Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Manzoni, opere del periodo., Appunti di Letteratura

Riassunto generale su Manzoni e altre opere relative

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 30/06/2024

francescapalmieri01
francescapalmieri01 🇮🇹

1 / 62

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Manzoni, opere del periodo. e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! Storia e geografia linguistica dell’Europa. La linguistica balcanica studia i fatti di convergenza nello spazio linguistico balcanico tra lingue non strettamente interrelate tra loro dal punto di vista genealogico, e studia come da una delle lingue si sia sviluppato un fenomeno di interazione nelle altre lingue. Nella penisola balcanica si parla, da un lato, di lingue balcaniche, dall’altro di lingue dei Balcani. Le prime sono quelle che partecipano del fenomeno che si chiama lega linguistica. La lega è il risultato di uno dei tre modelli di classificazione delle lingue naturali che si usano correntemente: AREALE (le lingue sono connesse dal punto di vista geografico, questo permette a più lingue di condividere caratteristiche linguistiche), TIPOLOGICA (classificazione sulla base della presenza/assenza di un determinato tipo linguistico, a prescindere o no se appartengono alla stessa famiglia linguistica), GENEALOGICA (la genealogia studia l’origine, quindi il criterio genealogico deve identificare se due o più lingue appartengono a una stessa famiglia e se derivano da una stessa lingua originaria). Questi modelli sono indipendenti uno dall’altro. I parametri che consentono questi tre tipi sono esclusivi di ciascun tipo. La lega linguistica si interessa di come le lingue si sono trasmesse, delle determinate caratteristiche che assumono negli anni, mescolandosi e fondendosi tra di loro. Le lingue della lega balcanica sono: l’albanese, il greco, il romeno, il bulgaro. Una quinta lingua balcanica è il macedone: la lingua ufficiale della repubblica del nord macedonia. Invece, le lingue dei Balcani sono quelle che partecipano della lega linguistica ma in maniera molto marginale, quasi non ne fanno parte. Esse sono: le lingue slave (serbo, croato, sloveno), il turco, l’ungherese (lingua ufficiale della repubblica d’Ungheria). Ultima lingua della penisola balcanica è una lingua morta: il dalmatico, lingua romanza della quale noi conosciamo l’anno di morte: il 1898. (morte dell’ultimo parlante di questa lingua, Antonio Udina (detto Burbur) un pescatore dell’isola di Krk, (isola di Veglia in italiano). Egli è stato importante perché Bartoli (un italiano) pubblicò “il Dalmatico”. Lo spazio linguistico della penisola balcanica ha una storia linguistica molto antica. La storia linguistica di questi spazi nasce quando le popolazioni europee, già stanziate in Europa, vengono colonizzate da popolazioni parlanti lingue indoeuropee, le quali attraverso migrazioni successive e, forse, piuttosto distanziate dal punto di vista temporale, occuparono lo spazio linguistico europeo. La prima indo europeizzazione della penisola balcanica fu effettuata da tribù indoeuropee, le quali, purtroppo, non ci hanno lasciato documentazione scritta. Le popolazioni responsabili di questa prima ondata migratoria sono identificabili con i nomi di alcune popolazioni, di cui abbiamo una certa documentazione di fonti latine e greche. Di queste lingue conosciamo la provenienza e il nome: Traci, Daci e Illiri. È molto verosimile che queste popolazioni fossero collocate nei rispettivi territori corrispondenti all’attuale Bulgaria, Romania, Albania e zone costiere dell’adriatico. Oltre a costoro, erano senz’altro linguisticamente imparentati i macedoni (cioè i macedoni di Alessandro Magno, della Grecia antica). I macedoni popolavano parte della Macedonia greca e parte dell’attuale Macedonia. Essi non parlavano né greco né latino. Dopo questa prima irruzione indoeuropea nella penisola balcanica si assiste ad un altro sviluppo: oltre alla lingua greca, si assiste allo sviluppo della politica e della lingua dei romani: il latino comincia a prendere piede in una larga parte della penisola balcanica e, l’ultima novità linguistica nella penisola balcanica, è rappresentata a partire dal 6 secolo d.C. dalle popolazioni di lingua slava. Dal punto di vista amministrativo e politico, dopo la caduta dell’Impero Romano d’occidente, la penisola si divide tra impero romano (lingua latina) e impero bizantino (influsso greco). Studiare le lingue parlate nella penisola balcanica (lingue balcaniche) significa capire come si siano sviluppati i fatti della lega linguistica fra le lingue balcaniche e quale ne sia l’origine: cioè identificare all’interno di questo spazio quale può essere la fonte dei “balcanismi” (che è il nome con cui le innovazioni delle lingue balcaniche si identificano). Capire da dove è nato il singolo balcanismo è l’obiettivo. Ma non è facile. Una cosa da dire è che la quarta componente della varietà linguistica parlata dai Balcani, verosimilmente, non è responsabile di nessun balcanismo primario, benché alcuni ritengono che un balcanismo provenga da una di queste lingue. (esso è un balcanismo di carattere fonetico), gli altri sono di tipo morfologico e sintattico. La ragione storica e non linguistica che ci porta a discutere che qualsiasi balcanismo sia stato veicolato dalle lingue paleo balcaniche è che queste lingue hanno cessato di essere parlate con grande probabilità al massimo nel IV secolo d.C., a meno che non esistessero ancora delle piccole località in campagna in cui si 4 (dai dadi). Perciò l’ipotesi di Merlo non funziona, non tanto per il valore fonetico, ma perché non c’è corrispondenza. Le corrispondenze funzionano a parità delle regole dei suoni. Questo Ascoli lo aveva capito. Oltretutto l’etrusco si è smesso di parlare a partire, di sicuro, dal I secolo d.C. Ora, la prima traccia scritta di un documento toscano in cui una grafia mi fa capire che ciò che è scritto in quel modo potrebbe essere fricativa e non occlusiva, è del 1500 d.C. Se la gorgia fosse un fenomeno antico e caratteristico dei dialetti toscani perché sarebbero dovuti passare 1400 anni prima di dirlo? Il fenomeno quindi è toscano, non è etrusco e non è antico. È un fenomeno moderno perché: “pace” dal latino “pakem”, secondo la regola della gorgia, dovrebbe diventare pahe. Invece i toscani dicono la pasce, non pahe. Quindi la gorgia non è un fenomeno antico. Quanto sia lecito usare l’ipotesi del contatto linguistico per spiegare determinati fatti fonetici è un fatto importante. Ricorrere al sostrato per la presenza di parole, in una lingua, è semplicemente un fatto linguistico. Questo può accadere al di la del prestito lessicale e quindi concretizzarsi in un prestito di fonemi nella lingua del sostrato? L’esempio dell’etrusco e del toscano è utile, ai fini della linguistica balcanica, per la quale, la presenza dello shwa nelle lingue della penisola balcanica tutt’ora viventi, sia un’eredità del sostrato balcanico, cioè la prosecuzione di uno shwa esistente in illirico, trace, ecc. L’ipotesi di Poviech si basa su un’interessante questione di carattere grafico. Le lingue antiche della penisola balcanica si basano su riscontri di carattere grafico, del tipo: fonti latine-greche documentano diversi nomi di luogo collocati in regioni in cui anticamente si parlavano illirico, dace, trace, macedone. Questi nomi di luogo vengono riportati dalle fonti antiche con qualche differenza di carattere grafico; questo porta alla possibilità di fenomeni di carattere fonetico: Abremus ma anche Ebremus. Una città della Tracia che troviamo scritta come Germisara, in altre fonti la troviamo scritta come Germisera, cioè con un’oscillazione grafica nella stessa posizione tra grafie con A e altre grafie che nello stesso posto di A presentano la lettera E. L’idea di Poviech è la seguente: le fonti che tramandano questi elementi onomastici sono fonti latine o fonti greche. Nel loro sistema fonologico, né il greco né il latino possedevano un fonema vocalico centrale tra A ed E. Il vocalismo del greco e del latino sono sostanzialmente uguali, le vocali sono lunghe o brevi e sono 5. Poviech pensa che: se sia le fonti latine che le greche scrivono qualche volta A e qualche volta E, non è che questa oscillazione grafica corrisponde ad un problema fonetico da parte di chi parlava latino o greco? Ciò che i latini e i greci ci scrivono con A o E altro non è che né A né E, ma è il modo con cui loro cercano di riprodurre, con una lettera, qualcosa che è tra A ed E, loro usano delle vocali (o A o E) a seconda di come il suono gli assomiglia di più poiché non hanno la lettera concreta. Questo è un caso di resa per approssimazione di suoni per un'altra lingua. La grafia A/E oscillante rappresenta il tentativo di rappresentare una “æ” a seconda di come loro la sentono più vicina ad A o più ad E. Quando in una lingua non ci sono suoni arrotondati, un parlante per dire ad esempio la parola francese LUNE (liun) con tratto anteriore e vocale alta arrotondata, usa una vocale che più si avvicina a quella per suono. Oppure si sforza di fare lo stesso suono, ma, se non è capace, deve eliminare dei tratti; perciò, elimina il tratto anteriore e lascia una vocale alta e arrotondata; quindi, anziché farla anteriore (IU) la fa posteriore. Oppure mantiene il tratto arrotondato e alto, ma visto che non sa se usare una vocale anteriore o posteriore, allora usa LJUNE cioè una consonante anteriore, anziché usare I che è vocale anteriore). Stessa cosa, quindi, fanno i parlanti per cercare un suono æ e usano quindi E oppure A che sono quelle più vicine: ipotesi di Poviech. Da qui possiamo aggiungere un elemento a favore di Poviech: le lingue paleo balcaniche non hanno testi in lingua antica ma hanno parole derivanti dal greco e dal latino. In italiano, ad esempio, esiste il nome Federico, ma questo nome non è realmente italiano, è germanico. La stessa cosa Emanuele che è ebraico. Se io trovo un nome macedone X può essere macedone, ma potrebbe essere un nome straniero impiegato da un trace. Peggio ancora è per i nomi di fiumi, laghi, monti, che sono conservativi. Tevere (prima Tiberin) non è un nome italiano, forse è etrusco o di una lingua parlata da qualcuno nel Lazio prima dell’arrivo dei latini. Con le città intervengono anche i fatti di carattere politico; infatti, questi nomi sono più soggetti a cambiamento, meno conservativi. Né macedoni, né daci scrivevano, quindi non avevano tradizione diretta. I traci scrissero solo 4 iscrizioni, in alfabeto greco. Ma io non so mica se le lettere dell’alfabeto che loro usano sono quelle vere del greco. Probabilmente essi hanno potuto cambiare qualcosa. L’illirico, invece, è in una condizione migliore perché, effettivamente, abbiamo un patrimonio di iscrizioni che ammonta quasi a 600/700, scritte in una lingua che parrebbe essere una forma di illirico. Questa lingua è documentata in Italia con iscrizioni che partono dal VI secolo a.C. fino al II secolo a.C. In puglia, principalmente nell’area di Brindisi e Lecce, sono state documentate alcune iscrizioni scritte nella lingua Messapica che, per quello che capiamo, è una lingua che non ha nulla a che vedere col greco, né con il latino (lingua che ha cancellato il messapico e il greco; oggi, infatti, si parlano i dialetti romanzi). E il messapico non ha nulla a che vedere con l’etrusco, con le lingue italiche, o con il gallico. Questa è una lingua difficile. Però noi, del messapico, sappiamo parecchio. Per quanto riguarda la parentela di questa lingua (messapica), alcuni ritengono che sia una lingua di tipo illirico perché