1929, mentre ci fu un boom nell’industria automobilistica e aeronautica. Livelli di inflazione e disoccupazione contenuti riuscirono a limitare i conflitti sociali e il clima di prosperità portò al governo grandi consensi. Inoltre ci fu un forte incremento demografico e un innalzamento del livello di vita. Questa fase fu celebrata come “American way of life”, in cui anche i suburbi si estesero fino ad ospitare un quarto della popolazione, costituita da un aumento dei consumi e dei servizi privati. Costruito sullo stile dei ceti medi, l’American way of life fu concepito per essere esportato in tutto il mondo; la Coca Cola divenne il simbolo di una società di massa aperta e consumista. Non mancarono aspetti negativi, soprattutto per la gente di colore: nel 1956 Eisenhower dopo essere stato rieletto dovette affrontare il problema della segregazione razziale ancora vigente negli stati del sud, nonostante nel 1954 la Corte suprema avesse dichiarato incostituzionali le leggi che istituivano scuole separate per i neri. Erano infatti nati organismi come la National Association for the Advancement of the Colored People che sviluppò agitazioni non violente come i sit-in (i neri occupavano spazi riservati ai bianchi). La reazione dei bianchi provocò nel 1956-57 delle tensioni in Alabama e nell’Arkansas e nemmeno l’intervento delle forse federali risolse il problema. Nel 1957 il lancio dello Sputnik (1° satellite artificiale sovietico) aprì un dibattito sui ritardi della ricerca scientifica statunitense, che portò al primo satellite americano nel 1958. Nonostante ciò nel 1961 l’URSS vinse la gara per il lancio in orbita del primo astronauta, J. Gagarin, cui gli USA risposero nel 1962 con John Glenn. Il ritardo americano era dovuto al peso condizionante dell’industria bellica. 1.63. Gli Stati Uniti da Kennedy a Nixon La campagna elettorale del 1960, prima a essere trasmessa in TV, fu vinta dal democratico J. F. Kennedy, che sostenne le ragioni del cambiamento contro quelle della continuità del repubblicano R. Nixon. Kennedy fu assorbito dalla politica estera e venne osteggiato dai conservatori dei due partiti, non riuscì a realizzare i suoi progetti in campo assistenziale e assicurativo. La sua politica economica però fu efficace, anche se non poté vedere gli esiti dei suoi risultati perché morì nel novembre 1963 a causa di un oscuro attentato. Nel 1964 fu approvato un piano di riduzione delle tasse per stimolare gli investimenti e nel 1967 fu rinegoziato il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) per liberalizzare gli scambi internazionali. L’apparato militare e civile fu modernizzato grazie ad uno sviluppo tecnico nei settori aerospaziale, informatico e delle comunicazioni. La morte di Kennedy impedì di estendere la frontiera dei diritti civili e la forte crescita di movimenti antisegregazionisti sollevò reazioni violente in Mississippi e in Alabama. Nel 1963, col sostegno di Kennedy, ci fu a Washington una grande marcia, dove il leader Martin Luther King auspicò una società priva di discriminazioni. Le riforme iniziate da Kennedy passarono poi in mano al successore L. B. Johnson. Egli si impegnò in una massiccia opera riformatrice e nel 1964 vinse le elezioni presidenziali con il programma di una “grande società” fondata sull’abbondanza materiale per battere la povertà e realizzare un’uguaglianza di diritti e opportunità. Egli abolì la segregazione razziale e le restrizioni al diritto di voto con due leggi nel 1964-65. Estese i benefici assistenziali ad anziani, poveri e madri sole e incrementò i sussidi di disoccupazione e le spese per l’istruzione e le attività culturali. La scolarizzazione crebbe, le differenze bianchi-neri diminuirono, la fascia di povertà scese e gli stati del sud vennero modernizzati. Oltre alle spese sociali però, ci furono le crescenti spese militari dovute all’impegno bellico americano nel Vietnam, che aggravarono il deficit dei conti pubblici e alzarono l’inflazione. Tra il 1965-1967 il malessere dei ghetti neri delle metropoli del nord esplose in numerose rivolte e ascesero leader radicali contrari all’integrazione come Malcom X e Stokely Carmichael che diffusero l’idea del “Black Power”. Inoltre ci fu una grande ribellione giovanile contro l’autoritarismo e il conformismo della società americana, che partì dai campus universitari, cui si aggiunsero movimenti femminili per i diritti delle donne. L’insieme di questi movimenti configurò una “nuova sinistra” che trovò nella protesta contro la guerra il suo più forte momento di mobilitazione e radicalizzazione. Nel 1967 ci fu a Washington una grande manifestazione per la pace che culminò in scontri tra esercito e dimostranti e questo clima caratterizzò la campagna presidenziale del 1968, in cui Johnson decise di non candidarsi. Le elezioni furono vinte da Nixon, che promise di riportare ordine e stabilità. Il disimpegno dal Vietnam fu accompagnato da un’aspra battaglia ideologica, giudiziaria e repressiva contro i movimenti radicali e pacifisti. Nel 1973 venne legalizzato l’aborto dalla Corte Suprema e la vittoria alle elezioni del 1972 di Nixon mostrò la svolta moderata del paese. La sua presidenza segnò la fine di un ciclo liberale apertosi con il New Deal e caratterizzato dallo sviluppo del welfare state del keynesismo. Segni involutivi arrivarono dall’economia: nel 1970-71 il volume delle importazioni superò quello delle esportazioni per la prima volta dopo il 1894; inoltre aumentarono le spese sociali e militari che portarono ad un’inflazione del 6%. Nixon quindi introdusse tariffe protezionistiche e nel 1971 pose fine alla convertibilità del dollaro. La fine del boom economico e l’aumento del petrolio nel 1973 però vanificarono i suoi sforzi e l’inflazione superò il 10%. Inoltre sopraggiunse un’inchiesta giornalistica che rivelò le attività di spionaggio perpetrate dallo staff di Nixon durante la campagna del ’72, così, travolto dallo scandalo, Nixon dovette dimettersi nel 1974. 1.64. Germania e Francia La Germania, quasi completamente distrutta dalla guerra, era divisa in 4 zone di occupazione poste sotto il controllo di GB, Francia, USA e URSS. La stessa ripartizione avveniva nella città di Berlino. Gli accordi di Postdam precedevano un’amministrazione congiunta del paese da parte delle potenze vincitrici, ma le nazioni occupanti non si accordavano sulla sistemazione da dare al paese: la Francia infatti era ostile alla rinascita di uno stato tedesco unito e sovrano. La guerra fredda trasformò così la questione della Germania in un braccio di ferro tra USA e Urss. Nel 1947-48 le truppe inglesi si ritirarono dal territorio e le zone sottoposte al controllo angloamericano andarono nelle mani degli USA che destinarono aiuti finanziari. La Repubblica Federale Tedesca, nata nel 1949, era uno stato a sovranità limitata, con limitazioni in politica estera e negli armamenti. Le elezioni politiche del ’49 diedero maggioranza all’Unione cristiana-democratica (CDU) e alla sua alleata in Baviera, l’Unione cristiano-sociale, sul Partito socialdemocratico (SPD). Il nuovo cancelliere fu K. Adenauer che poggiò la ricostruzione del paese sul Piano Marshall e sulla West Politik: una politica di integrazione occidentale fondata su rapporti privilegiati con USA e Francia. Tra 1948 e 1952 la produzione industriale crebbe del 110% e grazie a questi risultati la CDU accrebbe di consenso fino ad avere nel 1957 la maggioranza assoluta. Inoltre nel 1956 il partito comunista fu messo fuorilegge. Aumentò la divisione dalla Germania dell’est, nei confronti della quale la politica estera della Repubblica Federale si ispirò alla “dottrina Hallstein” che considerava come atto ostile il riconoscimento diplomatico della Repubblica democratica tedesca da parte dei paesi stranieri. La superiorità della Repubblica federale tedesca incoraggiò un flusso crescente di espatri illegali da est a ovest, a cui si rimediò con la costruzione del Muro di Berlino nel 1961. Da entrambe le parti il problema della sicurezza rimase irrisolto, gravando sulla politica interna e ciò favorì un lento spostamento degli equilibri politici tedesco-occidentali verso la socialdemocrazia, che al Congresso di Bad Godesberg nel 1959 introdusse nel proprio programma il pluralismo, la libera concorrenza, la fedeltà all’Alleanza Atlantica al posto del neutralismo. Nel 1963 Adenauer fu sostituito da L. Erhard che indebolì ulteriormente la CDU, la quale nel 1969 fu costretta a varare una “grande coalizione” con la SPD. Il leader della socialdemocrazia, W. Brandt, divenne il ministro degli Esteri. Nel 1969, sotto la spinta dei movimenti giovanili, si formò una nuova maggioranza tra SPD e liberali. Il nuovo cancelliere Brandt intraprese la Ostpolitik, una linea di apertura verso il blocco orientale che gli valse nel 1971 il premio Nobel per la pace. La Germania occidentale riconobbe quella orientale. Nel 1970 Brandt firmò due trattati di amicizia e collaborazione con URSS e Polonia, riconoscendo l’inviolabilità dei confini europei. I rapporti tra le due Germanie entrarono in una nuova fase difensiva che culminò con l’ammissione di entrambe all’assemblea delle Nazioni Unite nel 1973. La Francia era uscita dalla guerra profondamente divisa e l’unico che poteva salvare questa divisione era Charles De Gaulle, capo della Resistenza ed espressione di una destra moderata indipendente dai partiti tradizionali. Nel 1945 egli fu eletto alla guida di un governo di coalizione dando vita alla Quarta Repubblica, inaugurata nel 1946 con una nuova Costituzione. In opposizione c’erano i comunisti e il partito gollista Rassemblement du peuple français . De Gaulle propugnava una repubblica presidenziale, mentre la costituzione dava ampi poteri al Parlamento. Negli anni ’50 ci fu una crescita economica che favorì la modernizzazione del paese creando i presupposti per una democrazia. Maturò così una progressiva crisi dei tre pilastri del franchismo: la Falange (ribattezzata nel 1937 in Movimento nazionale); la chiesa e l’Azione cattolica. Il fattore scatenante della crisi interna fu l’azione terroristica dell’ETA (patria basca e libertà), un gruppo che rivendicava l’indipendenza delle province basche e nel 1973 attentò alla vita del primo ministro L. C. Blanco. Alla morte del dittatore, nel 1975, il potere fu preso da Juan Carlos di Borbone, che Franco aveva designato nel 1968 come suo successore. Egli aprì la strada alla democrazia, legalizzando i partiti e indicendo libere elezioni. In Portogallo la fine della guerra vide una liberalizzazione del pluralismo politico che però si risolse in un prolungamento del potere personale di Salazar. Negli anni ’60 il suo regime vide un processo di involuzione autoritaria, a causa della battaglia contro i movimenti indipendentistici cresciuti nelle colonie africane. Ciò portò alla nascita della “rivoluzione dei garofani” che restituì al Portogallo la democrazia. Alla morte di Salazar, il suo successore M. Caetano non riuscì a risolvere le tensioni del paese e nel 1974 un movimento di ufficiali democratici fece un colpo di stato . Inoltre venne concessa l’indipendenza alle colonie e nel 1976 venne approvata una nuova Costituzione repubblicana. Nel 1952 la Grecia e la Turchia entrarono a far parte della NATO, divenendo un punto di forza strategico nel Mediterraneo orientale. In Grecia l’occupazione delle forze dell’Asse si era sovrapposta al governo autoritario che durava dal 1936 diretto da I. Metaxas, ma la cacciata dei tedeschi non aveva pacificato il paese. La Grecia era assegnata alla sfera d’influenza occidentale e così le forze inglesi appoggiarono la destra monarchica, reprimendo il movimento partigiano egemonizzato dai comunisti che tentò una rivoluzione socialista. L’armistizio del 1945 però non pose fine alle ostilità. Nel 1947, dopo che gli USA divennero i nuovi tutori del paese, il Partito comunista fu messo fuorilegge e così nacque un movimento di guerriglia che protrasse la guerra civile fino al 1949, ma non fu sostenuto né dall’URSS né dalla Jugoslavia e così venne sconfitto. Nonostante gli aiuti americani, i governi conservatori non riuscirono a sollevare il paese e nel 1967 il colonnello G. Papadopoulos fece un colpo di stato, sospese la Costituzione e arrestò i principali leader delle opposizioni di sinistra. Nel 1970 gli USA ripresero normali relazioni con la dittatura, ma la crisi del 1974 nell’isola di Cipro e l’invasione turca nella parte settentrionale obbligarono i colonnelli a convocare nuove elezioni, vinte dal Partito conservatore di K. Karamanlis. La Turchia era rimasta neutrale nel conflitto mondiale, opponendo nel dopoguerra una dura resistenza alle richieste sovietiche di un controllo internazionale sugli Stretti del Mar Nero. Nel 1950 il predominio del Partito repubblicano del popolo, fondato nel 1923, fu interrotto con la vincita del Partito democratico, anche se il paese non trovò stabilità politica e così i militari assunsero potere (prestigio rafforzato dall’ingresso nella NATO) e sospesero la legalità nel 1960, 1971 e 1980. Per la prima volta si formarono nel paese formazioni politiche di matrice islamica. 