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Marazzini 2 manuale, Sintesi del corso di Storia della lingua italiana

manuale di storia della lingua italiana

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016
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Caricato il 27/09/2016

veronica.francomacaro
veronica.francomacaro 🇮🇹

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Scarica Marazzini 2 manuale e più Sintesi del corso in PDF di Storia della lingua italiana solo su Docsity! La lingua italiana 1. L'ITALIANO. L’Italiano appartiene alla famiglia linguistica indoeuropea (prima per numero di parlanti,all’interno della quale rientrano lingue d’Europa e alcune lingue dell’Asia meridionale, affini per una serie di corrispondenze spiegabili solo con una comune origine). Nel Cinquecento molte indoeuropee arrivarono in altri continenti con le conquiste coloniali (inglese, francese, spagnolo, portoghese). In Europa ci sono tre grandi gruppi linguistici: romanzo, slavo e germanico. Le lingue romanze (neolatine, parlate da 640 milioni di persone) sono figlie del latino e sono italiano (con i suoi dialetti), portoghese, spagnolo, catalano, francese, provenzale, rumeno. L’italiano è parlato nella Repubblica Italiana (lingua ufficiale), nello Stato Vaticano (latino lingua ufficiale), nella Repubblica di San Marino, in alcuni Cantoni della Svizzera e in alcune piccole aree di Croazia e Slovenia (italofoni risalenti all’antico dominio veneziano in Istria e sulla costa dalmata). Si parla italiano o almeno si comprende nel Nizzardo e nel Principato di Monaco, nelle ex colonie italiane e nell’ex protettorato di Rodi. Ci sono poi comunità di emigrati italiani in tutto il mondo (grande flusso migratorio dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni Sessanta del Novecento, anche se quasi tutti parlavano dialetto e pochi italiano). Oggi Anche il turismo e la televisione (in Albania e a Malta per esempio di), collaborano alla diffusione dell’italiano. All’interno dei confini politici italiani troviamo anche minoranze linguistiche ossia i gruppi alloglotti si formano delle penisole di alloglotti quando aree linguistiche più grandi, confinanti si estendono anche nel nostro territorio nazionale (tedescofoni in Alto Adige, francofoni in Valle d’Aosta). Si usa invece la denominazione di Isole linguistiche per definire: comunità di alloglotti molto piccole e isolate. La presenza di questi alloglotti ha dato luogo a discussioni sull’opportunità di interventi destinati a proteggere la cultura di queste comunità. Le modalità, però, con cui questo si è realizzato lasciano perplessi tutelano appieno solo alcune minoranze presenti nel nostro territorio. Molti alloglotti parlano lingue del gruppo romanzo: provenzale in Piemonte, franco-provenzale (status di lingua ufficiale) in Val d’Aosta, il ladino (vera e propria lingua) nel Trentino-Alto Adige, friulano in Friuli e in Svizzera (romancio), sardo (vera e propria lingua) in Sardegna. I gruppi alloglotti non romanzi in Italia sono i tedeschi (Valle dell’Adige e Sud Tirolo, questa minoranza etnica ha uno statuto speciale che interessa la zona autonoma di Bolzano, il tedesco viene qui insegnato a scuola come prima lingua mentre l’italiano ha la valenza di seconda lingua ), greci (Salento, Calabria eredità della Magna Grecia), albanesi (da immigrati, tra Campobasso e Foggia, Pescara, Taranto, Potenza, Calabria, Sicilia XV sec per sfuggire ai turchi), slavi (Udine, Gorizia, Trieste, Molise). Ai giorni nostri assistiamo ad una nuova ondata di immigrati nel XX sec dall’Albania, dai paesi poveri del Terzo Mondo e dall’Europa dell’Est nuovi gruppi etnolinguistici (oltre 4 milioni di persone)oltre che al Flusso tradizionale e antico degli zingari. L’Italia è la nazione europea più ricca e differenziata per varietà linguistica. Per secoli l’italiano è stato solo lingua letteraria, mentre la lingua parlata restava il dialetto locale. In origine l’italiano, ovvero il toscano letterario, era uno dei tanti dialetti. Non si può stabilire una differenza assoluta tra Lingua e dialetto poiché i due concetti acquistano valore solo nel confronto reciproco e infatti la lingua è un dialetto che per cause storiche e abitudini culturali e sociali ha raggiunto uno status superiore. Ha una diffusione maggiore rispetto al dialetto (area ristretta, prestigio minore, simbolo d’identità locali), unifica un territorio più ampio, è simbolo d’identità nazionale, è insegnata a scuola ed è codificata da norme grammaticali. In Italia si distinguono tre aree dialettali, settentrionale, centrale e meridionale, separate da due grandi linee di confine: 1. linea La Spezia- Rimini (vera frontiera linguistica e storica barriera geografica dell’Appennino tosco- emiliano). I fenomeni linguistici che caratterizzano le Parlate dialettali a nord di questa linea sono: sonorizzazione delle occlusive sorde in posizione intervocalica (t e k d e g - p b v), scempiamento delle consonanti geminate ( doppie), caduta delle vocali finali (tranne la a), contrazione di sillabe atone (tlar per telaio). Con eccezione del veneto che conserva la vocale finale tranne dopo r o n. 2. Tratti tipici del toscano (area centrale) sono: sostituzione della prima persona plurale indicativo presente con il si + 3ps( noi si mangia al posto di noi mangiamo), gorgia (eredità etrusca, spirantizzazione delle occ sorde intervocaliche per es: amiho per amico). 3. linea Roma - Ancona. Tratti del romanesco sono: suffissi in -aro, desinenze -amo, -emo, -imo in 1pp dell'indicativo presente. Area meridionale: sonorizzazione delle consonanti sorde in posizione postnasale, metafonesi di e e o toniche per influsso di i e u finali, uso di tenere al posto di avere, possessivo enclitico. È sempre forte la variabilità dei dialetti che mutano anche all’interno di una stessa regione o città; oggi bassa percentuale d’italiani parlanti esclusivamente dialetto. Prima descrizione sistematica e scientifica dei dialetti italiani Ascoli, 1885. Isoglossa: linea che delimita il confine di un dato fenomeno linguistico nello spazio geografico. La letteratura dialettale oggi fa parte della letteratura nazionale pur distinguendosi in due tipi: spontanea( quando l’autore sceglie il dialetto perché è sua lingua naturale), riflessa( l’autore sceglie di usare il dialetto per diverse ragioni). Date queste premesse possiamo parlare di spontanea fino al cinquecento, quando il toscano trecentesco ha il privilegio di diventare lingua letteraria sovra regionale. Italiani regionali varietà diatopica dell'italiano, sono il risultato storico dell'incontro tra dialetti e lingua nazionale (il termine regionale però solo in parte corrisponde ai confini politici regionali). La caratterizzazione più immediata si ha a livello di pronuncia e di prosodia. Le principali varietà di italiano regionale sono la settentrionale, la toscana, la romana, la meridionale e la sarda. Poiché Roma è la capitale politica e dello spettacolo, la sua varietà linguistica è risultata estremamente ricettiva, accogliendo molti elementi estranei e mostrano la tendenza a smunicipalizzarsi ma ha anche influenzato le altre parti della penisola attraverso la radio, il cinema e la televisione. Sono entrate nel dizionario italiano parole come “abbioccarsi, burino, caciara,spopolare, intrallazzo, frocio. Ricco è il caso di geosinonimi, parole che designano la stessa cosa con nomi diversi nelle varie zone della penisola e queste rientrano soprattutto nel campo dei cibi, negli utensili della casa e nei nomi riguardanti frutta e verdura. Questi geosinonimi si affiancano ormai da anni tanto che ormai solo in situazioni particolari sono di reale impaccio nella comunicazione del parlante, ogni parlante ha ormai nel proprio repertorio più parole per designare lo stesso concetto. Italiano popolare viene definito in due modi: 1)parlata degli incolti (o semicolti) di aspirazione sopradialettale e unitaria (questa categoria si è formata dagli anni 70). 2)È il tipo d’italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto. Il popolo postunitario era arrivato ad utilizzare una modesta lingua italiana, piena di elementi dialettali e di errori, influenzata da vari modelli alti come gli inni dei partiti politici o il linguaggio delle preghiere. Le ricerche condotte in realtà hanno avuto come oggetto quasi solo testi scritti come lettere, cartoline e diari e mostrano come la capacità di leggere e scrivere non fosse del tutto assente nei ceti bassi. • Testi in italiano popolare: 1) “il libretto dei conti di Maddalena è un codicetto di 144 carte in cui sono segnate le registrazioni dei debiti e crediti relativi all’attività della bottega della donna. Esse rappresentano un raro esempio di scrittura popolare antica. Nel primo dei due es notiamo che lo scrivente ha utilizzato un modello di scrittura burocratica o epistolare con un colorito dialettale nella parte finale. Il secondo scrivente è invece meno colto. 2)” lettera di un emigrato politico”molte testimonianze di italiano popolare si ricavano da lettere familiari scritte da emigranti o soldati lontani da casa o dai loro parenti. In questa troviamo grafie diverse dalla norma, anomalie morfologiche, tracce del parlato e tratti dialettali; tutti elementi caratteristici dell’italiano popolare. Nella lettera la punteggiatura è limitata quasi al punto fermo ma queste anomalie non devono essere interpretate solo come errori ma come sforzo di avvicinarsi alla lingua italiana. Italiano standard è una lingua italiana corretta e regolata, di tipo neutro e codificato in base a principi riconosciuti, a cui è attribuito prestigio da parte della comunità. È diffuso a livello scritto (è la lingua insegnata a scuola, descritta nelle grammatiche e nella saggistica), mentre per quanto riguarda la pronuncia non ne esiste una davvero standard. Il toscano è la parlata regionale che più si avvicina alla lingua letteraria, che deriva dal toscano trecentesco, ma toscano e italiano non sono la stessa cosa. All’interno dell'italiano standard (ufficiale e astratto) non vi è comunque assoluta omogeneità (elementi di sub standard, informali, regionali, parlati anche dai parlanti colti). Francesco Sabatini ha elaborato la categoria di “italiano dell'uso medio” italiano oggi comunemente parlato anche dalle persone colte nelle situazioni di media formalità, che accoglie anche fenomeni colloquiali (italiano neostandard). 2. Gli strumenti della disciplina: la storia della lingua italiana è una disciplina giovane; la prima cattedra universitaria fu istituita nella facoltà di lettere di Firenze nel 1937. 1. DAL LATINO ALL’ITALIANO L’italiano deriva dal latino, ma non dal classico degli scrittori, ma dal latino volgare, che però non è una lingua omogenea, ma un’astrazione utile per designare il latino parlato in luoghi e epoche differenti. In sostanza lo consideriamo l’equivalente del latino plebeo repubblicano e del latino spontaneo imperiale. Anche il latino aveva diversi livelli linguistici: già le fonti classiche distinguono tra lingua letteraria e vari sermo dei soldati, dei rustici, degli abitanti delle provincie. Il concetto di latino volgare mescola quindi una componente sociolinguistica sincronica (i livelli d’uso diversi in una medesima epoca) e una componente diacronica (i mutamenti avvenuti nel corso del tempo). Del resto il latino, in quanto lingua viva, non è rimasto sempre uguale e non aveva unità linguistica assoluta: risentì di fenomeni di differenziazione geografica e sociolinguistica, era esposto a tensioni e influenze, soprattutto nei territori di frontiera, e a variabilità sociale (dato che la lingua dei colti non era mai uguale a quella degli incolti). Uno dei mezzi per ricostruire gli elementi del latino volgare all’origine degli sviluppi romanzi è la comparizione tra lingue neolatine. Il latino volgare conteneva parole presenti nel latino scritto, ma altri termini furono innovazioni del latino parlato, non attestate nello scritto. In altri casi ancora si ebbe un cambiamento nel significato della parola latina letteraria, la quale assunse un senso diverso nel latino volgare. Ex: Testa(m) = vaso di terracotta, poi sostituì Caput Testa(m) in un primo tempo significato ironico, scherzoso (Zucca, Capa...), poi la sfumatura ironica sparì e il termine assunse il significato nuovo. Ex: fuoco da focus = focolare domestico ignis = fuoco. Esiste anche una serie di testi di alcuni autori classici che può darci informazioni riguardo alle caratteristiche del latino parlato di livello popolare. Alcuni autori classici hanno scritto a volte in maniera meno formale (trattati di agricoltura, cucina, medicina, veterinaria). Anche i testi teatrali contengono elementi di parlato (Plauto); importante è il Satyricon di Petronio (in esso coesistono forme come Pulcher, destinato a svanire, e Formosus e Bellus, all’origine delle forme romanze). Molto interessante per la conoscenza del latino quotidiano sono anche le scritture occasionali (graffiti, scritte murali fatte da gente comune come quelle che si trovano sulle pareti delle case di Pompei). Tra i documenti del latino volgare ha particolare importanza l’ Appendix Probi, collocata nel V o VI secolo d.C., è una lista di 227 parole o forme o grafie non corrispondenti alla buona norma, tramandate da un codice scritto a Bobbio intorno al 700 d.C. in esso un maestro di quell’epoca raccolse le forme errate in uso presso i suoi allievi, affiancandole alle corrette ( secondo il modello “A non B”, speculum non speclum, oculus non oclus). L’Appendix Probi è l’occasione per riflettere su una serie di tendenze aberranti rispetto alla norma classica, che tuttavia in alcuni casi contenevano gli sviluppi della successiva evoluzione verso la lingua nuova. L’errore è una deviazione rispetto alla norma, ma nell’errore possono manifestarsi tendenze innovative importanti; quando l’errore si generalizza, l’infrazione diventa norma per tutti i parlanti. Per spiegare tali fenomeni gli studiosi ricorrono al termine di“Sostrato” cioè l’ azione esercitata dalla lingua vinta su quella dei vincitori (ex: il latino si impose su parlate preesistenti, come etrusco, osco-umbro, etc., che però influenzarono il suo apprendimento). Un altro problema discusso nella formazione dell’italiano è stato quello del “Superstrato”, ossia dell’influenza esercitata da lingue che si sovrapposero al latino, al tempo delle invasioni barbariche (goto, longobardo, franco) e dall’”Adstrato” , l’ azione esercitata da una lingua confinante. 