esistono delle isoglosse interessanti che la legano con l’albanese. I testi in messapico sono cronologicamente collocati tra il VI e il II secolo a.C. L’albanese, invece, è collocato più o meno nel 1570 d.C. però, esistono delle interessanti isoglosse che li legano; una delle quali è la prosecuzione di una radice comune a gran parte delle lingue europee relative al concetto di “campo coltivato” e il verbo “arare”. Le lingue europee presentano i lessemi agr e ar senza la velare. Per ar c’è solo il messapico e l’albanese, tutte le altre lingue partono da agr per dire campo. In messapico e albanese “campo” si dice: aran/are. Il fatto che solo in queste due lingue c’è la stessa base, le lega e le differenzia dalle altre lingue indoeuropee. La stessa base, la lingua greca la usa, ma non per il nome campo, ma per il verbo “arare” appunto. L’albanese e il messapico appartengono poi allo stesso gruppo, differenziandosi dagli altri. Questi fatti ci fanno riflettere su altri. Per l’albanese sappiamo che: nel territorio dell’Albania erano insediati anticamente degli illiri. Perciò un’ipotesi assai ragionevole è che l’illirico sta all’albanese, come il latino sta alle lingue romanze. Nella puglia del X/XI secolo, si trovano manufatti che troviamo identici in Albania. C’è sempre stata una comunicazione frequentissima tra le due sponde dell’adriatico. Come le merci vengono facilmente trasportate, così è semplice che le persone si spostino da una sponda all’altra, portando così la loro lingua dall’altra parte. Un altro fatto è quello dell’onomastica personale. I nomi di persona girano; però, se prendiamo 100 nomi di persona del messapico, vediamo che nell’albanese sono gli stessi 100. Quindi vi è una parentela generica tra queste due parti. Gli studiosi albanesi, benché un po' fomentati dimostrato dallo studioso romeno Emil Petrovici, il quale pubblicò un libro molto piccolo, di sole 40 pagine, in cui ha dimostrato che in romeno esistono due fonemi vocalici di origine bulgara o comunque slava, i quali fonemi sono lo shwa (ä) e un altro fonema che il romeno scrive con la î o â che corrisponde più o meno al simbolo che, nell’alfabeto fonetico internazionale, i russi scrivono con una I (i maiuscola) velare. Questi due suoni sono diventati attivi nel romeno per via del contatto con il bulgaro. Infatti, non è da trascurarsi la documentazione scritta del romeno che, fino al XVI secolo d.C., è scritta in alfabeto cirillico (la lingua è romena ma scritta con alfabeto cirillico di tipo bulgaro). Questo testimonia il fatto che il romeno è stato fortemente slavizzato nel tempo, cosa tipica che succede alle lingue piccole, poco parlate, che vengono quindi fuse a quelle più diffuse. Il romeno, poiché non era una lingua di prestigio, ha subito un forte influsso dalla lingua slava e, non solo dal punto di vista linguistico. Lo shwa presente nelle lingue balcaniche è un fatto recente, un prestito, un’innovazione. Per le lingue paleo balcaniche lo shwa non è un fatto di sostrato. Fuori, infatti, esistono dei fatti di prestito lessicale che possono essere collegati al sostrato paleo balcanico. Consideriamo, ad esempio, elementi lessicali non di origine latina nel romeno, che hanno una loro corrispondenza nell’albanese. Dagli antichi sappiamo che alcune parole come: Argea che in romeno vuol dire “cantina” presenta la E come un approssimante. Il romeno possiede due approssimanti in più rispetto ad altre lingue: ea-oa. In albanese, la stessa parola Argea, si trascrive come Ragal e vuol dire invece “capanna”. Arg vs Rag c’è un fatto di metatesi (cambio d’ordine). Tra cantina e capanna esistono anche dei collegamenti semantici. Son due luoghi simili. Esistono, e ci sono arrivate, due parole: una macedone e una trace, che stanno alla base delle due parole del romeno “cantina” e dell’albanese “capanna”. La fonte principale che ci fornisce l’80% della documentazione di queste lingue è di Esichio, uno scrittore greco, che componeva lessici, vocabolari, e si chiama Lexikon, un vero e proprio magazzino di parole (anche straniere). Le parole sono scritte secondo questo schema: lemma, glossa (commento o traduzione del lemma), fonte (da dove viene la parola (origine), oppure il nome di un popolo di origine). Ad esempio: garage (lemma), autorimessa oppure garage: luogo in cui si parcheggia la macchina (glossa), Francia (fonte). Esichio ci tramanda quindi queste due parole che, come fonte, hanno rispettivamente Makedones (i macedoni) e Thraikes (i traci). Queste due parole sono Argella e Argilos (arghella, arghilos) e il loro significato è: “cantina” (argella) e “topo” (argilos). Ovviamente, dal punto di vista semantico il topo è diverso rispetto alla cantina. Ma, il termine topo (argilos) è chiamato dai traci con una parola che deriva da cantina, ed era considerato un tabù linguistico, cioè era una parola che non si poteva dire. Questo è un fenomeno linguistico molto diffuso ed è dovuto a interdizione. Nelle nostre culture sono interdetti termini di carattere sociale, tipo: il nome di chi svolge il mestiere dello spazzino; ora spazzino è interdetto e al suo posto si usa “operatore ecologico”. Il tabù linguistico agisce per interdire alcune parole che sembra brutto pronunciare. Si usano parole o giri di parole appunto per girarci intorno e non pronunciarlo. Ciò che è oggetto di interdizione in una cultura può non esserlo in un’altra. Evidentemente i traci interdicevano chiamare il topo con il suo nome perché ne avevano paura. Il topo variava per dimensione. Quindi i traci hanno interdetto il nome del topo designandolo con un appellativo che aveva a che fare con la cantina. Se non posso dire topo lo chiamo come: quello che frequenta la cantina. Perché fa paura il topo? Perché è un animale che porta le malattie. Però non è questo il caso. Loro avevano paura del topo perché mangiava la farina e questa era una minaccia sociale. Essi pensavano che: se devo comunicare a qualcuno che ci sono i topi in cantina, se dico la parola topo, il topo mi capisce, per questo non usavano chiamarli con il nome. Era un caso di parole con vocativo magico: cioè non nomino le cose perché porta male. Il topo se sente “topo” si materializza perché si sente evocato. Questa fobia che avevano i traci per i topi, stava alla base di questa interdizione, ed era molto comune nelle culture antiche. Anche gli slavi lo facevano, ma con l’orso. L’orso è interdetto nelle lingue slave. Orso in russo o polacco è colui che mangia il miele designato come “miele + mangia”. Gli slavi avevano paura dell’orso e infatti non lo nominavano come tale ma come “mangiamiele” perché avevano paura che si mangiasse le provviste. Stessa cosa con il lupo. Esso è molto interdetto nelle lingue per ovvie ragioni. L’interdizione può essere risolta anche foneticamente; quindi, non solo cambiando il nome con un eufemismo o un giro di parole, ma anche con i suoni. Ad esempio: wulkos è wolf in inglese, cioè lupo. In latino Lupus non è foneticamente regolare. Il latino essendo una lingua kentum mantiene le labiovelari e quindi il lupo dovrebbe chiamarsi Luquus invece si dice Lupus. I romani che hanno fatto? Lo hanno cambiato: hanno eliminato p e lo hanno sostituito con q, perché così il lupo se sentiva che il suono era cambiato non arrivava. Anche questo fa parte della concezione magica, del valore evocativo della parola. In Anatolia il lupo è interdetto e viene chiamato, infatti, come lo “sgozza cani”. Nell’albanese, collegato con macedone e trace, allora si tratta di continuità, non è sostrato. Il romeno, che invece è latino, non continua, perciò è sostrato, c’è stato il cambio di lingua. In romeno, e nella gran parte dei dialetti attraverso cui è documentata la lingua romena, esiste una quantità di parole che significano “bianco” o “biondo”. In romeno “bianco” si dice Bâl con shwa, o Bâlás; in albanese si trova la forma Balásh che, in alcuni dialetti albanesi, vuol dire “con una chiazza bianca sul muso”. È evidente che questo aggettivo si usa in ambito pastorale, cioè si riferisce ad alcuni capi di bestiame che si caratterizzano per avere sul proprio mantello (sulla fronte) un’area più chiara (sostanzialmente bianca). È bene ricordare la parola greca Baliós che era uno dei nomi con cui veniva chiamato il cavallo di Achille. Achille era greco ma in una certa misura; apparteneva alla tribù di Mirmidone in Tessaglia, al confine con la Macedonia. Guarda caso, il cavallo di Achille è descritto da Omero come avente una macchia bianca sul muso. Ora, il nome del cavallo di Achille non è un nome greco perché in greco la radice Bal non vuol dire bianco. Quindi il nome è un nome paleo balcanico, la cui radice è proprio Bal. Questo è in albanese una continuità, in greco una parola di sostrato. Bal- è interessante perché non è greco; tuttavia, esiste nel greco il suo corrispondente: cioè Phal. Questa radice si trova, ad esempio, nell’aggettivo greco, Phal-akros che vuol dire “calvo”. Si tratta di una parola composta, il cui secondo elemento equivale alla parola che si trova nel greco: Akra (sommità, vertice). Phal, in questo caso, significa anche “bianco”, “luccicante”. visto un cane per strada. Il cane abbaiava): IL vuol dire quello che ho già detto prima. L’articolo ha una funzione identificativa. Le lingue naturali che hanno l’articolo determinativo non lo posseggono dalla loro nascita, perché esso è sempre un’innovazione; le lingue non nascono con l’articolo determinativo. Alcune lingue lo creano, ma ciò non è un fatto naturale. La maggior parte delle lingue non lo aveva dall’origine. Nessuna lingua slava ha l’articolo determinativo, fatta eccezione per il bulgaro, che è una lingua slava, ma anche balcanica. Quando una particella atona -in questo caso l’articolo- fa parola fonetica unica stando a sinistra rispetto ad un determinato, si dice che è proclitico. Il cane (IL è proclitico). Quando invece sta a destra del determinato si definisce enclitico. Ordet del danese (ET è enclitico). L’articolo determinativo, nelle lingue balcaniche, è enclitico in bulgaro, macedone e romeno. Quando le lingue naturali ritengono opportuno creare un articolo determinativo normalmente il materiale linguistico che utilizzano è di origine determinativa/dimostrativa, cioè lo prendono sempre da aggettivi o pronomi determinativi o dimostrativi. Nelle lingue romanze l’articolo determinativo è sempre ricavato da aggettivi o pronomi dimostrativi/determinativi latini. Lo e La, altro non sono che prosecutori del latino illum-illam in accusativo (quello-quella). L’antenato dell’uomo è ille homo. Altre lingue invece di usare illum-illam usano un altro determinativo latino: Ipsum- Ipsam che, generalmente, nelle lingue romanze serve a formare il pronome personale esso-essa. Nel sardo viene usata, come articolo determinativo, la forma “Su” (ipsum) per il maschile e “Sa” (ipsam) per il femminile. La ragione è connaturata alla natura dell’articolo determinativo. Se esso serve a determinare il nome vuol dire che il suo concetto di base è determinativo/identificativo come Ille e Ipse del latino che significano “Stesso” (ma non Idem), e con significato di “Lui” con valore identificativo. Le lingue balcaniche, ad un certo punto della loro storia, mostrano l’esistenza di un articolo determinativo enclitico (a destra del determinato). La nascita dell’articolo in albanese, bulgaro, macedone, romeno, ha date differenti. Troviamo l’articolo determinativo fin dalle prime documentazioni scritte del XVI secolo in romeno e albanese. Per il bulgaro i più antichi testi, ossia le traduzioni dei vangeli, non presentano l’articolo determinativo. Fra VIII/IX