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Marazzini capitoli 8-9-10, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunti dettagliati del libro "Marazzini"

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 30/01/2019

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maria-iacio 🇮🇹

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Scarica Marazzini capitoli 8-9-10 e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! MARAZZINI – Breve storia della lingua italiana CAPITOLO VIII – L’Ottocento 1. PURISMO E CLASSICISMO All’inizio dell’ 800 si sviluppa un movimento chiamato “Purismo”, che indica l’intolleranza di fronte ad ogni innovazione, nato anche come reazione all’egemonia della cultura francese e dell’invadenza della lingua d’oltralpe. Come conseguenza si sfocia in un forte antimodernismo, legato al culto dell’epoca d’oro (Il Trecento). Il suddetto pensiero, nonostante la rigidità e l’inattualità rispetto all’epoca ottocentesca, mette, ben presto, radici profonde, poiché favorito dalla cultura tradizionalistica e conservatorista della linguistica italiana (da sempre basata su norme e culti arcaici). Dionisotti, infatti, si chiede come sia possibile che una dottrina del genere sia durata così tanto, riferendosi alle teorie elaborate da colui che viene considerato il capostipite del Purismo: Antonio Cesari(1760-1828), autore del manifesto purista “Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana”. Cesari è convinto che nel 300, appunto “l’epoca d’oro”,tutti parlassero una lingua corretta, dai libri di alta letteratura, fino alle scritture dei mercati doganali. Da qui la sua volontà di ristabilire le rigide norme tradizionali, senza però riuscire a dare logiche motivazioni. Come qualsiasi pensiero, esso scaturisce e forma punti di vista contrastanti da parte di figure singolari. In pieno accordo con Cesari, troviamo Botta, così come Angeloni (tutti con ideali reazionari, che non combaciano con il purismo, prettamente conservatorista). Basilio Puoti, fondatore di una scuola libera e privata dedicata all’insegnamento della lingua italiana, maestro di De Sanctis e Settembrini, si mostra meno fanatico rispetto al capostipite. Vincenzo Monti, per contrasto, attacca il Cesari (epiteto: grammuffastronzolo di Verona), condannando l’esagerata dottrina purista di aver rovinato il Vocabolario della Crusca inserendo termini considerati, oramai, antiquati e non adatti (la polemica poi si ingigantì poiché colpì lo stesso Vocabolario). In sostanza, però, le scritture montiane intitolate “Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca” risultano essere una tappa fondamentale della lessicografia italiana. Oltre Monti, anche Stendhal con “Des périls de la langue italienne”, condanna con forza il purismo, poiché la lingua italiana si presenta con vivaci dialetti e una grammatica artificiosa, al contempo. 2. LA SOLUZIONE MANZONIANA ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA Il milanese Manzoni (1785-1873), si trova, in questo clima, a dover fronteggiare il problema dell’italiano, concepito, dalla maggior parte del paese, come una lingua ormai statica e ‘morta’, utilizzata solo nelle occasioni ufficiali e che lasciava posto, nel quotidiano, ad espressioni dialettali, o, addirittura, una lingua straniera come il francese. Manzoni si interessa, già dai primi anni delle proprie scritture, a questa situazione, anche in scritti rimasti inediti, non completi, o pubblicati postumi, come, ad esempio, “Lettera intorno al Vocabolario” (1868), “Sentir Messa” (1932) e il trattato “Della lingua italiana” (1974). Egli affronta ‘la questione della lingua’, attraversando diverse fasi: • La fase detta ‘eclettica’ (1821), con la stesura del “Fermo e Lucia”, in questa fase egli cerca di raggiungere uno stile moderno, utilizzando linguaggio letterario