2. NASCE UNA LINGUA La Caduta dell’Impero Romano d’Occidente risale al 476 e fu preceduta e seguita da una serie di invasioni. A seguito dell’Invasione Ostrogoti di Teodorico: 489 circa 70 termini gotici entrati nell’italiano (nastro, melma, astio). Con l’Invasione Longobardi del 568 oltre 200 parole longobarde entrate nell’italiano (stinco, guancia, panca e la stessa denominazione di Lombardia). A questi seguì l’Invasione dei Franchi: VIII secolo che ebbe un carattere diverso per la presenza di nobili con i fedeli, un’ élite che si insediò ai vertici del potere civile e militare e che quindi portarono termini relativi a organizzazione politica e sociale (termini come conte, dama, sire, barone). La Genesi della lingua è un fenomeno lungo e complesso e nel caso del passaggio dal latino alle lingue romanze la trasformazione durò secoli e il latino mantenne per molto tempo il dominio della cultura e della scrittura. Vi fu quindi un Lungo tempo durante il quale il latino volgare esistette nell’uso, ossia nel parlato ma non per scrivere; per questo si usava il latino medievale (diverso dal classico). Poi l’esistenza del volgare si fece sentire, in maniera indiretta, proprio nel latino medievale, che lascia trapelare volgarismi (a seconda del livello di cultura dello scrivente). 3. I PIU’ ANTICHI DOCUMENTI Si pone intanto un primo problema riguardo agli scrittori: essi volevano scrivere in italiano o in latino? Si consideri il Primo documento della lingua francese: Giuramenti di Strasburgo 842, quando Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo giurarono alleanza contro il fratello Lotario, ognuno nella lingua dell’altro (tedesco e gallo-romanzo, ossia francese). C’è in questo caso un’esplicita volontà dell’uso del volgare legata ad una situazione pubblica e ufficiale. Per quanto riguarda l’italiano c’è una differenza e un’analogia nell’ “atto di nascita” della lingua italiana; anche esso è una formula connessa ad un giuramento ma non si lega ad un evento storico di rilievo, nasce infatti da una piccola controversia giudiziaria. 1. Questo documento è il Placito capuano 960 il quale mostra chiara e cosciente separazione tra volgare e latino usati per scopi differenti, inoltre ha una datazione precisa a differenza di quanto accade nei graffiti. Esso è un Verbale notarile su pergamena relativo a una causa discussa davanti al giudice Arechisi. I contendenti di questa causa erano l’abate del monastero di Montecassino e Rodelgrimo di ‘Aquino; il secondo rivendicava il possesso di certi terreni di cui faceva uso il monastero ormai da 30 anni e l’abate, proprio per questo motivo, in accordo con la legge longobarda, pensava che non potessero essere più rivendicati. Vinse l’abate ma durante la redazione del verbale, che come di consueto avvenne in latino, furono lasciate formule testimoniali del volgare (nel riportare i discorsi diretti, ossia le parole citate dai testimoni). Quella del placito capuano Non è una formula isolata: esiste infatti una serie di Placiti campani, altre tre carte notarili analoghe del 963. Notai: più frequente occasione di scrivere e transcodificare la lingua quotidiana alla formalizzazione giuridica in latino, quindi tra i primi a lasciare spazio al nuovo volgare. 2. Indovinello veronese un codice scritto in Spagna all’inizio dell’VIII secolo reca sul margine superiore di un foglio due note in corsivo: la prima in forma volgare mentre la seconda in latino. Non si riesce ad essere certi se lo scrivente usasse un latino scorretto o volutamente abbandonasse il latino corretto, adottando forme popolari. Poiché il testo parlava di buoi e aratura si pensò che questi fossero versi di un’antica cantilena di un bifolco ma più tardi, su suggerimento di una giovane studentessa, ci si ricordò che esisteva ancora nelle campagne un indovinello popolare che alludeva all’atto dello scrivere (bianca è la pag, nero l’inchiostro, la penna è come un aratro e le dita sono simili ai buoi che muovono l’aratro. se la stessa mano ha scritto entrambe le postille si potrebbe pensare a un uso cosciente di due diverse lingue. Però non è provato che la mano sia la medesima e proprio per le opinioni controverse in merito, e l’impossibilità di fare luce sulla questione, non può essere considerato come il primo testo della cultura italiana. 3. Iscrizione della catacomba romana di Comodilla il graffito sul muro non porta alcuna indicazione cronologica ma per vari motivi si pensa risalga a un periodo tra VII e IX secolo, anche qui in epoca anteriore al placito capuano. sembra conservare un aspetto latineggiante, ma rivela la registrazione del parlato con il raddoppiamento fonosintattico “a BBoce”(a voce). Si pensa oggi che la seconda B sia stata aggiunta solo più tardi nello spazio rimasto, anche se non ne sappiamo il motivo. Forse l’autore dell’incisione si accorse che la scrittura non rendeva appieno il dettato orale e allora inserì la seconda b. 4. Affresco della basilica sotterranea di San Clemente, Roma anche qui la datazione oscilla fra il 1084 e il 1128 e il dipinto narra la storia miracolosa di un patrizio romano che ordina ai suoi servitori di catturare Clemente ma questi, quando provano a farlo, si trascinano dietro una pesante colonna. anche qui troviamo un’iscrizione di natura murale collocata in un affresco in cui le espressioni in latino e in volgare sono state dipinte accanto ai personaggi rappresentati per identificarli e mostrare il loro ruolo nella storia narrata. Il pittore ha aggiunto una serie di parole con funzione didascalica (o frasi pronunciate dai personaggi), il latino è usato per le parti più elevate (intenzione del committente, giudizio morale sull’accaduto) e il volgare nelle didascalie con espressionismo plebeo di voci e azioni dei personaggi. Postilla amiatina (aggiunta alla fine del documento di donazione di beni di due coniugi a un’abazia; si riferirebbe a fatti precedenti ignoti quindi è di difficile interpretazione, forse “Egli (Iddio) lo aiuti dal Maligno che gli mise in corpo il cattivo consiglio”), Carta osimana, Carta fabrianese, Carta picena, Testimonianze di Travale, Dichiarazione di Paxia e documenti della Sardegna. Filone religioso: Formula di confessione umbra, Sermoni subalpini (una delle prime raccolte di prediche in lingue neolatine). Carta pisana (elenco di spese navali). 4. I PRIMI TESTI LETTERARI Un Vero sviluppo della letteratura italiana si ebbe nel XIII secolo con la Scuola siciliana alla corte di Federico II. Non mancarono però in precedenza documenti di carattere poetico o in versi in forma frammentaria e occasionale: ad esempio nell’ Indovinello Veronese si riscontra la presenza di rime . A partire dalla seconda metà del XII secolo troviamo (in forma di ritmo, componimento in versi) il Ritmo Bellunese che esalta la vittoria delle milizie di Belluno. Troviamo poi anche il Contrasto tra un giullare che parla provenzale e una donna genovese e il “discorso plurilingue”, in cui compaiono 5 idiomi diversi tra cui l’italiano (di Vaquerais, trovatore provenzale). Alla Fine del XII secolo troviamo il Ritmo laurenziano, Ritmo cassinese e Ritmo su Sant’Alessio. Versi italiani con intento letterario nel XIII secolo è la Carta ravennate, la quale contiene versi d’amore precedenti alla poesia dei siciliani. ( il primo testo è una canzone di decasillabi e testo di cinque endecasillabi): incipit coerente con i modelli di poesia provenzale con “Quando…” e tema delle catene d’amore (sembra siano composizioni settentrionali). IL DUECENTO Documenti: Prime raccolte poetiche (Canzoniere Vaticano latino 3793, Laurenziano Rediano 9, Palatino 418 ora Banco Rari 217) e problema linguistico siciliano – Guido Faba, Gemma purpurea e Parlamenta et epistole – Il Novellino. 1. IL LINGUAGGIO POETICO DAI PROVENZALI AI POETI SICILIANI La Prima scuola poetica italiana di cui si abbiano notizie certe si colloca all’inizio del XIII secolo, nell’ambiente colto e raffinato della Magna curia di Federico II di Svevia, e viene detta “Scuola siciliana”(siamo quindi lontani ogni esperienza popolare e vicini a un potere altissimo, quello dell’imperatore. Altre due letterature romanze si erano già affermate: quella francese in lingua d’oil e quella provenzale in lingua d’oc, questa seconda riscosse particolare successo (poiché era la lingua della poesia, incentrata sulla tematica dell’amore, espresso in forme raffinate e stilizzate, intellettualizzato). Vi sono poeti italiani che scrivono essi stessi in provinciale, ma i poeti siciliani imitarono la poesia provenzale, sostituendo la lingua forestiera con il volgare italiano siciliano. Alcuni dei poeti “siciliani” non sono siciliani: ciò dimostra che la scelta del siciliano fu dotata di valore formale e il volgare della poesia siciliana è altamente formalizzato, raffinato. Grazie all’influenza della lingua d’oc, la nuova poesia nacque già matura; in essa entrano in gran numero termini provenzali, come le forme in agio (coragio) e anza (amanza, speranza…). Il corpus della poesia delle nostre origini è stato trasmesso da codici medievali scritti da copisti toscani, ma nel Medioevo copiare non era operazione neutrale: i copisti intervennero sulla forma linguistica con una vera e propria opera di traduzione e la forma toscanizzante fu presa per originale, già da Dante (la sconfitta degli Svevi e l’avvento degli Angioini portò con sé la distruzione fisica dei manoscritti di origine siciliana e così restarono solo quelli dei copisti toscani). Per conoscere la fisionomia originale della poesia siciliana bisogna rifarsi a Barbieri, studioso del Cinquecento della lingua provenzale, aveva conosciuto un codice (Libro siciliano) contenente alcuni testi poetici siciliani che si presentavano in forma diversa da quella comunemente nota, dove la sicilianità è vistosa (vocali finali –u e –i al posto delle –o ed –e toscane). Vi è traccia della sostituzione dei tratti siciliani con quelli toscani anche nelle rime imperfette presenti nelle versioni toscanizzanti. 2. DOCUMENTI POETICI CENTRO-SETTENTRIONALI Con la morte di Federico II (1250) e la fine della dinastia Sveva, venne meno la poesia siciliana. La sua eredità passò in Toscana e a Bologna, con i cosiddetti poeti siculo-toscani e gli stilnovisti. Prima di andare oltre in questa direzione occorre analizzare altri generi come quelli appartenenti alla Poesia religiosa: Cantico di frate sole di san Francesco è un monumento di poesia; scritto in volgare con elementi umbri (1223-34) la tradizione delle laudi religiose ebbe grande sviluppo dal 200 al 400 (i testi venivano usati come preghiere cantate). A causa della loro origine centrale, prevalenza umbra, ben presto circolarono in veste toscanizzata con funzione di diffusione di moduli centrali in area settentrionale; ex. Jacopone da Todi). Nel Duecento, in Italia settentrionale fiorì una letteratura moraleggiante in volgare diversa da quella della corte di Federico II (tra gli autori ricordiamo Giacomino da Verona). La lingua è fortemente settentrionale, non essendo ancora in nessun modo presente l’imitazione dei modelli letterari toscani. L’area toscana in cui si ebbe la prima notevole espansione dell’uso del volgare scritto è quella occidentale, fra Pisa e Lucca dove s sviluppò la poesia siculo - toscana. Firenze si affermò solo tra il 1260 e il 1280, dove vi erano diversi rimatori, il cui stile rifletteva quello dei poeti siciliani ( ciò vale anche per la forma metrica del sonetto, inventato da Giacomo da Lentini). In essi si ritrovano molti gallicismi e sicilianismi, alcuni dei quali passarono agli stilnovisti, a Dante e a Petrarca, per poi diffondersi stabilmente nella tradizione della poesia lirica. In sostanza in Toscana si stava immettendo nella lingua locale tutta la tradizione lirica disponibile, attingendo oltralpe e alla Sicilia (lingua letteraria già matura). 