secolo, il bulgaro non aveva l’articolo determinativo. Esso comincia ad essere documentato a partire dal XIV secolo d.C. perciò possiamo dire che questa innovazione condivisa tra bulgaro, romeno e albanese, deve essere nata più o meno nel XIV secolo. d.C. Questo vuol dire che, in tale periodo, queste lingue cominciano a sviluppare l’articolo determinativo che si manifesta nel seguente modo: ad esempio: “lingua” / “la lingua” nella sua forma senza e con articolo. -In albanese Lingua si dice Gɉuhe, la j maiuscoletta con il trattino in mezzo è un’occlusiva palatale. (L’italiano non ha occlusive palatali). Invece, la forma con l’articolo enclitico “La lingua” sarebbe: Lingua + La, cioè: Gɉuh-a. -In romeno Lingua si dice Limbă, mentre La Lingua si dice: Limb-a (senza ă). -In bulgaro Lingua si dice Ezik, mentre La lingua si dice: Ezik-ăt (con ă di shwa). NB. Le lettere dopo il trattino sono gli articoli determinativi enclitici. Tutti partono dai temi del dimostrativo. Il bulgaro che ha -at lo ricava da un pronome dimostrativo delle lingue indoeuropee -Ta (femminile) -To (maschile) che vuol dire “questo”. Il romeno che ha -a lo ricava o da illam (latino) oppure, secondo alcuni studiosi, da Eam (quello/quella). Per l’albanese la -a ha origine ignota. Questa è la descrizione del fenomeno d’origine delle forme degli articoli determinativi e la loro sintassi. È interessante che il romeno ha l’articolo determinativo ma, differentemente dalle lingue romanze da cui pure deriva, lo porta in posizione enclitica. Pur essendo per molti aspetti conservativo, il romeno risente della sua posizione geografica; il romeno (latino della Dacia) ha sofferto del fatto di essere stato separato dal centro di Roma, perché già dal III secolo d.C. la Dacia fu soggetta a molte invasioni da Nord e da Est che tagliarono, per lungo tempo, i contatti tra l’attuale Romania (Dacia) e Roma. Quando una lingua si isola dalle altre del suo gruppo, da un lato mantiene forme conservative, dall’altro trovandosi isolata, continua a cambiare nel tempo, ma non nello stesso modo con cui cambiano le lingue sorelle che non sono state però isolate. Per queste ragioni, il romeno presenta forme che le altre lingue della stessa famiglia non hanno, ad esempio: pesce: piskem-piscem in romeno diventa: peşte (con palatalizzazione). Esito che il romeno prende proviene dalle lingue vicine, probabilmente lo slavo o il greco. Il dalmatico, altra lingua romanza dei Balcani, presenta l’articolo determinativo ma in posizione proclitica, contrariamente al romeno. Ma perché il romeno, l’albanese e il bulgaro che, almeno nelle loro fasi più antiche, non avevano l’articolo determinativo, lo creano e lo mettono in posizione enclitica e non proclitica? Il modello concettuale dell’articolo determinativo è stato il greco. Quando troviamo un balcanismo primario, cerchiamo di identificare quale sia la lingua da cui il balcanismo prende origine. Le principali solitamente sono il greco, il latino e il bulgaro, che influenzano le lingue balcaniche per prestigio religioso e politico. Le lingue che stanno alla base di romeno, albanese e bulgaro che sono latino, illirico e bulgaro antico, non avevano l’articolo determinativo. Nello spazio linguistico dei Balcani l’unica lingua che può aver dato l’articolo determinativo era il greco, che non aveva l’articolo sin dall’origine, ma lo ha creato dal V secolo d.C. Solo che l’articolo determinativo, in greco, era proclitico: “la lingua” si dice: he (cioè La) + glossa (lingua). Se il greco è stato il modello per creare l’articolo determinativo, è anche vero che il greco ha l’articolo a sinistra a differenza delle lingue balcaniche che lo hanno a destra. Ma perché? Il greco era una lingua a noi nota dal 1952. La lingua di Omero è rappresentata da un greco scritto che utilizza un alfabeto. Il concetto dell’alfabeto è uno dei tipi di scrittura delle lingue del mondo e si basa sul concetto per cui io scrivo una lettera e quella lettera corrisponde tipicamente ad un suono. Negli alfabeti delle lingue moderne, per rappresentare un suono, ho bisogno di più lettere. Nella parola “sciame”, per creare il suono SC ho bisogno di S+C a cui aggiungo I, perché se tolgo I ho SCame. Il greco, a partire dalle iscrizioni antiche, aveva invece una sola lettera dell’alfabeto che corrispondeva direttamente ad un suono. Già da Omero, per dire “uomo” si utilizzava: A partire dal III-IV secolo d.C. troviamo una tipologia di testi interessanti: gli ITINERARIA, raccolti dal filologo tedesco Otto Cuntz nella raccolta Itineraria Romana. Gli itineraria sono una sorta di diari dei pellegrini che dall’Europa andavano in Terra Santa. Molti di questi non erano colti e istruiti, facevano parte del piccolo clero, avevano una lingua non curata, piena di ripetizioni, ma proprio perché sono testi scritti da persone poco istruite, ci fanno capire molte cose. Un Itineraria interessante è quello della monaca spagnola Egeria: l’Itinerarium Egeriae, pubblicato e commentato molte volte. Il testo è molto ripetitivo, tuttavia, presenta delle tracce molto interessanti che ci dicono che la monaca proveniva dalla Spagna. Infatti, invece di scrivere Ĕcclesia: cioè chiesa, scrive Iglesia (in spagnolo). La sonorizzazione di CH in GH e il passaggio di Ĕ iniziale ad I nel latino di Spagna era già attivo nel IV secolo d.C. Oltre a singole parole che ci presentano caratteristiche fonetiche del latino di Spagna, ci sono anche delle indicazioni sintattiche interessanti: la struttura SOV era letteraria, ma i testi di lingua bassa avevano la struttura SVO e questa struttura, verosimilmente, era la stessa dell’indoeuropeo, perché le lingue germaniche più antiche che noi abbiamo (ad esempio il gotico del IV secolo d.C.) funzionavano così; anche l’anglosassone è uguale, mentre il tedesco no poiché nella struttura della frase mette il verbo alla fine perché imita il latino letterario. Il modello su cui si sono basate le lingue balcaniche per assumere l’articolo determinativo è il greco, ma la collocazione dell’articolo a destra del determinato (articolo enclitico) non è greco, perché il greco ha l’articolo proclitico (a sinistra); perciò, se dobbiamo trovare il responsabile dello sviluppo dell’articolo a destra, l’ipotesi più ragionevole è che questa collocazione enclitica sia dovuta al modello del latino parlato, del latino volgare, il quale, nei documenti in cui emerge il volgarismo, mostra il posizionamento del dimostrativo Illum/ Illam, Ipsum/ Ipsam, con una collocazione libera (sia a sinistra che a destra del determinato) come nel testo della suora in pellegrinaggio. Il latino dei parlanti bulgaro, macedone, ecc. è un latino volgare della penisola balcanica. I volgarismi che emergono nelle iscrizioni dell’Impero romano sono sempre gli stessi. L’unica cosa che cambia è il livello quantitativo della documentazione, poiché ci sono aree in cui la documentazione è più ampia rispetto ad altre. La maggior parte di questi documenti, però, mostra l’articolo in posizione enclitica, cioè a destra del determinato, mentre in altre regioni dell’impero c’è una prevalenza -soprattutto di illum- a sinistra. Perché il bulgaro ha la collocazione dell’articolo a destra per influsso latino? Forse perché il bulgaro presenta un futuro analogo ad un futuro romanzo, cioè con l’ausiliario avere. Esiste un libro di H. Mihaescu che s’intitola “La langue latine dans le sud-est de l’Europe” (1978), che raccoglie tutte le iscrizioni latine nei Balcani e le analizza. Infatti, una questione interessante è quella che riguarda il modo in cui le lingue balcaniche (greco, bulgaro, macedone, romeno, albanese) formano il futuro: caratteristica comune alle lingue balcaniche che presentano questo balcanismo primario è il fatto di possedere un futuro analitico: cioè fornisce il complesso delle informazioni separate, con il concorso di più elementi separati. Questa è la modalità con cui si forma il futuro nelle lingue balcaniche. Il futuro, come tempo grammaticale nelle lingue naturali, è un tempo che le lingue naturali creano solo in una fase successiva rispetto al loro nascere; come le lingue nascono senza l’articolo determinativo e possono svilupparlo successivamente, allo stesso modo le lingue naturali nascono senza futuro. Di ciò vi sono due prove: la prima attesta che: il futuro può essere sostituito come tempo dal presente; infatti, se io dico vado al cinema uso un presente durativo, se io dico tra un po’ vado al cinema, il presente vado ha valore di futuro perché significa non che vado ora ma che andrò. Quindi spesso il presente può avere valore di futuro. Così come se io dico: domani vado, è presente vado, però con valore futuro. La flessione, nelle lingue flessive, prevede che il verbo mi dia tutte le indicazioni del caso. Se io dico vado con valore di futuro, il verbo non mi sta dando tutte le informazioni. Se io faccio l’associazione di una parola + presente/altro, uso un procedimento che non è tipico delle lingue flessive ma delle lingue isolanti. Nel creolo (lingue di contesto coloniale private della grammatica) di base francese, per dire “io vado a casa” dicono “Mo (che sarebbe il francese moi) alè (francese aller) mezò (francese maison)”. Le lingue creole non conoscono la flessione. Se invece voglio dire, nello stesso creolo “io andrò a casa” dico: “mo va alè mezo” cioè me andare casa. VA è una parola vuota, non vuol dire niente, è un classificatore, aggiunto davanti al verbo per formare il futuro, altrimenti sarebbe identico al presente. Quando noi parliamo di una lingua flessiva, anche l’italiano lo è, parliamo di lingue che presentano più tratti flessivi rispetto agli altri, tuttavia l’italiano, come tutte le lingue romanze, presenta molti tratti agglutinanti. Il francese, che è una lingua flessiva, è obbligato a metter il soggetto, l’italiano no. Quindi ci sono varie differenze, vari tratti isolanti. Quindi il presente può avere il valore di futuro; perciò, è ragionevole che quando cerchiamo futuri nelle lingue antiche o delle fasi costruite, non traviamo morfemi di futuro ma solo di presente. Questo vuol dire che le lingue che hanno sviluppato il futuro lo hanno creato loro, non nasce da qualcosa che esisteva già. Di fatto tutti i futuri che noi conosciamo nelle lingue naturali, sono futuri analitici, cioè composti dal verbo con cui voglio fare il futuro ma preceduti da un ausiliario: quindi verbo nella forma non flessa preceduti da un ausiliario che di partenza ha un suo valore, esprime un concetto che deve avere una qualche attinenza col futuro; infatti, WILL, in inglese, ha il significato che indica volontà (volere) e SHALL ha il significato che indica dovere (dovere). Questi sono ausiliari che rispettivamente corrispondono ad un concetto di intenzionalità (il primo, cioè volere) e di necessità (il secondo, cioè dovere). In effetti, i concetti inerenti ai tipi di ausiliario hanno a che fare con il concetto verbale del futuro: cioè qualcosa di non attuale che deve ancora realizzarsi. Gli ausiliari rappresentano il modo in cui ciò che dovrà avvenire, avverrà, è un’intenzione. Hanno in sé dei nuclei semantici che fanno parte della semantica del verbo futuro. Il latino aveva un futuro sintetico. NB. Esistono sia futuri sintetici sia futuri analitici. Le lingue romanze hanno abbandonato il futuro latino (futuro storicamente sintetico, ma proto storicamente no). “Amabo” del latino era in realtà un futuro analitico, perché la B che significava Bhewa, cioè diventare, è quella che io trovo nel verbo Fio, cioè diventare. Questo succede per il fenomeno della grammaticalizzazione: un elemento che era morfema libero passa a