integrando anche, francesismi, analogie e milanesisimi; • La fase ‘toscano-milanese’ (1825-27) , con la stesura di quegli anni dei “Promessi Sposi”, utilizzando una lingua genericamente toscana, ma a livello teorico, ottenuta consultando vocabolari e le postille di Cesari sul Vocabolario della Crusca (espressioni arcaiche e in disuso); • Manzoni è a Firenze, contatto diretto con il fiorentino, (1827), egli elabora la propria riflessione definitiva: il fiorentino deve collaborare all’unificazione; • Stesura dei “Promessi Sposi” dell’edizione del 1840-42, corretta e resa scorrevole, semplice da capire, purificata da espressioni obsolete, in conclusione un fiorentino dell’uso colto; • 1868, Lettera al ministro manzoniano Broglio: l’italiano deve essere diffuso, insegnato nelle scuole (educazione popolare), uso di vocabolari bilingui (toscano-italiano), per l’Unità: ‘questione della lingua’ si collega alla ‘questione sociale’. Da questo momento, si accende una polemica vivace, che discosta scrittori come Settembrini, Imbriani, Lambruschini e Fanfani da Manzoni, che rivendicano la funzione dello scrittore come istitutore del corretto uso della lingua, ma che al contempo rende, per la prima volta, libera la prosa italiana dall’impaccio della retorica. Manzoni, coinvolge anche il manzoniano Bonghi che con il saggio ‘Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia’ (1855), mette in evidenza i difetti della trattatistica settecentesca che favoriva il francese, e degli scritti di Boccaccio o ad esempio Machiavelli, che con le proprie artificiosità di linguaggio, rendevano poco piacevole la lettura e, quindi, poco divulgativa. Il Bonghi propone, così, esempi più semplici e lineari. Per Manzoni, la funzione primaria era quella di mostrare l’uso vivo di Firenze, e poi, nel caso, bisognava documentare gli esempi degli scrittori del passato con lessico storico. In conclusione, l’unico fermo del lavoro di Manzoni nella scuola è, probabilmente, il prestigio di Carducci (classicista), professore-poeta, avversario agguerrito del ‘popolanesimo’, antimanzoniano, e antipurista, poiché in generale, le teorie di Manzoni, interessando molti scrittori in questo tema, si dimostrano efficaci: • nasce la prassi della ‘risciacquatura in Arno’, periodico soggiorno a Firenze per non perdere l’autenticità della lingua toscana; • lo scritto “Idioma gentile” (1905) di De Amicis, influisce sull’insegnamento scolastico, facendo capire l’importanza della praticità e della semplicità nella lingua. 3. UNA STAGIONE D’ORO DELLA LESSICOGRAFIA L’Ottocento è stato il secolo dei dizionari, si inizia partendo da discussioni che hanno come oggetto il Vocabolario della Crusca, ma si realizzano al contempo anche numerosi vocabolari: • “Vocabolario della lingua italiana” di Manuzzi, purista come Cesari. Corretto, ma con una tendenza a radicarsi nel passato; • “Dizionario della lingua italiana” di Orioli, Costa e Cardinali; • “Dizionario della Minerva” di Carrer e Federici; Gli ultimi due dichiarano di aver integrato la Crusca con gli scritti di Villanova, Monti e Cesari. Le opere citate sembrano però monotone, poiché il testo di riferimento è lo stesso e quindi le giunte vengono unite in maniera meccanica, senza nessun intervento esterno. Si utilizza, inoltre, l’asterisco per delineare le voci aggiunte, che permettono di visualizzare facilmente le novità ma sono anche dimostrazione della difficoltà di amalgamare l’insieme e tagliare con il passato. • Ma ad un certo punto, esce il “Vocabolario universale italiano” (1829-40) della società tipografica napoletana Tramater. La base è ancora la Crusca, ma ha un taglio enciclopedico, dedicando attenzione alle voci tecniche, scientifiche, letterarie, artistiche. C’è un superamento della tradizionalità: non ci si basa più sulle conoscenze del lettore ma si