1.67. Il Giappone dalla tutela americana al miracolo economico Il 2 settembre 1945 i rappresentanti del Giappone firmarono le condizioni della resa alle truppe alleate. Il paese fu posto sotto il governo del Supreme Command of the Allied Powers (SCAP), guidato dal generale MacArthur, affiancato da un consiglio di controllo interalleato che seguiva le indicazioni di una commissione per l’Estremo Oriente formata da 11 nazioni. MacArthur però ebbe più autonomia rispetto ai regimi di occupazione in Germania e Italia. Le prime scelte dello SCAP garantirono al Giappone una continuità di governo, mentre gli alti gradi militari furono epurati in quanto considerati i diretti responsabili dello scatenamento della guerra e della degenerazione autoritaria dello stato giapponese. Nel 1946 entrò in vigore una nuova Costituzione ispirata al modello americano, che trasferiva la sovranità dall’imperatore al popolo, garantiva i diritti individuali e favoriva le autonomie locali. La liberalizzazione della vita politica rafforzò i sindacati, che nel 1949 arrivarono a 6 milioni di iscritti. In alcune fabbriche vennero fatti esprimenti di autogestione operaia. Nel 1947 furono approvate leggi antimonopolistiche e di sostegno al decentramento industriale. Intanto però cresceva la conflittualità sindacale e lo SCAP intervenne nel 1946 con alcune misure limitative dei diritti sindacali e di sciopero nel pubblico impiego e nel 1947 fece un provvedimento per impedire lo sciopero generale. L’epurazione dei responsabili delle scelte belliche toccò soprattutto i militari e molto meno i politici, venne epurato lo 0.3% della popolazione (in Germania il 2.5%) e nel 1948 la maggior parte di essi furono reintegrati. A Tokyo fu istituito un tribunale militare internazionale, che nel 1948 condannò a morte il generale Tojo e altri sei imputati per crimini di guerra. Le elezioni politiche del 1946-47 diedero ai socialisti il rango di primo partito, ma attribuirono la maggioranza al Partito liberale e al Partito democratico: fu quindi creato un gabinetto di coalizione sostenuto anche dal Partito socialista. La situazione internazionale postguerra imponeva al Giappone un ruolo strategico di baluardo filoamericano contro Cina e URSS. Nel 1947-48 il governo di Tokyo attuò la riforma agraria e le campagne conobbero un netto miglioramento del livello di vita e della produttività. Aumentò anche l’urbanizzazione che portò la popolazione urbana del Giappone a superare quella delle campagne. Furono i partiti moderati a beneficiare dei progressi conseguiti grazie agli aiuti americani: alle elezioni del 1949 il Partito liberale e quello democratico ebbero la maggioranza assoluta. Inoltre gli USA rinunciarono ai loro crediti di guerra e nel 1950 firmarono col Giappone un patto di sicurezza reciproca , che ratificava la presenza di basi americane, vietando altre installazioni militari sul suolo. Nel 1950 MacCarthur proclamò la “purga rossa” nei confronti dei comunisti nei sindacati, nelle scuole e nei mezzi di comunicazione. Si fece inoltre sentire una politica economica deflattiva, che ebbe ripercussioni sull’occupazione, che portò a molti licenziamenti. Il mercato del lavoro giapponese si distinse in un settore “forte” con alti salari e sicurezza del lavoro, e settore “debole” più esteso e precario, con bassi salari e basse qualifiche. Nel 1955 iniziarono ad esserci le “offensive di primavera”, le cosiddette Shunto: ogni anno la categoria più combattiva di lavoratori esercitava una funzione di guida, delineando le rivendicazioni dei contratti collettivi e dando prova della propria forza tra i lavoratori con scioperi preliminari all’apertura delle trattative. Inoltre, nel 1955 liberali e democratici si fusero nel Partito Liberaldemocratico, che detenne sempre una solida maggioranza governativa. Esso era un partito che lottava per l’eliminazione delle forze filocomuniste. Al sistema politico però, si oppose un forte movimento di studenti universitari: dagli anni ’50, attraverso lo Zengakuren (federazione nazionale delle associazioni di autogoverno studentesco), legato al partito comunista, esso organizzò molte manifestazioni contro i trattati bilaterali che facevano del Giappone il perno del sistema di sicurezza degli USA nel Pacifico. Questa vocazione antiamericana si espresse anche nei moti del 1968, che videro la nascita anche di un’altra organizzazione studentesca, lo Zenkyoto , non comunista, antiautoritario e radicale, anche se non riuscì a modificare gli equilibri politici del paese. Dal 1950 al 1973 lo sviluppo economico giapponese fu grandissimo: FINIRE 15. L’ITALIA REPUBBLICANA: DAL DOPOGUERRA AGLI ANNI SETTANTA 1.68. La nascita della repubblica La ripresa postbellica pose con forza il problema di un’integrazione delle masse popolari nelle istituzioni politiche, che si tradusse in un’ascesa dei grandi partiti di massa. Il processo di integrazione però, a differenza del primo dopoguerra, non fu interrotto da una reazione violenta e per la prima volta nella storia italiana dette luogo ad una nuova Costituzione, espressione di un’assemblea costituente eletta dal popolo. L’Italia del 1945 era però un paese diviso tra meridione e settentrione. Anche i partiti che si erano riaffacciati alla vita pubblica erano profondamente cambiati: nel 1943 dopo lo scioglimento del Comintern, il Partito comunista d’Italia diretto da Togliatti si era ribattezzato Partito comunista italiano (PCI) e il Partito socialista, guidato da Nenni, era diventato Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP). Dalla metà degli anni ’30 la rivalità tra i due partiti era diminuita per la necessità di combattere i fascisti. La Democrazia cristiana (DC) nata nel 1942, si proponeva di organizzare politicamente i cattolici, grazie ai rinnovati legami con la Santa Sede dovuti a De Gasperi. Il Partito d’azione (PDA) nato nel 1942, dalla convergenza tra il movimento liberalsocialista di G. Calogero, A. Capitini e T. Codignola e quello di Giustizia e libertà guidato da F. Parri. Nel 1944 infine si ricostituì a Roma un sindacato unitario, la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL). Con la partecipazione alla Resistenza, i partiti avevano ottenuto un peso di massa, e soprattutto il PDA e il PSIUP sostennero la parola d’ordine “tutto il potere ai CLN”, vedendo negli organismi della Resistenza lo strumento per un rinnovamento dello stato. Questa prospettiva sembrò concretarsi con la costituzione del governo Parri nel 1945, che durò sei mesi. Egli tentò di affrontare le emergenze più gravi come la tassazione dei profitti di guerra, l’epurazione dei dirigenti pubblici e privati più compromessi con la dittatura, ristabilì il potere centrale sull’Italia del nord ancora governata dagli alleati venne raggiunto solo quest’ultimo obiettivo. Nel sud crebbe il movimento dell’Uomo qualunque (qualunquismo) guidato da Guglielmo Giannini, sulla base di un rifiuto della politica, dello stato e delle tasse. Nel novembre 1945 a causa di dissidi su quando fare le elezioni politiche provocarono la caduta di Parri, che venne sostituito con De Gasperi, il quale offriva agli alleati migliori garanzie di mantenere l’Italia nella sfera d’influenza angloamericana. Intanto nell’Italia meridionale iniziarono ad esserci rivendicazioni della terra e nel 1944-45 ci fu una grande ondata di manifestazioni, scioperi e occupazioni di terre dove si chiedeva all’assegnazione del latifondo ai contadini. Anche nell’Italia del centro-nord ci furono scioperi e moti di protesta per la conquista di più eque condizioni di lavoro, per il miglioramento dei patti colonici con una ripartizione del prodotto più favorevole ai contadini, per il controllo del collocamento al lavoro dei braccianti e dei lavoratori agricoli. Tornarono così a fiorire le leghe, le cooperative e le organizzazioni contadine. Con gli scioperi del 1943-44 gli operai si erano rivelati i protagonisti, che a fine guerra portò alla creazione dei Consigli di gestione: nuovi organi di governo dell’impresa comprendenti i rappresentanti degli operai accanto a quelli dei datori di lavoro, anche se questi organismi non vennero riconosciuti sul piano legislativo. I primi anni della repubblica furono comunque dominati da un’ideologia liberista, che ebbe come più autorevole portavoce il governatore della Banca d’Italia: Luigi Einaudi, il quale nel 1947 divenne ministro del Bilancio e l’anno dopo fu eletto Presidente della Repubblica (1948). Uno degli effetti della politica liberista fu un tasso di disoccupazione molto alto rispetto a Francia e GB, inoltre il tasso di scioperi rimase molto alto, anche se produzione e consumo tornarono ai livelli prebellici. Il sud rimase molto svantaggiato e impoverito. Il 2 giugno 1946 ci furono il referendum istituzionale e le elezioni per l’Assemblea Costituente incaricata di redigere la nuova carta costituzionale. Vinse la Repubblica (12 milioni di voti contro 10 per la monarchia, a maggioranza nel sud). La DC risultò il partito più forte. Il Partito d’azione subì una tale sconfitta che provocò lo scioglimento del partito stesso. 1.69. L’Assemblea costituente e la rottura dell’unità antifascista La Costituente rappresentò una svolta storica per il popolo italiano, che per la prima volta partecipò in forma indiretta, eleggendo i propri rappresentanti, alla formazione dello stato. L’Assemblea fu inoltre un luogo di incontro tra culture politiche e civili molto diverse: quella cattolica, liberale e marxista. Le forze politiche che non vollero partecipare, come l’Uomo qualunque, si condannarono all’emarginazione. Il testo della Costituzione prevedeva un patto tra cittadini fondato sul lavoro, ma anche sulla difesa della società civile da un’eccessiva ingerenza dello stato, secondo il garantismo della tradizione liberale e l’insegnamento tratto dall’esperienza fascista. L’art. 3 attribuiva alla repubblica il compito di realizzare condizioni di uguaglianza economica indispensabili per il pieno sviluppo della persona umana. La Costituzione delineò un percorso di trasformazione dello stato, la creazione di nuovi strumenti per il controllo della legittimità delle leggi (Corte costituzionale 1965) e per il decentramento amministrativo (le Regioni). Quest’ultime vennero istituite subito in Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige (a statuto speciale). Le regioni a statuto ordinario invece dovettero attendere il 1970. Altre scelte della costituzione derivavano dall’esperienza fascista, come la centralità di un Parlamento bicamerale perfetto rispetto al potere esecutivo, l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, la legge elettorale proporzionale. L’attività dell’Assemblea costituente, coronata dall’entrata in vigore della Costituzione nel 1948, costituì per i partiti antifascisti un motivo di unità, che però venne messa in crisi dalla mutazione della situazione internazionale e dall’avvio della guerra fredda. Ad esse si affiancarono poi le lotte operaie: il cosiddetto “autunno caldo” del 1969. Gli anni dal 1968 al 1974 videro un rilancio della conflittualità operaia in tutta l’Europa e in Italia il fenomeno assunse la forma di una contestazione che avanzò richieste molto vaste come una riforma dal basso del sindacato attraverso nuove strutture elettive, un monte-ore retribuito (le 150 ore) da destinare allo studio e alla formazione, il rifiuto di mansioni e ambiti di lavoro nocivi per la salute. Il 68 trasformò la società italiana, approfondendo il processo di secolarizzazione e modernizzazione avviato con il miracolo economico. Nel 1969 il sistema delle pensioni fu allargato e incrementato, le leggi a tutela della maternità furono migliorate e il divorzio fu introdotto con una legge dello stato. Nel 1970 si costituirono le Regioni, con proprie giunte e assemblee elettive, l’approvazione dello statuto dei lavoratori garantì maggiore democrazia all’interno delle fabbriche, impedì i licenziamenti arbitrari e legittimò i consigli di fabbrica. Nel 1971 fu riformato il sistema fiscale con l’introduzione di un’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) finalizzata alla creazione di un’anagrafe tributaria nazionale. Nel 1974 si posero le basi del Servizio sanitario nazionale secondo criteri di universalità e gratuità. Nuovi soggetti finora esclusi alla politica, come donne e disoccupati, colsero nuove opportunità di protagonismo e trasformazione. Nel 1974 un referendum sulla legge istitutiva del divorzio fu vinto con il 59% dei voti. Non mancarono però laceranti conflitti: la fine delle convertibilità del dollaro e la guerra del Kippur produssero una spirale inflattiva che dal prezzo del petrolio si trasmise all’intera economia mondiale. In Italia l’inflazione arrivò a livelli abnormi (10%), vanificando le conquiste salariali e innescando una nuova fase di conflitti sociali. Nel dicembre 1969 una bomba provocò 16 morti alla Banca nazionale dell’agricoltura di Milano: la polizia arrestò persone che però si rivelarono innocenti e da tali inchieste emerse che in realtà la bomba inaugurò una stagione di stragi promossa da organizzazioni neofasciste con la collaborazione di settori dei servizi segreti dello stato e delle forze armate, con lo scopo di creare tensione e uno spostamento a destra degli equilibri politici. A questo “terrorismo nero” fecero riscontro fenomeni analoghi all’altro estremo dello schieramento politico: alcuni gruppi armati clandestini, brigate rosse, Prima linea, Gruppi comunisti combattenti, passarono dall’intimidazione violenta ai ferimenti e infine agli assassini: tra il 1968 e 1975 morirono 15 persone. Tutto ciò avvenne in un clima di indebolimento politico del centrismo e di un sensibile spostamento a sinistra dell’elettorato. Nel 1975 la sinistra conseguì un netto successo nelle elezioni amministrative. Il segretario del PCI, E. Berlinguer, elaborò