morfema legato (cioè un morfema grammaticale). Il futuro sintetico latino era la grammaticalizzazione, sulla radice del verbo, di una parola che vuol dire essere/diventare. Il futuro latino è uguale al futuro tedesco che si è ghego, difatti il primo libro stampato in albanese (1575) a Venezia (dove stava la casa generalizia dei francescani) è scritto in albanese ghego ed è un messale, scritto da un frate francescano: Gjon Buzuku, che serviva a dire messa. Venezia era il centro linguistico più vicino come lingua all’albanese. Nel 1978 fu redatta un’edizione diplomatica del testo in due volumi: cioè l’edizione di un testo in cui c’è il testo critico e c’è la documentazione fotografica del testo. Questa edizione è stata fatta dall’accademia delle scienze della repubblica popolare dell’Albania, da E. Cabej, un formidabile linguistica che aveva studiato a Vienna e si distingueva da altri linguisti albanesi per la sua moderazione. Egli non cedeva alle lusinghe del governo albanese, non era comunista ma ha governato l’accademia durante il comunismo. Il ghego è l’albanese più illustre; tuttavia, l’albanese che ha preso più piede è quello della varietà tosco meridionale, principalmente per due ragioni: perché effettivamente, dal punto di vista quantitativo, il numero di parlanti tosco è assai maggiore e, secondo, perché il dittatore dell’Albania, E. Hoxha era tosco. Andò al potere in Albania e divenne capo del partito comunista e tutto il comitato centrale dell’Albania era della regione tosca; perciò, la formazione dell’albanese ufficiale ha portato una lingua base sostanzialmente tosca. Il bulgaro presenta, invece, delle peculiarità che le altre lingue non presentano; infatti, forma il futuro in maniera diversa rispetto agli altri balcanismi. In Puglia ci sono state più migrazioni di Albanesi i quali, per scappare dai turchi, si spostarono in Italia. Tutt’ora in Italia persistono isole di albanesi. La stessa Anna Oxa era albanese ed è venuta in Italia. E il suo cognome deriva da Hoxha, ma visto che in Italia la H non era calcolata, il cognome all’anagrafe veniva scritto Oxa. Dopo la guerra fredda, in Albania il “cattolico” era il peggio che si potesse concepire e, inoltre, questi cattolici erano romani (Roma= occidente= satana) e quindi il ghego è stato punito anche per queste ragioni ideologiche-culturali. Nel dialetto settentrionale albanese il futuro è fatto con l’ausiliare avere, mentre il tosco meridionale con volere; pertanto, queste due modalità rispondono effettivamente alle due aree a maggior presenza latina a nord (ghego) e greca a sud (tosco). Il bulgaro, che storicamente si situa a cavallo tra l’influsso latino e greco risente maggiormente dell’influsso greco, infatti, forma il futuro con l’ausiliare Volere; tuttavia, il bulgaro, ha risentito del latino solo nella formazione del futuro negativo, quindi marginalmente. Il contatto con bulgaro, inoltre, ha fatto assumere al romeno il futuro con l’ausiliario volere. Il futuro con avere è romeno in quanto il romeno è romanzo; il futuro con volere è invece balcanico per influsso del bulgaro. Per quanto riguarda il greco, il futuro con volere è di documentazione tarda. Dunque, il greco, a partire dall’epoca medievale comincia a documentare anche in forma scritta un futuro diverso da quello del greco antico. Il greco antico aveva un futuro sintetico: es: il verbo graph-o cioè io scrivo, è un futuro suffissato grap-s-o (scriverò). Il suffisso S di grapso può essere l’esito di una radice con il significato di “essere”, e quindi può derivare dal grado zero del latino del tipo “amabo”, oppure la S non è altro che un suffisso usato per il congiuntivo con valore desiderativo: cioè sarebbe un suffisso modale impiegato dal greco per creare un tempo verbale. Quindi sarebbe un morfema di congiuntivo utilizzato per formare un tempo. Anche in questo caso, dal punto di vista semantico del significato del futuro, il fatto di usare un morfema di congiuntivo per rappresentare il tempo futuro è sensato, in quanto il congiuntivo come modo, confina pericolosamente con il tempo futuro. L’indicativo è un dato di fatto. L’ottativo indica il processo verbale come possibile. L’imperativo è un ordine. Il congiuntivo ha come inerente al proprio modo quello di pensare un processo verbale come relativo a qualcosa che non è attuale (cioè in atto) e io non ho modo di comunicare se il processo verbale avverrà o non avverrà, è l’eventualità assoluta. Non ho la capacità di prevedere l’eventualità della realizzabilità. Il congiuntivo, infatti, rappresenta l’ipotesi assoluta. Io non so cosa succederà. Se io dico: c’è la possibilità che piova è ottativo perché io guardo il meteo e penso che potrebbe piovere, come non. Se dico: c’è l’eventualità che piova, io non mi baso su qualcosa che mi mette in grado di dire se succederà o no. È una cosa che non è predicibile. Il congiuntivo, inerentemente al suo modo, prevede un qualcosa che comunque, qualora si realizzi, è delegato al futuro. E il presente non ha nessun legame con il futuro che avverrà. Infatti, nel periodo ipotetico, il greco dice: SE + congiuntivo nella protasi (uso un modo) e futuro nell’apodosi (un tempo). Il congiuntivo, utilizzato come modo proprio, non in rapporto con altri tempi, ha molto spesso un valore desiderativo, fuori da subordinate. È il caso di costruzioni del tipo: utinam (magari) moriar (congiuntivo di morire): magari io morissi (indica un desiderio). Il fatto di essere desiderativo corrisponde alla modalità con cui io costruisco il futuro con Volere. Il futuro greco sintetico, ad un certo punto, viene sostituito con un futuro analitico: questo a livello documentario avviene senz’altro in modo massiccio a partire dall’XI secolo d.C. Ma come viene fatto il futuro analitico del greco? Le prime documentazioni presentano, se io voglio dire: Scriverò utilizzo Grapso nel greco antico; mentre il greco medievale lo dice diversamente, secondo un futuro analitico che si basa sul concetto: felo hina grafo (leggi così) che letteralmente vuol dire: voglio + congiunzione di carattere volitivo (che vuol dire “affinché” / che) + congiuntivo. Quando il greco ha abbandonato il futuro sintetico, è dovuto ricorrere, per creare il futuro analitico, al verbo ausiliario Volere. Nel tempo poi si è modificato in: fa grafo (leggi). Il tipo di futuro greco con ausiliario Volere è quello usato come modello del bulgaro e dell’albanese tosco. Nel romeno esistono entrambi i futuri (con avere e volere). Perciò i due futuri coesistono. La loro divisione è diatopica (dipende dalla zona in cui si parla il singolo dialetto del romeno), anche in Istria si parla una varietà di dialetto romeno, cioè l’istro-rumeno. Questi erano pastori e vendevano il formaggio a Trieste e i triestini li chiamano i Cici, cioè quando un triestino sentiva parlare nel loro dialetto i contadini, sentivano molti suoni palatali simili a cicicici e da qui il nome. A seconda di dove si parla romeno si può scegliere se usare il tipo di futuro con avere o con volere. L’altra differenza è di tipo diacronico. Il greco usa il tipo di futuro con volere. Ma, in realtà, conosce un tipo di futuro anche con avere: ho da scrivere, non grammaticalizzato. Questa forma era quella prediletta nella lingua scritta e nella lingua letteraria, cioè era una forma colta. Il greco, a partire dal 1700, ha vissuto in una sorta di diglossia tra scritto e parlato (due codici diversi che si scelgono a seconda dei contesti): esisteva un livello di lingua su due lingue piuttosto diverse: il greco della lingua scritta e il greco del parlato. Il primo si chiamava kafarevusa (sottinteso lingua) purificata, cioè una lingua privata degli elementi più colloquiali e purificata lavandola nei panni del greco antico, è come se fosse un italiano ribagnato nell’Arno. La seconda, la lingua parlata, invece, si chiamava vimotikì cioè lingua popolare, che sarebbe l’evoluzione del greco a livello parlato fino ai giorni nostri. Questa diglossia ha avuto luogo fino al 1974 che è l’anno in costruzioni con subordinate esplicite con verbo finito in sostituzione di subordinata implicita, con verbo finito. La data di questa innovazione è il I secolo d.C. quindi una datazione piuttosto alta, già molto presto il greco ha ridotto l’uso dell’infinito. La tradizione proviene dai vangeli. Il greco era la lingua di cultura del sud del mediterraneo e la predicazione degli apostoli fu fatta proprio lì. Nel vangelo di Marco si trova la frase: Mc 7.26: gli chiese di scacciare il demonio. Un episodio che parla di un esorcismo. Tradotto in greco: erota autòn (accusativo) hìna to daimònion ekbàle (congiuntivo): chiese a lui affinché scacciasse il demonio. Il greco, come il latino e l’italiano, poteva benissimo usare l’infinito: gli chiese di scacciare il demonio. Questa è la prima attestazione della tendenza di sostituire l’infinito con valore verbale in frasi subordinate, con frasi di tipo completivo. Man mano che ci si allontana dal greco, infatti, l’irradiazione di questa innovazione tende ad indebolirsi e rende possibile la coesistenza con subordinate che mantengono l’infinito. La terza ragione, che ci fa propendere per attribuire al greco il ruolo di responsabile dell’innovazione, la troviamo in una particolare area del mondo romanzo: cioè in alcuni dialetti neolatini, romanzi, che appartengono al gruppo meridionale estremo, cioè i dialetti del Salento e di parte della Calabria (anche la Sicilia ne fa parte). Queste due aree del dominio linguistico italoromanzo sono state per lungo tempo a contatto con il greco. Nell’Italia meridionale, nelle aree in cui si parla il dialetto meridionale estremo, esistono tutt’ora delle isole linguistiche greche. È stato discusso a lungo di quale tipo sia il greco con cui queste aree sono entrate in contatto, e di che tipo sia la grecità delle colonie grecofone dell’Italia meridionale. Alcuni sostengono che si tratta di un greco magnogreco (cioè dell’epoca delle colonie greche antiche) oppure che sia un greco di tipo bizantino, quindi più recente. Abbiamo sempre a che fare con problemi di testimonianze antiche; può anche essere che ci si stata una continuità tra greco antico e greco recente. Anche il greco delle colonie ha potuto evolvere in una lingua più moderna. Tutte le lingue cambiano. La ragione per cui la perdita dell’infinito è senz’altro greca è che i dialetti romanzi presentano una analoga riduzione dell’infinito. Il fenomeno della contrazione dell’uso dell’infinito ha origine senz’altro dal greco. Il greco, fin dal I secolo d.C., mostra una marcata tendenza dell’infinito su frasi completive subordinate. L’innovazione trova riscontro anche in spazi linguistici fuori dalla penisola balcanica e in alcune parti del Salento e della Calabria. Queste parti sono convissute con isole linguistiche greche. In Salento, per dire: voglio dormire trovo l’espressione: òju ddòrmu (voglio dormo) l’intruso è la doppia d. Il raddoppiamento della consonante iniziale del verbo a destra non è causato da oju (voglio) ma la doppia D è ciò che sopravvive della congiunzione CU che altro non è che il latino quod, cioè la congiunzione che sta alla base delle dichiarative romanze nella forma italiana CHE, francese QUE, spagnolo QUE. Cioè: voglio che dormo, il CU alla fine si riduce al suo elemento consonantico iniziale che si assimila alla consonante successiva. Quindi verbo+ congiunzione+ verbo subordinato. Questa è una forma che nell’italo romanzo non esiste, se il salentino lo ha è perché esso lo ha preso dal greco. In Calabria uguale in alcuni dialetti. La sua divisione linguistica è mista. Casi analoghi sono in