2. VARIETA’ LINGUISTICA DELLA “COMMEDIA” Bruno Migliorini ha definito il Dante della Commedia “padre” del nostro idioma nazionale. Tullio de Mauro sostiene che quando Dante cominciò a scrivere la “Commedia”, il vocabolario fondamentale dell’italiano era già costituito al 60%; il poema di Dante fece proprio questo patrimonio e lo trasmise, tanto che alla fine del ‘300 il vocabolario fondamentale era completo al 90%. Come fece ad incrementarlo? Innanzitutto per la grande presenza di latinismi di provenienza diversa: letteratura classica, Sacre Scritture, filosofia tomistica e scienza medievale. Pare d’obbligo citare il canto VI del Paradiso con lungo discorso di Giustiniano: molti termini sono qui costruiti con l’ausilio della lingua classica (ex: Cirro Negletto = capigliatura arruffata nome Cincinnato; il verbo labi, modulo poeticamente illustre, ripreso da Orazio, Ovidio e Virgilio; cenit = zenit, ricavato dall’arabo). Il plurilinguismo (mistilinguismo) di Dante si esplica anche nella disponibilità ad accogliere elementi di provenienza disparata (anche termini forestieri e plebei, oltre che latinismi, parole toscane e non): questa varietà nelle scelte lessicali deriva da una varietà del tono poiché nel viaggio ultraterreno di Dante si passa dal livello basso e dal turpiloquio (il cul che fa trombetta), al livello più alto, al sublime teologico. La Commedia, però, nel suo complesso, si presenta come opera fiorentina, che sembra contraddire le tesi del De vulgari eloquentia. Dante si sente libero di evitare i tratti morfologici del fiorentino del suo tempo, quando ragioni di gusto personale lo richiedono. Si può parlare di polimorfia della lingua: ciò produsse a sua volta una tendenza alla polimorfia nella lingua italiana su modello della Commedia. 3. IL LINGUAGGIO LIRICO DI PETRARCA La caratteristica dominante del Linguaggio poetico di Petrarca è la selettività, che porta l’autore ad escludere molte parole usate da Dante nella Commedia, inadatte al genere lirico. La parte dell’opera petrarchesca scritta in volgare è estremamente ridotta rispetto a quella latina; il Canzoniere (titolo in latino Rerum Volgarium Fragmenta) è una sorta di elegante divertimento dell’autore. Il volgare non è la lingua “naturale”: la lingua naturale dell’uomo colto è il latino (con cui Petrarca postilla le poesie volgari annotando brevi autogiudizi), normale strumento per la comunicazione culturale e per la riflessione. Nella Sintassi notiamo un ampio uso di una dispositio che muta l’ordine regolare delle parole, anticipando il determinante rispetto al determinato o anticipando l’infinitiva rispetto alla principale (alla latina). Ricorrono chiasmi, antitesi, enjambements, anafore, allitterazioni, binomi di aggettivi (“Solo e pensoso”), spesso di significato analogo (“Tardi e lenti”). Petrarca scrive in maniera unita sualuce, almio, delbel, laprima, belliocchi; manca l’apostrofo (introdotto solo all’inizio del ‘500), il sistema di interpunzione si riduce a pochi elementi e sono presenti latinismi grafici (“h” etimologiche in huomo, humano e honore, “x”, extremi, nessi –tj, gratia) e segni di abbreviazione. 4. LA PROSA DI BOCCACCIO L’importanza del Decameron per la prosa italiana è accentuata dal fatto che la prosa trecentesca non era ancora stabilizzata in una tradizione salda. Nelle novelle di Boccaccio ricorrono situazioni narrative variate, in contesti sociali diversi. Tutte le classi si muovono sulla scena, in quadri geografici e ambienti molto differenti. Lo scrittore non ha rinunciato, nella sua ricerca di realismo, a una caratterizzazione anche linguistica che sapesse cogliere queste diversità. Il gioco linguistico sostiene la burla e da spazio alla vivacità del dialogo, con aderenza ai moduli del parlato, dove rientrano anche elementi popolari. Tuttavia lo stile di Boccaccio presenta una complessa ipotassi (soprattutto nella cornice delle novelle e parti nobili ed elevate): è uno stile magniloquente e le subordinate si accumulano in gran numero ( la truttura è resa più complessa dalle inversioni latineggianti e posposizioni di verbi in clausola). Furono imitati i nessi largamente usati da Boccaccio per regolare il funzionamento e la successione del periodo, con i frequenti “adunque”, “allora” e “avvenne che”, e l’uso del relativo per iniziare il periodo. La prosa di Boccaccio, nelle sue forme normali, è fiorentina di livello medio-alto. Nella grafia di Boccaccio (possediamo infatti un prezioso autografo, il codice Hamilton, di mani dello scrittore), si notano latinismi, come le “x” (exempli), il nesso –ct- anche per il raddoppiamento (decto), la forma advenuto per “avvenuto”, le “h” etimologiche in herba, habito. Il sistema di interpunzione è più ricco di quello di Petrarca. Boccaccio è anche autore di uno dei più antichi testi in volgare napoletano, un’Epistola del 1339: letteratura dialettale riflessa (letteratura dialettale cosciente di essere tale), tono scherzoso, sorta di divertimento occasionale (rivolto ad un amico fiorentino), lingua napoletana marcata in senso comico, ricostruita come poteva farlo un non napoletano che volesse imitare a orecchio il parlato vivo del tempo. L’esperimento di Boccaccio è importante perché mostra un uso volontario di un volgare diverso dal proprio. 5. I VOLGARIZZAMENTI Questo tipo di libera traduzione continuò anche nel Trecento, in forme che si avvicinavano a veri e propri rifacimenti del testo originale. La Cronica di Anonimo romano in volgare, contenente la vita di Cola di Rienzo, è un volgarizzamento di una precedente redazione latina dello stesso autore, con intento divulgativo; la lingua è antico romanesco (forme meridionali prima della toscanizzazione di Roma nel Cinquecento). Altri volgarizzamenti, sia da opere latine che da opere toscane, furono realizzati nelle varie lingue locali. La prosa, più della poesia, manteneva in certi casi l’impronta della zona geografica, resistendo all’omologazione toscana. I TESTI DELLE TRE CORONE 1. La Commedia = è aperto un problema filologico in quanto di quest’opera così importante non ci è giunto il manoscritto originale. L’edizione oggi più utilizzata è quella di Petrocchi la quale però, pur proponendosi come edizione critica, non risponde al metodo messo a punto da Lachman (al fine di evitare le correzioni ad intuito degli antichi filologi). Il suo metodo stabiliva i rapporti di derivazione e apparentamento dei manoscritti, detti testimoni. Per fare ciò egli si basava sugli errori che incontrava nei diversi codici, sulla loro comunanza o meno. Per la commedia dantesca esistono circa 800 manoscritti e l’applicazione del metodo di Lachman non risulta quindi fattibile. Perciò Petrocchi ha scelto di considerare solo i manoscritti più antichi (non per forza i più giusti). Si deve inoltre ricordare che punteggiatura, apostrofi, e accenti sono introdotti dall’editore moderno perché al tempo di Dante non si usavano. 2. Il canzoniere = con quest’opera trova una codificazione stabile la forma poetica che per secoli sarà tipica della lingua italiana. A differenza della commedia esiste per il canzoniere la bella copia dell’autore e una serie di manoscritti degli abbozzi attraverso i quali, esaminando le correzioni di pugno dello scrittore possiamo cercare di ricostruire il processo creativo dell’opera. Troviamo anche delle postille ai margini, apposte dall’autore in latino; esse avvertono che il testo è stato ricopiato e che il sonetto è già nelle mani dell’amico Lelio. Quanto alla grafia si può osservare che Petrarca usò il punto per segnare la separazione dei versi, scritti a due a due, e adoperò una barretta per indicare la pausa, oggi ritenuta simile alla virgola. 3. Il Decameron = è ricco di una grande varietà di registri: contiene dialoghi, battute del parlato ma anche momenti in cui lo stile è più nobile ed elevato. Proprio le pag di registro alto furono a lungo considerate il modello per eccellenza della prosa italiana. 4. Il De vulgari = in questo testo si trovano le trasformazioni che il latino scritto aveva subito nel medioevo inoltre Dante ricorre anche all’uso di termini latini che non sono della tradizione classica: questo è appunto il latino “moderno” del tempo di Dante. 5. La cronica dell’anonimo romano = è tra le più importanti scoperte extratoscane compiute dalla filologia e dalla critica e documenta splendidamente il volgare di Roma nel medioevo. Il testo ha un grande valore artistico – letterario e racconta avvenimenti recenti tra il 1325 e il 1357. Presenta con ricchezza di particolari la vita e la morte di Cola di Rienzo, tanto quasi da essere ricordata con il titolo di “vita di cola”. IL QUATTROCENTO Documenti: Grammatichetta Vaticana (fiorentino dell’uso vivo) di Leon Battista Alberti 1434-38. 1. L’UMANESIMO LATINO Petrarca, iniziatore dell’Umanesimo, nello scrivere latino si ispirava a Cicerone, Livio, Seneca, Virgilio, Orazio, misurando la differenza fra quei modelli e il latino medievale del suo tempo. Dante invece usava il latino moderno. Petrarca avviò un processo di confronto con il latino degli autori canonici, che orientò verso l’imitazione del grandi modelli letterari. Di fatto però, la svolta umanistica che incominciò con Petrarca ebbe come conseguenza una crisi del volgare, lo screditò agli occhi della maggior parte dei dotti, mentre nell’uso pratico esso continuava a farsi strada. Vi furono umanisti della prima generazione che non usarono il volgare (Salutati su base di modelli ciceroniani). Il latino era preferito perché più nobile, capace di garantire l’immortalità letteraria mentre l’uso del volgare, secondo l’opinione di questi dotti, era accettabile solo nelle scritture pratiche e d’affari. Credere nel volgare era come scommettere su un futuro incerto, dove il latino rappresentava una certezza apparentemente indiscutibile. 2. LE DISCUSSIONI DEGLI UMANISTI SULLA NASCITA DEL VOLGARE Gli umanisti della prima metà si interrogarono sulle cause che avevano portato al crollo della civiltà romana. Essi mostrarono grande interesse per la situazione linguistica, toccando anche il problema dell’origine dell’italiano. Due erano le ipotesi: Biondo Flavio al tempo di Roma si parlava una sola lingua (latino), che si era corrotta per causa esterna, ossia le invasioni barbariche. Da questa corruzione era nato l’italiano che dunque risultava frutto di una mistura tra latinità e barbarie. Nel corso dei suoi studi egli definì in maniera più precisa la fase storica in cui corruzione e contaminazione si erano sviluppate; e l’attribuì no tanto ai goti quanto ai longobardi, considerati più rozzi e privi di rispetto per il latino. In quest’ottica la lingua italiana era nata con un marchio negativo. Più accreditata nel Rinascimento e ripresa da molti (come Bembo). Leonardo Bruni (fiorentino) pensava che nella Roma antica non esisteva un latino omogeneo, ma due livelli: alto e letterario, basso e popolare; dal secondo si sarebbe poi sviluppato l’italiano. Secondo la sua tesi la calata dei barbari non era stata decisiva: il volgare era nato da un’evoluzione all’interno del latino popolare per una spinta interna al mutamento e autonoma dalla presenza di popoli invasori. Spesso però essa fu divulgata in modo errato rispetto all’originale: interpretata come l’ipotesi di due vere e proprie lingue diverse e coesistenti (latino, classico e letterario, e italiano) e quindi l’italiano giudicato come lingua antica quanto il latino. 3. LEON BATTISTA ALBERTI E LA PRIMA GRAMMATICA Lo sviluppo del volgare come lingua di cultura fu rallentato dalla preferenza per la lingua dei classici. Innovativa fu la posizione di Leon Battista Alberti, che manifestò fiducia nell’italiano per essere usato anche nella prosa scientifica e nei trattati oltre che in poesia. Egli elaborò un programma grazie al quale iniziò il movimento definibile come “Umanesimo volgare; egli era convinto che bisognasse imitare i latini nel fatto che avevano scritto in una lingua universalmente compresa, di uso generale. Come il latino, anche il volgare aveva il merito di essere lingua di tutti, ma occorreva mirare a una promozione a livello alto, da affidare ai dotti. All’Alberti è attribuita la realizzazione della prima grammatica della lingua italiana del 1440, la Grammatica della lingua toscana o Grammatichetta vaticana. In essa l’autore vuole dimostrare che anche il volgare ha una struttura grammaticale ordinata, come il latino; tuttavia non ebbe influenza, non circolò e non fu data alle stampe. Caratteristica della grammatica dell’Alberti è l’attenzione prestata all’uso del toscano del tempo, la norma sta dunque nell’uso, non negli autori antichi per cui l’autore non mostra alcuna attenzione. La promozione della lingua toscana da parte dell’Alberti culminò in un’iniziativa, il Certame coronario del 1441: una gara poetica in cui i concorrenti si affrontarono con componimenti in volgare sull’amicizia. Ma la giuria, composta da umanisti, non assegnò nessun premio, mostrando così la sua chiusura verso la lingua italiana, ritenuta indegna di gareggiare con il latino. 