una nuova strategia detta “compromesso storico”, che puntava ad un accordo di governo tra le forze democratiche popolari: comunisti, socialisti e cattolici. In un contesto segnato dalla guerra del Vietnam e dalle dittature in Portogallo, Spagna e Grecia, l’iniziativa sembrava potesse avere significativi sviluppi internazionali. Sul piano della politica interna, le elezioni del 1976 diedero alla DC e al PCI il pieno dei voti. 16. IL MONDO COMUNISTA 1.74. L’Unione Sovietica da Stalin a Chruscev La vittoria in guerra aveva rafforzato il potere di Stalin, anche se la guerra era costata 20 milioni di morti, 25 milioni di sfollati e intere regioni devastate. Per ricostruire il paese si puntava all’apparato industriale, cresciuto con lo sforzo bellico e i territori occupati a occidente dall’Armata rossa. Mentre fu avviata la “sovietizzazione” dei paesi dell’Europa centro-orientale realizzata nel 1947-48 con la nascita di regimi monopartitici subordinati all’URSS, nel 1946 venne varato il quarto piano quinquennale. La ripresa fu perseguita centralizzando le decisioni nella burocrazia, che nel 1946 fu epurata. Venne privilegiata l’industria pesante produttrice di acciaio, carbone, petroli, elettricità, cemento e armamenti. A fare le spese di questa politica furono l’agricoltura e il tenore di vita dei cittadini: solo il 12% degli investimenti fu riservato all’industria dei beni di consumo. Ci fu una riforma monetaria che svalutò il rublo, azzerando il debito pubblico, ma allo stesso tempo aumentando i prezzi e peggiorando la qualità della vita. Fu la popolazione rurale a pagare il prezzo più alto del piano quinquennale; furono infatti rafforzati i controlli sul kolchoz e sui sovchoz e la pressione fiscale sugli appezzamenti personali dei contadini si accrebbe, mentre i prezzi dei prodotti agricoli vennero fissati a livelli più bassi del dovuto. Nonostante ciò, nel 1951 Stalin annunciò un bilancio soddisfacente del piano quinquennale: la produzione industriale era aumentata del 73% rispetto al 1940 e nel 1949 il paese si era dotato della bomba atomica, annullando il vantaggio degli USA. Il successo autorizzò Stalin a varare un quinto piano quinquennale, con l’obiettivo di un ulteriore aumento del 70% della produzione industriale e concentrando ancora gli sforzi nell’industria pesante. Intanto le persecuzioni tornarono a livelli simili a quelli degli anni ’30: nel 1950 oltre 2.8 milioni di persone furono recluse nei GULag e nelle colonie di lavoro. La scomparsa di Stalin, avvenuta il 5 marzo 1953, aprì un periodo di lotte per il potere nel gruppo dirigente. Un primo scontro avvenne tra Malenkov alla guida del governo insieme a Chruscev alla guida del partito, contro il capo della polizia politica Berija. Quest’ultimo però venne poi arrestato e condannato a morte dopo la repressione di una rivolta personale dei Gulag. Un altro scontro si accese tra Malenkov che voleva sviluppare l’industria leggera e la produzione dei beni di consumo, e i vertici delle forze armate schierati a difesa del complesso militare-industriale. Nel 1955 Malenkov dovette dimettersi e fu sostituito dal maresciallo N. Bulganin. Nel 1956, al XX Congresso del PCUS, Chruscev affermò una linea di coesistenza pacifica, e inoltre fece un rapporto che denunciò il “culto della personalità”, le violazioni della legalità e i crimini che avevano caratterizzato il dominio di Stalin. Il rapporto doveva rimanere segreto, ma fu pubblicato sul New York Times e costituì un trauma per i comunisti di tutto il mondo. Nello stesso anno venne sciolto il Cominform, mentre in Polonia e in Ungheria si svilupparono tendenze riformatrici. Sul piano interno lo strappo del XX Congresso portò allo scioglimento dei Gulag e alla riorganizzazione della polizia politica nel KGB (comitato per la sicurezza dello stato). Chruscev cercò di limitare i motivi di scontro con i militari, dando grande impulso alla ricerca scientifica e tecnologica nel campo degli armamenti nucleari e missilistici. Nel 1957 l’URSS ebbe un grande successo sugli USA, con il lancio in orbita dello Sputnik , il primo satellite artificiale della Terra. Chruscev portò avanti il processo di destalinizzazione, diminuendo la pressione del partito sulla società. La burocrazia di partito fu indebolita da una rotazione periodica degli incarichi e nel 1962 ne venne riformata la struttura interna. Nel sistema scolastico fu privilegiata l’istruzione tecnica e il centralismo dei piani quinquennali venne prima bilanciato dall’istituzione di regioni industriali autonome e poi sospeso nel 1957: il sesto piano, varato nel 1956 fu sostituito con un piano settennale di prospettiva, meno rigido. I problemi più gravi arrivavano dalla politica estera: la crisi ungherese del 1956 aveva minato il principio di autorità nel campo socialista e il Patto di Varsavia del 1955 (legava militarmente i paesi dell’est europeo all’URSS) assegnava agli alleati una dignità pari a quella dello stato-guida e consentiva loro di stipulare accordi senza passare da Mosca. Nel 1959 Chruscev ruppe la collaborazione nucleare con la Cina e nel 1960 ritirò i tecnici e i consiglieri sovietici che vi aveva inviato. Alle delusioni della politica estera, si aggiunse l’esito della crisi di Cuba, che apparve come la bocciatura di una prova di forza voluta dai sovietici, mentre all’interno cresceva l’insoddisfazione per un incremento della produttività non accompagnato da un’espansione dei consumi privati. Chruscev venne così deposto nell’ottobre 1964 da una trojka composta da Breznev (nuovo segretario del partito), Kosygin (nuovo capo del governo) e Podgornij (nuovo capo dello stato). 1.75. La restaurazione brezneviana Le cariche di governo e di partito furono di nuovo separate e si tornò al principio della collegialità delle decisioni. In politica estera la caduta di Chruscev si tradusse in un rinnovato impegno diplomatico in Asia, attraverso una politica di aiuti in Vietnam e alla Corea del nord. All’interno emerse la supremazia di Breznev, e ci fu la chiusura della stagione del disgelo. La vita culturale fu costretta alla clandestinità e si sviluppò il fenomeno del dissenso tra ristretti gruppi di intellettuali e scienziati che si battevano per il riconoscimento dei diritti civili e delle libertà individuali. Ci furono però delle parziali aperture sul terreno economico: vennero aumentanti gli investimenti nella produzione di beni di consumo e fu concessa una relativa autonomia alle direzioni aziendali per il reimpiego di profitti in integrazioni salariali. Nel 1969 i contadini dei kolchoz ottennero il diritto alla pensione di anzianità e la libertà di muoversi in tutto il territorio nazionale. Nel 1966 una visita in Italia del ministro degli Esteri Gromyko portò alla stipula di un accordo con la FIAT per la costruzione di uno stabilimento automobilistico in URSS. Queste aperture furono però limitate da un nuovo incremento delle spese militari successivo all’invasione della Cecoslovacchia, portando nuovamente alla crescita dell’industria pesante. La stabilizzazione dopo la caduta di Chruscev portò ad una riduzione del terrore repressivo tipico degli anni precedenti e in compenso ci fu un aumento della stabilità e della pace sociale, accompagnato però da un progressivo calo della produttività e da un blocco dell’innovazione tecnologica. Garante e tutore di questo patto sociale era la nomenklatura, cioè la burocrazia di stato e di partito, depositaria del potere e responsabile della pianificazione economica. Questa nuova classe era esposta al nepotismo e alla corruzione, che si diffusero enormemente. La crescita del malcostume che minò il privilegio della nomenklatura procedette con lo sviluppo di una “seconda economia”, parallela a quella ufficiale e legata al fenomeno del mercato nero, il quale costituì un terreno adatto allo sviluppo di nuclei di criminalità organizzata. L’esperimento di liberazione della Cecoslovacchia, avviato nel 1968 fu represso con un intervento militare. Al soffocamento della “primavera di Praga” seguirono nel 1969 scontri di frontiera con la Cina vicino al fiume Ussuri, anche se ad una conferenza dei partiti comunisti che si tenne lo stesso anno, fu respinta la proposta sovietica di una condanna al partito cinese. Dal 1970 l’economia sovietica rallentò molto a causa di una serie di cattivi raccolti che si accompagnò al lento esaurimento delle risorse estensive, legate alla crescita demografica e allo sfruttamento di nuove terre, all’impervia e costosa localizzazione in Siberia di nuove fonti di energia, alle difficoltà di penetrazione delle nuove tecnologie. Le città affrontarono dure crisi di approvvigionamento e la parola d’ordine “stabilità” usata nella politica di Breznev fu messa in discussione. 1.76. La sovietizzazione dell’Est europeo All’interno dei movimenti di resistenza esistevano militanti e partiti che vedevano l’Urss come un modello. In Albania e Jugoslavia questa tendenza assunse un carattere maggioritario ed esclusivo. In paesi come l’Ungheria, la Bulgaria, la Romania, la Polonia, la Cecoslovacchia e la Germania orientale invece fu diverso, in quanto alla presenza dei comunisti nella Resistenza si aggiunse l’occupazione dell’Armata rossa. Nonostante gli accordi prevedessero in questi paesi le libere elezioni, nell’est europeo le zone di influenza delineate dai vincitori tenevano conto delle esigenze di sicurezza e della ricostruzione dell’Urss. Il controllo sovietico garantì gli accordi che prevedevano la presenza di leader comunisti in posizioni preminenti nei governi di coalizione nazionale. Successivamente i comunisti assunsero posizioni di forza grazie al sostegno dell’Armata rossa e ciò li portò a conquistare le leve del potere (magistratura, polizia, mezzi di comunicazione), emarginando così il blocco conservatore. Il governo polacco, in esilio a Londra, non aveva nascosto il proprio antisovietismo e nel 1945 fu sostituito da un esecutivo a guida comunista. In poco tempo il leader del partito contadino S. Mikolajczyk, accettò di entrare nel nuovo governo e alle elezioni del 1947 il suo partito ottenne 28 seggi contro 394 e così egli lasciò il paese dopo una protesta da parte di USA e GB. In Romania fu formato un governo di coalizione guidato dal filosovietico Fronte democratico nazionale, che nel 1945 varò una riforma agraria e ottenne la maggioranza alle elezioni. L’opposizione si coagulò attorno al re Michele, ma nel 1947 il Partito contadino fu sciolto, il suo leader fu arrestato e il re abdicò. In Bulgaria durante le elezioni del 1945 ottenne la maggioranza il Fronte patriottico, una lista controllata da uomini fedeli a Mosca. Nel 1946 un referendum proclamò la repubblica e il re Simeone esiliò mentre la milizia fece un’epurazione della pubblica amministrazione. Alle elezioni il vecchio leader comunista G. Dimitrov divenne primo ministro. Nel 1947 il leader fu accusato di tradimento e giustiziato. In Ungheria ci fu nel 1945 un successo elettorale del partito anticomunista dei piccoli proprietari, guidato da Zoltan Tildy. L’ampiezza dei suoi consensi e gli accordi della guerra consigliarono ai sovietici una linea moderata e nel paese si costituì un governo di coalizione nel quali i comunisti non erano in posizione preminente. Un’alterazione dei rapporti di forza fu però ottenuta entrando nel partito dei piccoli proprietari e epurandolo dall’interno. FINIRE DA P 320 Nonostante ciò, già negli anni precedenti erano stati fatti dei passi avanti: nel 1910 in Italia fu creata la Cassa di maternità; negli USA erano stati varati programmi pensionistici a tutela della maternità; nel 1912 nacque il Children’s Bureau, diretto da donne. Nel 1921 una legge aveva rilanciato tali misure e nel 1935 fu varato nell’ambito del New Deal un programma di tutela dei bambini dipendenti. La seconda guerra mondiale accelerò l’acquisizione dei diritti politici delle donne, ma non ci fu una svolta nella strada dell’emancipazione. Negli anni ’40 infatti si affermò un modello tradizionalista che privilegiava il ruolo della donna in quanto moglie e madre di famiglia. In Francia e in Italia le leggi collocavano ancora le donne in posizione subordinata rispetto ai mariti. Negli USA nel 1945 solo il 14% delle donne svolgeva attività fuori dalle mura domestiche; nel 1985 esse superarono il 50%. Negli anni ’80 la presenza di donne all’università superò il 50% e questo crescente accesso all’informazione e all’istruzione era connesso al mutare della composizione della forza lavoro femminile, che si spostò nei settori dei servizi impiegatizi qualificati. Negli anni ’60 le donne americane parteciparono attivamente alle lotte per i diritti civili contro la segregazione razziale e avevano creato molti movimenti pacifisti. Nel 1966 la scrittrice Betty Friedan fu tra le fondatrici della National Organization for Women, che si batté per riforme legislative che realizzassero l’uguaglianza tra i sessi. Importante fu il tema della liberazione della donna negli aspetti privati della sua esistenza: costumi sessuali, ruoli familiari, abitudini e convenzioni della vita quotidiana furono sottoposti a una critica serrata. Gli effetti di questa “rivoluzione femminile” travalicarono la parabola dei movimenti femminili, che giunse all’acme assieme a quelli giovanili e poco dopo andò in declino. In Italia, nel 1970 fu introdotto il matrimonio civile e il divorzio (confermato nel 1974 con un referendum); nel 1975 una riforma del diritto di famiglia sancì l’uguaglianza tra i