provincia di Catanzaro e Reggio Calabria: vogghiu mi dormu in questo caso la congiunzione è mantenuta, il MI è romanzo ed è prosecutore del latino MODO, congiunzione limitativa che vuol dire “purché” (in questo caso è dichiarativa). Voglio purché io dorma è la traduzione letterale. Stessa cosa ma con forma diversa della congiunzione si trova a Catanzaro: vogghiu mu dormu (è la stessa cosa da MODO). Quando parliamo del cambiamento linguistico da una struttura ad un’altra, in realtà, non ne sappiamo la motivazione. Questo vale per tutti gli aspetti della lingua. I dialetti del Salento e della Calabria hanno imitato il modello greco e hanno abbandonato l’infinito. Naturalmente, questa innovazione deve essere stata introdotta da individui bilingui. La ragione dell’innovazione, però, non la si conosce. La perdita dell’infinito come verbo di subordinata, oltre che nelle lingue balcaniche, la troviamo anche nel serbo. Per dire “voglio dormire” si dice: hocu da spavam: voglio che dormo. In croato invece si dice: hocu spavati. Delle due varietà del serbo croato, il primo è più meridionale, il secondo più settentrionale. Quando si presentano dei balcanismi, solo il serbo li accoglie, il croato non lo fa mai, in quanto, il mondo di riferimento del croato è diverso. Il serbo adotta spesso dei modelli dal bulgaro, perciò è possibile che il serbo ha preso la struttura linguistica dal bulgaro. NB. il serbo non è una lingua balcanica, partecipa dei balcanismi primari solo in maniera marginale. Per quanto riguarda la cronologia, come abbiamo visto per l’articolo, la datazione di questo balcanismo deve essere relativamente recente, siamo sempre in epoca medievale, cioè non prima dell’XI secolo d.C. “dammi da bere” cioè fai in modo che io beva, in bulgaro si dice: daj mi da pija cioè “dai a me che io beva”, bere eliminato, congiunzione e, verbo al congiuntivo. In antico bulgaro, cioè nella versione in slavo di Cirillo e Metodio, si diceva: dazdu mi piti: dai a me da bere. Il bulgaro antico manteneva l’infinito (mentre il bulgaro moderno invece lo perde). Questo costrutto si perde dall’XI secolo d.C. Per le altre lingue, ad esempio l’albanese, non lo possiamo dire, perché non abbiamo attestazioni se non dal XVI secolo. Anche il romeno ha documentazione tarda. Con entrambe abbiamo costruzioni di tipo bulgaro moderno, cioè senza infinito. La perdita dell’infinito di subordinata è totale nel bulgaro e nel greco, mentre è parziale nell’albanese e romeno. In queste due lingue, l’infinito, si perde negli enunciati non marcati, quindi in quelli di tipo affermativo. In romeno “voglio dormire” si dice: vreau sa dorm: cioè voglio che dorma. Ma per dire “non posso, non riesco a dormire” in romeno si dice: nu pot dormi / sa dorm: l’enunciato affermativo può mantenersi nell’enunciato negativo. In albanese, come nel romeno, voglio dormire si dice: dua te fle (congiuntivo): voglio che io dorma. Ma anche “non posso dormire”: nuk fle dot (infinito). La frase negativa in bulgaro sembra marcata rispetto alla struttura generale. Un balcanismo primario interessante è quello che bulgaro, macedone, romeno e greco possiedono: cioè il “caso vocativo”. Il caso è la comunicazione della funzione logico- grammaticale di un nome rispetto a tutto ciò che gli sta intorno. Corrisponde grosso modo a ciò che chiamiamo “complementi”. Il vocativo non è propriamente un caso perché gli mancano i requisiti del caso stesso, cioè innanzitutto requisiti di carattere morfologico (la funzione del caso deve essere rappresentata con morfologia diversa per il numero o per il genere e quindi un caso deve avere una sua morfologia al singolare diversa da quella al plurale). Questo problema risulta evidente qualora si vada a vedere come si rappresenta il caso vocativo nelle lingue naturali. Nelle lingue dal punto di vista del genere grammaticale, oltre ai nomi maschili e femminili, il romeno possiede dei nomi di genere neutro. Anche questi (i neutri) in latino hanno il vocativo uguale al nominativo, non lo hanno in -e. Se il romeno fosse stato fedele al latino perché nei nomi femminili in -a non ha fatto come il latino ma si è inventato il morfema -o? Il vocativo del romeno non è altro che il vocativo slavo, del bulgaro. Questo è un altro esempio della forza esercitata dal modello bulgaro in altre lingue. Il romeno si è creato un suo vocativo sul modello del vocativo del bulgaro. Si può parlare, perciò, di conservazione del vocativo per il bulgaro e per il greco ma non per il romeno, perché esso va dietro al bulgaro. Il romeno è una lingua romanza semi slavizzata. Questione di fonetica nelle lingue balcaniche: dal punto di vista fonetico non esiste un TIPO linguistico balcanico. L’unico tratto comune a queste lingue è lo schwa, la cui genesi ha cause differenti, non derivate sicuramente dal greco. Da notare la presenza di una fricativa velare nel romeno, lingua neolatina che ha eliminato tutte le fricative senza proseguirne nessuna. La H non aveva importanza nemmeno in latino, di fatti la sua scomparsa data senz’altro almeno al I secolo d.C. ed è il primo tratto che noi conosciamo. Per dire io ho, trovo scritto “abeo”, non “habeo” forma invece corretta. Il fenomeno della scomparsa della H, anche nel I secolo a.C., è stato registrato come carente soprattutto tra gli scritti di Catullo. Il romeno, come le altre lingue romanze, ha eliminato anch’esso la H; tuttavia, il romeno ha due classi di parole che presentano la H: entrambe le classi sono rappresentate da prestiti: 1 tipologia= parole di uso comune nel romeno per esempio hot che significa ladro, hàina cioè vestito, esiste quindi la h che si pronuncia. Questa tipologia rappresenta dei prestiti dall’ungherese, lingua parlata anche in Romania, in Transilvania e dai dialetti nord romeni (il dato romeno ha assunto alcune parole come prestiti). La 2 tipologia è formata da parole come: hidrogèn idrogeno, hibrìd ibrido, tèhnica tecnica. Sono parole colte di origine remota greca (cioè derivate dal passato). Oggi, invece, queste parole corrispondono rispettivamente a termini del francese perché presentano gli stessi accenti. Il romeno ha avuto nel 600 un forte impulso sassone, a cui segue, nell’illuminismo, un forte influsso francese tramite pensatori come d’Alembert, Diderot ecc. La questione della formazione del futuro, abbiamo visto che risponde ai due modelli greco e latino che prevedono la formazione di futuri analitici utilizzando come ausiliari o il tipo “volere” greco o “avere” latino. Nel greco esistono entrambi i futuri; in realtà, dal punto di vista dialettale, il greco presenta una storia più articolata. Innanzitutto, in alcuni dialetti greci il tipo HO DA, HO AFFINCHE’ che nel greco ufficiale è morto, sopravvive in molti altri dialetti greci. In Corsica, nell’isola di Cargese, si parla un greco importato nel 1600 circa dall’impero turco. Nel greco di Cargese per dire “io darò” si dice in due modi: èxo nà foko; oppure si dice semplicemente nà foko; quindi, è presente il tipo che la Grecia ha eliminato. Questo tipo è più antico, ed essendo giusta la norma dell’area isolata, il fatto di trovare in un’isola della Corsica una cosa del genere, significa che al tempo dell’immigrazione hanno usato il futuro con l’ausiliario avere. Il futuro, però, si può fare anche in un altro modo: èrxome apò te liturgìa: erxome è il verbo “vengo” ed è un presente, apo significa dopo, te è la, liturgia è messa. Vengo dopo la messa. Anche nel greco di Cargese si può usare, quindi, il presente con valore di futuro. Questo uso si trova anche nei tipi di dialetto del Salento, nel tipo Prico: in Salento “tu ‘pa ti èrxome” vuol dire “a lui ho detto che vengo” (cioè che arriverò, che verrò). Pa è il greco di Grecia da Ipa < Eipa. Tu è un dativo: a lui, ma è qui morfologicamente un genitivo. Ti sarebbe il greco antico oti, che è una congiunzione. Infine, il verbo è al presente ma ha valore di futuro. I dialetti greci del Salento hanno qualcosa che corrisponde al FA (futuro di volere). L’ausiliario volere vuol dire volere. Es. te nna grafso in greco salentino vuol dire thèlo hina (che sta alla base del connettore di futuro greco FA. Ma te e nna non vogliono dire scriverò, ma “voglio scrivere” e ovviamente non con l’infinito, perché il greco moderno NON ha l’infinito; esso è sostituito con una completiva. Anche per il romeno c’è una grande produzione soprattutto di dizionari dialettali. Anche nei dialetti Salentini greci, come a Cargese, si può usare il presente con valore di futuro tranquillamente. “sto parafoi taràsso e Luppiu” (dopo pranzo vado a Lecce). Non ho ancora pranzato, visto che c’è il presente (vado), questo vorrà dire andrò, quindi presente con valore di futuro. Dopo pranzo verrò a Lecce. Balcanismo primario che consiste in un fenomeno di sincretismo nei casi tra genitivo e dativo. Il caso, qualunque esso sia, indica la funzione logica di un nome o pronome rispetto a tutto ciò che lo circonda (nomi e verbo). I casi nelle lingue indoeuropee hanno un repertorio quasi fisso. Conosciamo 7 casi funzionali: nominativo (soggetto), accusativo (oggetto diretto), genitivo (indica il tutto rispetto alla parte), dativo (estraneità del nome al processo del verbo), locativo (un punto nel tempo e nello spazio), strumentale (associazione del nome con altro), ablativo (inverso dell’accusativo, cioè direzione inversa; l’accusativo in avanti, l’ablativo in indietro). Salvo il nominativo, tutti gli altri casi rispondono ad una logica di staticità o di movimento. Il nome che si trova in un determinato caso è o statico o dinamico. Il genitivo è tipicamente ciò di cui si specifica una parte, partizione o appartenenza. Il dativo è il caso che indica estraneità del dativo rispetto al processo del verbo. Il complemento di termine in realtà, dal punto di vista dei casi, non è un dativo, ma un accusativo, sia che il verbo sia transitivo, sia che sia intransitivo. “Penso ai miei figli” è un accusativo, non un dativo, perché il pensiero mio va a finire su i miei figli che sono quindi l’oggetto. Il nome, in dativo, sta a guardare ciò che succede al processo del verbo, è estraneo a ciò che attua il processo verbale. Un dativo vero è, invece, quello che noi usiamo quando diciamo ad esempio: per quelli che vanno da Roma ad Albano il mare sta a destra. Quando dico per chi va da-a, io non mi sto soffermando su chi sta andando, ma sul punto di vista di chi sta in dativo. Poi c’è il dativo etico: se io in italiano dico: che cosa mi combini: MI è un dativo del pronome clitico, ma mica vuol dire a me. Non voglio dire cosa tu stai combinando a me. C’è solo una aggiunta, il “mi” ha un valore enfatico, indica una mia partecipazione emotiva. Ogni lingua naturale riassegna, ai singoli casi, determinate funzioni logiche; quindi, l’invenzione del complemento di termine è un passaggio di competenze dall’accusativo al dativo, perché se io dico: io ti parlo, ti è un accusativo, non un dativo. Alcune lingue possono far slittare competenze proprie di un caso in un altro caso. Il locativo è un punto del tempo in uno spazio statico, non dinamico. Ad esempio: è morto in guerra. NB. tempo fermo = locativo, tempo continuato = accusativo. Lo strumentale indica invece l’associazione (complemento di mezzo: sparo con la pistola) lo sparare associa l’oggetto allo strumento con cui compio l’azione. dalle altre lingue romanze che hanno, nel corso del tempo, sviluppato un sistema preposizionale. Caso di soggetto e caso di reggenza. Tutto ciò finisce a partire dal 1400 nel francese. Il romeno ha una sorta di sistema casuale e anch’esso è configurabile come nel francese antico: esiste una