offre una definizione dal punto di vista scientifico, esaustiva e completa. Esso viene considerato il secondo migliore vocabolario sul mercato, dopo il Dizionario di Tommaseo-Bellini. Quest’ultimo si caratterizza per l’originalità (figura singolare dell’autore già lessicografo, aveva scritto il Dizionario dei sinonimi) e motivazioni socio-culturali (L’editore Pomba, con cui fece in contratto, era moderno e voleva rivolgersi ad un intellettuale non piemontese). Tommaseo riversò passionalità nella propria opera, spiegando i termini in “ordine delle idee” ossia con un criterio logico, da un significato universale e comune, e a seguire tutti gli altri significati,individuati da numeri progressivi. Egli forniva sia definizioni corrette, impersonali e antiche, sia giudizi soggettivi, umoristici, marcando con croci. Ad esempio si dimostra la soggettività nella voce “precombere” contro Leopardi. Egli coniuga il criterio della sincornia della diacronia ( sincronia: fatto linguistico in un dato momento, estratto dalla sua evoluzione nel tempo / diacronia: fatto linguistico tenendo in considerazione la relazione con il passato). Ci sono, comunque, molti difetti nel dizionario, poiché pecca di ridondanza e disordine ma è comunque considerato il migliore dell’800; • Altro vocabolario, coerente con impostazione manzoniana: vocabolario senza esempi d’autore (dall’ Academie francaise) , fiorentinismo dell’uso vivo, no voci arcaiche. Per Manzoni, la funzione primaria era disprezzandolo. Nonostante possa sembrare conservatorista e reazionista, Giordani auspica ad una lingua che unisca tutti. Porta lo polemizza scrivendo 12 sonetti satirici. CAPITOLO IX – Il Novecento 1. IL LINGUAGGIO LETTERARIO NELLA PRIMA META’ DEL SECOLO Gli autori vissuti a cavallo tra i due secoli, come D’Annunzio e Pascoli, testimoniano il cambiamento in atto. La lingua italiana, nel ‘900, si presenta come un ribollire di novità che si scontra con il permanere di una lingua arcaica. Carducci è l’ultimo scrittore che incarna a pieno il ruolo di poeta-vate, con una lingua che aderisce alle convenzioni. La poesia di D’Annunzio, pur aderendo alla tradizione(nobilitazione, termini arcaici, specialistici), si presenta come innovativa, con forme metriche diverse, verso libero, modelli stranieri, neologismi. D’Annunzio, superuomo, che imposta la propria vita in funzione dell’arte, si interessa alla politica, al marketing, alla pubblicità commerciale, alla cinematografia del muto. La prima vera rottura con il linguaggio poetico tradizionale si ha con Pascoli, con i crepuscolari (poesia che simboleggia il tramonto della trad. poetica, parole semplici e umili, la “piccole cose”), e con le avanguardie. Con Pascoli cade la distinzione tra parole poetiche e non poetiche, con utilizzo di regionalismi, parole quotidiane e italoamericano. La poesia crepuscolare, invece, accentua la prosasticità e non accetta il tono sublime, mediante una dissacrante ironia. Gozzano ne è un esponente. Per quanto riguarda l’avanguardia, essa interessa in particolare il Futurismo, che vuole un rinnovamento della forma, una rivoluzione tipografica: uso di parole miste a immagini, caratteri di dimensioni diverse per rendere l’idea del tono, abolizione della punteggiatura, uso largo dell’onomatopea. La prosa, anch’essa, subisce delle innovazioni. D’Annunzio, con il suo sperimentalismo, ne il “Notturno”, utilizza un periodare breve, sintassi nominale, frequenti ‘a capo’, elementi fonici e ritmici. Egli si pone a chiusura di un ciclo storico ma al tempo stesso inaugura nuove tendenze. Pirandello, sperimenta nelle sue opere teatrali con connettivi e interiezioni frequenti, non preferendo il dialetto, anche se non rinuncia a lasciare sfumature di colore locale. Svevo, famoso per il rapporto non facile con la lingua italiana, per la sua provenienza da un’area periferica come Trieste, e per la mancata adesione ai modelli del bello scrivere, riesce comunque a conquistare un pubblico vastissimo, con la sua diversità e leggibilità del testo. Uno dei punti di riferimento degli scrittori è il dialetto, distinto tra un’utilizzazione diretta e le varie miscele che escono fuori dalla combinazione tra dialetto e lingua. Tozzi utilizza molto senismi (Siena, in Toscana); Gli scrittori mistilingui, come Gadda, usano una varietà di dialetti con un processo di straniamento (adottare un punto di vista estraneo, materiali eterogenei convergono nella pagina. 2. L’ORATORIA E LA PROSA D’AZIONE Nel ‘9, l’oratoria di piazza di fronte alla folla, gioca un ruolo decisivo, e di essa è fondamentale proprio il lessico utilizzato. Possiamo citare Mussolini, famoso per il suo stabilire un contatto diretto e dialogo con il pubblico (e ovazione collettiva della folla) con slogan, esagerazione e luoghi comuni; ma anche lo stesso D’Annunzio, con il suo militarismo patriottico (questione di Dalmazia e Fiume). Nei discorsi dei due personaggi di cui si è parlato, possiamo leggere metafore religiose, equestri, militari e tecnicismi romani, ossessione dei numeri. 3. LA POLITICA LINGUISTICA DEL FASCISMO Il Fascismo mette in atto una politica linguistica, in modo autoritario. Vengono proclamate: • La repressione delle minoranze etniche, con un politica xenofoba che costringe l’italianizzazione delle aree sotto i comando fascista; • La polemica antidialettale; • La lotta contro i forestierismi: vengono banditi film in lingua straniera (1930); l’Accademia d’Italia, principale istituzione culturale del regime, vieta l’uso di parole straniere nei nomi di ditte e pubblicità. Vengono pubblicati libri con parole per sostituire quelle giudicate non adatte, ma restano termini stranieri come “tram, tennis”; Si crea una polemica tra il lei ed il voi. Ma ci furono anche conseguenze positive delle discussioni normative: • fondazione della rivista “Lingua Nostra”; • Migliorini elabora il “neopurismo”, una concezione politica avversa ai forestierismi , ma più morbida rispetto a quella xenofoba fascista. Con l’avvento della Repubblica, si eliminano le tendenze esterofobe; vengono protette le minoranze linguistiche anche se la lingua ufficiale è l’italiano (legge 1999). In sostanza, si arriva alla conclusione che è meglio lasciare che la lingua si crei da sola. All’inizio dei ‘900, la crusca tenda di concludere il suo quinto vocabolario, ma non riesce. Al contrario, l’Accademia d’Italia, con Bertoni, elabora un nuovo vocabolario (elimina voci antiche, presenza equilibrati di neologismi) ma non ha l’esito sperato. Nasce, però, il vocabolario per la pronuncia di termini con accento romano o toscano, sempre con Bertoni, e vince il toscano. 4. DAL “NEOITALIANO” DI PASOLINI, ALLA LINGUA “STANDA” Pasolini, a cui si deve l’intervento sulla questione della lingua, chiamato “Nuove questioni linguistiche” (1964), in cui compie un’analisi sociolinguistica della situazione presente. Parte da premesse marxiste e gramsciane e sostiene che sia nato un nuovo italiano, dal Nord dove ci sono le grandi fabbriche e a cultura industriale. Per lui è questa la nascita dell’italiano nazionale, nel senso di un modello che la borghesia poteva imporre alle classi subalterne, con le seguenti caratteristiche: • Semplificazione sintattica, con caduta di forme idiomatiche e metaforiche; • Diminuzione dei latinismi; • Prevalenza dell’influenza della tecnica rispetto a quella della letteratura; Polemica su tutto ciò, Pasolini rivendica anche la funzione del dialetto, rivoluzionaria. Egli considera antistilistica la lingua media nata, e privilegia gli esperimenti di plurilinguismo. Si nota, però che gli autori scelti dalle scuole come Cassola, Levi , Moravia, sono tutti appartenenti ad una normalità linguistica, nella media. Ma anche Saba e Montale (innovatori) hanno avuto tantissimo successo. Lo scrittore ha libertà di scelta tra una lingua “stand(a)” , massificata e semidistrutta o una innovativa. Il dialetto è stato fonte di arricchimento linguistico, e ha portato anche a una migliore comunicazione tra pubblico e scrittore (Partigiano Johnny di Fenoglio). 5.VERSO L’UNIFICAZIONE: MASS MEDIA, DIALETTI, IMMIGRAZIONE Pasolini ha previsto una rivoluzione nella storia dell’italiano, usando il suo stile innovativo. Ha ragione, poiché ci sono stati avvenimenti importanti della seconda metà del secolo, ma che non hanno capovolto interamente la concezione della lingua. Non si ha un italiano completamente tecnologico perché l’espressività umana tende sempre ad esserci, però c’è stata una perdita dei dialetti, grazie alla scolarizzazione che ha abbassato il numero di analfabeti ( 5% nel 1971). Il progresso è stato, dunque costante, ma il dialetto ha continuato e continua ancora oggi a coesistere con la lingua, anche se negli anziani rispetto ai giovani, nel Sud rispetto al Nord. Il dialetto, ha, però, subito un avvicinamento alla lingua comune e si è “italianizzato”, ma bisogna tener conto anche dalle motivazione psicologiche che determinano i cambiamenti sociolinguistici. Inoltre, negli anni 60, 70, anche la fabbrica ha avuto funzione di scuola, ispirata al marxismo, integrando nella realtà cittadina quella contadina. La radio italiana nasce nel 1924, la televisione nel 1954 inizia a trasmettere in maniera regolare, e questi media sono stati fondamentali, anche il cinema e di giornali (tramite fra l’uso colto e letterario dell’italiano). Nel giornale troviamo la lingua media, con sottocodici, e registri vari (titolo impo, frase nominale, come lo slogan della pubblicità che deve incuriosire e suggestionare). 6. L’ITALIANO DELL’USO MEDIO E LA LINGUA SELVAGGIA L’italiano di oggi è una straordinaria varietà di idiomi, che permette di caratterizzare socialmente una persona a seconda di come parla, in particolare in base al lessico, al modo, all’uso proprio o improprio della grammatica e al grado di istruzione. Gli idiomi sono settoriali e si distinguono nel campo della tecnologia, della scienza e della pubblicità per la presenza di elementi specifici o appartenenti ad altre lingue e ormai assimilati dall’italiano di uso medio. Il testo in uso, il Marazzini, tratta in particolar modo dell’evoluzione subita dalla lingua italiana nel tempo attraverso l’ausilio di mass media quali la radio e la televisione. È stato in questo periodo, infatti, che l’italiano è andato diffondendosi in tutta la penisola italica. “L’italiano contemporaneo può essere suddiviso in sei varietà” dice Francesco Sabatini, dalla più alta: 1. Italiano standard: nazionale, formale, sia scritto sia orale, utilizzato dalle classi istruite. E’ utilizzato a livello teorico, non prativo, ed è un italiano codificato (di regole); 2. Italiano dell’uso medio (o neostandard): nazionale, a metà tra informale e formale, sia scritto, sia orale, utilizzato dalle classi istruite e colte che accettano queste forme come corrette (cosa che pochi anni fa non era permessa). E’ la lingua viva che perde certi tratti che imporrebbe la grammatica, ed è la più utilizzata. Ha caratteristiche regionali e informali e fenomeni grammaticali di livello più basso. Esso è accettato dall’Accademia della Crusca; 3. Italiano regionale delle classi istruite: Regionale, più informale del secondo ma utilizzato comunque dalla classe istruita. E’ formata inoltre da geosinonimi che fanno capire la nostra provenienza (fornaro, prestinaio); 4. Italiano popolare (o regionale delle classi popolari): Regionale, anch’essa parlata e scritta, con tutto ciò che compete (errori); 5. Dialetto regionale; 6. Dialetto locale. DIALETTI EFFETTIVI ITALIANO DELL’USO MEDIO Gli ELEMENTI dell’italiano dell’uso medio, un italiano unitario, poiché essi si trovano ovunque: -L’uso del pronome personale soggetto: Il problema si pone alla 3p.s., ad EGLI, ESSO, ESSA, si sostituisce il pronome personale complemento LUI, LEI, che viene dunque utilizzato come soggetto e complemento (semplificazione pronominale); -“Gli” sincretico: Utilizzo di “gli” anche con valore plurale e femminile (semplificazione pronominale). Es. “Ho detto a Mario= GLI” / “Ho detto a Maria = LE” / Plurale: Ho detto LORO, -Abbreviazione degli aggettivi: Soprattutto al Nord, questo = ‘sto. Es. “Sto tipo”; -Utilizzo del pronome dimostrativo al posto dell’articolo determinativo: Lo utilizziamo per attualizzare ciò che raccontiamo. Es. “Questo mi ha detto” (in un’altra situazione); - Attualizzazione: Aggiunta, ridondanze, pleunasmi: Es. Questo qui / Quello lì -Ridondanza di “ci”, in particolare accanto ad AVERE: Es. - Hai il biglietto? - Sì, ce l’ho. Sì, l’ho. -Pronomi “a me mi..” anche se lo colleghiamo all’italiano popolare; -Questo + ne: Che hanno lo stesso valore. Es. Di questo/ ne parleremo dopo; -Lo + verbi come RICORDARE e SAPERE: Che si riflettono già su sé stessi. Es. Lo ricordo / Lo so; - “Mi” affettivo: Elemento che sottolinea l’affetto che uno ha per sé stesso, sono azioni che possiamo fare solo noi. Es. Mi mangio; Mi rileggo gli appunti; Mi bevo; -Dislocazioni (o costruzioni) con complemento oggetto principale: a sinistra , es. Sì, le mele le mangio; a destra, es. Sì, le mangio le mele; -Frase scissa, “gallismo”: Separiamo il soggetto dal suo verbo, mettendo il “che”. Il significato è simile ma non uguale”, è un modo per catturare l’attenzione di chi ci ascolta Es. “E’ mamma che canta” ; “Mamma canta”-Forme riempitive:Che introducono ma non dicono nulla di fondamentale: Es. Voglio dire.. / Quello che.. ; -L’uso del CHE, ossia il CHE POLIVALENTE: Prende più valori, oltre a quello relativo: ◦ Forma afferetica di “Perché”, abbreviazione: Es. “Non uscire che la cena è pronta”; ◦ “Che” con valore temporale: Es. “Mi alzo che è ancora buio”; ◦ Valore di congiunzione finale, di “Affinchè”: Es. “A volte mi chiamava affinchè salissi”; ◦ Valore consecutivo: Es. “E’ bravissimo che, a confronto, quelli sono dei dilettanti”; ◦ Valore esplicativo: Es. “Vieni che ti pettino”; ◦ Valore enfatizzante: Es. “Che bel sogno che ho fatto”; -Annessione del PERCHE’ nelle domande: Es. “Perché non sei venuto?” ”Come mai?” -CHE + COSA, sostituito da COSA: Quando dovrebbero esserci entrambi; Capitolo X – Quadro linguistico dell’Italia attuale 1. DOVE SI PARLA L’ITALIANO L’italiano è, oggi, parlato in tutto il territorio della Repubblica italiana, ne è la lingua ufficiale (anche se la Costituzione non le ha affermato esplicitamente il titolo). L’italiano è parlato nello stato del Vaticano, nella Repubblica di San Marino, nei Cantoni svizzeri italiani, oltre che nel Principato di Monaco, in Istria, Dalmazia, nelle varie comunità di italiani nel mondo e a Malta. Esso è parlato da circa 60 milioni di persone. 2. GLI ALLOGLOTTI In Italia, però, c’è anche chi parla lingue diverse, gli alloglotti “altre-lingue”, di origine romanza e non romanza, parlate da minoranze linguistiche, ossia un numero consistente di alloglotti, pur sempre in minoranza, da propaggini di alloglotti, ossia aree linguistiche più grandi, situate fuori il nostro territorio nazionale ma che si estendo in parte nei nostri confini e da isole linguistiche per indicare comunità di alloglotti esigue ed isolate. Negli anni ci sono state accese discussioni per la tutela di queste comunità, e oggi l’Italia le tutela. Per quanto riguarda le lingue romanze, possiamo citare: • il provenzale in Valle di Susa, e a Foggia; • il francese in Valle D’Aosta, in cui esso ha lo status di lingua ufficiale, affianco all’italiano; • il ladino, considerato qualcosa di più di un semplice dialetto (viene insegnato) in Friuili, in territorio svizzero (lì è Nationalsprache); • il sardo, altro dialetto, si distingue in sassarese, gallurese, logudorese, campi danese; • il catalano in Sardegna, in seguito alla conquista di Pietro D’Aragona; Accanto ci sono le lingue non romanze: • il tedesco nei Sette Comuni del Vicentino, in Trentino Alto Adige (Sud Tirolo, Bolzano), a statuto speciale, con status di lingua ufficiale, insegnato a scuola come prima lingua, poichè è un dialetto tedesco; • il greco in Calabria (Bova, pendici dell’Aspromonte) e in Salento, la cui esistenza p dovuta al vedere in quella della Calabria l’eredità della Magna Grecia e nell’altra la conseguenza dell’occupazione bizantina in Italia meridionale; • sloveno in Udine, Trieste; • albanese in Molise, dal XV secolo, ad Ururi ( tra Campobasso e Foggia), Pescara; I nuovi gruppi etnolinguistici dovrebbero essere di circa 2 milioni e la nuova immigrazione ha portato anche individui che non vogliono integrarsi, con numerose problematiche. 3. AREE DIALETTALI E CLASSIFICAZIONE DEI DIALETTI L’Italia è stata classificata in 3 aree diverse per i dialetti: Settentrionale, Centrale e Meridionale. La linea La Spezia-Rimini divide i dialetti settentrionali da quelli centro-meridionali, e la linea Roma-Ancona divide i centrali dai meridionali. La linea La S.-Rimini è una frontiera linguistica poiché fu la frontiera tra gallici ed etruschi e in seguito l’arcidiocesi di Ravenna da quella di Roma. Nelle parlate dialettali qui si ha: • lo scempiamento delle consonanti geminate (spala-spalla); • l’indebolimento delle occlusive sorde in posizione intervocalica (fradel- fratello); • la caduta delle vocali finali (an-anno); • la contrazione delle sillabe atone (slar per sellaio). Sono caratteristiche dei dialetti gallo-italici, e in altre aree ci sono sfumature meno nette. La linea Roma-Ancona, in cui ci sono fenomeni come: • la sonorizzazione delle consonanti sorde in posizione post-nasale (angora-ancora); • l’uso di tenere al posto di avere; • l’uso del possessivo in posizione proclitica (fìgliomo- figlio mio). Non è una classificazione semplice, e ci sono spesso eccezioni e anomalie, l’italiano è una lingua che possiede termini alti, ricercati, ma quando si scende nel livello familiare (ambito culinario con i cibi tipici ad esempio), le differenze diventano marcate. Molto forte è la variabilità dei dialetti. 4. GLI ITALIANI REGIONALI L’italiano non è parlato in modo uniforme nell’intero territorio nazionale, e dipende dalla posizione geografica, influenza dei dialetti locali. Queste diverse varietà vengono chiamate “varietà diatopiche dell’italiano” o “italiani regionali” (De Mauro). La prima differenza si ha nella pronuncia. Ci sono quattro varietà: meridionale, settentrionale, toscana e romana. Roma, infatti, poiché capitale, ha importanza notevole e a lei si devono termini come: caciara, inghippo, intrallazzo. In sostanza, le differenze principali si incontrano a livello fonetico, ma anche in sintassi. 5. ITALIANO, FIORENTINO E TOSCANO Il toscano è la parlata regionale che più si avvicina alla lingua letteraria, poiché essa derica dal toscano trecentesco (quella senese, pisano-lucchese). Il fiorentino ha in comune con l’italiano: l’anafonesi (“innalzamento di suono” è una trasformazione che riguarda due vocali in posizione tonica, ovvero [o] e [e]); non c’è metafonesi (fenomeno fonologico che consiste nella modificazione del suono di una parola per l'influenza della vocale finale sulla vocale tonica); il passaggio di e a i (nepote-nipote); Ma non ha in comune la “gorgia” ossia la “c” pronunciata come “c” ad esempio “lahasa” come “casa”; la tendenza alla monottongazione di –uo (bòno,nòvo- buono,nuovo).
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