coniugi; nel 1977 una legge affermò la parità di trattamento tra uomo e donna nel lavoro (approvata nel ’78). Un contributo importante arrivò dalle Nazioni Unite, che si fermò a lungo sull’obiettivo di uguaglianza tra uomo e donna e dal 1975 (anno internazionale della donna) votò un’importante dichiarazione contro la discriminazione. Inoltre, una conferenza a Città del Messico attribuì l’oppressione delle donne all’inuguaglianza, al sottosviluppo e all’ingiustizia economica. Lanciò inoltre il “decennio della donna” nel 1976 ricco di iniziative: nel 1979 ci fu una convenzione per eliminare tutte le forme di discriminazione, nel 1980 e 1985 ci furono due convegni a Copenaghen e Nairobi con la partecipazione di migliaia di donne. Secondo i dati dell’ONU, nel 1980 le donne svolgevano 2/3 delle attività lavorative del pianeta, ma guadagnavano il 10% dei redditi e possedevano l’1% dei patrimoni mobiliari e immobiliari. Nel 1993 e 1995 ci furono due conferenze a Vienna e Pechino che ridefinirono la nozione di “diritti umani” includendovi i diritti delle donne e l’uguaglianza tra i generi. La mobilitazione delle donne attorno alle iniziative delle Nazioni Unite fu molto ampia e ottenne risultati rilevanti tanto che nel 1995 circa 139 paesi avevano eliminato ogni forma di discriminazione, 127 avevano sancito l’uguaglianza retributiva, 126 quella nell’accesso agli impieghi, 105 quella dei diritti politici, 44 la parità giuridica nel matrimonio. Nonostante ciò, nei paesi sviluppati le donne presenti ai vertici della vita pubblica erano ancora poche e tra il 1989 e 1994 solo in Svezia, Finlandia, Norvegia e Danimarca la presenza di donne in parlamento superava il 30%. L’Human Development Report pubblicato nel 2000 dalle Nazioni Unite conferma i problemi più gravi nelle nazioni povere del sud del pianeta. Qui la subordinazione delle donne era più radicata nelle rispettive culture e venne aggravata dallo sviluppo di forme di integralismo religioso come quelle cresciute all’interno del mondo islamico. Nel Mali l’80% delle donne subiva ancora la mutilazione genitale, nel Kuwait veniva negato loro ogni diritto politico. 1.82. Instabilità internazionale, stagflazione e innovazione tecnologica Negli anni ’70 l’economia dette segni di un’inversione di tendenza, a partire dagli USA. Iniziarono ad esserci accentuati processi di internazionalizzazione: le grandi aziende si trasformarono in multinazionali con sedi e impianti in tutti i continenti. Ci fu quindi un’espansione incontrollata delle masse di valuta statunitense circolanti sui mercati esteri: nacquero termini come “eurodollaro”, “petrodollari” per indicare la moneta di scambio usata sui mercati europei e su quelli del petrolio. Dal 1948 al 1970 le riserve auree degli USA erano calate da 24 a 11 miliardi di dollari, profilando il pericolo di una crisi di insolvenza. Nel 1970 inoltre, al deficit della bilancia dei pagamenti si aggiunse un deficit commerciale: gli USA importavano più merci di quante ne esportavano. Gli USA si trovarono così in una condizione di debolezza, vittime anche dell’inflazione salita al 5%. Nel 1971 venne sospesa la convertibilità del dollaro che fu svalutato fortemente ridimensionando il ruolo guida degli USA. Emerse inoltre una tendenza ad una politica estera autonoma da parte di paesi come Francia e Germania. FINIRE 1.83. La cultura dell’era atomica L’arte, la scienza e la cultura occidentale registrarono fedelmente questo periodo di mutamenti. Durante la guerra l’uomo aveva dimostrato le proprie capacità distruttive e disponeva ora di uno strumento di morte senza precedenti. La guerra aveva segnato il culmine del connubio tra scienza applicata e necessità militari. Per la bomba atomica, gli USA avevano investito due milioni di dollari e fecero così da guida in una corsa all’espansione delle spese militari per la ricerca scientifica e all’aumento del numero di scienziati e ricercatori che venne crescendo nella seconda metà del secolo. La conoscenza della struttura dell’atomo fece grandi passi avanti e permise la proliferazione delle armi nucleari e l’installazione di numerose centrali energetiche a scopi pacifici. Sul piano mondiale il monopolio della ricerca scientifica approfondì il divario tra nord e sud e a fine Novecento oltre il 90% della ricerca era localizzato nei paesi sviluppati. Dopo il 1945 la scienza aveva perso il suo carattere di “innocenza” e di relativa autonomia dal potere. La stessa contraddizione influenzò anche la letteratura: romanzi come Doktor Faustus (1948); 1984 sottolineavano il miraggio di un’arte pura e incontaminata e una società del domani asservita in ogni suo aspetto pubblico. La letteratura europea recepiva l’eredità del secondo conflitto mondiale nei termini di una pesante ipotetica sul futuro, rappresentata dalla minaccia nucleare. Un altro autore rilevante, oltre a Mann e Orwell, furo Sartre (l’essere e il nulla; Il muro). In Italia sentimenti di paura e speranza furono espressi in molti film del neorealismo, come Ladri di bicliclette di De Sica. Inoltre, la diffusione della tv favorì la crescita di una civiltà dell’immagine, più immediata e capace di diffusione internazionale rispetto alla parola scritta. La città divenne oggetto di studio e progettazione da parte di architetti come Le Corbusier. Dentro le città le giovani generazioni emersero come soggetto di punta del mercato letterario, filmico e discografico. FINIRE DI LEGGERE 18. LA RIPRESA DELL’OCCIDENTE 1.84. Un mondo instabile Gli anni ’70 erano stati caratterizzati da grande incertezza a causa delle ribellioni del ’68 e della crisi petrolifera del ’73 che portarono crisi nella società occidentale, soprattutto negli USA, messi in difficoltà anche dalla sconfitta in Vietnam e dal caso Watergate. Al contrario, dopo l’invasione in Cecoslovacchia, l’Urss sembrava aver imboccato un’involuzione autoritaria e repressiva, inoltre per i sovietici l’invasione dell’Afghanistan fu un disastro. Negli anni ’80 la liberalizzazione dei mercati internazionali favorì lo sviluppo di alcuni piccoli paesi del sudest asiatico come Corea del sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong, specializzati nell’esportazione di prodotti finiti a basso costo: giochi, elettrodomestici, elettronica fine, computeristica. In Cile il governo democratico di S. Allende, eletto nel 1970, fu rovesciato dopo tre anni da un golpe militare guidato dal generale Pinochet, che scatenò una dura repressione con circa 2000 vittime. Inoltre nel 1976 un’inchiesta del senato statunitense dimostrò il coinvolgimento della CIA nella gestione del colpo di stato. La Casa Bianca non voleva tollerare la nascita di regimi politici troppo spostati a sinistra in America latina: si congelarono così gli equilibri autoritari appoggiati sulla grande proprietà terriera, retti da dittature militari come quella brasiliana e argentina. Intanto però crescevano povertà e malcontento. Nel 1979 in Nicaragua la dinastia dei Somoza cadde ad opera del Fronte sandinista (dal capo rivoluzionario Sandino) e la nuova giunta rivoluzionaria programmò grandi trasformazioni sociali nel campo dell’educazione, della sanità e della politica agraria che segnalò un’inversione di tendenza destinata a trasmettersi in tutto il continente. In Grecia, Spagna e Portogallo i regimi dittatoriali finirono a metà degli anni ’70 senza particolari traumi e questi paesi rimasero nell’orbita occidentale e filoamericana. L’Urss approfittò però della liberazione delle colonie africane del Portogallo per estendere la propria area di influenza: in Angola e Mozambico presero potere dei movimenti guerriglieri legati a Mosca. In Angola ci fu una diretta presenza militare sovietica. Nel 1974 inoltre in Etiopia fu assassinato il vecchio negus H. Selassie e al suo posto si insediò una giunta militare filosovietica che però non risolse i problemi del paese. Nonostante riuscì a migliorare gli equilibri internazionali, la linea militaristica di Mosca aggravò gli squilibri interni. Infatti, in Polonia aumentarono movimenti clandestini per il dissenso culturale e opposizione operaia. Negli USA, l’elezione del presidente Jimmy Carter, nel 1976, dette impulso all’idea di una riforma dei rapporti internazionali fondata sui principi di libertà e rispetto dei diritti umani. I servizi segreti americani vennero ripuliti, l’appoggio della Casa Bianca a molti regimi militari sudamericani fu ridimensionato; l’Urss fu duramente criticata. Nel 1979 inoltre lo shah di Persia, R. Pahlavi fu costretto a lasciare il paese per una serie di manifestazioni. L’Iran si trasformò in una repubblica islamica fondata sui precetti del Corano, emergeva quindi un nuovo attore, capace di influenzare gli stati arabi e alterare i rapporti di forza in tutto il Medio Oriente. Così, nel dicembre 1979 l’Urss intervenne militarmente in Afghanistan, per bloccare ogni possibile contagio della rivoluzione iraniana ai propri confini. L’operazione fu un insuccesso e mandò in fumo un decennio di buoni rapporti con gli USA, fu inoltre un disastro militare. Nel 1988 Mosca si dovette ritirare abbandonando l’Afghanistan alla guerra civile. Negli anni ’70 la crisi petrolifera aveva evidenziato limiti e debolezze dello sviluppo economico occidentale, le due superpotenze avevano gestito il proprio ruolo imperiale diversamente; gli equilibri bipolari avevano perso rigidità e nuovi soggetti politici erano apparsi sulla scena internazionale. Inoltre, il continuo ribasso dei prezzi delle materie prime complicava la vita di molte economie dei paesi in via di sviluppo. 1.85. Il neoliberismo: Stati Uniti e Gran Bretagna Gli USA stavano attraversando un periodo di crisi e per affrontarla il nuovo presidente Carter decise di non invertire il corso della distensione con l’URSS: nel 1979 infatti firmarono un nuovo accordo per la limitazione degli armamenti, il Salt II. Tuttavia, dopo l’invasione dell’Afghanistan la Casa Bianca intraprese un’offensiva diplomatica in appoggio al dissenso dei paesi dell’est, boicottando nel 1980 le Olimpiadi a Mosca. L’Urss allora inasprì la repressione del dissenso sia al suo interno sia in paesi del blocco orientale, come la Cecoslovacchia. La presidenza di Carter fu segnata da incertezze in politica estera, costituita da un disimpegno imperiale e democratizzazione, il cui risultato migliore furono gli accordi di pace tra Egitto e Israele nel 1979. Emblema di tali incertezze furono i rottami degli elicotteri statunitensi precipitati in Iran, inviati clandestinamente in aprile 1980 per liberare gli ostaggi americani. Tale immagine fu rilevante durante le elezioni statunitensi nel novembre 1980, che portarono al potere il repubblicano Ronald Reagan, che si impegnava a far tornare l’America una grande potenza. Sul piano della politica economia, già nel 1979 il presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, attuò un rialzo senza precedenti dei tassi di interesse, creando una politica monetarista fondata su un più alto costo del denaro. Con Reagan l’obiettivo primario era la lotta all’inflazione, a costo di tagliare le spese sociali e i posti di lavoro. La sua politica prese il nome di Reaganomics, la quale si fondava su un forte ridimensionamento del ruolo economico dello stato, riducendo le tasse sui redditi d’impresa e rilanciando le spese militari per fronteggiare l’URSS. Egli si mostrò come un uomo forte, imponendo il licenziamento in massa dei controllori di volo degli aeroporti americani, responsabili di uno sciopero non autorizzato. In Gran Bretagna si fece strada il leader dei conservatori Margaret Thatcher, che nel 1979 fu la prima donna della storia britannica a diventare primo ministro. La sua ascesa corrispose ad un mutamento della base sociale del partito conservatore, che si estese alla piccola e media borghesia urbana. Il primo avversario da battere furono le potenti centrali sindacali dei comparti siderurgico e minerario, che vennero sconfitte nel 1979 e 1985. L’economia britannica aveva conosciuto nel dopoguerra un’estensione dei compiti dello stato sia nel settore assistenziale, sia in quello produttivo. Nel 1989 Washington intervenne a Panama per arrestare Manuel Noriega (al potere dal 1981), accusato nel traffico internazionale di droga. Gli obiettivi di queste azioni furono la lotta al terrorismo, la sicurezza dei cittadini, la cessazione delle violenze: obiettivi che trasmesse anche al suo successore George Bush, eletto nel 1988. Un anno prima la Borsa di New York segnò un grosso ribasso dopo un lungo periodo di rialzo. Gli anni della Reaganomics avevano accentuato le differenze sociali: la differenza tra ricchezza e povertà era vastissima, le sacche di povertà nei ghetti si erano allargate, isolate e radicalizzate. Nel 1992 scoppiarono violenti disordini nei sobborghi più degradati di Los Angeles. La disoccupazione era aumentata anche a causa dell’impiego di nuove tecnologie in ambito lavorativo. L’Occidente sperimentava così un senso di insicurezza e inquietudine, provocato dalla scarsità di lavoro. Il mercato si rivelava infatti incapace di redistribuire efficacemente la ricchezza e di produrre una crescita armonica della società. 1.89. Dal Medio Oriente al Sudafrica: una fase di transizione A diffondere questa sensazione di incertezza contribuì anche il Medio Oriente. La guerra del Kippur aveva aggravato per Israele il problema della sicurezza militare e territoriale, tanto che nel 1977 le elezioni registrarono una grande sconfitta del Partito laburista, al governo da 30 anni, e il successo di una coalizione di destra chiamata Likud e guidata da M. Begin. La pace di Camp David aveva garantito l’integrità delle frontiere tra Israele e Egitto, il quale nel 1982 riprese la penisola del Sinai. La parte araba di Gerusalemme e le alture del Golan invece furono date a Israele. Il nuovo governo di Tel Aviv favorì invece una politica di nuovi insediamenti di coloni israeliani in quei territori, irrigidendosi ulteriormente nei confronti della Palestina. Il problema del riconoscimento di uno stato palestinese rimase irrisolto. Siria e Libia, ostili alla conclusione di una pace separata da parte del presidente egiziano Sudat, decisero di costituire nel 1977 un “Fronte della fermezza” contro Israele. A catalizzare le tensioni fu lo stato del Libano, diviso tra musulmani e cristiani maroniti, il cui equilibrio interno era stato alterato dall’arrivo di profughi palestinesi nel meridione del paese. A metà anni ’70 ci fu una cruenta guerra civile, indirettamente sostenuta dalla Siria e da Israele (interessato a “sterilizzare” i campi profughi del sud da cui partivano attacchi al suo territorio). Nel 1982 l’esercito di Tel Aviv intervenne nel conflitto e assediò Beirut. L’intervento di una forza dell’ONU consentì l’evacuazione delle milizie dell’OLP, ma non impedì il massacro di profughi palestinesi nei campi di Sabra e Chatila. Oggetto di sanguinosi attentati, la forza multinazionale si ritirò nel 1983, seguita poi dall’esercito israeliano: la Siria rimase così padrona della situazione libanese. L’iniziativa politica e militare dell’OLP allora partì dai territori occupati da Israele, dove nel 1987 ci furono proteste di massa delle popolazioni palestinesi, che portarono a scioperi e disobbedienze. Il movimento di protesta fu chiamato “intifada” (rivolta) e fu spesso sostenuto dalla bandiera palestinese come simbolo di lotta per l’autogoverno. Nel 1988 l’OLP annunciò la nascita del nuovo stato palestinese a Gaza e Cisgiordania e riconobbe lo Stato di Israele. Nel 1992, dopo un iniziale momento di precarietà, salì al governo israeliano il laburista Y. Rabin. Nel 1993 Israele e OLP firmarono a Oslo gli accordi che formalizzarono il riconoscimento reciproco, ponendo le basi di un’Autorità nazionale palestinese (ANP): un governo autonomo nei territori occupati, costituito nel 1994. Nel 1996 ci furono le prime elezioni a suffragio universale nei territori sotto giurisdizione palestinese, che confermarono al potere Arafat come presidente nell’Autorità nazionale. La nascita nell’ANP segnò la temporanea vittoria della componente palestinese più laica e moderata, un segno importante nel mondo arabo. Infatti, la rivoluzione iraniana del 1979 era stata all’origine di un forte rilancio dell’integralismo religioso: in Egitto, Marocco, Algeria e Sudan si erano sviluppate minoranze legate all’Iran, ma fino al 1988 ci fu la guerra tra Iran e Iraq, scatenata dal dittatore irakeno Saddam Hussein. La guerra durò 8 anni (1980-88) e provocò quasi un milione di vittime. Finì con un armistizio, che ripristinò lo “stasus quo ante”. Intanto, in America Latina la sconfitta dei militari argentini nella guerra delle Falkland riaprì le strade della democrazia all’interno del continente: nel 1982 in Argentina, nel 1984 in Uruguay, nel 1985 in Brasile, nel 1989 in Cile e in Paraguay tornarono al potere governi civili e vennero ripristinate le libertà fondamentali. Ciò era dovuto anche al mutato atteggiamento degli USA, sempre meno disposti a sostenere regimi problematici. Le società latinoamericane si mobilitarono creando associazioni, partiti e movimenti che rivendicavano il ritorno alla democrazia e alla libertà. Dagli anni ’80 invece, Cuba subì il crollo del prezzo dello zucchero, che produsse una crisi tale da creare un’emigrazione di massa verso gli USA senza precedenti. Come risultato ci fu una chiusura istituzionale che portò il potere castrista all’isolamento, bloccò i processi di liberalizzazione del regime, restaurò il primato dell’ideologia e appesantì la repressione interna. Ad aggravare la situazione fu l’embargo imposto dagli USA sulle merci cubane nel 1992. In Africa il mutamento più importante avvenne nella Rhodesia e nel Sudafrica, dove l’ONU aveva adottato sanzioni commerciali e vietato misure di assistenza economica e militare, a causa delle politiche di segregazione. Tra 1976 e 1978 la mediazione di USA e GB portò in Rhodesia a una trattativa tra maggioranza nera e minoranza bianca, a seguito della quale fu concesso il diritto di voto ai neri. Nel 1980 fu costituita la Repubblica di Zimbabwe, in cui i bianchi accettarono di sedere in Parlamento in cambio di particolari diritti politici ed economici. In Sudafrica invece il processo di democratizzazione fu più difficile: le scelte autoritarie furono confermate nel 1976 dall’eccidio di Soweto, un sobborgo di Johannesburg dove la polizia aprì fuoco contro studenti che protestavano contro l’imposizione della lingua afrikaans nelle scuole; e nel 1977 dall’assassinio al leader nero Steve Biko. Una svolta si ebbe nel 1989: il primo ministro Frederik De Klerk avviò trattative con i rappresentanti della popolazione nera. Nel 1990 inoltre Nelson Mandela (storico dell’African Nation Congress) fu scarcerato e nel 1994 le prime elezioni paritarie lo portarono alla presidenza. Fu istituita la Commissione per la verità e la riconciliazione, un esperimento di tribunale senza condanne, basato sulla pubblica confessione delle violazioni dei diritti umani. 1.90. Il miracolo asiatico In Giappone negli anni ’80 si assisté ad un grande sviluppo industriale che lo mantenne in testa al gruppo delle nazioni occidentali. Dal 1973 al 1990 il reddito nazionale giapponese crebbe del 3.1% all’anno. Questa crescita fu dovuta alla piena occupazione e alle esportazioni. La disoccupazione infatti rimase quasi nulla, oscillando intorno al 2% della popolazione attiva. Si cominciò così a parlare di un “modello giapponese” di capitalismo, fondato su particolari valori comunitari di attaccamento alla nazione e alla propria azienda. Nacquero così nuove concezioni di organizzazione del lavoro, che si diffusero in tutto l’occidente: la “qualità totale” di una produzione orientata al soddisfacimento del cliente; il metodo “just in time” di controllo e programmazione della fornitura di materie prime e semilavorati per evitare stoccaggi produttivi; il coordinamento dei lavoratori in pool autonomi; la “produzione snella” fondata sull’esternalizzazione delle mansioni non essenziali. Questo modello organizzativo, chiamato “toyotismo” consentì all’industria giapponese di competere coi mercati esteri, continuando però a proteggere dalle importazioni il proprio mercato interno. Inoltre molti dei prodotti giapponesi si affermarono come standard di riferimento. Ascesero anche alcuni piccoli paesi asiatici affacciati sulla costa del Pacifico: città-stato come Hong Kong e Singapore, economie manifatturiere come Taiwan e Corea del sud formarono il nucleo originario delle cosiddette “tigri” o “dragoni” asiatici o anche NICS (New Industrialized Countries). Tra 1973 e 1990 ci fu una crescita del reddito nazionale lordo quasi doppia rispetto al Giappone. La chiave di successo fu una produzione industriale di manufatti destinata all’esportazione mondiale, cui si aggiunse il basso costo della forza lavoro. I NICS sfruttarono al meglio la liberalizzazione degli scambi internazionali, approfittando del prezzo estremamente competitivo dei loro prodotti e chiudendo i propri mercati alle merci estere. Lo stato inoltre si mostrò attivo nel promuovere un efficiente sistema di istruzione superiore , nel reprimere la conflittualità e le libertà sindacali; e nel fornire sostegni e sussidi alle esportazioni. I NICS non avevano un modello di produzione uniforme: in Corea prevalevano i cheabol (megacomplessi industriali in mano a grandi società); in Taiwan c’erano moltissime unità produttive di piccole dimensioni. Un problema dei NICS era il loro rapporto incerto con la democrazia parlamentare. In questi paesi infatti c’erano forti limiti nell’esercizio dei diritti civili ed era represso ogni tentativo di opposizione politica e sindacale. Nel 1986 ci furono in Corea del sud le prime elezioni a suffragio universale diretto. La Cina comunista negli anni ’80 ebbe un tasso di crescita del prodotto nazionale lordo ancora superiore a quello dei NICS (9% annuo). Dal 1978, quando tornò al potere Deng Xiaoping, ci fu un duraturo ciclo espansivo, dovuto alla parziale liberalizzazione dell’agricoltura, all’impulso statale alle piccole imprese industriali, alla svalutazione della moneta e al decentramento delle decisioni di politica economica. Furono create “zone speciali” di libero mercato, aperte alla penetrazione degli investimenti stranieri, attratti dal basso costo della forza lavoro. Permase comunque una politica autoritaria, che culminò nel 1989 con la repressione di piazza Tian’anmen, inoltre ci furono ogni anno migliaia di condanne a morte. Nella seconda metà degli anni ’80 questo modello di “capitalismo senza democrazia” contagiò anche nazioni come Malesia, Thailandia e Indonesia, e successivamente regimi comunisti o postcomunisti come Birmania e Vietnam. 1.91. Il caso italiano A metà anni ’70 la situazione italiana era più complessa di quella degli altri paesi occidentali. Oltre ai problemi di stagflazione e conflittualità sociale, ci fu un dilagare della violenza politica e un sistematico ricorso all’indebitamento pubblico. Dal 1975 al 1980 le spese per trasferimenti sociali triplicarono e per far fronte al crescente deficit del bilancio, si ricorse a un’espansione del debito pubblico emettendo Buoni ordinari del tesoro (BOT) a rendimenti convenienti. Nel 1977 inoltre ci furono rivolte nelle università, a causa della disoccupazione giovanile. La situazione critica spinse così la DC e il suo presidente Aldo Moro a cercare un accordo col PCI. Nel marzo 1978 il PCI entrò nella maggioranza sostenendo il governo di Giulio Andreotti, uno dei più longevi leader democristiani. Pochi giorni dopo Aldo Moro fu rapito (16 marzo ’78) e ucciso (9 maggio ’78) dalle Brigate rosse. Con questa vicenda il terrorismo giungeva al culmine, segnando la nascita di un governo di “solidarietà nazionale” che ebbe come priorità proprio quella di porre fine al terrorismo. Questi anni vennero definiti “anni di piombo” e furono caratterizzati da una dura legislazione repressiva e dal 1980 vennero adottati dei decreti che premiavano con riduzioni di pena i collaboratori di giustizia, facendo così nascere il “fenomeno dei pentiti”, così che il terrorismo subì colpi pesanti. Da allora l’azione dello stato, in cui si distinse il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, tornò ad essere efficace, fino a porre fine al fenomeno a metà anni ’80. Sul piano politico, l’inclusione del PCI nella maggioranza di governo fu un espediente di breve durata. Nel novembre 1980 Berlinguer dichiarò finita la fase di solidarietà della nazione e per il PCI questo brusco cambiamento fu la presa d’atto del fallimento d i una strategia di alleanza con la DC, che si riallacciava a quella perseguita dopo la “svolta di Salerno” nel 1944. Intanto si svilupparono fenomeni di corruzione, portati all’attenzione dell’opinione pubblica da alcuni scandali relativo allo scambio di favori tra uomini di governo e compagnie petrolifere e aeronautiche. Si aggiunsero poi due devastanti inchieste giudiziarie: • la prima fu per la gestione clientelare dei fondi per la ricostruzione dell’Irpina dopo il terremoto del 1980 e coinvolse anche la componente della DC più favorevole all’incontro con il PC. • La seconda rivelò nel 1981 le trame di una loggia massonica segreta chiamata “P2”, volta a spostare a destra la situazione politica con una serie di intrecci tra affari e politica. Il PCI tornò così ad essere oppositore, mentre la DC governava, anche se indebolita dagli scandali, rispetto al suo alleato: il Partito socialista. Dal 1976 il segretario del PSI era Bettino Craxi, che approfittò della debolezza della DC, che fu confermata dalla sconfitta nelle elezioni del 1983. La DC perse la guida dell’esecutivo (vi era dal 1945). Nel 1983 si costituì così un governo Craxi con una maggioranza di “pentapartito” (DC, PSI, PRI, PSDI, PLI). Il PSI sembrava infatti la soluzione migliore per una modernizzazione del paese. Il regime sovietico non era riuscito ad impedire la crescita di una realtà sociale complessa e in via evolutiva, entro la quale aumentavano le reti di relazioni e gli spazi di autonomia estrani al potere. Gorbacev e i suoi dirigenti pensavano che servissero profonde riforme per far uscire l’URSS dalla crisi in cui era caduta, ma proprio all’interno della dirigenza c’erano le più forti resistenze ad ogni trasformazione. Le riforme andavano invece incontro a gran parte della società, soprattutto quella istruita e acculturata, alla quale la stagnazione e i meccanismi del potere autoritario avevano impedito di esprimere le proprie conoscenze e utilizzare le proprie qualità. Le parole chiave della riforma furono due: 1. Ristrutturazione: rivitalizzare l’economia concedendo responsabilità e autonomia maggiori ai singoli dirigenti e ai diversi settori, lasciando più libertà ai produttori per favorire la nascita di un mercato aperto e dinamico. 2. Trasparenza: interrompere la spirale di menzogna e sfiducia esistente tra potere e società, deideologizzando l’informazione, accettando la libertà di espressione e rendendo pubblico il discorso politico e culturale. Fu proprio questo punto a trovare accoglienza favorevole. Giornalisti, scrittori, artisti e scienziati contribuirono al ritorno della verità, abolendo la censura. Nonostante ci, più aumentavano gli spazi di libertà e le richieste di autonomia nella società, maggiori si facevano le resistenze da parte di una rilevante della burocrazia e dei quadri di partito. Lo stesso Gorbacev, che stava ottenendo successi all’estero, aveva molti ostacoli all’interno dell’URSS. Il principale ostacolo era la nomenklatura, contro la quale si rivolgeva il malcontento della maggioranza dei cittadini. Egli era inoltre convinto che la società da sola fosse incapace di esprimere una propria autonomia e solo una profonda riforma del partito e dello stato avrebbe permesso all’URSS di uscire dalla crisi. Inoltre, le riforme economiche furono incapaci di offrire una maggiore quantità di beni a prezzi accessibili. Al blocco della crescita industriale, si accompagnò una ripresa dell’inflazione e l’aumento del debito pubblico. La politica di Gorbacev fu particolarmente inefficace nella “questione nazionale”: i conflitti furono la più pericolosa e inattesa delle tensioni innescate della “trasparenza”. Infatti, gli spazi di libertà e informazione da lui introdotti, favorirono l’esplodere di tensioni di difficile soluzione a causa del sovrapporsi di ingiustizie passate e rivendicazioni. In molte aree, la lotta all’autonomia divenne una lotta per l’indipendenza (ex. paesi baltici, Moldavia, Armenia, Georgia, Ucraina). Di fronte ai conflitti che si crearono, il governo tenne un comportamento ambiguo e debole, favorendo il rafforzarsi di nazionalismi estremisti. La mobilitazione etnica sfociò rapidamente nel nazionalismo in paesi baltici (Lituana, Estonia, Lettonia) che erano stati annessi all’URSS nella seconda guerra mondiale e che godevano di un’economia favorevole. Nel 1988-89 le elezioni dettero maggioranza alle forze separatiste e i paesi baltici di proclamarono sovrani, emendando le loro costituzioni con il dichiarato d’indipendenza. Intanto, nel 1988 fu introdotta una riforma istituzionale importante, che conferì ampi poteri al presidente dell’URSS, eletto dal congresso dei deputati del popolo, che avrebbe eletto un soviet supremo di 544 membri. Nel 1989 ci furono le elezioni, che dettero maggioranza ai fautori delle riforme e nel marzo 1990 il Congresso elesse Gorbacev presidente dell’URSS. Le difficoltà economiche però aumentavano, colpendo soprattutto i ceti popolari. Le misure di liberalizzazione non erano chiare e non ottennero i risultati sperati. Gorbacev decise quindi di appoggiarsi alle forze conservatrici del partito, lasciando che i democratici trovassero un punto di riferimento in Boris Eltsin, presidente del parlamento russo. Nel marzo 1990 il parlamento della Lituania proclamò l’indipendenza, poco dopo fecero lo stesso l’Estonia e la Lettonia. Il governo centrale sovietico reagì con un blocco economico, ma la Repubblica russa e i sindaci di Mosca e Leningrado appoggiarono i secessionisti. Gorbacev voleva intervenire, ma fu fermato da una mobilitazione interna e estera, così ritirò l’esercito e promise un referendum sul trattato che avrebbe dovuto ricostruire le basi dell’URSS. Intanto lo scontro tra Gorbacev e Eltsin aumentava: nell’ottobre 1990 G. respinse un piano di riforme economiche presentato da E. preferendone uno più moderato. FINIRE P 387-388 1.94. Il crollo del comunismo dell’Europa orientale Gorbacev si era reso conto che la competizione militare era insostenibile, soprattutto il piano economico. Nel 1986 era iniziato un ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan, nel 1987 si fece poi un accordo per lo smantellamento dei missili di media portata sovietici e statunitensi. Il progredire della crisi economica e la diminuzione degli aiuti sovietici indussero una parte della dirigenza comunista di quei paesi a una maggiore apertura all’Occidente e ad una parziale liberalizzazione. Il processo di trasformazione iniziato negli anni ’80 giunse così a compimento nel 1989. In Polonia, dove il processo per l’autonomia era stato consistente e lo stato di guerra era stato abolito nel 1982, si approfondirono i contatti tra il governo Jaruzelski e l’opposizione di Solidarnosc, ai quali contribuirono due viaggi in Polonia del papa. Nel 1987 un referendum aprì la strada alla democratizzazione della vita pubblica e ad una riforma economica fondata sul mercato. Dopo un viaggio di Gorbacev a Varsavia, nel 1989 i capi di Solidarnosk e il ministro dell’Interno conclusero un accordo per ristabilire il pluralismo sindacale, introdurre riforme economiche in senso liberista, riformare il parlamento e i poteri del capo dello stato. A giugno 1989, si tennero dopo 45 anni le prime elezioni libere. Al Senato Solidarnosk conquistò 99/100 seggi. Jaruzelski fu eletto presidente della repubblica e T. Mazowiecki si insediò alla guida del primo governo non comunista di una democrazia popolare. La Polonia si dette una Costituzione provvisoria di tipo presidenzialistico. Inoltre il partito comunista si sciolse diventando un partito socialdemocratico. Nel 1990 quando ci furono le elezioni presidenziali, i due candidati erano entrambi di Solidarnosc: vince Walesa. In Ungheria era iniziata nel 1985 la contestazione contro Kadar, a causa delle difficoltà economiche del paese. Nello stesso anno furono ammesse per la prima volta le libere candidature alle elezioni , purché all’interno del programma comune dei partiti di governo. Fu inoltre resa più libera l’informazione, vennero abolite le restrizioni sui viaggi e fu permessa la nascita di associazioni politiche indipendenti: nacque così il Forum democratico. Nel 1989 il governo stipulò un accordo con la CEE, dando vita ad un sistema politico multipartitico. A marzo si ricostituirono i partiti della coalizione che era al governo nel 1945, più altre organizzazioni. Elezioni parziali dettero vittoria al Forum democratico, fu attuata una revisione costituzionale e un referendum indisse nuove elezioni. A maggio iniziò la demolizione della cortina di ferro con l’Austria. Nel 1990 ci furono le prime elezioni libere, che videro il successo dei democratici. In Cecoslovacchia continuava la repressione delle opposizioni. Nel 1987 Gorbacev ebbe molto successo popolare durante una visita in cui criticò la mancata liberalizzazione del regime. Ripresero nelle piazze le manifestazioni dei gruppi di opposizione al regime. Nel 1988, 70° anniversario della nascita della Cecoslovacchia, la folla inneggiò a Dubcek e a Havel: il leader della primavera di Praga e l’intellettuale di Charta 77. Le opposizioni proseguirono con dimostrazioni in piazza e nel novembre 1989, dopo uno sciopero generale che bloccò il paese, i deputati abolirono il ruolo “dirigente” del Partito comunista, riconoscendo il multipartitismo. Si costituì così un governo di unità nazionale a maggioranza non comunista, che smantellò la cortina con l’Austria. In Bulgaria la fuoriuscita dal comunismo avvenne in modo indolore. In Romania invece, la transizione alla democrazia fu dura. Il regime di Ceausescu aveva represso ogni forma di dissenso, riducendo i servici sociali e sanitari, imponendo continue sopraffazioni alle minoranze etniche, soprattutto in Transilvania, dove nel dicembre 1989 si ebbero le prime proteste e manifestazioni: ci furono numerose vittime. Alla vigilia di Natale però Ceausescu fu arrestato insieme alla moglie e processato in diretta tv: furono fucilati entrambi. Il nuovo governo ottenne nella primavera del 1990 l’investitura popolare con libere elezioni. Il culmine si ebbe con la distruzione del muro di Berlino, iniziata il 7-9 novembre 1989 dai giovani di entrambe le parti della città in un clima di speranza ed entusiasmo. Il muro divenne così l’emblema della fine della guerra fredda, annunciando la riunificazione tedesca e la scomparsa di ogni dittatura in Europa. Nella Germania orientale il crollo del regime comunista fu simile a quello cecoslovacco. Il 4 novembre 1989 un milione di berlinesi chiese riforme, libertà e scioglimento della Stasi (polizia politica). Il 9 novembre il nuovo governo aprì le frontiere e il muro fu abbattuto. A dicembre fu introdotto il multipartitismo e fu sciolta la Stasi. Nel marzo 1990 le elezioni dettero la vittoria ai cristiano-democratici, aprendo la strada alla riunificazione tedesca, voluta dal cancelliere federale Kohl. Il Jugoslavia il carisma di Tito era riuscito a tenere insieme 24 gruppi etnici diversi e 6 repubbliche federate. Negli anni ’60, nonostante la forte crescita economica, rimaneva un grande divario tra le aree più sviluppate del nord e quelle più arretrate del sud. Tito morì nel 1980, a cui seguì una crisi economica che approfondì le distanze tra Slovenia e Croazia da un lato, e repubbliche meridionali dall’altro: il collasso dell’URSS favorì le spinte autonomistiche delle repubbliche. Le tensioni interne divennero contrasti nazionalistici. Nel 1991 Slovenia e Croazia si proclamarono indipendenti. In meno di un anno la Federazione jugoslava venne abbandonata anche dalla Bosnia-Erzegovina e dalla Macedonia e con la sua disgregazione i Balcani sprofondarono in una feroce guerra etnica. 1.95. La parabola del comunismo in Asia In Cina negli anni ’70 ci fu una ripresa dell’economia dell’industria pesante e la ripresa del dialogo con gli USA. Nel 1976 morirono il primo ministro Zhou Enlai e Mao Zedong, si aprì così una lotta per la successione che vide la sconfitta di Deng Xiaoping, mentre vinse Hua Goufeng. Con la sua ascesa ci fu una lotta tra le correnti che vide la sconfitta della cosiddetta “banda dei quattro”: la fazione più radicale della rivoluzione culturale, guidata da dirigenti contrari alla normalizzazione e favorevoli a un rilancio della lotta di classe. Nel 1978 Deng fu nominato primo ministro, dopo una grande manifestazione nella piazza Tian’anmen di Pechino che aveva richiesto il suo ritorno in politica. I sostenitori di Deng erano militari e maoisti moderati, favorevoli ad una parziale liberalizzazione dell’economia, unita però a un saldo controllo politico. Deng puntò a restaurare l’autorità centrale sulla base dei “quattro principi” del passato (dittatura del proletariato, via socialista, ruolo guida del partito, marxismo-leninismo-maoismo), ma riprese anche il programma moderato di politica economica. Nel dicembre 1978 l’XI Congresso del Partito comunista lanciò la politica delle “quattro modernizzazioni”: industriale, agricola, scientifica e militare. • Nelle università furono rimessi gli esami di ammissione • I comitati rivoluzionari furono eliminati • Le retribuzioni furono diversificate in base a merito e qualifiche • Nelle campagne si abolirono le comuni • La rete delle istituzioni amministrative e dei servizi pubblici fu separata da quella degli organismi di gestione economica • Fu reintrodotta la proprietà privata della terra, che vincolava le famiglie contadine ad un “contratto di responsabilità” obbligandole a consegnare allo stato a prezzo fisso determinati quantitativi di prodotti agricoli e bestiame Queste riforme trasformarono la Cina, mentre la popolazione era in continuo aumento e il prodotto nazionale lordo raddoppiò facendo salire il reddito pro capite. Grazie alla politica di contenimento demografico iniziata negli anni ’70, la produzione e la qualità della vita cinese era tra le migliori del Terzo Mondo. Per alcuni anni Deng riuscì a manovrare una serie di compromessi tra le fazioni conservatrici del partito e dello stato, la pressione autonomistica delle istituzioni locali, l’effervescenza culturale degli intellettuali e delle università. Però, i processi economici messi in moto dalle riforme crearono inflazione e disoccupazione, che portarono malumore soprattutto nelle grandi città. Tra 1980 e 1995 la differenza di reddito tra laureati e diplomati crebbe del 30% a favore dei primi, tra laureati e non diplomati crebbe del 60%. Questa polarizzazione sociale tuttavia non impedì agli USA di conseguire successi significativi in politica economica. Gli USA divennero infatti la terra d’elezione della crescita di internet : la nuova rete telematica adibita ad usi civili per la trasmissione di dati digitali. La rivoluzione digitale ebbe il suo più grande punto d’avvio nel 1983, quando il Time dedicò la sua copertina a una macchina anziché a un essere umano: il PC. La tecnologia informatica divenne accessibile anche ai privati cittadini, che con una spesa contenuta potevano scrivere testi, elaborare grafici, comporre immagini ecc. Il primo carattere di fondo di questa rivoluzione era la digitalizzazione, cioè l’unificazione dei linguaggi attraverso il codice binario: il bit divenne il formato standard per comporre e memorizzare testi, grafici, suoni, immagini ferme e in movimento. Il secondo carattere fu costituito dalla connessione tra i personal computer e la rete telefonica attraverso il modem. Il terzo carattere fu dato dalla crescente miniaturizzazione dei circuiti elettronici, che ridusse sempre più e rese portatili le tecnologie necessarie alla “telematica”. Il quarto fu determinato dal mercato di questi nuovi media, che si configurò come un mercato radicalmente privato sia per l’offerta che per la produzione. Ne derivò un’esasperata competizione, che abbassò i costi d’accesso a tali tecnologie. I nuovi media si presentavano come un potenziale strumento di democratizzazione della “società dell’informazione”, infatti lo sviluppo di reti orizzontali prive di controlli organizzativi centralizzati metteva il potere politico in secondo piano. Più che le industrie produttrici di hardware, questo fenomeno interessò le nuove industrie produttrici di software, cioè sistemi operativi di istruzioni, codici e formati tramite i quali le macchine funzionano e comunicano tra loro: tra queste, la maggiore era la Microsoft di Bill Gates. La prima rete telematica era del 1969, attivata dalle forze armate americane per ottenere un sistema di comunicazione flessibile e capillare, in grado di sopravvivere ad un attacco nucleare. Nel 1972 fu presentato al pubblico il primo programma per la gestione delle email. Nel 1973 la connessione in rete si estese a università e centri di ricerca della GB e Norvegia. Nel 1991 i ricercatori del CERN di Ginevra (consiglio europeo per la ricerca nucleare) elaborarono i protocolli del WWW, la rete mondiale, che divenne il sistema più popolare di uso di internet. Nacquero poi i primi siti web, tra cui quello della Casa Bianca e delle Nazioni Unite. Nel 1994 apparvero i primi siti dedicati all’e-commerce e si affermarono i grandi provider privati, soprattutto negli USA. Dal 1995 al 2001 il numero di host crebbe costantemente e rapidamente, anche se la diffusione della rete rimase limitata solo ad una piccola parte della popolazione mondiale (2%). La disuguaglianza sociale fu aggravata anche dal “digital divide”, che escluse molti paesi dall’accesso di queste nuove tecnologie. 1.98. Le crisi finanziarie Nella seconda parte degli anni ’90 gli USA ebbero una grande ripresa finanziaria, grazie ai passi avanti nell’informatica, nelle telecomunicazioni e nello sviluppo delle reti telematiche e del commercio elettronico. Molte industrie usarono Internet per vendere i propri prodotti sia ad altre aziende che a consumatori privati. Questa ripresa finanziaria rilanciò la competitività degli USA sui mercati internazionali. Nel corso del decennio, la loro spesa per tecnologie dell’informazione triplicò, contribuendo per circa il 60% alla crescita totale degli investimenti. Nel 2000 il settore informatico costituiva oltre l’8% dell’economia statunitense. Negli anni ’90 il Giappone fu colpito da una recessione provocata dal crollo dei prezzi (settore immobiliare) e degli investimenti. Come risultato ci fu un raddoppio del tasso di disoccupazione e una crisi del modello giapponese di capitalismo. Il forte ruolo dello stato nella promozione dell’economica incoraggiò fenomeno di corruzione, facilitati da una precoce tendenza alla concentrazione monopolistica della base produttiva. A metà decennio l’esplosione di molti scandali evidenziò la penetrazione di interessi economici e finanziari privati all’interno del Partito liberaldemocratico. Questa crisi si trasmise anche ad altre economie asiatiche, dove gli investimenti esteri giapponesi si erano concentrati, originando forti tassi di crescita del prodotto nazionale. Nel 1997 la Thailandia svalutò la sua moneta per effetto di un indebitamento estero insostenibile e un sistema finanziario fragile. Ci fu una crisi di incertezza sui mercati borsistici internazionali, che diede luogo al ritiro generalizzato degli investitori. In poche settimane crollarono le monete del Brasile, della Corea del sud, dell’Indonesia e della Russia, provocando un calo di investimenti e un aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze sociali. Il Fondo monetario internazionale allora intervenne con prestiti d’emergenza. Quella asiatica non era la prima grande crisi finanziaria degli anni ’90: nel 1992-93 il nuovo sistema monetario europeo era stato abbandonato dalla sterlina e dalla lira, prese di mira da manovre speculative facilitate dalla debolezza economica di GB e Italia. Nel 1994-95 era stata la volta del Messico , appena entrato nella NAFTA (North American Free Trade Agreement), dove in pochi giorni la sua moneta perse metà del suo valore e venne salvata dall’intervento degli USA, preoccupati per un possibile contagio. La crisi del paese era stata aggravata anche dalla privatizzazione delle industrie, dall’apertura ai capitali stranieri e dall’abbandono del sistema di spartizione delle terre. C’era una situazione di estrema disuguaglianza sociale. Sintomo di questa involuzione fu la rivolta dell’Armata zapatista nella regione montagnosa del Chiapas: il governo del Partito rivoluzionario istituzionale affrontò il problema con metodi repressivi e nel 2001, al termine di una lunga marcia, gli zapatisti entrarono a Città del Messico e costrinsero il governo alla trattativa per risolvere il problema degli indios contadini, la parte più povera del Messico. Nei primi mesi del 2002 l’Argentina fu colpita dal fallimento di numerose banche e da gravi disordini in tutto il paese. Dal 1995 essa faceva parte del Mercosur, un’area di mercato comune comprendente Brasile, Uruguay e Paraguay. Ci fu un grande impulso agli investimenti stranieri, ma anche un incremento degli squilibri delle bilance commerciali. 1.99. Le nuove guerre L’indipendenza proclamata nel 1991 dalla Slovenia e dalla Croazia fu subito riconosciuta dalla Comunità Europea in nome del diritto di autodeterminazione dei popoli. La repubblica serba guidata dal leader della Lega, S. Milosevic, puntava a raccogliere l’eredità jugoslava, creando una “grande Serbia” capace di esercitare un ruolo preponderante sulla regione balcanica, ma la reazione dell’armata del governo di Belgrado non riuscì a impedire la secessione della Croazia. L’uscita dalla Federazione jugoslava da parte della Bosnia-Erzegovina portò ad una sanguinosa guerra, dove vennero uccise 100.000 persone. Nel 1995 a Srebenica, una piccola città della Bosnia, le truppe serbe uccisero 7000 profughi. Dal 1992 al 1995 la capitale bosniaca Sarajevo fu continuamente sotto assedio dai serbi, e tornarono ad esserci massacri, stupri, deportazioni. La guerra della ex Jugoslavia era diversa da quelle tradizionali, in quanto si verificarono in contesti caratterizzati da un collasso della sovranità statale e da una frammentazione e privatizzazione della violenza organizzata ad opera di bande criminali paramilitari. Il conflitto in Bosnia si concluse nel 1995 con gli accordi di Dayton. L’attenzione di Milosevic si spostò quindi nel Kosovo, regione per l’80% albanese, teatro di rivendicazioni indipendentiste. Nel 1999 ci furono violenze e lo spostamento forzato di migliaia di persone, che provocò l’intervento militare della NATO, con bombardamenti su Serbia e Belgrado. La guerra si concluse con il passaggio del Kosovo sotto l’amministrazione dell’ONU. Milosevic fu sconfitto nel 2000 alle elezioni presidenziali da V. Kostunica, e l’anno dopo fu arrestato e sottoposto al giudizio del Tribunale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia. I conflitti della ex Jugoslavia evidenziarono diversità rispetto alla guerra del Golfo. Il ruolo delle Nazioni Unite fu più defilato, inoltre ci fu una maggiore efficacia politica dell’azione armata, determinata dal peso dell’opinione pubblica serba, in gran parte contraria a Milosevic. Dall’intervento in Libano, si erano moltiplicate le missioni di peace enforcing (imposizione del cessate il fuoco e creazione di corridoi neutrali per gli aiuti umanitari alle popolazioni civili) e di peace keeping (mantenimento della pace attraverso forze di interposizione attestate sul terreno degli scontri) da parte di corpi si spedizione internazionali. Mancava però una procedura decisionale standardizzata in sedi apposite. La gestione delle operazioni era quindi legata a logiche occasionali e fu soggetto di questioni di parzialità. Tali contraddizioni furono evidenti in due situazioni africane: • La prima rappresentata dalla guerra civile che nel 1991 insanguinò la Somalia, con effetti catastrofici su una popolazione civile stremata. Qui l’intervento del peace enforcing delle Nazioni Unite si risolse con un grave insuccesso: nel 1993 il corpo di spedizione statunitense lasciò sul campo di Mogadiscio 19 vittime e ciò determinò il ritiro del contingente internazionale e il prolungarsi della guerra. • La seconda si verificò nella metà anni ’90 nelle nazioni centroafricane del Ruanda e del Burundi. I colonizzatori tedeschi e belgi avevano attivato e sfruttato a lungo una rivalità tra pastori tutsi e coltivatori hutu. Ne era seguito un processo di “etnicizzazione” dei due gruppi e mentre alla minoranza tutsi erano state affidate le strutture amministrative, la maggioranza contadina degli hutu era esclusa dal potere. Già nel 1959 ci fu una rivolta degli hutu che portò all’espulsione dei tutsi in Uganda e Burundi e alla costituzione di un regime di apartheid. Nel 1990 la situazione precipitò con l’invasione del Ruanda da parte del Fronte patriottico ruandese, composto dai tutsi esiliati in Uganda. Un corpo si spedizione francese, belga e di truppe zairesi riuscì a arrestare le violenze fino al 1994. Le forze armate ruandesi però organizzarono il genocidio dei tutsi che portò oltre mezzo milione di vittime, cui si aggiunsero 5 milioni di profughi. L’intervento delle Nazioni Unite fu rinviato a lungo dal veto degli USA e solo nell’estate 1994 la creazione di zone sicure ad opera dell’ONU pose fine al massacro. La guerra e il genocidio africano sottolinearono anche le contraddizioni della politica estera statunitense, contraria all’adozione di un codice permanente per gli interventi umanitari. A inizio secolo inoltre, gli USA si rifiutavano ancora di sottoscrivere l’atto costitutivo (stilato a Roma nel 1998) di un Tribunale internazionale come unica sede di giudizio idonea a sanzionare le violazioni dei diritti umani. 1.100. 11 settembre 2001 Nella seconda metà degli anni ’90 il Medio Oriente andò incontro ad una distruttiva involuzione a causa delle contraddizioni degli USA nella propria politica estera. Tra i palestinesi crebbe l’influenza del movimento islamico Hamas, che si opponeva all’Autorità nazionale dell’OLP continuando a negare il diritto di Israele ad esistere. Intanto le forze integraliste e reazionarie di Israele organizzarono una potente controffensiva. Nel 1995 un giovane di estrema destra assassinò Rabin, aprendo una crisi di leadership nel partito laburista e favorendo un nuovo spostamento a destra dell’opinione pubblica. Le elezioni del 1996 portarono al potere Likud e mentre Hamas faceva una serie di atti terroristici, la situazione politica israeliana era dominata dall’incertezza. Nel 1999 nuove elezioni portarono al potere i laburisti e il primo ministro Ehud Barak rispose positivamente alle sollecitazioni americane per una conclusione della pace. Nel 2000 si svolsero gli incontri a Camp David che portarono Arafat e Barak, sospinti dal presidente Clinton, ad un passo dall’accordo, anche se la loro autorità non era sufficiente a imporre all’opinione pubblica dei due campi un passo avanti sulla via della pace. A fine anno l’offensiva terroristica di Hamas riprese, collegandosi ad una sanguinosa intifada scoppiata nei territori palestinesi, mentre il governo di Israele tornava in mano alla desta capeggiata da Ariel Sharon, intenzionato a risolvere il problema con la forza. Gli accordi di Oslo non erano quindi serviti e il processo di pace era così interrotto. Dietro questa involuzione nacque nella regione un nuovo soggetto politico e religioso: il fondamentalismo arabo, incarnato soprattutto da Hamas, fenomeno che oltre alla Palestina, riguardava tutto il mondo musulmano. Paradossalmente l’Iran, da sempre capo del fondamentalismo, era entrato in una fase che aveva visto l’affermarsi di un’ala laica guidata da M. Khatami, eletto nel 1997, grazie all’appoggio di donne e giovani. La forza d’attrazione dell’integralismo religioso si esercitò in diversi contesti: • In India i successori di Nehru (Indira e Rajiv Gandhi) si erano mossi in una linea di continuità con il modello di economia statalizzata e la politica di equilibrio tra caste e confessioni religiosa perseguita dal loro predecessore, inoltre aumentò l’aspettativa di vita da 50 a 62 anni. Nel 1998 però vinse alle elezioni un partito politico nazionalista hindu, il Bharatiya Janata Party (partito del popolo indiano), con un programma di rilancio degli esperimenti nucleari a scopo bellico e della rivalità con il Pakistan musulmano per il controllo del Kashmir. L’Italia rimase impegnata a lungo nella fase di passaggio ad un sistema politico bipolare. Il collasso dei partiti di governo portò ad una crescita del numero dei partiti, complicando la fase di transizione. Nel 1994 alle prime elezioni tenute con il sistema maggioritario, spiccò una nuova formazione politica chiamata Forza Italia con a capo l’imprenditore televisivo Silvio Berlusconi, che ereditò buona parte dell’elettorato di PSI e DC, conquistando la maggioranza relativa dei voti e creando una coalizione di governo con la Lega Nord, una parte degli ex democristiani e gli eredi del Movimento sociale italiano. L’accordo fu però di breve durata: il governo Berlusconi non riuscì a porre mano nella riforma pensionistica e nella privatizzazione delle industrie di stato. Iniziò una crisi che aprì la strada a nuove elezioni, che nel 1996 furono vinte dal centrosinistra guidato da Romano Prodi, professore universitario. Il suo governo - appoggiato dalla Rifondazione comunista e composto da una maggioranza di PSD, Verdi, Partito Popolare e altri gruppi minori – rispettò i parametri macroeconomici necessari per entrare nella moneta unica europea. Rifondazione tolse poi l’appoggio a Prodi, al quale subentrarono prima Massimo D’Alema, poi l’ex socialista Giuliano Amato. Il centrosinistra fu sconfitto nel 2001, con la vittoria di Berlusconi. L’Italia però mancava ancora di una legge che prevenisse commistioni e conflitti tra gli interessi pubblici e quelli privati degli uomini politici. Nei primi mesi del governo di centrodestra si discusse il problema della mancanza di monopolio dell’informazione televisiva. 21. GLOBALIZZAZIONE E INEGUAGLIANZA 1.102. Mobilità di merci e capitali Le crisi finanziarie degli anni ’90 avevano mostrato il grado di interdipendenza delle economie nazionali; l’attacco dell’11 settembre evidenziò in modo drammatico la globalizzazione, tratto di fondo della società contemporanea. Bin Laden infatti rivendicò la paternità dell’attacco con una serie di videocassette che fecero il giro del mondo attraverso i mass media. La rete degli attentatori era composta da persone di diversa nazionalità ed era diffusa sia nel mondo sviluppato sia in quello in via di sviluppo. I bersagli delle torri gemelle e del Pentagono rappresentavano le sedi del potere finanziario e militare che dal 1945 gestivano i propri affari in una dimensione globale. Già nel corso della Golden Age la mobilità di merci e di persone si era incrementata esponenzialmente e negli ultimi 30 anni le esportazioni e gli investimenti esteri fecero un ulteriore passo avanti. La distribuzione planetaria tuttavia continuava a concentrarsi tra i paesi sviluppati: nord America, Europa, Giappone. L’unica crescita rilevante fu quella dei NICS asiatici (Cina compresa, seconda destinazione di investimenti esteri), mentre America latina e Africa calarono. La liberalizzazione degli scambi accentuò le tradizioni gerarchiche del pianeta, nonostante l’enorme crescita del capitale finanziario: nel 1997 il mercato finanziario superava i 1500 miliardi di dollari. Tale balzo fu dovuto allo sviluppo dei “derivati” (warrant, future ecc.): non scambi di azioni, ma scommesse sulle azioni stesse, cioè operazioni il cui legame con l’economia reale era molto più mediato e non vincolante. Questa massa di denaro poteva quindi muoversi in tempo reale su ogni mercato globale grazie allo sviluppo di una finanza elettronica resa possibile dalla presenza di una rete telematica globale. Maggiore mobilità dei capitali significava anche maggiore volatilità: la crisi finanziaria degli anni ’90 fu dovuta anche all’estrema facilità con cui gli investimenti internazionali venivano prima localizzati in questo o quel paese e poi ritirati. A fine anni ’90 le 200 maggiori compagnie del pianeta (62 giapponesi, 53 statunitensi, 23 tedesche, 19 francesi, 11 inglesi, 6 coreane, 5 italiane, 4 olandesi) occupavano solo 0.3% della forza lavoro mondiale, ma producevano un terzo delle merci in commercio. La finanziarizzazione e l’internazionalizzazione delle compagnie multinazionali si saldavano così ai processi di delocalizzazione dei posti di lavoro industriali dal nord al sud del mondo (carta n. 12). Inoltre, la costante caduta dei prezzi reali delle materie prime, diminuiti soprattutto dopo la crisi petrolifera del 1973, aveva mutato la composizione merceologica del commercio mondiale. Le materie prime erano state sostituite da manufatti e servizi, mentre cresceva il ricorso a forme di accordo come le “joint venture”, strette tra multinazionali occidentali e società locali estere per la loro produzione. I colossi dell’industria americani avevano stabilimenti in decine di paese e la loro rete di interessi comprendeva la stabilità politica, i buoni rapporti istituzionali, la remunerazione degli investimenti di ciascuno di essi. La produzione mondiale di beni e servizi non era distribuita equamente nel mondo. Le economie sviluppate accentrarono il loro ruolo gestionale, strategico e finanziario, realizzando prodotti ad alto valore aggiunto, elevato contenuto tecnologico e ridotto impiego di manodopera. Le economie in via di sviluppo invece attirarono le produzioni tradizionali a basso valore aggiunto e alto valore di lavoro umano. La rivoluzione informatica aveva permesso di trasmettere informazioni in tempo reale per via telematica e consentì a masse sempre più ingenti di capitali di spostarsi sempre più velocemente sulle piazze finanziarie del mondo. A questi mutamenti se ne aggiunsero altri: i servizi divennero accessibili senza muoversi da casa; il contatto tra le persone poté essere modulato e personalizzato a seconda delle necessità e svincolato dalla prossimità fisica. Questi processi indicavano quindi una diminuzione dei rapporti interpersonali diretti, isolando gli individui. Sul piano politico, ciò rendeva teoricamente possibile l’ipotesi di una “instant referenda democracy” fondata sulla continua consultazione a domicilio dei votanti. 1.103. Mobilità di persone Gli ultimi 150 anni della storia dell’umanità segnarono una rottura nei ritmi di accrescimento della popolazione terrestre. Questo incremento esponenziale e rapidissimo si concentrò soprattutto tra il 1950 e il 1980, quando la popolazione mondiale passò da 2.5 a 4.5 miliardi di persone. Secondo le stime dell’ONU, dopo il 1980 il ritmo di incremento annuale della popolazione si è invece abbassato. Dal punto di vista geografico questa rivoluzione si concentrò nel Terzo Mondo: Asia, Africa e America latina, in cui il ritmo di crescita fu tre volte superiore rispetto a quello dei paesi sviluppati. La ragione di questo boom demografico fu la veloce riduzione della mortalità dovuta alla diffusione della medicina moderna, che allungò la durata della vita: la speranza di vita passò da 46 anni nel 1950 a 64 nel 1995 (ma in Africa da 37 a 53). La natalità si mantenne a livelli costanti e tale contraddizione investì l’intero continente africano. Negli anni ’70 Singapore, Taiwan, Corea del sud, Cuba, Messico, Colombia e Brasile furono invece pionieri di uno spontaneo declino della natalità. Il loro esempio fu perseguito anche da altri paesi che però adottarono politiche di contenimento delle nascite: in Cina fu imposto un limite massimo di due figli alle famiglie delle aree rurali, mentre in India si dette impulso alla sterilizzazione dei maschi adulti. A partire dagli anni ’80 comparve una malattia a carattere epidemico: l’AIDS, che a fine ‘900 si concentrava soprattutto nei paesi poveri. Su 30 milioni di contagiati, 20 risiedevano nell’Africa subsahariana; inoltre in Zambia, Mozambico, Botswana, Uganda, Malawi il tasso di morbosità, cioè il rapporto tra ammalati e il totale della popolazione, si avvicinava al 20%. Nel 1998 le Nazioni Unite stimarono che nel ventennio 1985-2005 i morti sarebbero ammontati a circa 15 milioni, di cui 10 in Africa, 2 in India, 731mila in Thailandia, 634mila in Brasile, 190mila a Haiti. Le cure nei paesi ricchi riuscirono a contenere e “cronicizzare” l’epidemia. Intanto, tra 1980 e 2000 i paesi ricchi accentuarono la loro tendenza al calo delle nascite, varcando in molti casi la soglia della “crescita zero” e andando incontro ad un invecchiamento relativo della popolazione; mentre nei paesi più poveri continuavano le crescite. Questo divario portò all’avvio di nuovi flussi migratori, che arrivarono ad eguagliare e superare le dimensioni di scale della “grande emigrazione” del primo Novecento. Nel 1990 le masse di persone che vivevano fuori dal paese d’origine erano circa 120 milioni. Le zone povere della terra scaricavano le loro eccedenze nelle zone più ricche, a più basso incremento della popolazione o a crescita zero. Queste emigrazione però era diversa dal passato. Si moltiplicarono le mete di destinazione: oltre a USA, Canada e Australia, si aggiunse l’Europa, mentre l’America latina fu sia terra di immigrazione che emigrazione. Un contributo significativo a questi flussi fu dato dai profughi di guerra, il cui numero era valutato a circa 13 milioni. USA e Germania erano le prime mete dei flussi migratori, cui seguiva l’Afghanistan a causa del rimpatrio di profughi afgani a seguito della fine dell’occupazione sovietica. Inoltre, questi emigranti si scontrarono con legislazioni restrittive dei paesi di destinazione e con un’accoglienza diffidente e ostile. Salì così la quota di movimenti migratori illegali, controllati spesso da organizzazioni criminali. L’integrazione fu quindi difficile, essi occupavano fasce secondarie, marginali e non protette del mercato del lavoro. Circa metà dei migranti era costituito da donne giovani o adulte, sia prostitute schiavizzate dai racket della malavita, sia collaboratrici domestiche impiegate in abitazioni civili, sia moglie e figlie che raggiungevano il capofamiglia maschio emigrato in precedenza. Queste donne pagarono a caro prezzo la relativa autonomia derivante dalla mobilità che le sradicò dai loro contesti di provenienza. All’origine di questi flussi migratori stavano i forti flussi di urbanizzazione in molti paesi in via di sviluppo: il passaggio dalle campagne alle città fu il primo passo di una mobilità destinata poi ad oltrepassare le frontiere nazionali. Tra 1950 e 1975 in tutti i paesi poveri il tasso di crescita della popolazione urbana raddoppiò e tra 1975 e 2000 quest’ultima passò dal 29 al 46%. Delle 20 megalopoli mondiali, ben 11 si trovavano nei paesi in via di sviluppo, anche se quelle dei paesi poveri erano sempre più segnate dalla miseria e dal degrado. Poco meno della metà dei loro abitanti viveva nelle bidonville suburbane cresciute prive di strutture igieniche elementari. 1.104. Dinamiche dell’ineguaglianza Nel 1945 venne creata la Carta di San Francisco (statuto dell’ONU) che, a differenza del patto costitutivo della Società delle Nazioni, aveva la consapevolezza che il proprio fine istituzionale (pace e sicurezza) era collegato alla promozione del progresso sociale ed economico di tutti gli stati. Vennero quindi create agenzie come la FAO (Food and Agriculture Organization) per intervenire nelle aree più funestate da uno squilibrio tra crescita demografica e crescita economica, dove vi era una situazione di “sottosviluppo”. Infatti, l’ineguaglianza tra le diverse aree del mondo si accrebbe sensibilmente nel costo del XX secolo, soprattutto per effetto di una distribuzione mondiale della ricchezza tra le nazioni che seguiva una dinamica di polarizzazione più accentuata di quella della distribuzione delle risorse all’interno dei singoli stati. Fin dal primo General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) del 1947, queste condizioni di ineguaglianza e il peso dei rapporti di forza industriale negli scambi internazionali erano stati al centro delle trattative commerciali tra gli stati. Con gli accordi di Bretton Woods vi era stata una tendenza dominante ad una liberalizzazione degli scambi e a un’integrazione dei paesi poveri negli equilibri bipolari della guerra fredda. Dopo la decolonizzazione, in molti ex stati coloniali furono avviate politiche di sostituzione delle importazioni attraverso la protezione doganale e un forte sostegno statale alle nascenti industrie nazionali. Dal 1960 le Nazioni Unite adottarono strategie decennali di sviluppo per destinare una quota del prodotto dei paesi ricchi all’incremento del tasso di crescita di quelli poveri. Nel 1964 fu creata la United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD) per raccogliere e coordinare lo sforzo dei paesi in via di sviluppo al fine di conseguire l’indipendenza economica. Fino ad allora infatti era stata attuata una politica di aiuti economici che copriva percentuali variabili del reddito delle nazioni ricche. L’UNCTAD propose invece un “nuovo ordine economico internazionale, fondato sull’equità, l’eguaglianza di sovranità, l’interdipendenza, l’interesse comune e la cooperazione tra tutti gli stati”. L’ONU voleva sostituire i contributi finanziari disordinati con un negoziato complessivo e paritetico basato sull’aggancio dei prezzi delle materie prime esportate dal Terzo Mondo a quelli vigenti nei paesi ricchi e sul trasferimento di tecnologia e strutture produttive dal nord al sud del globo. Questa nuova cooperazione internazionale portò alle cosiddette “rivoluzioni verdi”, che alcune nazioni (Filippine, India e Messico) realizzarono usando fertilizzanti chimici, nuovi metodi di coltura, nuovi prodotti agricoli ad alta redditività e a crescita veloce. Ci fu così un aumento della produttività agricola, che portò anche a superare la soglia del fabbisogno. Le eccedenze agricole dei paesi in via di sviluppo si scontrarono però con due processi opposti: 1. Caduta dei prezzi delle materie prime, che a partire dagli anni ’80 peggiorò sensibilmente le ragioni di scambio delle economie meno sviluppate. 2. Adozione da parte della maggioranza dei paesi in via di sviluppo di tariffe protezionistiche volte a difendere la propria residua produzione agricola (e i posti di lavoro) contro l’importazione di derrate a basso costo. L’agricoltura non riuscì quindi ad essere una spinta complessiva dell’economia nazionale dei paesi in via di sviluppo. Un forte impedimento era inoltre costituito dalla rivoluzione demografica: nei paesi in via di sviluppo della seconda parte del XX secolo infatti, una crescita esponenziale della popolazione precedette e vanificò ogni aumento produttivo sia dell’agricoltura, sia dell’industria. A fine Novecento, Asia, Africa e America latina contenevano circa il 75% della popolazione mondiale, ma solo il 50% delle terre coltivabili.
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