morfologia di soggetto e diverse morfologie di soggetto, in particolare per il caso dativo che dal punto di vista logico è anche genitivo. Il dativo genitivo plurale in romeno è -lor. Ad esempio: istoria romani-lor. I morfemi che vengono usati come desinenze altro non sono che l’articolo ille flesso. Il genitivo - lor dei romeni altro non è che un genitivo, cioè il latino illorum (cioè di quelli). Il dativo -lui che funge da dativo e genitivo, altro non è che il dativo del pronome ille (quello) in una forma usata nel latino parlato. Il latino alto, nel dativo singolare, diceva Illi. Ad un certo punto ha preso piede il morfema Lui, questo è stato creato probabilmente per differenziare il dativo Illi da un altro illi che era il nominativo plurale (quelli come soggetto). Illi è diventato poi Lui per differenziarsi da Illi soggetto. Lui è un dativo alternativo formato sul dativo -cui che ancora usiamo (il libro cui faccio riferimento). Il romeno ha una nuova rappresentazione dei casi che crea un caso indiretto usando materiale relativo alla formazione dell’articolo. L’articolo romeno è fatto dal dimostrativo Illum /Illa. Queste forme del caso dell’articolo dopo il nome creano un caso diverso dal soggetto. Il romeno con -lui utilizza quindi morfologia di dativo con funzione anche di genitivo (del vecchio e al vecchio è uguale). Nel romeno l’identificazione del dativo come caso grammaticale in cui confluiscono le funzioni dativo - genitivo è facile, perché esiste una marca flessionale, una desinenza che possiamo ricondurre al dativo. Nell’albanese e nel bulgaro il discorso è un po' diverso perché, a partire dal 1300/1400, il bulgaro ha totalmente perso la flessione sintetica come le lingue romanze. Per rappresentare le funzioni logico grammaticali, il bulgaro fa riferimento alle preposizioni e la forma del nome resta invariata. Come facciamo allora a capire quale caso il bulgaro usa nel momento in cui realizza il sincretismo di genitivo e dativo? Lo capiamo dalla preposizione che usa a livello comparativo. Difatti, lo stesso enunciato: la casa del vecchio, in bulgaro si dice: kasta (casa) ta (articolo enclitico) na (preposizione) starik (vecchio) at (articolo maschile). Disse al vecchio: rece na starik at (starikat vuol dire vecchio in entrambi gli enunciati). Ma, nelle lingue slave, capisco che quello stesso termine è un caso specifico solo dalla preposizione na che solitamente precede il dativo. Na starikat quindi è un dativo che però viene usato anche come genitivo. Nell’albanese: la stessa frase: shtepì (casa) a (articolo) e (preposizione) plak (vecchio) ut (preposizione) Tha e plakut (disse + preposizione+ vecchio: quindi al vecchio: disse al vecchio). Questo balcanismo si arresta e non va oltre le zone più a Nord, perché il serbo ha mantenuto la flessione sintetica e mantiene una morfologia di genitivo diversa dal dativo: cioè: donna= zena e narod= popolo in genitivo diventano zene (della donna); mentre in dativo diventa: zeni. Narod in genitivo= naroda; in dativo= narodu. L’espansione del balcanismo non è andata più a nord di bulgaro e romeno. Per quanto riguarda il pronome Io, al genitivo= “di me”, al dativo= “a me”, se invece voglio usare l’aggettivo corrispondente al pronome dico “mio”. A orecchio “mio” tendenzialmente è vicino a “di me”: è qualcosa di mio. In latino esisteva un comodo costrutto, il dativo di possesso, che indicava la proprietà. Noi per la proprietà usiamo il dativo, in latino si poteva dire “il libro sta a Filippo” con dativo. Filippus librum habet si sostituiva con: liber est+ filipp-o (dativo). In napoletano: mio figlio: iss è figl a me; è figl ro mio: quindi “mio” e “a me” sono uguali in questo caso. È fuorviante, per quanto riguarda l’origine di balcanismi primari, un’unica origine. Esistono forze concorrenti che servono un balcanismo primario. Per le altre lingue, a parte il greco, la documentazione è molto più tarda. La lingua che ha la documentazione più antica è il bulgaro. In Cirillo e Metodio, genitivo e dativo, sono distinti morfologicamente ed esistono quindi entrambi. Nel romeno il dativo si mangia il genitivo sin dai primi tempi; stessa cosa per l’albanese che, dal 1585, presenta il dativo anche con funzione di genitivo. Che cosa evince da questo? È possibile che l’impulso alla fusione dei casi sia effettivamente partita dal greco, ma ciò lo possiamo dire unicamente perché: 1) il greco si manifesta prima; 2) perché la fusione di genitivo e dativo che vediamo nel greco del I secolo a.C. la vediamo nelle altre lingue balcaniche con lo stesso fenomeno. Questo fenomeno, dal punto di vista della realizzazione, è una strada diversa dal greco. Quindi le due cose sono diverse e ci dice che il sincretismo genitivo – dativo, mantenendo il genitivo, lo ha solo il greco moderno. Il fenomeno che invece troviamo in bulgaro, latino e romeno è chiaramente, come dimostrano questi giri sintattici, del latino e del romanzo meridionale, in quanto essi mostrano che la scelta del dativo è un modello latino e non greco. Questo è ciò che possiamo capire dalla testimonianza dei fenomeni. Il bulgaro, probabilmente, è stata la lingua che ha dato inizio al processo d’uso del dativo anche per il genitivo, e poi, di conseguenza, sia romeno, sia albanese hanno fatto la stessa cosa perché il bulgaro, rispetto a queste altre lingue, ha maggiore forza e diffusione. È diverso dal greco anche per il tipo di articolo. Quindi bisogna ragionare sia sulla distribuzione areale del fenomeno sia sulla distribuzione diacronica. Mentre per la distribuzione genealogica è un po' diverso; infatti, questo, è l’ultimo dei punti di vista su cui bisogna ragionare perché ci da indicazioni un po' fini a sé stesse. La numerazione locativale è un altro balcanismo primario che riguarda: romeno, bulgaro, macedone, albanese e ungherese. Se l’ungherese fa come le altre lingue, è l’unico balcanismo primario che condivide qualcosa con le altre lingue balcaniche. Questo balcanismo primario riguarda la struttura di formazione dei nomi di numero da 11 a 19 (compreso). Il campo semantico e lessicale dei numerali è interessante, dal punto di vista della teoria del linguaggio, per capire quali sono i meccanismi della formazione dei nomi di numero. Esistono due libri fondamentali al riguardo: uno è quello del linguista ceco (di Praga), Blazek, e s’intitola “numerals “e parla di numerali nelle lingue del mondo; l’altro è un libro curato dalla studiosa croata Tatiana Gvozdanovic e s’intitola “indoeuropean numerals”. cosa. Quindi l’obiezione per cui trovare prima 10 e poi 2 non può essere isolata e non può essere sostanziata perché l’ungherese non è una lingua indoeuropea, è una lingua urofinnica, per cui funziona così. Questo è un balcanismo e l’ordine inverso è dovuto a strutture sintattiche diverse dalle altre lingue europee. Comparativo analitico di maggioranza. (sono più alto di te) Il comparativo di maggioranza può essere rappresentato in modo sintetico o analitico. Il discorso del comparativo è sempre legato anche al “come” viene rappresentato il superlativo. Ad esempio: più alto è analitico. Altissimo è un superlativo sintetico. In italiano il comparativo è solo analitico. Le lingue romanze per il comparativo hanno solo il comparativo analitico, a parte qualche eccezione. Per dire “alto” il latino diceva altum. Il comparativo di maggioranza era sintetico: RADICE DELL’AGGETTIVO + IOR dall’antico ios (altior). Il superlativo era sintetico: altissimus. Questo è l’uso del latino alto. In teoria, nel latino parlato, compaiono presto delle forme analitiche del tipo: admodum altum (estremamente alto) e questo è l’antenato concettuale del superlativo analitico romanzo, che poi prosegue nelle forme tipo “molto alto”. Il punto di divergenza delle lingue romanze è che tranne per pochissimi aggettivi, il comparativo è di tipo analitico. Gli unici comparativi sintetici che rimangono, non però in tutte le lingue romanze, sono quelli di: pargus (piccolo); minor (più piccolo). Il comparativo di maggioranza di magnus è maior. Il comparativo sintetico latino è stato eliminato ed è stato sostituito da un comparativo analitico: pertanto altior è stato sostituito o dal tipo “plus altus” o dal tipo “magis altus”. Questi sono i due tipi che troviamo nelle lingue romanze alternati. Il primo tipo lo troviamo ad esempio in francese, il secondo ad esempio nello spagnolo e nel romeno. Tra i tipi plus altus e magis altus il più antico è il secondo. Perché? La prima ragione è documentaria: perché troviamo prima magis e dopo molto tempo plus. La seconda ragione è la distribuzione geografica, giacché le norme areali di Bartoli ci dicono che troviamo “mas” a occidente e “mai” ad oriente (nelle aree laterali). Nelle aree centrali troviamo “più e plus”. Questa configurazione ci dice che mas è più antico degli altri. Poi nelle aree centrali arriva plus e vince ma non riesce ad arrivare in Dacia e non riesce quindi a soppiantare magis ormai diventato norma delle aree laterali. Il comparativo è un ulteriore balcanismo. Le classiche tre lingue balcaniche: bulgaro, romeno e albanese hanno il comparativo e i superlativi analitici. Anche il greco moderno e il turco funzionano allo stesso modo; “più bello” = comparativo di maggioranza; “bellissimo” = superlativo assoluto. Il bulgaro dice: po dobar (più bello); naj dobar (bellissimo). L’albanese dice: me bukur (più bello); shume bukur (bellissimo). Il romeno dice: mai bun, dal latino magis bonus (più bello); cel mai bun (bellissimo). Il superlativo relativo è come se fosse concepito come un superlativo assoluto: cel sarebbe quello/il (come se fosse il più bello). Il greco dice: “piò kalòs (più bello); e poi il superlativo è come il romeno: ho piò kalòs (bellissimo): superlativo relativo usato come assoluto. L’ungherese non partecipa di questo balcanismo, ma vi partecipa, invece, il turco che dice: “dahà guzel” (più bello); il comparativo è analitico cioè si usa un avverbio. Per il superlativo: “en guzel” cioè bellissimo. Da dove saltano fuori questi modi di fare comparativo e superlativo in maniera analitica? Slavo non può essere perché il russo o il serbo croato hanno il superlativo sintetico come il polacco, non analitico. Serbo dice: “ljep” il più bello, ljep-se con suffisso (però attaccato). Il superlativo invece è fatto con un prefisso “pri-ljep” (bellissimo). Togliendo romeno e albanese, che non sono promotori di balcanismi, restano il greco e il latino. Il greco per il comparativo usa l’avverbio “piò”, che dal punto di vista etimologico è il latino “plus”. Se il greco, per l’avverbio “più” ha preso in prestito un termine latino trasformando il comparativo sintetico in analitico, non è lui. Perché presenta questo comparativo a partire dal IX secolo d.C. Il greco antico aveva il comparativo sintetico, non analitico. Sintetico vuol dire che alla base aggiungo dei suffissi. Visto che il greco, però, è sospettato di essere diffusore di balcanismi, Sanfeld è convinto che comparativo e superlativo analitici siano stati veicolati dal greco; in realtà il greco è abbastanza precoce nel fare tante altre cose ma, questo comparativo analitico, nel greco, appare solo dal IX secolo. In latino il comparativo analitico è molto più antico, infatti compare già in Plauto (inizio II secolo a.C.). Anche qui il ruolo del latino come veicolo di balcanismi è stato sottovalutato. È proprio questo il modello a cui ha fatto riferimento il greco e che poi si è diffuso in altre lingue. Il latino ha funto da propagatore di balcanismi. L’ungherese non fa il comparativo analitico, bensì sintetico come le altre lingue slave. Dice: jòbb (più