4. L’UMANESIMO VOLGARE Nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, si ebbe una forte promozione del toscano, politicamente voluta e sostenuta anche dalla politica della corte dei Medici. I protagonisti furono oltre a Lorenzo De’ Medici, l’umanista Cristoforo Landino e il Poliziano. 1. Landino fu culture della poesia di Dante e di Petrarca, negò la naturale inferiorità del volgare e invitò i concittadini di Firenze a darsi da fare perché la città ottenesse il “principato” della lingua. Egli, inoltre, si impegnò ella traduzione della Naturalis historia di Plinio dimostrando che il toscano era ormai lingua matura per trattare ogni argomento e per far circolare il sapere anche fuori dalla Toscana. Sentiva però la necessità che il fiorentino si arricchisse con apporto di latino e greco: per questo motivo la traduzione era un importante esercizio. 2. Lorenzo il Magnifico, nel proemio al Comento per alcuni dei suoi sonetti, prospettando uno sviluppo futuro del fiorentino, parla di un “augumento al fiorentino imperio”. Lo sviluppo della lingua si lega ora a una concezione patriottica, intesa come patrimonio e potenzialità dello stato mediceo. Nel 1476, Federico, erede al trono di Napoli, aveva incontrato Lorenzo a Pisa ed essi avevano discusso di letteratura volgare e di autori che avevano poetato in lingua toscana. L’anno successivo Lorenzo inviò a Federico la “Raccolta aragonese”, raccolta antologica della tradizione letteraria volgare (dai predanteschi a Lorenzo de’ Medici stesso), accompagnata da un’epistola con l’elogio di quella lingua e di quella letteratura I TESTI DEL 400 1. La Grammatichetta vaticana = è la prima grammatica della lingua italiana; il nome è dovuto alla piccole dimensioni e al fatto che sia conservata ora nella biblioteca vaticana. L’autore è riconosciuto oggi nell’Alberti, il quale voleva dimostrare che anche la lingua volgare, come il latino, era governata da regole. Il volgare da lui descritto è il fiorentino dell’uso vivo anche se numerose sono le grafie latineggianti (nessi –ct in docti, conservazione delle h a inizio parola, conservazione di u in parole come populi). 2. Lettera del re di Napoli al figlio = è un documento in cui Ferdinando d’Aragona scrive ad uno dei suoi figli per invitarlo a proseguire gli studi e di far avere al suo precettore il compenso che gli è dovuto. Il regno di Napoli sta attraversando un periodo di instabilità ma il re trova comunque l tempo di preoccuparsi per l’istruzione del figlio; ciò da l’idea del ruolo della cultura in una corte del 400 sensibile ai fermenti dell’umanesimo. Possiamo vedere che il latino influenza le lettere pubbliche e private per veri e propri inserimenti della lingua antica nel testo volgare. In latino infatti è indicato il destinatario e sempre in latino è la chiusa della lettera. 3. Esempio di Polifilesco = è un esperimento erudito in lingua artificiale creata sovrapponendo e fondendo volgare e latino. Tramite questa miscela si cerca di ottenere uno stile elevato, una lingua nobile e preziosa. In questo tipo di prosa notiamo che il latino lessicale ricorre in maniera vistosa (limine = soglia, sumptuoso = suntuoso, iubere = ordinare ecc). 4. L’arcadia di Sannazaro = è un romanzo pastorale misto di prose e versi. Dopo una prima stesura l’autore sottopose il testo ad una revisione linguistica , adottando il modello petrarchesco per la poesia e quello boccacciano per la prosa. Leggendo alcuni versi notiamo come il tema dell’amore sia ispirato a modelli petrarcheschi con il pastore che celebra con il canto il giorno in cui è nata la sua amata. IL CINQUECENTO Documenti: Prose della volgar lingua di Bembo – Il Principe di Machiavelli 1513>1532– Orlando Furioso di Ariosto 1516-21-32. 1. ITALIANO E LATINO Nel 500 il volgare raggiunse piena maturità, ottenendo il riconoscimento pressoché unanime dei dotti. Il volgare scritto raggiunse in questo periodo un pubblico molto ampio di lettori, conquistando nuovi spazi nei settori del sapere. Inizia un irreversibile processo di erosione del monopolio latino. Nel Rinascimento il latino resisteva saldamente al livello più alto della cultura, ma la crisi umanistica del volgare era ormai superata e gli intellettuali avevano generalmente fiducia crescente nella nuova lingua, derivante anche dal processo di regolamentazione grammaticale allora in corso (ci fu una prima stabilizzazione normativa: vennero stampate le prime grammatiche e i primi lessici). Queste pubblicazioni ebbero successo anche perché i lettori cercavano soluzioni a problemi pratici per scrivere correttamente, liberandosi da latinismi e dialettismi. Le conseguenze sono evidenti e verso la metà del ‘500 si assiste al definitivo tramonto della scrittura di coinè, che rimase poi appannaggio degli scriventi meno colti (vistose contaminazioni fra parlata locale, latino e toscano) per essere poi soppiantata dalla nuova norma di Bembo. In questo modo l’Italiano raggiunse lo status di lingua di cultura di alta dignità e prestigio, anche all’estero. Il latino comunque mantenne una posizione egemonica in molti settori (pubblica amministrazione e giustizia; maggior parte degli statuti editi ancora in latino, solo pochi casi anche in volgare). Il latino era pane quotidiano per i giuristi, ma nelle verbalizzazioni delle inchieste, il volgare a poco a poco trovava spazio (a volte mescolanza). L’intreccio tra latino ed italiano, scritto e parlato, formula giudiziaria e registrazione della voce si ritrova nella deposizione di un aguzzino della Gran Corte della Vicaria, che descrive davanti al giudice il comportamento di Tommaso Campanella, sottoposto a quasi quaranta ore di tortura. Il verbale si apre e si chiude in latino; in volgare sono le parole dell’aguzzino. Nella produzione dei libri, quasi esclusivamente in latino si presentano la filosofia, la medicina e la matematica; il volgare è usato nella scienza quando si tratta di stampare opere di divulgazione (arti applicate). Nel settore umanistico-letterario vero e proprio, il volgare trionfa nella letteratura e si afferma nella storiografia grazie a Machiavelli e Guicciardini. La percentuale più alta di libri in volgare è stampata a Venezia, seguita da Firenze. 2. PIETRO BEMBO E LA QUESTIONE DELLA LINGUA Nel 1501 usciva in piccolo formato il Petrarca volgare curato da Bembo (Oltre a Virgilio e Orazio). Lo stampatore Manuzio, nella premessa a questa edizione, difendeva il testo dalle rimostranze di coloro che vi avrebbero potuto riconoscere un allontanamento dalle tradizionali grafie latineggianti, eredità della coinè ‘400-‘500esca. Tale allontanamento dalla consuetudine era visibile fin da titolo, Le cose volgari di Messer Francesco Petrarca e non “vulgari” (taglio netto con la tradizione latineggiante). Ma le innovazioni di Bembo erano di maggiore portata: sulla forma linguistica di quel testo di Petrarca si sarebbero fondate in seguito le teorie esposte nelle Prose della volgar lingua. Compariva inoltre il segno dell’apostrofo, ispirato alla grafia greca. L’esito delle discussioni linguistiche del 500 fu la stabilizzazione normativa dell’italiano. Le Prose della volgar lingua furono stampate nel 1525 a Venezia con l’edizione principe alla quale seguirono diverse ristampe. Le prose sono divise in tre libri; il terzo contiene una vera e propria grammatica dell’italiano, in forma dialogica. Il dialogo delle Prose è idealmente collocato nel 1502 e si svolge tra quattro personaggi, ognuno dei quali si fa portavoce di una tesi diversa. Giuliano de’ Medici: la continuità con il pensiero dell’Umanesimo volgare. Federico Fregoso: espone molte delle tesi storiche presenti nella trattazione. Ercole Strozzi: umanista e poeta in latino, espone le tesi degli avversari del volgare. Carlo Bembo: fratello dell’autore, portavoce delle idee di Pietro. Nel testo viene svolta prima di tutto un’ampia analisi storico-linguistica, secondo la quale il volgare sarebbe nato dalla contaminazione del latino ad opera degli invasori barbari e il riscatto del volgare contaminato era stato possibile grazie agli scrittori e alla letteratura: l’italiano, quindi, era andato progressivamente migliorando. Il discorso si sposta sulla letteratura, le cui sorti sono giudicate inscindibili da quelle della lingua. Quando Bembo parla di volgare, intende il toscano, ma non vivente, bensì il letterario trecentesco di Petrarca e di Boccaccio e in parte Dante. Egli non nega che i toscani siano avvantaggiati nella conversazione, ma questo vantaggio potrebbe anche essere un rischio: la comunanza del fiorentino moderno con quello del 300 potrebbe rendere disponibili i letterati fiorentini ad accogliere parole popolari (macchiano la dignità della scrittura). La lingua non si acquisisce dal popolo, ma dalla frequentazione di modelli scritti delle tre corone. La teoria di Bembo voleva coniugare la modernità della scelta del volgare con un totale distacco dall’effimero, secondo un ideale classicistico, di natura letteraria: requisito per la nobilitazione del volgare era un totale rifiuto della popolarità. Per questo Bembo non accettava integralmente il modello della Commedia di Dante, di cui non apprezzava le discese verso lo stile basso e realistico, mentre il modello del Canzoniere di Petrarca non presentava difetti, per la sua forte selezione linguistico-lessicale. Qualche problema poteva venire dalle parti del Decameron in cui emergeva più vivace il parlato; Bembo prendeva a modello solo lo stile vero e proprio di Boccaccio (sintassi latineggiante, inversioni e frasi gerundive). Bembo voleva una regolamentazione del latino legata al periodo aureo della classicità ed era convinto che la storia linguistica italiana avesse raggiunto una vetta qualitativa insuperata nel ‘300, con le Tre Corone, però che egli non escludeva che il volgare potesse ancora raggiungere risultati eccezionali, attraverso la nuova regolamentazione proposta. La soluzione di Bembo fu quella vincente: formalizzava in maniera rigorosa e teoricamente fondata quanto era avvenuto nella prassi (il volgare diffuso in tutt’Italia come lingua della letteratura attraverso una più o meno cosciente imitazione dei grandi trecentisti). 3. ALTRE TEORIE: “CORTIGIANI” E “ITALIANI” Le fonti più ricche di notizie sulla teoria cortigiana sono gli scritti degli avversari: è Bembo, nelle sue Prose, che parla dell’opinione di Calmeta; il quale sostiene che il volgare migliore è quello usato nelle corti italiane, specialmente in quella di Roma. L’interpretazione che ne da Castelvetro fa riferimento alla fondamentale fiorentinità della lingua, che si doveva apprendere sui testi di Dante e Petrarca e doveva essere poi affinata attraverso l’uso della corte di Roma (al di sopra del particolarismo municipale, città cosmopolita). Roma aveva affascinato anche altri studiosi come Mario Equicola il quale aveva parlato di una lingua capace di accogliere vocaboli di tutte le regioni d’Italia, mai plebea, con una coloritura latineggiante il cui modello stava nella lingua della corte di Roma. Anche Baldassar Castiglione, nel Cortegiano 1528, usò lo stesso tipo di aggettivo di Equicola, “commune”, per definire la sua lingua. Questi autori, a differenza di Bembo, non si volevano restringere all’imitazione del toscano arcaico (preferivano l’uso vivo della lingua). Bembo obiettava che una lingua cortigiana era un’entità difficile da definire, non riconducibile all’omogeneità: per questo difetto la teoria cortigiana non uscì vincente. La teoria di Bembo aveva il vantaggio di offrire modelli più precisi (necessità di norma rigorosa). Nel 1529, Trissino diede alle stampe il De vulgari eloquentia di Dante, non in originale latino, ma in traduzione italiana e nello stesso anno pubblicò,il Castellano, un dialogo in cui sosteneva che la lingua poetica di Petrarca era composta di vocaboli provenienti da ogni parte d’Italia per questo non era definibile come fiorentina, ma come italiana. Trissino negava la fiorentinità della lingua letteraria e faceva appello alle pagine in cui Dante aveva condannato la lingua fiorentina, contestandone ogni pretesa di primato letterario. Aveva proposto una riforma dell’alfabeto italiano, con l’introduzione di due segni del greco, ipsilon e omega (distinguere apertura di e/o). 4. LA CULTURA TOSCANA DI FRONTE A TRISSINO E A BEMBO La più interessante tra le reazioni fiorentine di fronte alle idee di Trissino è il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua attribuito a Machiavelli. In questo testo Dante dialoga con Machiavelli, facendo ammenda degli errori commessi nel De vulgari eloquentia, e ammettendo di aver scritto in fiorentino, non in lingua curiale (cioè in una lingua comune o cortigiana); viene inoltre rivendicato il primato linguistico di Firenze contro le pretese dei settentrionali. Presto si sviluppò una polemica sull’autenticità del De vulgari eloquentia, perché Trissino non rese mai pubblico il testo originale latino. La sua traduzione divenne comodo riferimento per gli avversari delle teorie linguistiche fiorentiniste. Nella prima metà del ‘500, gli intellettuali fiorentini non trovarono un modo efficace di contrapporsi alla tesi del fiorentino arcaizzante di Bembo. La situazione mutò quando nel 1570 uscì a Firenze e Venezia l’Hercolano di Benedetto Varchi:opera che ebbe il merito di introdurre il bembismo nella città che gli era naturalmente avversa. La rilettura di Bembo condotta da Varchi non fu fedele, e risultò un tradimento delle premesse del classicismo volgare, per la riscoperta e rivalutazione del parlato. Ciò servì però a rimettere in gioco il fiorentino vivo, dandogli un ruolo e una dignità. Per Varchi la pluralità di linguaggi non va spiegata con l’episodio della torre di Babele ma con la naturale tendenza alla varietà della natura umana; inutile quindi era reputata la ricerca del primo linguaggio umano. Il trattato di Varchi affiancava al modello linguistico bembiano la lingua parlata di Firenze. La revisione del bembismo di Varchi vanificava l’austero rigore delle Prose della volgar lingua: l’Hercolano sanciva il principio secondo il quale esisteva un’autorità popolare (seppure non propria del popolazzo) da affiancare a quella dei grandi scrittori. Ciò permise a Firenze di esercitare di nuovo un controllo sulla lingua. 5. LA STABILIZZAZIONE DELLA NORMA LINGUISTICA Nel ‘500 si ebbero le prime grammatiche, i primi vocabolari e i primi lessici, nei quali si riflettono le proposte teoriche, in particolare quella di Bembo. Già il terzo libro delle Prose è una vera e propria grammatica, seppure esposta in forma dialogica. Bembo era stato preceduto da Fortunio nel 1516, che ad Ancona stampò le Regole grammaticali della volgar lingua, con scopo principalmente pratico. Nel fiorire di grammatiche, pubblicate soprattutto dall’editoria veneta, si segnala l’assenza di opere prodotte dall’editoria di Firenze che si mostrava non in grado di tenere il passo, anche perché in Toscana si sentiva meno il bisogno di consultare strumenti normativi. Il malumore per l’ingerenza di grammatici e teorici forestieri in quella che veniva ad essere una lingua prima di tutto patrimonio locale, e non proprietà comune non si tradusse in nessuna produzione pratica. Cosimo de’ Medici aveva chiesto all’Accademia fiorentina di stabilire le regole della lingua in maniera ufficiale, ma l’Accademia non arrivò a un accordo ( e il tentativo di Giambullari di creare una grammatica si rivelò un fallimento). Si diffusero invece molti lessici i quali erano molto ben accolti, ma contenevano un numero limitato di parole, ricavate da spogli su Dante, Petrarca e Boccaccio in primo luogo. Il primo vocabolario fu Le tre fontane di Liburnio, una raccolta lessicale strutturata secondo le categorie grammaticali, quindi quasi un ibrido tra grammatica e vocabolario. La grammatica di Bembo influenzò l’esito dell’Orlando furioso, perché Ariosto corresse la terza e definitiva edizione seguendo le indicazioni delle Prose. Tra le correzioni: sostituzione dell’articolo maschile el con il, desinenze del presente indicativo 1pp in –iamo e 1ps dell’imperfetto in –a. 6. IL RUOLO DELLE ACCADEMIE Parlando di Varchi si ricorda l’influenza che sullo studioso ha avuto l’accademia padovana degli infiammati, dove egli aveva conosciuto le idee linguistiche di Bembo. Da un altro frequentatore dell’accademia, sperone speroni, apprendiamo la posizione originale del filosofo Pietro Pomponazzi. Egli dichiarava che la filosofia avrebbe dovuto essere trasportata dalle lingue classiche alla lingua volgare, con ricchezza di traduzioni e conseguente modernizzazione e democratizzazione della cultura: il latino e il greco gli sembravano un ostacolo alla diffusione del sapere. omissioni che compromettono il senso delle battute. Queste si susseguono in una prosa vivace, ricca di colore e di elementi del parlato e anche i personaggi sono caratterizzati linguisticamente. Callimaco si esprime in un registro più elevato degli altri Nicia invece allude al linguaggio gergale, ai motti e ai doppi sensi. 4. Il toscano cancelleresco di Machiavelli = in queste lingua risulta scritto il principe; è la stessa lingua che l’autore aveva usato come segretario della Repubblica e che aveva corso nell’uso burocratico e amministrativo del tempo. 5. Edizioni del poema di Ariosto = tre furono le stampe dell’orlando furioso: 1516, 1521 e 1532. Tra la seconda e la terza si colloca la pubblicazione delle prose e il lavoro di correzione mostra la progressiva eliminazione di quei tratti che portavano il segno della lingua padana illustre (ad es correzione di giaccio). IL SEICENTO Documenti: Dedicatoria A’ lettori del Vocabolario della Crusca (1612) Voci della Crusca – Postille di Tassoni alla Crusca. 1. IL VOCABOLARIO DELL’ACCADEMIA DELLA CRUSCA L’Accademia della Crusca ebbe un’importanza eccezionale perché realizzò quello che è il primo grande vocabolario italiano, contenente poco più di 25 mila lemmi. La crusca era un’associazione privata senza sostegno pubblico, in un’Italia divisa, poco adatta ad assoggettarsi a un’unica autorità normativa. La Crusca portò a termine il disegno di restituire a Firenze il magistero della lingua e costrinse tutti gli italiani colti a fare i conti da allora in poi con il primato della città toscana (fu avversata da molti ma chiunque dovette farci i conti). La Crusca si indirizzò alla lessicografia dal 1591, quando gli accademici discussero sul modo di fare il Vocabolario. Da Salviati la caratteristica impostazione antibembiana, secondo la quale gli autori minori del 300 erano giudicati degni, per meriti di lingua, di stare fianco di grandi della letteratura. Al momento della realizzazione del Vocabolario Salviati era già morto, e nell’Accademia non vi era una figura che potesse raccoglierne l’eredità. La squadra dei lessicografi andò formandosi da sé (fra dilettanti che non si erano ancora distinti per particolari meriti), e mantenne una notevole collegialità nelle sue scelte:in questo senso la crusca fu un vocabolario d’équipe. Il Vocabolario uscì nel 1612 a Venezia. Sul frontespizio portava l’immagine del frullone o buratto, lo strumento che si usava per separare la farina dalla crusca, con sopra, in un cartiglio, il motto “Il più bel fiore ne coglie”, allusivo alla selezione compiuta nel lessico. Gli Accademici fornirono il tesoro della lingua del ‘300, esteso oltre i confini segnati dall’opera delle Tre Corone, arrivando ad integrare con l’uso moderno. Gli schedatori avevano cercato di evidenziare la continuità tra la lingua toscana contemporanea e l’antica; così le parole del fiorentino vivo erano documentate soprattutto attraverso gli autori antichi: il Vocabolario largheggiava nel presentare termini e forme dialettali fiorentini e toscani. Per la scelta della grafia, il Vocabolario fu innovativo, distaccandosi in buona parte dalle convenzioni ispirate al latino (le –h etimologiche e i nessi del tipo –ct). La fortuna del Vocabolario della Crusca, sovraregionale e internazionale, è confermata dalle due edizioni successive: del 1623, uguale alla prima, e del 1691, stampata a Firenze, composta da tre tomi e aumentata nel materiale. 2. L’OPPOSIZIONE ALLA CRUSCA Il primo avversario dell’Accademia fu Beni, professore di umanità nell’Università di Padova, autore di un’Anticrusca (1612) nella quale venivano contrapposti al canone di Salviati gli scrittori del ‘500, in particolare Tasso, grande escluso dagli spogli; la lingua italiana era patrimonio comune (teoria cortigiana). Egli Polemizza contro la lingua usata da Boccaccio, indicandone irregolarità ed elementi plebei e fondava le proprie argomentazioni su un giudizio negativo sulla prosa del 300, pur lodando Petrarca. Critico nei confronti della crusca è anche il modenese Tassoni, il quale scrisse un elenco di osservazioni inviate agli Accademici, molto probabilmente utilizzate per l’edizione del 1623. Nei Pensieri diversi critica la lingua antica di Boccaccio e dei trecenteschi minori e protesta contro la dittatura fiorentina sulla lingua. Propone di adottare espedienti grafici per contrassegnare con evidenza le voci antiche e le parole da evitare (altrimenti il rischio è quello di fare confusione). Daniello Bartoli non fa una polemica diretta e violenta nei confronti del Vocabolario, ma riesaminando i testi del ‘300 sui quali si fonda il canone di Salviati, dimostra che proprio lì si trovano oscillazioni tali da far dubitare della perfetta coerenza di quel canone grammaticale. Bartoli usa spesso una pungente ironia nei confronti di ogni forma di rigorismo grammaticale. Il titolo stesso dell’opera, Il torto e il diritto del Non si può, mette in risalto la questione centrale: il grammatico deve usare con cautela il suo diritto di condanna e veto. 3. IL LINGUAGGIO DELLA SCIENZA La prosa del 600 deve molto allo sviluppo del linguaggio scientifico, che raggiunse esiti elevati, prima di tutto per merito di Galileo, che aveva scritto in italiano fin da quando aveva 22 anni (breve saggio La bilancetta). Il distacco dal latino non era né facile né scontato per uno scienziato poiché il latino serviva per la comunicazione internazionale. Però egli voleva staccarsi polemicamente dalla casta dottorale che lo usava, e voleva cercare un pubblico nuovo: nella prefazione a Le operazioni del compasso geometrico e militare, aveva affermato di aver usato il volgare per raggiungere coloro che avessero più interesse per la milizia che per la lingua latina. Un intento divulgativo è quindi riconoscibile anche se non è forse l’unica spiegazione. in Galileo non mancò mai infatti la fierezza per la propria lingua toscana, che scelse coscientemente, anche se aveva usato il latino per la sua prima opera Sidereus nuncius, che intaccò per prima il sistema tolemaico. Il latino assunse la funzione di termine di confronto negativo: evidente nel Saggiatore (1623), dove le tesi dell’avversario sono scritte in latino e sono confutate in italiano (dialogo tra le due lingue che simboleggiano anche due diverse visioni della scienza). Anche scegliendo il volgare, la sua lingua non si collocò mai a livello basso o popolare ma seppe raggiungere un tono elegante e medio, con chiarezza terminologica e sintattica. Non rinunciò ad alcune macchie di lingua toscana parlata, al sarcasmo e al paradosso. È spesso polemico e sarcastico nei confronti degli avversari. Ci sono termini per i quali Galileo ha provveduto a fissare il significato in maniera univoca; quando nomina e definisce un concetto o una cosa nuova, preferisce attenersi ai precedenti comuni ed evita di introdurre terminologia inutilizzata o troppo colta. Migliorini ha osservato come Galileo, più che alla coniazione di vocaboli nuovi si affidi alla tecnificazione di termini già in uso, evitando il greco e il latino, preferendo parole semplici e italiane, senza respingere eventuali tecnicismi già affermati. Quando troviamo un’invenzione galileiana designata con un nome dotto, possiamo asserire con quasi assoluta certezza che il nome fu plasmato da altri. 4. IL MELODRAMMA Discende dalla Camerata dei Bardi e nasce dall’ Unione della parola e dell’azione scenica alla musica. L’Italia assunse per lungo tempo una posizione egemonica nella produzione di opere liriche e il melodramma permette di affrontare la questione del rapporto fra parola e musica. Il melodramma del primo ‘600 fu un tentativo di ricreare la tragedia antica. Il rapporto tra musica e poesia era considerato stretto: fenomeno documentato fin dal Medioevo. Nel Rinascimento fu importante il madrigale. Anche Tasso scrisse poesie destinate a musica e canto. Il canto fu un ulteriore canale di diffusione dei modelli letterari. Il rapporto fra la parola e la melodia fu affrontato in maniera più profonda nel Dialogo della musica antica del 1581, in lingua italiana, da Vincenzo Galilei, che faceva parte della Camerata dei Bardi. Egli aveva la convinzione che l’antica tragedia greca fosse stata interamente cantata. Il teatro del ‘500 invece era stato fino allora recitato e la musica era rimasta confinata negli intermezzi. Peri e Caccini, nella partitura nell’Euridice, diedero una svolta al canto, che permetteva finalmente di comprendere il testo senza deformazioni. Il melodramma è uno spettacolo d’élite (allestimento di scenografie complesse e dispendiose): influenza linguistica nella corte. Il successo fu subito grande e imitato in tutta Italia. La produzione di libretti, dal ‘600, ebbe dimensioni quantitative notevoli. Il linguaggio poetico del melodramma s’inserisce nella linea della lirica petrarchesca, rivisitata attraverso la memoria di Tasso, in particolare dell’Aminta. Questo linguaggio poetico, già tipico della lirica tassiana e petrarchesca, si diffuse ulteriormente attraverso il melodramma, in cui si accentuò la propensione per la poesia cantabile, per i versi brevi, per le ariette. 5. IL LINGUAGGIO POETICO BAROCCO Con Marino e il marinismo, le innovazioni si fanno più accentuate; il catalogo degli oggetti poetici si allarga. Gli schemi metrici e le cadenze ritmiche sono ancora quelle petrarchesche. La poesia barocca estende il repertorio dei temi e delle situazioni che possono essere assunte come oggetto di poesia, e il rinnovamento tematico comporta un rinnovamento lessicale (riferimenti botanici Marino, accanto alla rosa, simbolo barocco, pone una serie di piante diverse, spesso corredate dal loro epiteto). La poesia barocca utilizza un’ampia gamma di animali, canonici e non: Nel Lubrano vi è un’estensione nel regno degli insetti; la prosa scientifica aveva descritto con interesse il regno animale. I poeti barocchi arrivarono a utilizzare gli stessi strumenti della scienza, sfruttando le più aggiornate ricerche zoologiche per attingere nuovo lessico. Marino, nell’Adone, usa il lessico dell’anatomia, ricavato dai trattati anatomici del tempo, in modo da celebrare i “sensi” e la “macchina” umana, e la descrizione della luna fatta da Galileo, fino a concludere con l’elogio del cannocchiale galieleiano. Un consistente filone della poesia barocca che fa capo a Marino utilizza dunque il lessico scientifico e appare una miscela tra vecchio e nuovo. La varietà di generi permette l’inserimento di parti quasi didascaliche, funzionali a costruire simbologie per stupire il lettore. Nell’Adone entra l’attualità; inoltre sono usati cultismi, grecismi, latinismi e tecnicismi. 6. LE POLEMICHE CONTRO L’ITALIANO A partire dalla fine del ‘600 si sviluppò e prese piede il giudizio sul cattivo gusto del Barocco, costantemente ripetuto dagli illuministi del ‘700. Proprio in Francia si condannava la letteratura del nostro paese e quella della Spagna. Il gesuita e grammatico Bouhours svolse in due opere la tesi secondo la quale, tra i popoli d’Europa, solo ai francesi poteva essere riconosciuta l’effettiva capacità di parlare. Lo spagnolo era accusato di magniloquenza retorica, l’italiano di sdolcinatezza poetica. A vantaggio del francese c’era la vicinanza della prosa e della poesia, vista come indice di “razionalità”che maschera però la volontà di promuovere il francese a lingua universale. La lingua italiana veniva bollata come incapace di esprimere in modo ordinato il pensiero umano e confinata nel suo orticello poetico, strumento di lirica amorosa e melodramma. La risposta italiana a ciò tardò a venire. 7. LA LETTERATURA DIALETTALE E LA TOSCANITA’ DIALETTALE Nei secoli XVI-XVII si ha la nascita di una letteratura dialettale cosciente di essere tale, volontariamente contrapposta alla letteratura in toscano. La tradizione letteraria italiana è caratterizzata dalla grande vitalità della letteratura in dialetto. Rappresenta una forma di dialettalità anche la manifestazione marcata del gusto per la lingua toscana viva e popolare. In Michelangelo Buonarroti il Giovane (pronipote), accademico della Crusca, collaboratore del Vocabolario, si ritrovano nei versi delle sue due opere teatrali in versi (La Tancia e La Fiera) termini toscani popolari e rari. TESTI DEL 600 1. Dedicatoria del vocabolario = anteposta alla dedicatoria troviamo una dedica, rivolta a Concino concini, uomo che aveva allora un enorme potere alla corte di Francia. Nella dedicatoria sono illustrate alcune fondamentali linee di intervento seguite per realizzare l’opera. Si noti il riferimento alle autorità linguistiche, prime fra tutte il Bembo e Salviati, tra i due quest’ultimo aveva fissato il canone a cui gli accademici si attennero riassunto in poche parole: le fonti degli spogli sono stati gli scrittori del 300 di nascita fiorentina o convertiti al fiorentino. Gli accademici propongono dunque una distinzione tra gli autori di prima classe (le tre corone) a cui si è fatto ricorso in mancanza di parole presenti nei maggiori. 2. Qualche voce della crusca = la struttura delle voci della crusca mostra una notevole modernità, prima di tutto grafica. Il lemma è in maiuscoletto, ben individuabile al primo colpo, e la parola latina è inserita solo come parte della spiegazione del lemma e non per altri motivi. IL SETTECENTO Documenti: Saggio sulla filosofia delle lingue di Cesarotti 1785-1800. 1. L’ITALIANO E IL FRANCESE NEL QUADRO EUROPEO All’inizio del 700 le lingue di cultura che potevano ambire a un primato internazionale erano poche e in testa a tutte stava il francese. Lo spagnolo era in fase calante, il portoghese non aveva più rilievo, le lingue slave non erano né conosciute né apprezzate, mentre tedesco e inglese avevano posizione marginale. La cultura inglese si diffuse in genere all’inizio dell’800 attraverso le traduzioni francesi (Locke), sul tedesco, invece, correvano giudizi piuttosto negativi. Non solo Leibniz (scrisse in latino e francese) aveva lamentato il grave ritardo di questa lingua dal punto di vista del vocabolario intellettuale e della capacità di trasmettere il pensiero filosofico e scientifico, ma le testimonianze mostrano che del tedesco si poteva fare a meno anche viaggiando e nei paesi di lingua germanica. Voltaire, nel 1750, scrive da Potsdam dicendo di aver l’impressione di essere in Francia, e osserva che lì si parla francese ovunque. Solo con il Romanticismo, all’inizio dell’800, il tedesco ottenne un riconoscimento generale e la cultura tedesca si organizzò utilizzando la propria lingua nazionale. Nel ‘700 prevaleva il francese ma anche l’italiano aveva una posizione di prestigio come lingua di conversazione elegante, soprattutto a Vienna, dove Magalotti (ambasciatore fiorentino) assicura che ogni galantuomo conosceva l’italiano; era dunque lingua di corte a Vienna, e anche a Parigi era abbastanza noto, come lingua da salotto e per La Fondazione del movimento dell’Arcadia risale al 1690 a Roma; fu una palestra poetica di dimensioni gigantesche; lingua sostanzialmente tradizionale, ispirata al modello di Petrarca, intesa a liberarsi degli eccessi della poesia barocca. Permane nella Poesia del ‘700 una sostanziale adesione al passato, anche nell’ impiego della toponomastica e onomastica classica, della mitologia, largo uso di latinismi ed arcaismi. Tendenza alla nobilitazione come la proclisi dell’imperativo, l’enclisi, gli iperbati e troncamenti. In Metastasio il cantabile è spinto ai limiti della facilità arietta. I troncamenti, come gli arcaismi e i latinismi, hanno lo scopo di distinguere la poesia della prosa, di salvare i versi dal rischio di scivolamento nel prosastico. Tra due termini, si tende a scegliere quello più raro e letterario. Ciò significa che non si rifugge dall’attualità, dai temi moderni, ma lo si fa ricorrendo a una nobilitazione verbale degli oggetti comuni. 7. LA PROSA LETTERARIA Inclusa nella categoria della prosa letteraria troviamo una prosa saggistica attraverso l’influenza di lingue straniere: semplificazione sintattica. Molti scriventi invocano il confronto salutare con la tradizione francese e inglese; Alessandro Verri dichiara la propria ammirazione per l’ordine della scrittura francese e per la brevità della scrittura inglese, mentre lamenta, la “penosa trasposizione” dello stile italiano, la vanità dei vocaboli selezionati con criteri retorico-formali. Alessandro Verri non fu immune da scrupoli grammaticali, testimoniati da postille autografe apposte ai manoscritti delle Notti romane: esempio di prosa che si propone come nobile modello neoclassico, ispirato all’antico, con latinismi e con sostenutezza oratoria, ma non presenta cedimenti al fiorentinismo cruscante. Vico da giovane aveva aderito al “capuismo” (movimento arcaizzante del filosofo e scienziato Leonardo Di Capua, che imitava fedelmente i modelli toscani antichi). Nella Scienza nuova di Vico: arcaismi e latinismi, in una sintassi diversa dall’armonica struttura classicistica. Alfieri parlò male della lingua francese, inaugurando il soggiorno a Firenze come pratica di lingua viva; nelle tragedie, lo stile ha un volontario allentamento dalla normalità ordinaria e dal cantabile, ottenuto attraverso artifici retorici, trasposizione sintattica e la spezzatura delle frasi. Più agevole è la lettura della Vita alfieriana (descrive il cammino verso la lingua toscana di un giovane aristocratico piemontese). TESTI DEL 700 1. Gli illuministi del caffè = si battevano contro le forme di passatismo e di fiorentinismo, quindi erano avversi della crusca. Importante è un articolo di Verri nel quale non solo veniva respinta l’autorità della lingua toscana ma veniva anche messo da parte ogni ideale di ricerca stilistica. Il testo si presenta diviso in brevi paragrafi numerati e tale divisione era ispirata ad un programma di chiarezza e concisione. L’autore fa appello alla libertà espressiva, alla facoltà di introdurre forestierismi nel lessico ì, al naturale processo di arricchimento di tutte le lingue. I grammatici sono accusati di frenare il progresso con vane ossessioni sulla parte formale e gli intellettuali contemporanei hanno il diritto di plasmare la lingua proprio come i grandi autori antichi. Cesare Beccaria scrisse una risposta al testo di Verri nella quale, in tono ironico, non vuole mettere in discussione le accuse rivolte alla crusca, anzi vuole mettere ancora più in ridicolo gli accademici. 2. Cesarotti sulla filosofia delle lingue = nel saggio si trova la sintesi di tutte le idee sulla lingua espresse dagli illuministi. Anche in questo caso il testo è strutturato in maniera da avere una numerazione dei paragrafi per poter individuare con chiarezza il contenuto di ciascuno di essi. Cesarotti decide di non usare la forma dialogica ma preferisce uno stile chiaro e fittamente articolato. Il tema della “costruzione logica” era tra i più dibattuti del 700, molti ritenevano che corrispondesse al presunto ordine naturale soggetto – verbo – oggetto. Una lingua come il latino non rispettava questo ordine come neanche l’italiano letterario. Un altro tema illuminista è la fiducia nel miglioramento delle lingue, per il quale si pensa che le lingue moderne potessero diventare migliori di quelle antiche. Un elemento innovativo della teoria di Cesarotti è quello che vede nella lingua la necessità di un consenso della maggioranza attraverso il quale viene limitato l’arbitrio dei grammatici. 3. Il francese e gli appunti di Alfieri = tramontata la funzione del latino come lingua di scambio internazionale, il francese riuscì a raggiungere una posizione paragonabile a quella dell’inglese oggi. Il suo successo si fondava sul prestigio culturale e politico della Francia del quale ancora oggi conserva l’eredità. In Italia, nel 700, non c’era persona colta che non fosse in grado di leggere e adoperare il francese nella conversazione. per dimostrarlo facciamo riferimento ad un intellettuale come Alfieri che quando avviò per la prima volta un suo diario personale lo scrisse in francese. La vita di Alfieri descrive fra l’altro la conversione al toscano e la faticosa rinuncia al francese. Nel suo diario personale notiamo però un passaggio improvviso dal francese all’italiano che mostra l’ambizione letteraria da cui egli era animato e che lo portava direttamente a voler gareggiare con l’Ariosto. 4. Goldoni: italiano e francese = Goldoni seguì il cammino inverso dell’Alfieri e dopo aver conquistato una solida fama in Italia, con le commedie in dialetto veneto e italiano, si trasferì a Parigi. In francese sono scritte le sue memorie nelle quali troviamo anche un’ affresco dell’Europa settecentesca nei costumi e nei divertimenti. Egli scrisse le sue commedie in dialetto veneto ma adottò spesso anche la lingua italiana per un pubblico differente da quello veneto. Non utilizzò però l’italiano della conversazione ma una sorta di “lingua media” L’OTTOCENTO Documenti: Postille alla Crusca veronese di Manzoni 1825-27 – Correzioni dei Promessi Sposi di Manzoni 1840 – Relazione 1868 di Manzoni – Dizionari Giorgino-Broglio 1897 e Tommaseo-Bellini 1861-79 – Proemio di Ascoli 1873. 1. PURISMO E CLASSICISMO All’ inizio dell’ 800 si sviluppò un Movimento che andava sotto il nome di “Purismo”. Questo era caratterizzato dall’intolleranza di fronte ad ogni innovazione, dal culto dell’epoca d’oro della lingua (300) e dall’esterofobia. Quello che maggiormente sorprende è che questa tendenza ebbe molta fortuna nonostante l’inattualità. Il capofila del Purismo è il veronese Antonio Cesari, autore di libri religiosi, novelle, studi danteschi ma soprattutto celebre come lessicografo e per la sua Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana (manifesto del Purismo). Secondo Cesari, tutti nel ‘300 parlavano e scrivevano bene; si apprezzavano tutti gli autori e anche le scritture quotidiane. Ma egli non stabilì che cosa fosse quella bellezza della lingua di cui parlava misticamente. Basilio Puoti tenne una scuola libera e privata dedicata all’ insegnamento della lingua italiana, secondo una concezione puristica meno rigida, disponibile verso gli autori del 500. Lo scrittore Vincenzo Monti (classicista) ebbe la forza e l’autorevolezza per porre un freno alle esagerazioni del Purismo: definì Cesari il “grammuffastronzolo di Verona” e lo accusò di aver dato una versione del Vocabolario della Crusca apparentemente più ampia, in realtà solamente “raccolto ed insaccato a ribocco tutte quelle voci repudiate e dannate come lordure”. Le polemiche linguistiche montiane compongono una serie di volumi intitolata “Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca” (1817 – 1824); gran parte dell’opera era costituita dalla ricerca di errori compiuti dai vocabolaristi fiorentini. Tra i romantici milanesi circolò uno scritto di Stendhal intitolato “I pericoli della lingua italiana”, ispirato a teorie illuministe, egli condannava il Purismo e la situazione linguistica dell’Italia (vitalità dei dialetti e artificiosità della lingua letteraria). 2. LA SOLUZIONE MANZONIANA ALLA “QUESTIONE DELLA LINGUA” Tra i romantici milanesi si dibatteva attorno al problema dell’italiano in tutto o in parte simile ad una lingua morta. Manzoni, con le sue idee maturate nella stesura dei Promessi Sposi, rese l’italiano più vivo e meno letterario. Manzoni affrontò la “questione della lingua” a partire dalle sue esigenze di romanziere. Iniziò a occuparsi del problema della prosa italiana fin dal 1821, con la stesura del Fermo e Lucia. Invece il linguaggio poetico degli Inni Sacri si inserì nella tradizione senza mutamenti. Questa prima fase cercava di raggiungere uno stile duttile e moderno utilizzando il linguaggio letterario, senza vincolarsi ai puristi, accettando francesismi e milanesismi, o applicando la regola dell’analogia. Nella seconda introduzione al Fermo e Lucia, Manzoni prendeva le distanze dallo stile “composito” e lamentava la propria naturale tendenza al dialettismo. La seconda fase, che Manzoni chiamò toscano-milanese, corrisponde alla stesura dei Promessi Sposi per l’edizione del 1825-27. In questo caso lo scrittore cercava di utilizzare una lingua genericamente toscana, ottenuta per via libresca (Postille alla Crusca del Cesari). Questo non bastava e non trovando risultati certi; elaborò un concetto di uso più vitale e innovativo. Nel 1827 Manzoni andò a Firenze per trovare un contatto diretto con la lingua toscana. La Nuova edizione dei Promessi Sposi, 1840-42 fu di nuovo corretta per adeguarla all’ideale di una lingua d’uso, scorrevole, purificata da latinismi, dialettismi ed espressioni letterarie arcaiche (linguaggio fiorentino dell’uso colto). Nel 1847, in una lettera al lessicografo piemontese Carena, Manzoni auspicò che la lingua di Firenze completasse quell’opera di unificazione in parte già realizzata sulla base di lingua letteraria toscana viva. Nel 1868 Manzoni, su richiesta del ministro Broglio, scrisse la “relazione”volta a spiegare come dovesse essere diffuso il fiorentino, ossia tramite una capillare politica linguistica nella scuola e proposta in forma di educazione popolare. Questa proponeva che si realizzasse un vocabolario della lingua italiana concepito su basi nuove, affiancato da agili vocabolari bilingui, per suggerire le parole toscane corrispondenti ai dialetti italiani. Tommaseo e Lambruschini presero le distanze da Manzoni, rivendicando la funzione degli scrittori nella regolamentazione della lingua ed esprimendo dubbi sul primato assoluto dell’uso vivo di Firenze. La teoria manzoniana ebbe effetti rilevanti ( ciò si spiega prima di tutto con la forza di penetrazione dei Promessi Sposi, modello esemplare di prosa elegante, ma colloquiale). Quel modello sembrava avere la capacità liberare la prosa italiana dall’impaccio della retorica. Antidoto ai difetti messi in evidenza dal manzoniano Ruggero Bonghi nel saggio Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia (1855): difetti di costruzione e inversioni rendevano faticosa la lettura, egli proponeva uno stile piano, adatto alla conversazione, senza classicismi. L’esempio di Manzoni favorì la “risciacquatura in Arno” (il soggiorno culturale a Firenze per acquisire familiarità con la lingua parlata in quella città). Influì sugli insegnamenti un libro come l’Idioma gentile di De Amicis (1905); la borghesia italiana aveva bisogno di libri del genere, facili e concreti. L’unico freno al diffondersi della teoria manzoniana nel mondo della scuola fu probabilmente il prestigio di Carducci, avversario del “popolanesimo” toscaneggiante. 3. LA STAGIONE D’ORO DELLA LESSICOGRAFIA L’800 è stato il secolo dei dizionari: una stagione splendida per la ricchezza di produzione, qualità e varietà. Il dibattito lessicografico prese le mosse dalla Crusca con una rivisitazione extratoscana del Vocabolario, la cosiddetta “Crusca veronese” 1806-11 di Cesari: edizione arricchita con giunte, per esplorare più a fondo il repertorio della lingua trecentesca (anche autori minori). Dopo la crusca veronese ci furono altre importanti realizzazioni lessicografiche tra le quali ricordiamo il Vocabolario della lingua italiana di Manuzzi (purista), 1833-41, nato da una revisione della Crusca. Si nota la Tendenza a radicarsi nel passato di una parte della cultura italiana. Anche altri dizionari mostrano il tentativo di sommare l’esistente mediante l’accumulo di giunte al vocabolario di base, senza modificare la struttura delle opere. Si nota una difficoltà nell’amalgamare l’insieme e l’ impossibilità di tagliare di netto con il passato. Il Vocabolario universale italiano Tramater 1829-40 (Crusca alla base) aveva un taglio enciclopedico e prestava particolare attenzione alle voce tecniche, di scienze, lettere, arti e mestieri con il superamento delle definizioni tradizionali; Tramater fornisce infatti definizione zoologica e botanica su precisa classificazione scientifica. Nessun vocabolario si avvicina alla qualità del Dizionario Tommaseo-Bellini il quale si pone lo scopo di illustrare le idee morali, civili e letterarie. Alcune voci, però, curate da Tommaseo mostrano una definizione umorale e per nulla oggettiva. Troviamo una buona Mole e abbondanza dei termini e una nuova strutturazione delle voci (criterio logico, dal significato più comune ed universale, ordinando gerarchicamente gli eventuali significati diversi, privilegiando l’uso moderno); possiamo perciò definirlo come il primo vero vocabolario storico italiano. Dizionario Giorgini-Broglio si mostra coerente con l’impostazione manzoniana, ispirata al fiorentinismo dell’uso vivo; al posto delle citazioni degli scrittori,troviamo una serie di frasi anonime, testimonianza dell’uso generale e vengono eliminate le voci arcaiche. Secondo Manzoni, si dovevano scindere le due funzioni confuse nei vocabolari italiani: mostrare l’uso vivente e documentare gli esempi degli scrittori del passato. L’ 800 è anche il secolo d’oro della lessicografia dialettale motivato da un interesse romantico per il popolo e la cultura popolare. C’è una curiosità della linguistica per il dialetto, non più visto come italiano corrotto, ma parlata con dignità, documenti e storia parallela a quella della lingua italiana. C’è curiosità per tradizioni popolari e forme letterarie della cultura orale, canti e racconti. 4. GLI EFFETTI LINGUISTICI DELL’UNITA’ POLITICA (la quale non corrisponde ad una vera unità culturale e linguistica). Tra i vari stati italiani ci sono differenze profonde, in comune c’è solo un modello d’italiano letterario, elaborato dalle élite: mancava quasi completamente una lingua comune della conversazione (pochi italofoni). De Mauro ha tentato per primo di risolvere il problema dal momento che alla fondazione del Regno d’Italia, quasi l’80% della popolazione era costituita da analfabeti e non tutto il restante 20% sapeva utilizzare l’italiano. Essere definito Alfabeta inoltre non significava avere un reale possesso della lingua scritta. De mauro credeva che per raggiungere una padronanza accettabile della lingua era necessaria la frequenza della scuola superiore postelementare, la quale toccava solo l’8,9x1000 della popolazione tra 11 e 18 anni e in totale erano 600.000 gli italiani capaci di parlare italiano su 25 milioni (2,5%). Castellani pose il problema dell’esistenza di una fascia geografica mediana (parte della Marche, Lazio e Umbria), dove la natura delle parlate locali e un grado di istruzione anche elementare sembrava sufficiente per arrivare al possesso dell’italiano, secondo il Nuovo calcolo il 10% della popolazione era in grado di parlare italiano. Il nocciolo del problema riguardava il tipo di rapporto che si ritiene intercorra tra la lingua toscana parlata, i dialetti dell’area mediana e l’italiano, ma non muta il quadro generale. delle masse popolari, organizzate in grandi movimenti, attive con l’organizzazione di lotte contadine operaie, scioperi, raduni e manifestazioni di piazza: all’origine ideologie diverse (socialista, comunista, nazionalista, fascista) i partiti utilizzavano strumenti analoghi di comunicazione, (ricorso all’oratoria e mass media, stampa e propaganda), in lingua italiana, anche quando i destinatari erano dialettofoni. Prima guerra mondiale: masse di contadini sradicate dalla regioni di origine e riversate al fronte scuola di lingua italiana. Industrializzazione: spostamenti di popolazione in grandi agglomerati urbani, sviluppo delle tecnologie (radio, televisione, informatica, telematica). La storia della lingua nel Novecento è segnata dalle conseguenza dell’organizzazione dello stato unitario, dalle sue prime imprese “collettive”, dallo sviluppo sociale che vede emergere le classi popolari nelle forme più moderna della società di massa, con un ruolo crescente della tecnologia e della comunicazione. Coinvolgimento di classi prima escluse. L’italiano per secoli era utilizzato soprattutto nella letteratura, mentre lo spazio della comunicazione quotidiana era affidato ai dialetti; nel Novecento i dialetti rimasero vivi e vitali, ma l’italiano si affiancò ad essi nell’uso familiare e informale, per poi sempre più spesso sostituirli. Diffusione popolare della lingua processo di trasformazione più rapido che nei secoli precedenti (semplificazione, perdita di parole e di giri raffinati di sintassi). Una parte del lessico tradizionale si avviò sulla strada del declino, non più compreso dagli utenti meno raffinati (semplificazione delle strutture, diminuzione delle parole usate). Periodicamente discussioni sulla vera o presunta decadenza della lingua. 2. L’ORATORIA E LA PROSA D’AZIONE dalla guerra al fascismo L’oratoria del primo ‘900 richiama il tema dei discorsi rivolti alle masse da Mussolini (documentazione radiofonica e cinematografica). Gran parte del loro fascino stava nel rapporto diretto con la folla, secondo i dettami, appunto, dell’oratoria tradizionale.
Se dovessimo indicare un modello che, meglio di quello mussoliniano, rappresenta le tendenze di un’oratoria letteraria e magniloquente, coltissima, efficace, ben radicata anche nel militarismo patriottico della Grande Guerra, dovremmo riferirci a D’Annunzio, poeta soldato e uomo d’azione (discorsi e proclami sulla questione di Fiume e Dalmazia). 
Il modello dannunziano influì sulla retorica del Fascismo, insieme ad altri come Carducci. Nella lingua del fascismo e di Mussolini sono stati individuati i seguenti caratteri: abbondanza di metafore religiose (martire, asceta, etc.), militari (falangi, veliti), equestri (redini del proprio destino), oltre a tecnicismi di sapore romano, come Duce, littore, centurione e manipolo. 
Si aggiunga l’ossessione dei numeri: l’insistenza, ad esempio, sui milioni di italiani, sulle migliaia o decine di migliaia di caduti, di feriti, etc. Rispetto ai modelli di retorica alta prima esaminati, l’oratoria mussoliniana rivolta al popolo si distingue per un particolare tipo di dialogo con la folla, la quale risponde con l’ovazione collettiva. Ovviamente nel discorso mussoliniano hanno largo posto lo slogan, l’esagerazione e il luogo comune. Si arriva anche all’epiteto offensivo verso l’avversario. 3. LA POLITICA LINGUISTICA DEL FASCISMO Il fascismo ebbe una chiara politica linguistica manifestata in modo molto autoritario: la battaglia contro i forestierismi in nome dell’autarchia culturale, la repressione delle minoranze etniche e la polemica antidialettale. 
 Nel 1930 si ordinò la sospensione nei film di scene in lingua straniera. Nel 1940 l’Accademia d’Italia fu incaricata di esercitare una sorveglianza sulle parole forestiere e di indicare alternative, anche perché una legge dello stesso 1940 vietò l’uso di parole straniere nell’intestazione delle ditte, nelle attività professionali e nelle varie forme pubblicitarie. 
Durante il fascismo venne fondata la rivista “Lingua Nostra”, in cui agli interventi scientifici si affiancarono discussioni normative. Bruno Migliorini, in particolare, elaborò una concezione moderatamente avversa ai forestierismi, definita “neopurismo”.
A Migliorini si deve fra l’altro la brillante sostituzione della parola resgista al francese regisseur.
Con l’avvento della Repubblica è stata abrogata la normativa linguistica esterofoba. Ora in campo linguistico esiste una certa vitalità, dopo che è stata approvata una legge molto radicale sulla protezione delle minoranze, nella quale si riconosce tuttavia che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica (legge 15 dicembre 1999, n.482). 
Tornando alla battaglia fascista contro i forestierismi, va ricordato che furono pubblicati vari elenchi di parole proscritte, con indicazione dei relativi sostituti. 
Nella lingua comune, le parole suggerite dall’Accademia si affiancarono al forestierismo; ancora permane ai tempi nostri una concorrenza, diventata una pacifica convivenza, tra termini come “rimessa/garage” e “villetta/chalet”.
Durante il Fascismo vi fu anche una campagna per abolire l’allocutivo “Lei” (febbraio 1938), e sostituirlo col “Tu”, considerato più romano, e con il “Voi” (di rispetto, rivolgendosi ai superiori). La campagna non ebbe molto successo. 
All’inizio del ‘900 la Crusca tentava ancora di concludere una nuova versione del suo vocabolario, la quinta, avviata nel 1863. La mole dell’opera era davvero notevole, ma la realizzazione si trascinò stancamente. 
Quando nel 1923 divenne ministro della Pubblica istruzione Giovanni Gentile, filosofo vicino al regime fascista, fu tolto alla Crusca il compito di preparare il vocabolario. Si interruppe così la quinta impressione, giunta in tanti anni alla lettera “o”.
Il ventennio fascista si inaugurava, dal punto di vista lessicografico, con la soppressione dell’antico vocabolario dell’Accademia di Firenze; ma anche il nuovo e moderno vocabolario del fascismo, prodotto dall’Accademia d’Italia, non ebbe esito felice: la pubblicazione di Giulio Bertoni arrivò infatti solo al primo volume (1941, lettere da A a C).
Il vocabolario dell’Accademia d’Italia procedette, rispetto al Tommaseo, all’eliminazione di molte voci antiche. 
Nelle linee programmatiche, gli autori accennavano alla necessità dell’accettazione di vocaboli nuovi per designare idee e cose nuove. Ci si mostrava coscienti che i vocaboli non si impongono per autorità né di Accademie, né di decreti. Di fatto i forestierismi erano registrati nel nuovo vocabolario, e anche nella forma di prestiti non adattati, come boxe, bulldog e camion, posti in parentesi quadra al fine di segnalare la loro estraneità alla sostanza della lingua. 
Un aspetto innovativo è il criterio di citazione degli esempi, un compromesso fra la forma tradizionale della Crusca e di Tommaseo (ampia citazione degli autori) e quella del Giorgini-Broglio (elimina il riferimento agli autori): sono infatti citati gli scrittori, ma solo come documentazione di un uso comune, senza riferimento preciso all’opera.
Questo vocabolario non ebbe tuttavia influenza. Troppo ridotta risultò la parte realizzata rispetto al progetto, interrottosi con la caduta del Fascismo.
Un certo rilievo ebbe invece la realizzazione di un piccolo vocabolario destinato a fornire la pronuncia esatta delle parole italiane, a uso primario degli annunciatori della radio. Nel 1939, infatti, Bertoni e Ugolini pubblicarono il Prontuario di pronunzia e di ortografia, nel quale si affrontava la questione della pronuncia romana, là dove essa divergeva dalla fiorentina, rivendicando il ruolo di Roma nella questione della lingua. 
Veniva proposto, per conseguenza, nei casi di divergenza con Firenze, di accettare l’uso romano. 4. IL LINGUAGGIO LETTERARIO NELLA PRIMA META’ DEL SECOLO La lingua italiana si presenta nel ‘900 con un ribollire di novità. Probabilmente Carducci è l’ultimo scrittore che incarna il ruolo tradizionale del vate.
Anche la poesia di D’Annunzio non rinuncia alla nobilitazione attraverso la selezione lessicale. G.L. Beccaria ricorda che ippopotamo diventa “pachidermo fiumale”.
D’altra parte, la poesia di D’Annunzio si presenta come innovativa, per la capacità di sperimentare una miriade di forme diverse (anche metriche, fino a preludere ormai al verso libero), e per il gusto di citare e utilizzare lingua, esempi, stilemi antichi. D’Annunzio è un consumatore onnivoro di parole, è un compulsatore di vocabolari e di lessici specialistici. Gli si devono, fra l’altro, alcuni neologismi tra i quali velivolo per aeroplano, così come ha avuto fortuna il nome da lui suggerito per la Rinascente (grande emporio milanese distrutto da un incendio e rinato dalle proprie ceneri). 
Inoltre collaborò con la nascente cinematografia del muto, fornendo le didascalie e i nomi di persona latini e punici per il colossal del 1914 Cabiria. 
Una prima rottura col linguaggio poetico tradizionale si ha con Pascoli, con i crepuscolari e le avanguardie. 
Benché Pascoli utilizzi parole colte e latinismi, benché sappia maneggiare perfettamente la forma antica, con lui “cade” la distinzione fra parole poetiche e non poetiche, fino ad includere dialettismi, regionalismi e persino un po’ di italoamericano in Italy.
La poesia crepuscolare accentuò nel verso la tendenza verso la prosasticità, rovesciò il tono sublime. In Gozzano, il rovesciamento dei toni si ha mediante una dissacrante ironia.
Quanto all’avanguardia, in Italia essa si identifica sostanzialmente col futurismo. Fra le innovazioni più vistose ed effimere ricordiamo l’uso di parole miste a immagini, l’uso di caratteri tipografici di dimensioni diverse per rendere l’intensità e il “volume fonico” delle parole, l’abolizione della punteggiatura e il largo uso di onomatopee.
Le punte più innovative della prosa dannunziana si possono indicare nel Notturno e nel tardo Libro segreto. La prosa del Notturno si caratterizza per il periodare breve e brevissimo, per la sintassi nominale, per i frequenti “a capo”, per la presenza di elementi fonici e ritmici nella frase di andamento lirico.
Ecco un esempio in cui D’Annunzio, cieco, si impersona in una rondine:
“Entra nella Corte Contarina. Un grido, due gridi. / Viene dalla riva degli Schiavoni. / Passò sopra Chioggia. / Volò a San Francesco del deserto”.
D’Annunzio, dunque, col suo gusto per lo sperimentalismo, è una sorta di Giano bifronte: si pone a chiusura di un ciclo storico e al tempo stesso inaugura nuove tendenze. 
Un interessante riflesso del parlato si ha nella prosa di Pirandello, nelle opere teatrali, dove si ha la presenza di una serie di interiezioni frequentissime come “ah sì!”, “eh via!”, e connettivi come “è vero”, “ si sa”.
Va ricordato inoltre che Pirandello “è sempre stato programmaticamente diffidente verso il dialetto come strumento letterario”.
L’altro grande scrittore del primo ‘900, Italo Svevo, è famoso per il rapporto non facile con la lingua italiana, determinato dalla sua provenienza da un’area periferica come quella di Trieste. A lui fu rivolta l’accusa di “scriver male”. 
La mancata adesione ai modelli del bello scrivere, in una tradizione iperletteraria e culta come quella italiana poteva essere persino una forza, una verginità; e forse effettivamente lo fu, nel senso che favorì una diversità e leggibilità del testo.
Uno dei punti di riferimento per gli scrittori rimane sempre però il dialetto. Bisogna distinguere fra l’utilizzazione diretta e le varie miscele che sono possibili combinando dialetto e lingua. Nel ‘900, anche il toscano può essere considerato alla stregua di un dialetto: Federico Tozzi introduce senesismi dei suoi romanzi (parole come astiare per odiare). Negli scrittori invece mistilinguisti come Carlo Emilio Gadda, non c’è un solo dialetto, ma una varietà: lombardo, fiorentino, romanesco, molisano, etc. 5. DAL “NEOITALIANO” DI PASOLINI ALLA LINGUA “STANDARD” A Pasolini si deve un clamoroso intervento nella “questione della lingua”. Nato come conferenza, questo intervento fu infine pubblicato sulla rivista “Rinascita” del 16 dicembre 1964 con il titolo “Nuove questioni linguistiche”.
Partendo da queste premesse marxiste e gramsciane, sosteneva che era nato un nuovo italiano, i cui centri irradiatori stavano al Nord del paese, dove avevano sede le grandi fabbriche, dove era diffusa e sviluppata la moderna cultura industriale.
Egli annunciava che era nato “l’italiano come lingua nazionale”, nel senso che per la prima volta una borghesia egemone era in grado di imporre in maniera omogenea i suoi modelli alle classi subalterne. Tale nuovo italiano poteva contare su:
1) la semplificazione sintattica, con la caduta di forme idiomatiche e metaforiche. 
2) La drastica diminuzione dei latinismi. 
3) La prevalenze dell’influenza tecnica rispetto a quella della letteratura. Un coro di fischi accolse queste acute intuizioni di Pasolini. Diversi anni dopo Pasolini intervenne per rivendicare una funzione rivoluzionaria dei dialetti e per lamentare l’imbarbarimento del linguaggio dei giovani.
Egli utilizzava come sistema di riferimento il rapporto con la “lingua media” (negativa). Sembrava privilegiare viceversa gli esperimenti di plurilinguismo, alla maniera di Gadda.
Vittorio Coletti, parlando di narratori come Calvino, Tomasi di Lampedusa, Nathalie Ginzburg etc., osserva che la scelta da essi compiuta in favore della “lingua media e comune, dopo gli abbassamenti del neorealismo e le infrazioni espressionistiche o d’avanguardia, è innanzitutto una scelta di una lingua più ricca e più complessa di quella ammessa dal romanzo nell’immediato dopoguerra”.
Si noti inoltre che gli scrittori della normalità stilistica, sono alla fin fine gli autori oggi più letti dal grande pubblico. 
Lo scrittore gode oggi di una libertà grandissima: può anche arrivare alle soglie di una lingua semidistrutta e massificata, che è stata ironicamente definita anziché standard, standa (Antonelli), in riferimento alla nota catena di supermercati.
Nei poeti come Saba, Ungaretti e Montale, il ‘900 sperimenta una grande varietà di soluzioni stilistiche, dall’apertura al linguaggio comune e quotidiano, fino agli esiti arditi di Zanzotto. Montale, dopo aver sapientemente selezionato quanto gli offriva la tradizione primo-novecentesca, è arrivato, in Satura (1971) a una lingua spesso ironica, distaccata, prosastica, intrisa di citazioni di elementi quotidiani, tuttavia calcolata con straordinaria eleganza e letterarietà. 6. VERSO L’UNIFICAZIONE: “MASS-MEDIA”, DIALETTI, IMMIGRAZIONE Vi era stata indubbiamente nel corso del ‘900 una perdita nei dialetti e nell’espressività gergale. Era nata un’Italia ben diversa da quella povera, contadina e patriarcale della prima metà del secolo. C’era stato un cambiamento al livello della scolarizzazione, prima di tutto. 
L’analfabetismo, dal 75% del 1861 e dal 40% del 1911, era passato poi al 14% nel 1951, all’8,3% nel 1961 e al 5,2% nel 1971. I sondaggi ci dicono anche che è progressivamente diminuito lo spazio del dialetto. Si aggiunga che i dialetti hanno subito un processo di avvicinamento alla lingua comune e che quindi oggi sono più “italianizzati”.
Negli anni ’60 e ’70, anche la fabbrica ha svolto una funzione di scuola, promuovendo ed integrando nella realtà cittadina e industriale, masse di origine contadina.
La radio italiana nacque nel 1924. La televisione del gennaio del 1954. De Mauro ne ha messo in evidenza gli effetti, decisivi per l’unificazione linguistica, legati alla Rai. 
L’effettiva influenza odierna linguistica della televisione è assai minore comunque a quella del suo primo decennio di vita. 
Per la diffusione di forme della varietà regionale romana, ha avuto largo spazio la Rai; quanto alle reti private Mediaste, esse diffondono spesso il modello linguistico settentrionale, in genere milanese, il cui prestigio è andato crescendo. 
Il quotidiano è il “tramite fondamentale fra l’uso colto e letterario dell’italiano e la lingua parlata” (Beccaria), e inoltre il giornale può essere assunto come un indice della lingua media.
Nel giornale troviamo una pluralità di sottocodici (politico e finanziario, per es.) e di registri (aulico, brillante, etc.). Il luogo di maggiore originalità del linguaggio del giornale sta nei titoli. Lo slogan deve colpire il lettore, e spesso consiste in una frase nominale. 
Gran parte della fortuna recente di parole come ABS, retrofit o air-bag è affidata alla martellante pubblicità delle case automobilistiche.
La lingua della pubblicità tende sovente a forzare, ad esempio mediante un marcato uso dei superlativi, sia con desinenza –issimo, sia mediante i prefissi extra, iper, super, etc. 7. L’ITALIANO DELL’USO MEDIO E LA LINGUA SELVAGGIA L’italiano dell’uso medio è comunemente parlato a livello non formale. La differenza rispetto all’italiano che si usa chiamare standard sta nel fatto che questo italiano dell’uso medio accoglierebbe fenomeni del parlato, presenti magari da tempo nello scritto, ma generalmente tenuti a freno dalla norma grammaticale, che ha sempre tentato di respingerli ed emarginarli. Lo standard rappresenta dunque un italiano ufficiale ed astratto, mentre l’italiano dell’uso medio rappresenta una realtà diffusa. Questi ne sono tratti caratteristici:
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