bello); legjobb (bellissimo). L’ungherese è una lingua agglutinante, cioè che incolla i pezzi ma non flette, aggiunge. Il grado positivo “bello” (jò) fa al comparativo jo+bb (più bello), al superlativo leg + jo+ bb (jo inizale + bb comparativo + leg superlativo). Quindi l’innovazione è di modello latino e la latinità non ha preso l’area serba, ungherese, romena (la parte settentrionale no). Le strade romane arrivavano verso la Grecia, la Bulgaria e l’Albania. Il tipo analitico, in queste lingue, è diventato prevalente. È possibile la coesistenza di modelli di comparativo e superlativo diversi. A seconda del livello di lingua abbiamo due comportamenti diversi: nella lingua alta/scritta è norma sia il comparativo che il superlativo sintetico: altus-altior- altissimus. A livello di lingua bassa, invece, abbiamo forme di comparativo e superlativo analitico: magis altus - admodum altus. Nel cambiamento delle lingue, per il superlativo, si sono create possibilità di lingua diverse partendo da uno stesso modello. Nel caso in cui esistano due livelli di lingua, l’evoluzione diacronica consiste solo nel passaggio dal livello del parlato a ciò che diventerà dopo. I livelli di lingua, nel cambiamento del tempo, hanno un punto di contatto in cui i livelli si sovrappongono. Il parlato, ad un certo punto, si sovrappone allo scritto. Questo dipende dai rapporti di lingua tra i parlanti diversi. Ciò che è considerato basso, ad un certo punto, può diventare lingua alta. Le lingue si ibridano, ciò che appartiene ad un livello può passare ad un livello sovrastante o sottostante e dove possono coesistere esiti che risalgono a due livelli di lingua diversi. Ulteriore balcanismo è: l’utilizzo del pronome personale con funzione di possessivo, cioè il modo di concepire gli aggettivi possessivi come “di me” o “a me” anziché mio, tuo, suo. Alcune lingue hanno il genitivo morfologico, altre solo il dativo morfologico con funzione pure di genitivo. Probabilmente l’albanese non c’entra niente con il romeno. Formica in greco antico si dice: murmeks. L’albanese ha bubrets. Certo non sono proprio uguali, ma anche perché il primo è greco, il secondo albanese. Può essere che la forma albanese sia un prestito dal greco. Come spiegare la fonetica di albanese rispetto al romeno: la cosa più evidente è l’accento, la presenza di “b” inesistente nella prima parola e ricorrente nella seconda. La fonetica storica è anche un altro aspetto rilevante. Il primo fenomeno che dobbiamo prevedere è quello relativo alla sequenza: rm la quale, in albanese, è soggetta spesso a metatesi; per cui in albanese la sequenza diventerebbe mr. La forma: murmeks con metatesi diventerebbe mumreks. Quando c’è questa metatesi si crea una sequenza nasale vibrante che può risultare anche particolarmente scomoda. Essa può essere risolta in modo semplice, cioè con una epentesi vocalica (o anaptissi). Se la sequenza “mr” deve essere resa pronunciabile inserendo una consonante, bisogna usare una consonante precisa, non una a caso. La consonante da usare è la “B”. Questo è un processo universale, non arbitrario, obbligatorio. Difatti le consonanti epentetiche che si inseriscono fra nasale e vibrante sono sempre mBr (b) se c’è m; nDr (d) se c’è n. M e R sono sonore; quindi, la B va bene perché è sonora anch’essa. N è alveolare e quindi D va bene perché è pure alveolare. Qui succede esattamente la stessa cosa: caso n.1: parola romanza dal latino: marmore(m), il marmo. In francese “marmo” si dice marbre. Marmŏrem: la ŏ cade per sincope: diventa marmre, creandosi però in questo modo una sequenza fastidiosa per l’orecchio romanzo. Perciò MR diventa MBR: marmbre. Ma purtroppo la sequenza di quattro consonanti in una parola non è tollerabile, bisogna ridurle a tre: maRMBRe che diventa marbre, cade la M al centro. Questa è una cosa regolare. Stessa cosa con il termine latino: teneru che diventa tenru e quindi tendru. In francese è tendre (moderno: tedre) simile anche all’inglese che è quasi romanzo. Questa non è una prerogativa del francese, ma è un fatto generale. Anche in greco funziona. Nel greco omerico, composito dal punto di vista dialettale, per dire l’aggettivo passivo di morire (mortale, che può morire) si dice: bro-tòs (mortale). La radice mor è una radice apofonica. Che può essere anche mer/mr (al grado zero). Nel greco eolico mrtos diventerà mro-tos. L’esito della sonante europea provoca la sequenza mro, che è uguale da marmorem a marmrem. Essendo questa una sequenza che nelle lingue europee non va bene, bisogna fare l’epentesi consonantica. La consonante scelta per questo processo è B come in francese. Perciò si avrà: mbro-tos. Il greco, una volta fatta l’epentesi, ha la sequenza MBR. Ma questa, ad inizio parola non va bene, perciò si toglie la M iniziale e diventa bro-tos (parola iniziale del greco omerico). Questa spiegazione del processo la avvaloriamo ad esempio anche con la parola “immortale”. Mortale: bro-tos, Immortale: àmbrotos. Si usa un prefisso (“a” in questo caso). In questo caso la sequenza mbr può rimanere perché non è ad inizio parola, ma è in posizione interna poiché preceduto dal prefisso iniziale “a”. Mumbreks, per assimilazione, diventa bumbreks. Ora è la M centrale che da fastidio. Perciò bisogna verificare se la sequenza mbr possa diventare br con eliminazione della nasale m. Questa caduta in albanese succede. Nell’albanese di Grecia, nelle isole chiamate Arvamitikà, io trovo: giorno che si dice embri ma nei dialetti albanesi della Grecia si dice ebri che presenta la cancellazione di M come nel caso precedente. Questa caduta davanti a BR si verifica sempre, è frequente. Quindi mumbreks diventa bumbreks. La questione che rimane è quella dell’accento. In albanese la sequenza ks diventa ts infatti si ha bubrets. Ma l’accento in albanese è sulla sillaba finale. Non c’è nessuna ragione in ambito fonetico che una parola parossitona (accento sulla penultima) diventi ossitona. Tuttavia, in questo caso lo spostamento dell’accento è dovuto all’analogia con altri nomi di insetti terminanti in -èts e che presentano tutti l’accento sull’ultima sillaba. Per quanto riguarda il genere: il greco murmeks è femminile. Mentre bubtrets è maschile. Anche in questo caso fa gioco la classe di appartenenza della parola, cioè: i nomi degli insetti, in albanese, sono tutti maschili. Anche la formica, che è femminile, passa al genere maschile. In ambito semantico il greco “murmeks” vuol dire formica; in albanese “bubtrets” vuol dire formica ma anche scarafaggio, cioè una stessa parola vale per due animali diversi dal punto di vista strutturale, visivo e dal punto di vista della classe biologica, zoologica di appartenenza. Lo scarafaggio è un insetto, la formica no. Il chiamare un insetto con il nome di un altro insetto o chiamare un insetto in generale con il nome di un insetto specifico si può fare. Fly, infatti, vuol dire mosca ma è anche un qualsiasi insetto che vola. Tuttavia, va sempre considerato che romeno e albanese sono due lingue diverse tra loro; sono uguali solo dal punto di vista areale. E hanno una documentazione tarda. Perciò lavorare su questo ambito lessicale è difficile. La somiglianza attuale non è detto che corrisponda ad una genesi univoca. Per quando riguarda il prima delle singole lingue balcaniche, abbiamo detto per l’albanese che è piuttosto verosimile che si tratti di una prosecuzione diretta di una qualche tradizione linguistica antica (preromanza o preslava della penisola balcanica). Può essere una prosecuzione del trace, dell’illirico, e così via. Il problema fondamentale ha due aspetti: il primo è il fatto che queste lingue hanno una documentazione scritta molto limitata o addirittura inesistente. Il secondo riguarda invece la distanza cronologica che esiste tra la scarsa documentazione di queste lingue e l’albanese. Passano da un minimo di XVII secoli a un massimo di XXI secoli che, nel divenire di una lingua, costituiscono uno spazio molto grande. Tuttavia, esiste una abbondante documentazione epigrafica di una lingua che sembrerebbe avere dei rapporti con la facies linguistica della penisola balcanica preslava e preromanza; si tratta della lingua messapica. Tale lingua è documentata da alcune centinaia di iscrizioni scritte utilizzando un alfabeto greco, come le lingue dell’Italia antica, che hanno una estensione cronologica che va dal V secolo a.C. al I secolo a.C. quando la documentazione si interrompe. Anche le zone più ristrette geograficamente di tali territori sono interessanti (parliamo del territorio che corrisponde grosso modo all’attuale Puglia, dalla Daunia in provincia di Foggia, fino al Salento). La lingua è abbastanza uniforme e la documentazione potrebbe ancora essere arricchita, in quanto, è stato scoperto, circa 30 anni fa, un sito archeologico importante in Salento che è costituito da un santuario che ora si chiama Grotta della poesia, che doveva essere un tempio di culto antico cristiano, ora sommerso, invaso dall’acqua per ragioni geologiche. È un sito importante perché presenta iscrizioni in lingue diverse che percorrono la storia di quel luogo e delle varie popolazioni che hanno percorso quel luogo. Prima che il sale corrodesse le iscrizioni, alcune di queste, sono state lette da identificare dei significati grammaticali e lessicali. Questo è un metodo che funziona bene per le lingue isolate, cioè delle lingue di cui non disponiamo dell’elemento comparativo. Per quanto riguarda il messapico, oltre a questo tipo di iscrizioni, disponiamo di 2/3 iscrizioni più lunghe, che appartengono alla tipologia di 4) iscrizioni di carattere ufficiale, cioè testi redatti in occasione di eventi di cui la comunità doveva avere conoscenza pubblica (tutti dovevano sapere che si era verificato qualcosa di carattere comune). La più lunga di queste iscrizioni è composta da circa 35 parole ed è un’iscrizione proveniente dalla località salentina di Vaste. A noi è nota tramite quello che si chiama Apografo, cioè è un’iscrizione che è stata copiata e pubblicata più volte da diversi copiatori (in alfabeto greco). L’originale è perduto, abbiamo solo le copie settecentesche. Si tratta di un atto di donazione di un terreno da parte di una signora ad una comunità. Recita: klohi zis ɵotoria Marta pido vastei Basta veinan aran. Queste sono le prime due righe. Klohi zis è una formula di vocazione ad una divinità, cioè nei testi di natura ufficiale, nel mondo antico si era soliti iniziare il testo con una invocazione ad una divinità. Anche nei testi letterari succede in realtà. Questo serviva a porre sotto la tutela di un dio la legittimità dell’atto che poi si descrive. L’invocazione è fatta, probabilmente, alla divinità somma del pantheon messapico: zis che, forse, corrisponde alla divinità greca Zeus (ad orecchio), il dio celeste. Quindi questo dovrebbe essere un vocativo: Oh Giove! Klohi è invece un imperativo. Quindi un verbo alla 2 persona singolare (se ovviamente è corretta l’interpretazione). Questo verbo dovrebbe provenire dalla radice klĕw che vuol dire “ascoltare, udire”. Si tratta di una parola comune a tutte le lingue indoeuropee. In greco klé(w)-os vuol dire “fama”, la fama è ciò di cui si sente dire. Si trova nel latino ínclŭtus, che vuol dire “celebre” e nel sanscrito che vuol dire “ascoltare”. Se la radice di provenienza di klohi è klĕw, la consonante inziale doveva essere una velare palatalizzata, perché se fosse stata una velare C avremmo dovuto avere anche in sanscrito C. Se il messapico presenta Klo vuol dire che ha monottongato il dittongo eu in o come il sanscrito; visto che il messapico ha K ciò vuol dire che il messapico appartiene al gruppo kentum dell’indoeuropeo, diverso dal sanscrito (lingua satem). Se il messapico (che deriva dall’illirico) è una lingua kentum come può essere l’antenato dell’albanese che invece è una lingua satem? Klohi: hi sarebbe la desinenza della seconda persona singolare di un imperativo aoristo che proverrebbe da un morfema sĭ. In sanscrito troviamo il corrispondente nella forma śrōsi che mantiene il morfema si dell’imperativo seconda singolare. Per giustificare questo collegamento dobbiamo formulare una regola cioè: almeno in posizione intervocalica, in messapico, una s intervocalica diventi una h fricativa velare, perché se no non possono corrispondere. Per far si che questo accada, dobbiamo prevedere, però, un passaggio naturale, cioè far si che sia qualcosa che le lingue del mondo (e possibilmente due lingue appartenenti alla stessa famiglia) accolgano. Questo passaggio è ben documentato nelle lingue indoeuropee, giacché, per esempio, nel greco antico la parola che vuol dire “razza, stirpe” cioè génos al nominativo, al genitivo diventa génes con l’apofonia + il morfema os del singolare. La forma genesos è una forma di * asterisco perché nel greco storico troviamo géneos perché la S, tra vocali, deve avere svolto il percorso da s ad h e da h a ø (zero). Siamo autorizzati a questo passaggio da s ad h? sì perché ad esempio, fumum (latino) nello spagnolo antico faceva humo, mentre nello spagnolo moderno si arriva a umo (la h è caduta). Quindi la trafila è naturale, può succedere. Così il messapico. Ritornando all’iscrizione continua così: ɵotoria Marta, che è la proprietaria che dona il terreno alla comunità di Vaste, pido è il verbo, vastei basta è un dativo, veinan aran è un accusativo, al che ho un’altra informazione: dal punto di vista della struttura sintattica, il messapico, è SVO, come nelle lingue romanze. Il nome ɵotor-ia si trova nella forma Taotor e in altre forme, più volte in messapico, e centinaia di volte nella penisola balcanica, è un nome illirico. Pido che è il verbo, secondo Pisani, dovrebbe essere un passato a-tematico (radice + desinenza). Il verbo dovrebbe essere il verbo “dare” che indica il dare qualcosa a qualcuno, quindi la direzione verso qualcuno. Visto che il verbo ha un soggetto, va accordato alla terza persona singolare. Il morfema di accordo alla terza persona singolare è T, ma qui purtroppo non c’è, dovrebbe essere pidot. Quindi che si fa? L’ipotesi fonetica è che in messapico la -t finale cade ø. Ma in realtà non è proprio così, perché in messapico esiste qualche -t in finale di parola, come ad esempio in: Dazet (nome di persona). È vero, però, che la -t finale di parola la trovo solo due volte in nomi di persona; quindi, è possibile che sia solo nell’onomastica personale. È possibile che i verbi con la doppia valenza, cioè che hanno l’oggetto in dativo, in messapico si comportano come le lingue romanze. Dire e dare hanno come argomento (cioè come elementi legati dalla valenza al singolo verbo) tre cose necessarie che devo mettere insieme (infatti sono verbi trivalenti). Infatti, dire implica che ci sia qualcuno che dice (soggetto), qualcosa che si dice (oggetto) e qualcun altro a cui la cosa si dice (destinatario). Stessa cosa per “dare”: io (1) do qualcosa (2) a qualcuno (3). Il verbo pido del messapico è anch’esso trivalente perché c’è il soggetto (ɵotoria Marta), l’oggetto (veinan aran) e il destinatario (vastei basta). Quindi, visto il contorno morfologico di questo verbo, cioè quello che noi riconosciamo morfologicamente come dativo e quello che riconosciamo come accusativo, possiamo avvalorare il fatto che pido è un verbo di dare. Per quanto riguarda l’oggetto: veinan aran: aran vuol dire “campo”. In indoeuropeo noi possediamo i prosecutori di -ar, ma anche quelli di -agr per tutto ciò che ha a che fare con il campo come nome e quello che si fa nel campo come verbo (cioè arare). Di solito noi troviamo nelle lingue indoeuropee le due radici, che forse sono la stessa radice, -ar rappresenta il verbo legato al campo (arare) cioè solcare il campo. -agr invece rappresenta la base per creare il nome indicante il “campo”. Normalmente l’opposizione delle due radici sono quelle configurate dal latino ager (campo) vs arare (arare), quindi nome vs verbo. In sanscrito campo si dice ájras, in greco si dice agrós, in gotico si dice akrs, in latino si dice ager, e tutte vengono da agr. Ar è per il verbo. Il messapico, che ha invece aran presenta la radice che indica il verbo arare come nome, perché Marta dona alla città di vaste il suo campo, quindi è un sostantivo. L’unica lingua indoeuropea, oltre al messapico, che ha il nome per il verbo, è l’albanese; campo, infatti, si dice are (con shwa alla fine) e la radice è ar. Questa è una prima, interessante, isoglossa che collega il messapico all’albanese. Veinan aran: aran è il campo, accusativo. Veinan è aggettivo in accordo con il nome. Veinan dovrebbe essere il possessivo proveniente dalla radice indoeuropea che vuol dire “proprio/suo”, radice proveniente dal pronome riflessivo sé, presente in tutte le non si flette, il nome dell’appellativo geografico si (vastei). Per la prima della due possibilità (Basta=dativo singolare), bisogna inventarsi che il morfema di dativo indoeuropeo in -ai diventi in messapico -a, cioè si verifichi un fenomeno di monottongazione. Bisognerebbe cercare di verificare se “Basta” segue la regola del nome della città che segue il nome generico, e se è possibile che -ai si sia spostato in - a. L’iscrizione continua così: Vasti staboos sohedonas dastas-si vaanetaos. Quindi la signora dona il suo campo alla città di Vaste. Poi c’è Vas-ti: di cui “ti” è il morfema di strumentale che vuol dire “con”. La parola parte dalla radice wad, che vuol dire garanzia. “Garante” in latino si dice vas, genitivo vad-is. Wad si assimila e passa a S davanti alla dentale t (spirantizzazione): vasti. Quindi: diede il suo campo alla città di Vaste con la garanzia e poi seguono una serie di nomi di persona, tutti in genitivo (nomi dei garanti di questa garanzia). Staboos cioè: nome proprio + cognome (stabo + os). Il “si” di dastas-si è una congiunzione come “que” e significa “e”. Quindi la donna fa la donazione con la garanzia di questo signore e di quello, nella daranzoa, organo in cui si svolge la donazione. Questo nome è uguale a Gerusìa, cioè il senato del mondo latino. Se è giusta l’indicazione della daranzoa, in alternanza a deranzoa, ci da indicazione sul messapico: cioè se daranzoa è uguale a gerusia, allora il messapico è una lingua satem. Il sanscrito ci dice, inoltre, che pure Jarant e g’erant in messapico hanno una velare palatalizzata. Sanscrito e messapico sono lingue satem. È possibile riscontrare isoglosse tra messapico e albanese? Sì, questa è una di quelle. G’ews radice indoeuropea che vuol dire assaggiare, gustare, in latino fa gustus, in albanese il preterito (passato remoto) del verbo che significa assaggiare è dash. L’iscrizione continua: in-“f”i (con fricativa dentale sorda in -i che è uguale a dastas-si) trigonosoa. Ha fatto la donazione nella deranzoa e anche nella trigonosoa (che è un altro luogo, infatti è sempre locativo). La congiunzione “E” compare nella forma “kwe”. Trigonosoa che luogo è? Kwe è uguale a fi (con fricativa dentale sorda). “E” in latino diventa que. Nelle lingue satem, le labiovelari si fondono pure con le velari; quindi, da kwe, in lingua satem io dovrei avere tipo: ke. Per quanto riguarda il vocalismo, questa è una congiunzione clitica costituita da due suoni e, i clitici sono parole deboli, si usurano facilmente; perciò, possono cambiare la loro configurazione semplicemente. L’alternanza e-i è molto presente. Il problema è spiegare come mai ho una fricativa dentale al posto della velare. In messapico è successa una cosa simile al sanscrito. In questa, dalla congiunzione attesa que si trova “ça”. In sanscrito rispetto ad e-a-o indoeuropee esiste solo la vocale “A”. La velare dovrebbe conservarsi, tuttavia il sanscrito palatalizza le velari quando sono seguite da vocali anteriori come fanno le lingue romanze. Kwe proto-sanscrito: ke palatalizzazione di k davanti ad e, quindi: tse (ce) e poi la “e” diventa “A”. Ca. Nel messapico deve essere successa una cosa analoga: kwe-ke/i-“f”i (fi che significa ci). Il tipico segno di palatalizzazione è la fricativa dentale. Trigonosoa: che cos’è? Che funzione aveva questo istituto? L’ipotesi più sensata, che ci riporta all’albanese, è che si tratti di qualcosa simile al “mercato”; difatti, in albanese, mercato si dice trege come in paleoslavo trugu. Sarebbe un’altra isoglossa che mette insieme messapico e albanese. Seguono poi una serie di nomi in genitivo e una serie di istituzioni di difficile interpretazione. Nella trigonosoa la garanzia è di un signore interessante. Il tizio si chiama stabos sohetihi dazimaihi beilihi cioè con la garanzia di staboos sohetihi (che è un genitivo con morfema di ī, la h non è fonetica, è un indicatore di iato). Il genitivo del messapico è uguale alla ī del latino). Beilihi è figlio di uno che si chiama dazimaihi (che è un nominativo). Questo nome potrebbe essere un’ulteriore prova del carattere satem del messapico, giacché viene ipotizzato che altro non è che il corrispondete etimologico del latino “dekimus” cioè decimo, che era una modalità di indicazione onomastica in cui chi si chiamava decimo era il decimo figlio. Se dekimus è uguale a dazimas e, decimo in indoeuropeo si dice dek’m, abbiamo una fricativa velare che diventa non velare in dazimas. Tutto questo dipende dall’etimologia. Questo è il problema di quando abbiamo pezzi di lingua legati a contesti scrittori come le iscrizioni brevi sepolcrali. Quello che abbiamo visto nello spazio linguistico balcanico è qualcosa che si può osservare sotto diverse ottiche: nello spazio linguistico, come sempre, c’è un prima e un dopo. Il prima può avere avuto delle implicazioni con il dopo. Abbiamo visto, inoltre che, per quanto riguarda la vocale centrale dello shwa, l’illirico non c’entra niente, può centrare solo se l’albanese diventa sostitutore dell’illirico. Anche l’articolo posposto non è tracciato nei testi messapici, così come il dimostrativo. Per questo bisogna ricorrere ad altre lingue (che lo hanno) come promotori di balcanismo in epoca più recente. La difficoltà di identificare balcanismi relativi alle lingue di sostrato è, inoltre, dovuta alla cronologia dei balcanismi primari, i quali si manifestano dopo il 1000. Sono, rispetto ad una loro eventuale identificazione come fonte, posteriori di quasi un millennio e più. Come abbiamo visto, i fatti di sostrato se sono veramente tali, non aspettano mille anni per emergere. Un esempio è la gorgia toscana. Quindi i balcanismi primari sono relativamente recenti e bisogna ricorrere a lingue di prestigio come il greco e il latino per trattarli. Anche la divisione areale dei balcanismi ci può spiegare quali sono stati i confini di azione dei balcanismi attribuibili a ciascuna di queste tre lingue. È inoltre ragionevole pensare che la funzione del latino sia stata piuttosto sottovalutata, giacché non si possono spiegare, diversamente dal latino, l’ausiliario “avere” per la formazione di futuri analitici e la posizione enclitica dell’articolo determinativo, di chiara impronta latina. Quindi è un quadro che rispecchia quelli che sono i problemi che si pongono quando si parla di divisione areale. Bisogna sempre tenere contro delle date e dei luoghi. Ogni protagonista può aver irradiato fenomeni con un ruolo inquadrabile solo storicamente.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved