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Martin Heidegger - Essere e Tempo, Sintesi del corso di Filosofia

Riassunto esaustivo dal paragrafo 1 al paragrafo 55 del testo "Essere e Tempo".

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 18/11/2020

gio.95
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Scarica Martin Heidegger - Essere e Tempo e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia solo su Docsity! Essere e tempo – di Martin Heidegger (riassunto per paragrafi) § 1. Necessità di una ripetizione esplicita del problema dell’essere Il problema dell’” essere” è oggi dimenticato. Perché? 3 pregiudizi: 1. Quello di “essere” è il concetto più generale di tutti. 2. Il concetto di “essere” è indefinibile. 3. Quello di “essere” è un concetto ovvio. 3 contro-argomentazioni: 1) Dire che quello di “essere” sia il più generale dei concetti, non equivale a dire che sia il più chiaro. Anzi è il più oscuro di tutti e va chiarito. 2) L’indefinibilità dell’“essere” non dispensa dal problema del suo senso ma al contrario lo rende necessario. 3) Il fatto che utilizziamo l’“essere” come un termine evidente, nasconde e rivela il suo essere problematico. Ergo Il problema dell’essere manca di una soluzione e la via per giungere a questa soluzione rimane oscura e priva di guida, pertanto bisogna reimpostare adeguatamente la questione. § 2. La struttura formale del problema dell’essere Il problema del senso dell’“essere” deve essere posto Porre un problema significa cercare di conoscere l’ente quanto al suo essere così. Ogni cercare ha 3 momenti: 1. Ciò che è cercato = L’essere 2. Ciò che e interrogato = L’ente 3. Ciò che è ricercato = Il senso dell’essere Il punto di partenza della ricerca è una comprensione media e vaga dell’essere (che noi abbiamo già da sempre, se non abbiamo una minima conoscenza non ci porremmo nemmeno il problema; non possiamo porci domande su ciò che non conosciamo), in cui comprendiamo l’“essere” ma non siamo in grado di stabilire concettualmente il significato dell’“essere”. “Il cercato è l’ESSERE, ciò che determina l’ente in quanto ente, ciò rispetto a cui l’ente, comunque sia discusso, è già sempre compreso”. L’essere si mostra all’ente. L’ente è ciò che è, e pertanto partecipa dell’“essere” e quindi proprio perché essere significa essere nell’ente, l’ENTE sarà l’interrogato. Il SENSO DELL’ESSERE è il ricercato, quale termine finale del cercare. In Quale ente si dovrà cogliere il senso dell’essere?  Questo ente che noi stessi sempre siamo e che fra l’altro ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema lo designiamo col termine Esserci (Dasein). Conclusioni: La domanda del senso dell’essere deve essere chiarita. Tale domanda è chiarita in quanto è chiarito l’essere che pone questa domanda, ovvero l’uomo in quanto Dasein. (Non è un circolo vizioso). E’ l’uomo che si pone questa domanda è nell’uomo la risposta. § 3. Il primato ontologico del problema dell’essere Ontico = ente nella sua immediatezza, effettività, al concreto. Ontologico = ente nella sua specifica modalità d’essere, nella sua costituzione ontologica. “L’indagine scientifica compie la demarcazione e la prima fissazione degli ambiti di cose in modo ingenuo e grezzo”, perché, guardando ai particolari (ontologie particolari), si dimentica dell’insieme del sapere. La conseguenza è l’insicurezza da parte delle scienze (es. storiche e naturali) circa l’oggetto di cui devono occuparsi e i concetti fondamentali su cui poggiare le basi. Il sospetto è che la crisi non riguardi le singole scienze, ma l’essere umano stesso e cioè l’ente che per eccellenza si interessa del mondo e lo sottopone ad analisi. A ben vedere, non è la singola scienza che determina quali sono gli oggetti di sua competenza, ma è l'esistente umano [l'Esserci] che ritaglia il mondo in scompartimenti, a seconda del modo in cui lo vede: questo è "matematico", questo "fisico", questo "biologico" e così via. Cioè, l'uomo possiede già un'idea del mondo ancor prima di studiarlo. Ne consegue che, se tutta la scienza è in crisi, è perché l'uomo non sa più riflettere sul suo stesso fondamento, e l’indagine che sola può istituire i concetti fondamentali è null’altro che l’interpretazione dell’Esserci rispetto alla costituzione fondamentale del suo essere. La ricerca delle scienze è una ricerca ontica, ma anche quella ricerca ontologica che sta alla base di tutte le ricerche ontiche resta ingenua e opaca se le sue indagini intorno all’essere dell’ente non prendono in esame il senso dell’essere in generale. Pertanto devono essere primari l’Esserci e la ricerca ontologica che prende in esame il senso dell’essere.  Primato ontologico § 4. Il primato ontico del problema dell’essere (Tutti questi concetti verranno ripresi nei paragrafi successivi) Primato ontologico = del problema dell'essere è il fatto che tale questione precede ogni altra questione che l'uomo si pone. Primato ontico = è invece il fatto che l'esistente umano, per comprendere l'essere, deve comprendere se stesso in quanto Esserci, in quanto ente privilegiato capace di interrogarsi sull'essere. Infatti l’Esserci è il solo ente ad avere una relazione con il proprio essere, comprendendosi in esso. “La peculiarità ontica dell’Esserci sta nel suo essere ontologico”, ovvero svelatore dell’essere.  Questo lo è a priori quindi è pre-ontologico. Esistenza = la caratteristica esistenziale dell'Esserci è quella di rivolgersi a se stesso, al proprio essere; ed è singola per ogni uomo. Essenza = “consiste nell’aver sempre da essere il suo essere” infatti “L'esserci comprende sempre se stesso in base alla sua esistenza, cioè alla possibilità che gli è propria di essere o non essere se stesso”. L’Esserci ha un primato ontico-ontologico. § 5. L’analitica ontologica dell’Esserci come ostensione dell’orizzonte per l’interpretazione del senso dell’esser in generale Problema: individuato l’ente da interrogare, come si può avere la garanzia della giusta via d’accesso a questo ente? “L’Esserci non solo ci è onticamente vicino, o anche il più vicino di tutti, ma noi stessi siamo rispettivamente l’Esserci”.  Nonostante ciò è ciò che è ontologicamente più distante da noi. L’Esserci a causa del suo modo di essere, tende a comprendere il proprio essere in base all’ente a cui costantemente si rapporta, cioè il mondo. “L’Esserci è onticamente vicinissimo a se stesso, ontologicamente lontanissimo, ma pre- ontologicamente tuttavia non estraneo”.  Problema dell’accesso L’ente che ci siamo proposti di esaminare è il medesimo che noi stessi siamo. L’essere di questi ente è sempre mio. L’essere è ciò di cui ne va sempre per questo essere. Da tale caratterizzazione, derivano sue conseguenze fondamentali: 1. L’essenza di questo ente consiste nel suo aver-da-essere, essa deve essere intesa a partire dal suo essere (existentia). L’essenza dell’esserci consiste nella sua esistenza. 2. L’essere di cui ne va per questo ente nel suo essere è sempre mio. L’Esserci si determina come ente sempre a partire da una possibilità che egli stesso è e che in qualche modo comprende. Medietà = indifferenza quotidiana dell’Esserci. Esistenziali = caratteri dell’essere dell’Esserci. § 10. Delimitazione dell’analitica esistenziale rispetto all’antropologia, alla psicologia e alla biologia Poiché queste tre scienze non hanno previsto una riflessione filosofica sull’Esserci, non possono avere la pretesa di raggiungere appieno ciò a cui puntano. L’analitica esistenziale pone, partendo dal cogito ergo sum di Cartesio, il problema ontologico dell’essere del sum. Cartesio infatti non dice cosa sia l’uomo, né cosa sia l’esistenza. (Primariamente bisognerà dimostrare, dunque, che se si muove da un soggetto già dato, si fallisce il contenuto fenomenico dell’Esserci). È stato infatti il predominio dell’antropologia cristiana antica a sviare maggiormente il problema centrale dell’essere dell’Esserci, con i suoi due presupposti fondamentali sull’uomo inteso come: 1) Animale razionale, e il suo modo d’essere come semplice-presenza. 2) “Fatto a immagine e somiglianza di Dio”, un qualcosa che tende al di là di sé. Queste concettualizzazioni indicano che si è dimenticato, anche qui, di problematizzare l’essere dell’Esserci. La psicologia, la quale ha tendenze antropologiche, manca di fondamento ontologico anch’essa. La biologia è fondata, anche se non completamente, nell’ontologia dell’Esserci, il cui vivere, però, non può essere inteso come ontologicamente indeterminato e al quale vivere si aggiunga qualcos’altro. § 11. L’analitica esistenziale e l’interpretazione dell’Esserci primitivo. La difficoltà di raggiungere un “concetto naturale del mondo” La quotidianità non coincide con la primitività. La quotidianità è piuttosto un modo di essere dell’Esserci che gli è proprio anche quando, e soprattutto quando, si muove nelle culture più evolute e differenziate. L’analisi dell’Esserci può dirigersi positivamente verso la “vita dei popoli primitivi” perché i “fenomeni primitivi” sono spesso più genuini e attendibili rispetto all’autointerpretazione ordinaria dell’Esserci. Però le informazioni sui primitivi ci provengono dall’etnologia, la quale si muove all’interno di concetti precostituiti e predeterminati. Anche l’etnologia presuppone, quindi, una analitica adeguata dell’Esserci. L’Esserci è comunque sempre in rapporto a ciò che lo circonda: il mondo. Si richiede allora un’esplicita idea di mondo in generale, più precisamente: l’idea di un concetto naturale del mondo. E poiché il mondo è un costitutivo dell’Esserci, per elaborare concettualmente il fenomeno del mondo bisognerà penetrare le strutture fondamentali dell’Esserci. § 12. Linee fondamentali dell’essere-nel-mondo a partire dall’in-essere come tale Le determinazioni dell’essere dell’Esserci viste prima devono essere intese a priori sulla base dell’essere-nel-mondo. Essere-nel-mondo è un fenomeno unitario, deve essere visto nell’insieme; ha in se una molteplicità di momenti strutturali. Questa espressione indica 3 diversi punti di vista: 1. Il mondo 2. L’ente che è sempre nel modo d’essere-nel-mondo (chi) 3. L’in-essere come tale Cosa significa “in-essere”?  Di solito la intendiamo come “essere dentro” (modo di essere di un ente dentro un altro); questo rapporto d’essere può essere anche esteso (es. il banco è nell’universo). Non importa il grado di prossimità. MA tutti questi hanno il modo di essere della semplice-presenza in quanto sono cose presenti all’interno del mondo. Distinzione: - Esser-presente = “in” una cosa presente; categoriali, in quanto proprio di enti aventi un modo di essere non conforme all’Esserci.  Riferimento spaziale.  Proprio delle semplici presenze. - In-essere = esistenziale, perché fa parte della costituzione dell’essere dell’Esserci; che è l’essere-nel-mondo.  L’”in” non può essere pensato semplicemente come un riferimento spaziale. “In” qui vuol dire abitare, soggiornare, sono abituato, sono familiare.  Esistenziale. L’ente a cui l’in-essere appartiene in questo secondo significato è l’ente che io sempre sono. L’in-essere è perciò l’espressione formale ed esistenziale dell’essere dell’Esserci che ha la costituzione essenziale dell’essere-nel-mondo. “Io sono” espressione connessa a “presso”: “io sono” = “io sono in” = “soggiorno presso il mondo” Non c’è qualcosa come “un essere l’uno accanto all’altro” di un ente detto “Esserci” e un altro ente detto “mondo”. Non si può parlare di “toccare”. Un ente può toccare cose-semplicemente-presenti- nel-mondo solo se ha il modo di essere dell’in-essere, ovvero se, già nel suo Esserci, gli è svelato qualcosa come un mondo in base al quale l’ente possa rivelarglisi al tocco e renderglisi così accessibile nel suo esser semplicemente-presente. Fatticità: propria di un oggetto ed è una mera presenza. Effettività: è la fatticità dell’Esserci; ciò implica quell’essere nel mondo che ha come caratteristica il comprendersi legati alle cose che si incontrano.  MA questo non vuol dire che l’Esserci non ha spazialità. L’Esserci ha un suo proprio “essere nello spazio”, che è però possibile solo sul fondamento dell’essere-nel-mondo in generale. Solo la comprensione dell’essere-nel-mondo come struttura essenziale dell’Esserci rende possibile la comprensione della spazialità esistenziale dell’Esserci. L’essere-nel-mondo dell’Esserci si è già sempre disperso nelle varie maniere dell’in-essere.  Queste modificazioni dell’in-essere hanno il modo di essere del prendersi cura (sono anche quelli difettivi). Prendersi cura = Heidegger dice che questo termine ontologico esistenziale indica un possibile modo di essere del mondo.  L’in-essere effettivo è un modo di prendersi cura. In più questo termine è un concetto strutturale ontologico. Poiché all’Esserci appartiene l’essere-nel-mondo (struttura originaria dell’Esserci), il suo modo di rapportarsi al mondo è essenzialmente prendersi cura. Differenza: - Mondo: dell’Esserci - Ambiente: degli animali - Mondo-ambiente: mondo interno a noi § 13. Esemplificazione dell’in-essere attraverso un modo in esso fondato. La conoscenza del mondo. Il conoscere è un modo di essere dell’Esserci in quanto essere-nel-mondo e che ha la sua fondazione ontica in questa costituzione ontologica.  Il conoscere è un modo d’essere dell’essere-nel-mondo. Il conoscere stesso si fonda preliminarmente in quell’esser-già-presso-il-mondo che come tale costituisce per essenza l’essere dell’Esserci. Affinché il conoscere, in quanto osservazione di semplici-presenze che le determina, sia possibile, occorre prima una definizione dell’aver-a-che-fare col mondo prendendosene cura. L’Esserci è già sempre “fuori” presso l’ente che incontra in un mondo già sempre scoperto. Il conoscere è un modo dell’Esserci fondato nell’essere-nel-mondo. Perciò l’essere-nel-mondo, in quanto costituzione fondamentale, richiede un’interpretazione preliminare. § 14. L’idea della mondità del mondo in generale Cosa intendiamo normalmente per mondo? 2 modi: - Diciamo mondo per dire l’insieme delle cose. - Diciamo mondo per indicare la natura Heidegger non è d’accordo, la natura è un ente intramondano (che si incontra nel mondo). Bisogna quindi distinguere “mondo” da intramondano. Il mondo non può essere la semplice somma degli elementi intramondani. Heidegger indica 4 modi di riferirci al mondo: 1) “Mondo” come concetto ontico la totalità dell’ente che può essere semplicemente presente all’interno del mondo. 2) “Mondo” come termine ontologico l’essere dell’ente del punto 1); ma può anche essere una regione comprendente una molteplicità di enti. 3) “Mondo” come un altro significato ontico ciò in cui un Esserci “vive” come tale; “mondo” qui ha un significato preontologicamente esistentivo. Punto di partenza della quotidianità media. 4) “Mondo” come concetto ontologico esistenziale della mondità. Il mondo della quotidianità media è il mondo-ambiente; per la ricerca bisogna partire da questo. Con questo possiamo giungere all’idea della mondità in generale. Punto di partenza: è l’innanzi tutto e per lo più. Per cogliere la mondità del mondo-ambiente è necessario assumere l’ente che viene incontrato per primo dentro il mondo-ambiente. A – Analisi della mondità ambientale e della mondità in generale § 15. L’essere dell’ente che si incontra nel mondo-ambiente Chiarimento fenomenologico dell’essere dell’ente che si incontra per primo avviene seguendo il filo conduttore di quel modo quotidiano di essere-nel-mondo che indichiamo anche con l’espressione commercio nel mondo e con gli enti intramondani. Modo più immediato del commercio intramondano: prendersi cura maneggiante e usante, fornito di una propria conoscenza. Bisogna indagare per prima cosa su questo essere dell’ente che si incontra nel prendersi cura. L’ente è ciò che ci viene incontro innanzi tutto e per lo più. L’ente pre-tematico è quello che si manifesta nel prendersi cura.  Questo ente viene usato, prodotto, manipolato. Ciò che abbiamo di mira: determinazione della struttura dell’essere dell’ente in questione. L’interpretazione costituisce l’attuazione concreta ed esplicita di quella comprensione dell’essere che già da sempre appartiene all’Esserci e che è operante in ogni commercio con l’ente. Quando ci muoviamo nel mondo, ogni gesto che compiamo porta con se una comprensione dell’essere di Il segno è un mezzo che, nella visione ambientale preveggente, fa emergere esplicitamente un complesso di mezzi, in modo tale che, nel contempo, si annuncia la conformità al mondo propria dell’utilizzabile. Il segno è un utilizzabile ontico che, in quanto è questo determinato mezzo, funge nel contempo da qualcosa che rende manifesta la struttura ontologica dell’utilizzabile, della totalità dei rimandi e della mondità. (Es. freccia dell’auto) § 18. Appagatività e significatività. La mondità del mondo Il rimando ha a che fare con l’essenza del mondo. La mondità coincide con la significatività. Il mondo è ciò in base a cui l’utilizzabile è utilizzabile, esso è la condizione d’incontro con l’ente. L’utilizzabile ha sempre solo appropriatezza e non appropriatezza. Il rimando, in quanto costituzione del mezzo, è la condizione ontologica della possibilità che esso possa essere determinato mediante appropriatezza. L’utilizzabilità è la condizione ontologica dell’appropriatezza. Significatività = rimandatività, rimandare. Cosa significa rimandare?  Un ente è rimandato a qualcos’altro. Esso ha con se, presso qualcosa, il suo appagamento. Il carattere d’essere dell’utilizzabile è l’appagatività. Rimandatività appagatività significatività. Ogni ente si realizza in un determinato fare, in un servire a. L’appagatività è l’essere dell’ente intramondano. Questo riconoscimento di appagatività è la determinazione ontologica dell’essere di questo ente e non un’osservazione ontica intorno ad esso come ente. Il “presso-che” sussiste l’appagatività, è l’”a-che” dell’utilità e il “per-che” dell’impiegabilità. Con l’”a-che” dell’utilità può sussistere una nuova appagatività. La totalità dell’appagatività stessa si aggancia sempre a un “a-che” presso il quale non sussiste più nessuna appagatività.  L’”a-che” primario è un “in-vista-di-cui”. L’”in-vista” riguarda sempre l’essere dell’Esserci a cui nel suo essere né va essenzialmente di questo essere stesso. La semplice-presenza non è il carattere dell’essere dell’ente originario. La quotidianità media, l’effettività della vita è il punto di partenza di una fedele indagine fenomenologica. L’ente che ci viene incontro per primo nel mondo-ambiente non può avere il carattere della semplice-presenza, può avere solo il carattere dell’utilizzabile, quel carattere che lo connette all’”in- vista-di-cui”, al “ne va di questo nostro essere”. Qui entra in gioco un “lasciar appagare” = lasciar essere un utilizzabile così com’è e affinché sia tale. Lasciar appagare ha a che fare con il comprendere e il comprendere è un modo con cui Heidegger esplica quell’apertura alla totalità dei rimandi, al mondo. Familiarità = siamo familiari con dei rimandi. Significare = fare segno, rimandare a qualcosa d’altro. Significatività = totalità dei rapporti del significare; è ciò che costituisce la struttura del mondo. È l’essenza del mondo; è la mondità del mondo. C – L’ambientalità del mondo-ambiente Esser-dentro = un ente in se stesso esteso è racchiuso nei limiti estesi di qualcosa di esteso. L’ente che è dentro e ciò che lo racchiude sono nello spazio, cioè semplicemente-presenti in esso. L’ente intramondano è anch’esso nello spazio, la sua spazialità avrà una connessione ontologica col mondo: in quale senso lo spazio è costitutivo del mondo? Trattazione in 3 fasi: 1. La spazialità dell’utilizzabile intramondano 2. La spazialità dell’essere-nel-mondo 3. La spazialità dell’Esserci e lo spazio § 22. La spazialità dell’utilizzabile intramondano La spazialità del mondo non si riflette soltanto in un luogo fisico ma è strettamente collegata ai vari enti definiti come utilizzabili. Lo spazio costituisce il mondo pertanto le caratteristiche degli utilizzabili intramondani saranno spaziali, tuttavia non nel senso consueto di misurabilità o di semplice presenza fisica in un dato luogo, bensì nella sua utilizzabilità. Pertanto non si tratta dell’ente che si incontra per primo, ma dell’ente che più generalmente è nelle vicinanze. Il carattere dunque dell’utilizzabile intramondano è la vicinanza. Tale vicinanza non si fissa misurando le distanze, ma in base al posto assegnato tramite il suo significato di utilizzabilità. Ogni utilizzabile ha il suo posto e tale posto e definito in relazione ai posti degli altri utilizzabili propri di un certo ambito. Infatti non ci accorgiamo del posto degli utilizzabili se non quando sono fuori posto. Ogni posto è definito da un “qui” o da un “là” determinato dall’essere-al-suo-posto del utilizzabile che a sua volta è determinato da un in-dove generico in basa alla quale è assegnato un posto in relazione alla totalità di posti in un complesso di mezzi. In-dove = prossimità; non indica soltanto una direzione ma circoscrive anche ciò che è nei dintorni di tale direzione. In conclusione noi ci accorgiamo spazialmente degli utilizzabili quando siamo impossibilitati ad utilizzarli, poiché fuori dal loro posto consueto e lontani dalla prossimità quotidiana che ce li rende familiari. § 23. La spazialità dell’essere-nel-mondo La spazialità dell’Esserci è diversa da quella degli utilizzabili. L’Esserci non è né una semplice presenza in un luogo né è qualcosa che si può utilizzare. L’Esserci è nel mondo poiché si prende cura dei vari enti che vi incontra. Le caratteristiche di questa peculiare spazialità dell’Esserci sono il dis-allontanamento e l’orientamento direttivo. Gli enti proprio perché sono utilizzabili allora sono vicini, pertanto l’Esserci tende a dis-allontanare tali enti, cioè a dissolvere la distanza, che risiede nella possibilità di rendere all’ente mondano ciò che è la sua essenza, ovvero l’utilizzabilità. Il dis-allontanare pertanto riveste carattere di avvicinamento guidato, di un portare nella vicinanza e nell’avere a portata di mano. Si capisce come è solo nell’Esserci che risiede tale coscienza del dis-allontanamento, due enti utilizzabili non si possono sentire dis-allontanati tra loro perché l’utilizzabilità dell’ente è sempre scoperta a partire dall’Esserci. L’Esserci dirà in conclusione Heidegger, ha sempre una tendenza essenziale alla vicinanza. Le distanze tra l’Esserci e l’utilizzabile intramondano non sono descrivibili a partire dai concetti di lontananza e vicinanza misurabili, ma sempre a partire da un apparire di tale distanza, fondata sull’utilizzabilità propria dell’ente, che l’Esserci le attribuisce. Infatti Heidegger spiega la differenza tra vicino e dis-allontanato partendo dai sensi dell’udito e della vista che sono sensi del lontano, asserendo che l’Esserci in quanto dis-allontanante risiede prevalentemente in essi. La seconda caratteristica della spazialità dell’Esserci è l’orientamento direttivo, che descrive la direzionalità dis-allontanante del prendersi cura. Cioè ogni dis-allontanamento dell’Esserci rispetto agli enti utilizzabili che definiscono la spazialità del mondo, si sviluppa in una determinata direzione e pertanto necessita di segni di orientamento. Tali direzioni che definiscono il verso-dove delle varie azioni dell’Esserci, sono guidate dalla visione ambientale preveggente caratteristica del prendersi cura. Dall’orientamento direttivo derivano le direzioni fisse distinte in “destra” e “sinistra” in base alle quali si definisce altresì la spazializzazione dell’Esserci nella sua corporeità. § 24. La spazialità dell’Esserci e lo spazio Il lasciar-venire-incontro, costitutivo dell’essere-nel-mondo, è un “far posto”. Questo far posto, è chiamato anche ordine-nello-spazio, è la remissione dell’utilizzabile alla sua spazialità. Né lo spazio è nel soggetto, né il mondo è nello spazio. È piuttosto lo spazio ad essere nel mondo. L’Esserci è compatibile con la spazialità del mondo, ed è quindi egli stesso spaziale grazie alle modalità sue proprie del dis-allontanamento e dell’orientamento direttivo attraverso le quali può incontrare l’ente intramondano nella sua spazialità di natura utilizzabile. Vi è pertanto nel rapporto tra l’Esserci e la dimensione dello spazio una visione sempre prospettica e mai neutrale di tale spazio. Ed essendo l’Esserci il punto zero di tale prospettiva, allora essa ha un carattere prevalentemente soggettivo. Esso può essere scoperto sempre nel rapporto tra utilizzabile ed Esserci, nel senso che lo spazio è scoperto nel dare spazio agli utilizzabili, renderli spazialmente fruibili. Si può definire come un lasciar essere gli utilizzabili. Lo spazio in quanto tale non ha a che fare con le tre dimensioni ma è quell’in-dove rispetto ad un Esserci nel quali gli utilizzabili si manifestano in base al concetto di prossimità. Pertanto nel commercio quotidiano dell’Esserci, nel suo prendersi cura ambientalmente, noi non ci accorgiamo dello spazio, non lo cogliamo coscientemente. Esso può divenire tematico quando c’è un problema o una cosa fuori posto oppure nel caso specifico della costruzione di una casa, quando lo spazio è a tema della progettazione dell’edificio. Purtroppo conclude Heidegger oggi lo spazio viene frainteso nel concetto di mondo quale complesso di utilizzabili semplicemente presenti. Il fatto che un ente si manifesti nel mondo invece non dice niente sul suo reale modo di essere. § 25. Impostazione del problema esistenziale del Chi dell’Esserci Il problema del Chi sia questo ente chiamato Esserci, parte da una considerazione già fatta nel paragrafo 9 ovvero l’Esserci è quell’ente che io stesso sono. Questa è la sua costituzione ontologica, ma per rispondere alla domanda sul Chi bisogna scavare più a fondo. Heidegger anche in questo caso ribadisce che si ha sempre una errata comprensione dell’Esserci, come semplice presenza. Tale concezione genera un’indeterminatezza di fondo che induce l’Esserci a cercare il suo senso d’essere. Si può inoltre continuare affermando che L’Esserci è quel Chi che si mantiene identico al mutare delle esperienze, degli atti e del molteplice che lo circonda. Ma questa affermazione di stampo cartesiano, e che vede l’essere come sostanza non è accettabile da Heidegger poiché l’esperienza ed il vissuto trasformano il nostro essere che non è solo res extensa. Tuttavia in queste esperienze o atti che ci attraversano nel corso dell’esistenza, noi, attraverso la memoria, ci riconosciamo come identici. Peraltro l’esistenza, dal latino ex-sistere, ovvero stare fuori, implica una continua correlazione con il mondo esterno che lo circonda. Quest’affermazione ci fa concludere che l’Esserci si costituisce essenzialmente nelle sue relazioni con il mondo ovvero ciò che Heidegger chiama l’essere-nel-mondo che implica le sue relazioni con gli altri Esserci, che viene definita con- Esserci. Per rispondere dunque alla domanda sul Chi di questo Esserci è necessaria un’analitica esistenziale degli atti del quotidiano dell’Esserci nelle due dimensioni sopra descritte. § 26. Il con-Esserci degli altri e il con-essere quotidiano Heidegger in questo paragrafo vuole mostrare che la costituzione essenziale dell’Esserci è sempre marcata da un essere con gli altri, un con-essere. Gli altri sono quelli dai quali non ci distinguiamo e fra i quali siamo, che quindi sono nel modo di essere dell’essere-nel-mondo. Quest’affermazione implica che noi nella comprensione degli altri Esserci ci poniamo dapprima in un atteggiamento di A – La costituzione esistenziale del Ci § 29. L’Esser-ci come situazione emotiva Situazione emotiva = espressione ontologica per indicare in generale ciò che è, sul piano ontico e particolare, la tonalità emotiva (l’umore). La tonalità emotiva, è il modo in cui l’esserci si trova aperto nei confronti del semplice fatto di esistere. Aperto non significa però riconosciuto come tale. L’Esserci è sempre in una situazione emotiva, benché varino le tonalità emotive. Anche l’indifferenza è emotiva: è il tedio (un peso). “Nello stato emotivo l’Esserci è già sempre emotivamente aperto come quell’ente a cui esso è rimesso nel suo essere in quanto essere che esso, esistendo, ha da essere”, ossia è aperto a se stesso come aver-da-essere. È proprio nella quotidianità che l’Esserci può rivelarsi d’un tratto come un nudo “che c’è e ha da essere”. “Questo carattere dell’essere dell’Esserci, di essere nascosto nel suo donde e nel suo dove, ma di essere tanto più radicalmente aperto in se stesso, quanto “che c’è” noi lo chiamiamo esser-gettato di questo ente nel suo Ci: così l’Esserci, in quanto essere-nel-mondo, è il suo Ci. L’espressione esser- gettato sta a significare l’effettività dell’esser-rimesso”.  Questo genera la gettatezza. L’essere non solo percepisce questa situazione, ad esempio quando sente di essere un peso a se stesso, ma capisce che sta proprio percependo. Per Heidegger c’è quindi una riflessività che possiamo intuire già quando precisa che “nella situazione emotiva l’Esserci è già sempre condotto innanzi a se stesso, si è già sempre “trovato”, non però sotto forma di auto percezione, bensì di auto sentimento situazionale”. Heidegger parla di “sentire di sentire” e questo non ha niente a che vedere con un’autocoscienza di tipo teorico. Ciò aiuta a spiegare il fatto che gli stati d’animo, le emozioni, gli umori e le passioni, sono dei modi o meglio delle modalità in cui il mondo oggi risulta aperto all’Esserci. Si può dunque vedere come il sentirsi-situato è il modo in cui l’Esserci si trova rinviato alla fatticità del suo esistere (Heidegger precisa che fugge da questa fatticità) che percepisce grazie alla riflessività che è caratteristica del sentire. In questo modo si possono individuare i tre caratteri che vanno a costituire i modi di apertura dell’esserci: 1. Individuazione di ciò che il sentirsi-situato apre (quindi l’essere gettato e la fatticità già citate) e di come tutto questo viene dischiuso (riferendosi all’evasione). “La situazione emotiva apre l’Esserci nel suo esser-gettato e, innanzi tutto e per lo più nella forma della diversione evasiva”. In più qui distingue lo stato psicologico dalla situazione emotiva e parlando della tonalità emotiva giunge a definire la depressione (“qui l’Esserci diviene cieco nei confronti di se stesso; il mondo ambiente di cui si prende cura si vela, la previsione ambientale è fuorviata”). 2. Il sentirsi situato non può essere secondario o subordinato ad altre modalità. Possiede invece una funzione “aprente” del mondo, del con-esserci e dell’esistenza che risulta cooriginaria rispetto alla comprensione. 3. Precisa questa cooriginarietà mostrando come l’esserci che si trova nel proprio ambiente, sia percorsa in qualche modo da un’affettività radicata nel proprio sentirsi-situato. Solo perché l’esserci si sente situato nel mondo, e per dirla con Heidegger, è “assegnato” a questa situazione, può essere toccato “affetto” da ciò che incontra. § 30. La paura come modo della situazione emotiva Una delle situazioni emotive è la paura; vi sono 3 momenti specifici: 1) Il davanti-a-che della paura ciò che si teme per una minacciosità ed è sempre un ente intramondano; ha 6 implicazioni. 2) L’aver paura la paura di fondo che si prova per questa o quella cosa 3) Il per-che della paura o anche per chi; il motivo per cui si ha paura: l’Esserci e gli altri Concludendo il paragrafo, Heidegger parla delle modalità emozionali che si riconducono in qualche modo alla paura. Infatti, cita lo spavento, l’orrore e il terrore. Tutto serve ad Heidegger per sostenere che l’esserci, in quanto essere-nel-mondo, di trova nella condizione esistenziale dell’essere timoroso e spaurito. § 31. L’Esser-ci come comprensione La comprensione: esistenziale fondamentale dell’Esserci, è l’apertura del Ci (essere-nel-mondo), fondata sulla co-apertura della significatività. Ogni ente incontrato nel mondo è scoperto nella sua possibilità, es. di utilizzo. La comprensione è sempre emotivamente tonalizzata. Infatti, situazione emotiva e comprensione sono esistenziali fondamentali: “è in uno stato emotivo che l’Esserci vede le possibilità in base alle quali esso è”. Nella comprensione è insito il modo d’essere dell’Esserci come poter-essere. L’Esserci non è una semplice presenza appunto in quanto essere-possibile, essendo sempre ciò che può essere. L’Esserci, se non è ancora qualcosa nel poter-essere, essenzialmente lo è già. “L’Esserci è un esser-possibile consegnato a se stesso, una possibilità gettata da cima a fondo” per l’incapacità di cogliere tutte le possibilità del suo essere. La comprensione, l’essere esistenziale del poter-essere dell’Esserci, è “siffatta che questo essere rivela a se stesso come stanno le cose a proposito dell’essere che gli è proprio”. La comprensione ha il carattere esistenziale del progetto: l’Esserci comprendente è gettato nel modo d’essere del progetto; il progetto non è un piano. L’Esserci è anzi costitutivamente progettante, giacché si comprende sempre in base a possibilità. Ma la possibilità rispetto a cui si progetta non è colta tematicamente. “Proprio perché la comprensione coinvolge sempre l’intera apertura dell’essere come essere-nel-mondo, il risolversi di una comprensione per la possibilità è una modificazione esistenziale del progetto nella sua globalità”. La comprensione è quasi la visone dell’Esserci della propria esistenza, una trasparenza, una “conoscenza di se” non tanto nella forma di un’apprensione percettiva di se stesso, quanto di un “afferramento complessivo dell’intera apertura dell’essere-nel-mondo attraverso i suoi movimenti costitutivi esistenziali”. Questo significa che l’Esserci scorge se stesso “riflettendosi” nel suo esser-presso il mondo e nel con-essere. § 32. Comprensione e interpretazione Interpretazione = è uno sviluppo (solo possibile??) del progettare comprensivo. “In essa la comprensione, comprendendo, si appropria di ciò che ha compreso”. Si definisce come l’elaborazione delle possibilità progettate nella comprensione. L’interpretazione fa sì che “l’esser-presso l’utilizzabile di cui ci si prende cura comprende quale appagatività possa aver luogo con l’ente”. Quando la visione ambientale preveggente interpreta così il mondo pre-compreso, si scopre. In altri termini, l’interpretazione è il momento in cui “l’utilizzabile accede esplicitamente alla visione comprendente”, nella quale cioè si esplicita nel suo per e diviene oggetto del prendersi cura. L’utilizzabile esplicitamente compreso nel suo per ha la struttura del qualcosa in-quanto qualcosa. L’in-quanto è la struttura esplicativa del compreso, costituisce l’interpretazione. Il commercio interpretativo es. vede l’utilizzabile in quanto tavolo. L’interpretazione è supportata originariamente dalla semplice visione delle cose incontrate. La semplice visione di un neutro qualcosa, priva cioè di in-quanto, è un non comprendere più: l’in- quanto è perciò un costituzione esistenziale a priori della comprensione, ma derivata. “Con l’utilizzabile intramondano che si incontra ha già sempre luogo un’appagatività (aperta nella comprensione del mondo); tale appagatività è fatta emergere mediante l’interpretazione”. Dunque comprensione e interpretazione sono due momenti inseparabili: l’interpretazione non riveste di un significato la nudità della semplice presenza, perché esso vi inerisce. Il senso si definisce come ciò in cui si mantiene la comprensibilità di qualcosa: quando questo è compreso si dice che ha senso. “Il senso è il rispetto-a-che del progetto in base a cui qualcosa diviene comprensibile in quanto qualcosa; tale rispetto-a-che è strutturato secondo la pre-disposizione, la pre-visione e la pre- cognizione”. Essendo il senso un esistenziale dell’Esserci, solo l’Esserci può esser dato di senso o meno: gli altri enti ne sono privi. L’interpretazione, che è promotrice di nuova comprensione, deve aver già compreso l’interpretando, cioè deve insieme seguire e precedere la comprensione.  Il circulus non è vitiosus. § 33. L’asserzione come modo derivato dell’interpretazione Come l’interpretazione è fondata sulla comprensione, così pure l’asserzione (o giudizio), essendo un modo derivato di attuazione della prima. Anche l’asserzione ha un senso, già articolato nell’interpretazione e articolabile nella comprensione. Da sempre il logos funge da chiave per l’accesso all’ente autentico e alla determinazione del suo essere: l’asserzione “fu assunta sin dall’antichità come luogo autentico e primario della verità”. Asserzione significa: 1. Manifestazione apofantica, per la quale l’ente si mostra da se stesso nel modo della sua utilizzabilità. 2. Predicazione, per la quale il soggetto asserito è determinato per mezzo di un predicato asserente; modalità della manifestazione in quanto restringe la visione al manifestantesi per rivelarlo esplicitamente nella sua determinatezza. 3. Comunicazione (o espressione), un “far-si-che-si-veda-assieme ciò che si è manifestato nel modo del determinare”, per la quale l’asserito “può essere com-partecipato dall’asserente e dagli altri senza che l’ente manifestato e determinato si trovi a portata di mano o di vista”. Nel momento in cui esso è ri-ferito, c’è possibilità dunque che il già manifesto venga di nuovo coperto. Questa è la definizione complessiva: “l’asserzione è una manifestazione che determina e comunica”. L’asserzione abbisogna di: - Pre-disponibilità di ciò che è aperto nella comprensione, al fine di manifestarlo nella determinazione. - Pre-visione, per la quale il predicato rimane inesplicito nell’ente. - Pre-cognizione, concettualità già formata comportata dal linguaggio. Ma come è da intendersi la derivazione dell’asserzione dall’interpretazione?  Non come originaria, cioè “l’atto originario dell’interpretazione non consiste in una proposizione assertiva teoretica, ma nel riporre o nel cambiare l’utilizzabile che risulta inadatto alla visione ambientale- preveggente e prendente-cura, senza dir verbo”. Dunque innanzitutto non “il martello è pesante” ma “è troppo pesante!”. La visione ambientale preveggente divenuta libera, non ha più alcun utilizzabile del cui avvicinamento possa prendersi cura. La cura diventa il prendersi cura della possibilità di vedere il mondo nel suo semplice apparire, nel suo aspetto, soffermandovisi e permanendovi. L’Esserci è interessato solo all’aspetto del mondo in questo modo di essere egli tende a liberarsi da se stesso quale essere-nel-mondo, a liberarsi dall’essere presso l’utilizzabile quotidiano più vicino. La curiosità ormai liberata, non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede per essere- per ma si prende cura solamente di vedere. La curiosità è perciò caratterizzata da una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta; essa è dominata dall’eccitazione che la spingono verso la costante novità e il cambiamento. In questa agitazione permanente la curiosità cerca di continuo la possibilità della distrazione. I due momenti della costitutivi della curiosità: - L’incapacità di soffermarsi nel mondo ambientale di cui ci si prende cura. - La distrazione in possibilità sempre nuove, fondando l’irrequietezza. La chiacchiera fa da guida alla curiosità e dice ciò che si deve aver letto e visto. La curiosità per la quale niente è segreto e la chiacchiera per la quale niente è incompreso, danno a sé stesse, cioè all’Esserci che le fa proprie, sicura malleveria di una vita che si pretende veramente vissuta. § 37. L’equivoco Tutto sembra genuinamente compreso, afferrato ed espresso ma in realtà non lo è. Ognuno ha già sempre presentito e fiutato ciò che gli altri hanno presentito e fiutato. Questo esser-sulla-traccia ma per sentito dire, è il modo più subdolo in cui l’equivoco può presentare all’Esserci le sue possibilità, perché le vanifica fin dall’inizio. L’interesse ha luogo solo sotto forma di curiosità e di chiacchiera, e non dura più di quanto duri il superficiale presentimento comune. Chiacchiera e curiosità perdono allora ogni forza. Ma esse hanno già pronta la rivincita. La chiacchiera è addirittura stizzita se ciò che essa presentì e costantemente sollecitò diviene a un tratto reale. Ciò le sottrae l’opportunità di continuare a presentirlo. La chiacchiera vive più in fretta del tempo dell’Esserci e allora si volgerà a altre novità. Ciò che era presentito e che viene poi realizzato arriva sempre troppo tardi rispetto a ciò che c’è di nuovo. Chiacchiera e curiosità nella loro equivocità, fanno sì che la creazione genuina e originale giunga alla dimensione pubblica come già invecchiata. L’equivocità che caratterizza lo stato interpretativo pubblico accredita il parlare-prima e il presentimento curioso come l’autentica realtà, screditando l’esecuzione e l’azione comune come qualcosa di secondario e privo di interesse. La comprensione dell’Esserci fondata nel Si, si inganna, quindi costantemente quando si tratta di progettare le proprie possibilità di essere genuine. Nell’equivoco l’Esserci è sempre nel Ci, cioè nell’apertura pubblica dell’essere-assieme, in cui la chiacchiera più difficile e la curiosità più sfrenata creano l’animazione nella quale tutto accade quotidianamente in modo tale che in fondo non accade mai nulla. L’equivoco offre costantemente alla curiosità ciò che essa va cercando e dà alla chiacchiera l’illusione che tutto sia deciso da essa. NB: l’equivoco si trova già nell’essere-assieme in quanto essere-assieme gettato in un mondo. § 38. Deiezione ed esser-gettato Chiacchiera curiosità ed equivoco caratterizzano il modo in cui l’Esserci è quotidianamente il suo Ci cioè l’apertura dell’essere-nel-mondo. Questi caratteri in quanto esistenziali, non sono determinazioni semplicemente-presenti nell’Esserci, ma contribuiscono a costruirne l’essere. In essi e nella loro connessione ontologica si rivela un modo fondamentale dell’essere della quotidianità che noi chiamiamo deiezione dell’Esserci esso è innanzi tutto e per lo più presso il mondo di cui si prende cura, questa immedesimazione in… ha per lo più il carattere dello smarrimento nella pubblicità del Si. L’Esserci è innanzi tutto già sempre de-caduto da se stesso come autentico poter-essere e deietto nel mondo. Il non-essere-se-stesso funge come una possibilità positiva dell’ente immedesimato nel mondo nella forma essenziale del prendersi cura. Questo non-essere, deve essere inteso come il modo di essere più prossimo dell’Esserci, in cui esso si mantiene per lo più e lo stato di deiezione dell’Esserci non deve nemmeno essere inteso come caduta da uno stato originario più puro e più alto. L’Esserci in quanto deiettivo, è già de-caduto da se stesso come effettivo essere-nel-mondo. Non è pero deietto presso un ente che può incontrare o meno nel procedere del suo essere, ma presso il mondo che fa parte del suo essere. Il fenomeno della deiezione documenta un modo esistenziale dell’essere-nel-mondo. Ma se è l’Esserci stesso che nella chiacchiera e nello stato interpretativo pubblico offre a se stesso la possibilità di perdersi nel Sì, di cadere deiettivamente nell’infondatezza, vuol dire che è l’Esserci stesso a preparare a se stesso la tentazione costante della deiezione. L’essere-nel-mondo è in se stesso tentatore. La presunzione dei Si di condurre una vita piena e genuina crea nell’Esserci uno stato di tranquillità: tutto va nel modo migliore, e tutte le porte sono aperte. L’essere-nel-mondo deiettivo è verso se stesso tentatore e nel contempo tranquillizzante (attività sfrenata). Lo stato di deiezione nel mondo, non è uno stato di quiete. La tranquillizzazione tentatrice accresce la deiezione. In questo compararsi con tutto tranquillizzante e tutto comprendente, l’Esserci è spinto, in un’estraniazione, in cui nasconde a se stesso il suo proprio poter-essere. L’essere-nel-mondo deiettivo in quanto tentatore e tranquillizzante, è nello stesso tempo estraniante essa sospinge l’Esserci in un modo di essere caratterizzato da un’autoanalisi, eccessiva, secondo le più svariate possibilità interpretative, sicché le tipologie che ne risultano sono per ciò stesso illimitate. Il movimento dell’estraniazione deiettiva, tentante e tranquillizzante porta l’Esserci a imprigionarsi in se stesso. Tentazione, tranquillizzazione, estraniazione e auto-imprigionamento caratterizzano il modo di essere specifico della deiezione: caduta. L’Esserci cade da se stesso e in se stesso nella infondatezza e nella nullità della quotidianità inautentica. La costante sottrazione dell’autenticità, unita alla presunzione del suo possesso e accompagnata allo sprofondare nel Si, caratterizza la motilità della deiezione come gorgo; il gorgo manifesta il carattere di getto e di motilità dell’esser-gettato. L’Esserci può cadere nella deiezione solo perché per esso, ne va dell’essere nel mondo comprendente ed emozionale. L’esistenza autentica non è qualcosa che si libri al di sopra della quotidianità deiettiva. Esistenzialmente, essa è soltanto un afferamento modificato di questa. L’essere dell’apertura esistenziale dell’Esserci è costituito dalla situazione emotiva, dalla comprensione e dal discorso. Il modo di essere quotidiano dell’apertura è caratterizzato dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall’equivoco, questi tre rivelano la natura di moto della deiezione e ne pongono in luce i caratteri essenziali: la tentazione, la tranquillizzazione, l’estraniazione e l’auto- imprigionamento. § 39. Il problema della totalità originaria delle strutture dell’Esserci L’essere-nel-mondo è una struttura originariamente e costantemente unitaria. Ciò che cerchiamo è l’unità ontologica di esistenzialità ed effettività ossia l’appartenenza essenziale di questa a quella. L’Esserci in virtù della situazione emotiva che gli è propria in via essenziale, ha un modo di essere tale da essere portato innanzi a se stesso e aperto a se stesso nel suo esser-gettato ma esso è il modo di essere di un ente che è sempre le sue possibilità stesse. Di conseguenza esso si comprende in esse e in base a esse. L’essere-nel-mondo cui appartiene con uguale originarietà l’essere-presso l’utilizzabile e il con-essere con gli altri, è sempre in-vista-di se stesso. Il se-Stesso è però, innanzi tutto e per lo più, un se stesso in-autentico. L’essere-nel-mondo è sempre già deietto. La quotidianità media dell’Esserci può quindi essere determinata come l’essere-nel-mondo deiettivo- aperto e gettato-progettante per il quale, nel suo esser-presso il mondo e nel con-essere con gli altri, ne va del suo stesso poter essere più proprio. Della struttura ontologica dell’Esserci fa parte la comprensione dell’essere. Essendo, l’Esserci è aperto a se stesso nel suo essere. Situazione emotiva e comprensione costituiscono il modo di essere di questa apertura. Angoscia in quanto possibilità dell’essere dell’Esserci, e l’Esserci stesso in essa aperto offrono il terreno fenomenico per cogliere esplicitamente la totalità originaria dell’essere dell’Esserci. L’essere dell’Esserci si rivela come cura. L’elaborazione ontologica di questo fenomeno esistenziale fondamentale richiede la sua delimitazione rispetto a fenomeni che di primo acchito potrebbero essere confusi con la Cura. Tali fenomeni sono la volontà, il desiderio, la tendenza e l’impulso. La Cura non può essere dedotta da fenomeni di questo genere perché è nella Cura che essi trovano il loro fondamento. L’analitica dell’Esserci, spingendosi fino al fenomeno della Cura, deve preparare la problematica ontologica fondamentale, cioè il problema del senso dell’essere in generale. § 40. La situazione emotiva fondamentale dell’angoscia come apertura eminente dell’Esserci Una possibilità dell’essere dell’Esserci deve offrirci un chiarimento ontico sopra di esso in quanto ente. Ma un chiarimento è possibile solo in seno all’apertura dell’Esserci, apertura che, si fonda nella situazione emotiva e nella comprensione. In che senso l’angoscia è una situazione emotiva eminente? L’immedesimazione nel Si e in un mondo di cui ci si prende cura rivela qualcosa come una fuga, dell’Esserci dinanzi a se stesso in quanto poter-essere-se-stesso autentico. In questa fuga, l’Esserci non si porta in cospetto di se stesso. Il divergere da sé, per effetto della tendenza più propria della deiezione, porta lontano dall’Esserci. Esistentivamente la deiezione chiude e nasconde l’autenticità propria dell’esser-se-stesso, ma questa chiusura non è che la privazione di un’apertura, la quale si rivela fenomenicamente nel fatto che la fuga dell’Esserci è nient’altro che una fuga davanti a se stesso. Nel davanti-a-che della fuga l’Esserci in realtà si insegue, sta dietro a se stesso. Solo perché, in virtù dell’apertura che gli è propria, l’Esserci è condotto in senso ontologico ed essenziale in cospetto di se stesso, esso può fuggire davanti a se stesso. La deiezione dell’Esserci nel Si e nel mondo di cui si prende cura l’abbiamo chiamata una fuga dell’Esserci davanti a se stesso. Ma non ogni retrocedere davanti a… ogni diversione da… è necessariamente fuga; il retrocedere per paura ha il carattere della fuga. L’interpretazione della paura come situazione emotiva ha mostrato che il davanti-a-che, della paura è sempre un ente intramondano proveniente da una determinata direzione. Noi fuggiamo dallo spaesamento. La diversione è così poco una fuga di questo genere da essere piuttosto una conversione, verso l’ente intramondano per rifugiarsi presso di esso. La diversione della deiezione, si fonda invece nell’angoscia che rende originariamente possibile la paura. Il davanti-a-che dell’angosci è l’essere- nel-mondo come tale. Il davanti a che dell’angoscia non è un ente intramondano. Il davanti-a-che dell’angoscia è completamente indeterminato. Questa indeterminatezza, non solo lascia effettivamente del tutto indeciso da quale ente intramondano venga la minaccia, ma sta a significare che in generale l’ente intramondano è irrilevante. Nell’angoscia non si incontra questo o quell’ente presso cui sia possibile appagarsi come ciò che è minaccioso.  Il minaccioso non è in nessun luogo. In nessun luogo non equivale però a nulla. L’impertinenza del nulla dell’in-nessun-luogo intramondani significa fenomenicamente: il davanti-a-che dell’angoscia è il mondo come tale. Mondo nella sua mondità. In una favola antica troviamo l’autointerpretazione dell’Esserci come cura: Giove ha dato lo spirito alla morte riceverà lo spirito. Terra ha dato il corpo, riceverà il corpo. Cura che ha dato la forma fintanto che vivrà lo possiede la, Cura. Poiché però la controversia riguarda il suo nome, di chiami homo poiché è fatto di humus. Questo ente ha l’origine del suo essere nella cura. L’essere nel mondo ha la struttura d’essere della Cura. Il nome Homo non gli è dato in relazione al suo essere ma in base a ciò di cui consiste humus. § 45. Il risultato della fase preparatoria dell’analisi fondamentale dell’Esserci e il compito di un’interpretazione esistenziale originaria di questo ente. Muovendo dal risultato ottenuto dalle precedenti ricerche, cioè che l’essere dell’Esserci è la cura, si può procedere. Una cosa è ormai fuori dubbio l’analisi esistenziale dell’Esserci finora condotta non può avanzare la pretesa della originarietà. Nasce il compito di realizzare la pre-disponibilità dell’Esserci come totale. La fine dell’essere-nel-mondo è la morte. L’attestazione di un poter essere autentico è offerta dalla coscienza (Gewissen). Il fondamento ontologico originario dell’esistenzialità dell’Esserci è la temporalità. La totalità articolata delle strutture dell’essere dell’Esserci come Cura diventa comprensibile esistenzialmente solo a partire da essa. Le strutture ontologiche dell’Esserci finora ricavate debbono esser ricondotte al loro senso temporale. La quotidianità si svela come un modo della temporalità. Muovendo dalla temporalità sarà anche possibile capire perché l’Esserci sia storico e nel fondamento del suo essere perché possa essere tale e perché sia in grado, in quanto storico, di elaborare una storiografia. Il poter-essere in quanto sempre mio, è libero per l’autenticità, l’inautenticità o la loro indifferenza modale. Esistenza significa poter-essere, quindi anche poter-essere autentico. Se la temporalità costituisce il senso originario dell’essere dell’Esserci, cioè dell’ente a cui nel suo essere ne va di questo essere stesso, ne viene che la Cura dovrà usare il tempo e, di conseguenza, calcolare col tempo. La morte è adeguata all’Esserci solo in un essere-per-la-morte esistentivo. Il tempo in esso esperito è l’aspetto fenomenico più vicino della temporalità. Da esso scaturisce la comprensione quotidiana e ordinaria del tempo. § 46. L’impossibilità apparente di una comprensione e determinazione ontologica del poter-essere-un-tutto da parete dell’Esserci Il momento primario della Cura, l’avanti-a-sé significa: l’Esserci esiste sempre in-vista-di-se-stesso. La disperazione per esempio, non sottrae l’Esserci alle sue possibilità, ma è soltanto un modo particolare di essere-per queste possibilità. Nell’essenza della costituzione fondamentale dell’Esserci si ha una costante incompiutezza. Nel momento stesso in cui l’Esserci esiste, in esso non manchi assolutamente più nulla, esso è anche giunto al suo non-Esserci-più. L’eliminazione della mancanza di essere importa annichilimento del suo essere. Fintanto che l’Esserci è come ente, non ha ancora raggiunto la propria totalità, ma una volta che l’abbia raggiunta, tale raggiungimento porta la perdita assoluta dell’essere-nel-mondo. Da allora non è più esperibile come ente. La ragione dell’impossibilità di esperire onticamente l’Esserci come ente totale e quindi di determinarlo ontologicamente nel suo essere-un-tutto, non dipende da un’insufficienza dei nostri mezzi conoscitivi. L’impedimento viene dall’essere di questo ente. § 47. L’esperibilità della morte degli altri e la possibilità di cogliere un Esserci intero Il raggiungimento della totalità da parte dell’Esserci mediante la morte è nel contempo la perdita dell’essere del Ci. Il passaggio al non Esser-ci-più sottrae all’Esserci la possibilità di esperire questo passaggio e di comprenderlo come esperito. Un’esperienza siffatta è preclusa al singolo Esserci nei confronti di se stesso. La morte degli altri ci fa vedere oggettivamente la fine dell’Esserci. L’Esserci, tanto più che esso è essenzialmente con-Esserci con gli altri, può esperire la loro morte. Anche l’Esserci degli altri, una volta che con la morte abbia raggiunto la totalità, è un non-Esserci- più nel senso di non-essere-più-nel-mondo. Il non essere più nel mondo proprio del morto a rigor di termini, è ancora un modo di essere, ma nel senso dell'essere solo una semplice presenza, una cosa corporea che si incontra nel mondo. La fine dell'ente come Esserci è l’inizio di questo ente come semplice-presenza. Questa interpretazione del passaggio dal Esserci all'essere solo una semplice-presenza, fallisce: l'ente che rimane non può essere considerato una semplice cosa corporea. Lo stesso cadavere semplicemente presente in teoria, è ancora un oggetto possibile di anatomia patologica, la cui considerazione scientifica continua a essere guidata dall'idea della vita. Il defunto che, a differenza del semplice deceduto, è stato rapito a coloro che restano, è oggetto del prendersi cura nella forma delle esequie. E ciò, di nuovo, perché il defunto nel suo modo di essere, resta ancora qualcosa di più di un mezzo di cui ci si prende cura come utilizzabile intramondano. La morte si rivela certamente come una perdita, ma è qualcosa di più di quanto coloro che rimangono possono esperire. Nei patimenti per la perdita del defunto non si accede alla perdita dell'essere quale è patita da chi muore. Noi non sperimentiamo mai in senso genuino il morire degli altri, in realtà non facciamo altro che assistervi. Tra le possibilità di essere dell'essere assieme nel mondo c'è certamente anche quella della sostituibilità di un Esserci con un altro. Nella quotidianità del prendersi cura si fa ripetutamente ricorso a tale sostituibilità. L'Esserci quotidiano si comprende innanzitutto e per lo più a partire da ciò di cui si prende cura. Nel quadro di un siffatto essere, cioè nell'immediato in azione del essere assieme quotidiano con un mondo di cui ci si prende cura, la sostituibilità non solo è possibile in linea generale, ma è parte costitutiva dell'essere assieme. Qui è possibile anche necessario che un Esserci, entro certi limiti, sia l'altro. Viceversa questa possibilità di sostituzione è irrimediabilmente votata al fallimento quando sia in gioco la possibilità di essere è costituita dal aggiungere alla fine da parte del Esserci e che, come tale gli conferisce la sua totalità. Nessuno può assumersi il morire di un altro. Ognuno può, sì, morire per un altro. Ma ciò significa sempre sacrificarsi per un altro in una determinata cosa. Ma questo morire per, non può mai significare che all'altro sia così sottratta la propria morte. Ogni Esserci deve assumersi sempre in proprio la morte. Nel morire si fa chiaro che la morte è costituita ontologicamente dal carattere dell'essere sempre mio e dell'assistenza. Il morire non è un semplice accadimento, ma un fenomeno che va compreso esistenzialmente e per di più in un senso eminente da fissare con maggior precisione ancora. Nel finire, in quanto morire, è necessario che lo stesso essere del tutto sia concepito come un fenomeno esistenziale del Esserci sempre proprio di qualcuno. Nella fine non c'è possibilità alcuna di sostituzione. § 48. Mancanza, fine e totalità Si impone sempre più la necessità di trarre dall' esserci stesso il senso esistenziale del suo giungere alla fine, onde chiarire in modo in cui tale finire può dar luogo all'essere un tutto da parte dell'ente che esiste. Quanto detto sulla morte può essere riassunto in tre proposizioni: 1. L'Esserci porta con sé, fintanto che è, un non ancora che sarà, c'è una mancanza costante. 2. Il giungere alla propria fine da parte dell'ente che è via via non ancora alla fine ha il carattere del non esserci più. 3. Il giungere alla fine implica, per il rispettivo Esserci, un modo di essere in cui non è assolutamente possibile la sostituzione. All'Esserci è connessa una costante non totalità a cui solo la morte pone termine. L'ente a cui manca ancora qualcosa ha pertanto il modo di essere del utilizzabile. L'Esserci esiste già da sempre in modo tale che il suo non-ancora gli appartiene. Si può dire, ad esempio che alla luna, finché non è piena, manca l'ultimo quarto. E non ancora cessa col dissiparsi dell'ombra che la copre. Ciò nonostante la luna è già da sempre presente, in realtà come un tutto. A prescindere dal fatto che la luna anche se piena non è mai completamente visibile, il non ancora non significa affatto, nei suoi riguardi il non essere ancora insieme delle parti che la compongono. Ciò che entra in gioco riguarda unicamente l’apprensione percettiva. Esserci deve divenire ciò che non è ancora. Di conseguenza per poter determinare adeguatamente l'essere conforme all'Esserci da parte del non ancora dobbiamo prendere in esame nulla il cui modo di essere comporti il divenire.  Il frutto immaturo, ad esempio, va verso la maturazione. Ma in questo processo di maturazione ciò che non è ancora, non si aggiunge gradatamente come qualcosa di non è ancora presente. Il frutto stesso va verso la maturazione in modo tale che questo andare verso caratterizza il suo essere in quanto frutto. Qualunque cosa venisse aggiunta non potrebbe commentare, eliminare l'immaturità del frutto, se questo Ente non procedesse da sé stesso verso la propria maturazione. Il non ancora dell'immaturità non significa il mancare di qualcosa di estrinseco che, indifferente al frutto, potrebbe essere semplicemente presente in esso e con esso. Il non ancora costituisce il frutto nel suo modo di essere specifico. La somma non ancora completa in quanto è utilizzabile, è indifferente rispetto alla parte mancante e inutilizzabile. A rigor di termini essa non può essere né non indifferente né indifferente. Il frutto in maturazione, invece, non soltanto non è indifferente rispetto al l'immaturità come qualcos'altro da sé, ma, mentre sta maturando, è l'immaturità. Il non-ancora è già inclusa nel suo essere, e non come una determinazione accidentale ma come elemento costitutivo. Parimenti anche Esserci è già sempre il suo non ancora. Vi sono delle differenze, anche se la maturazione, cioè l'essere specifico del frutto, in quanto modo di essere del non ancora, coincide formalmente con l'Esserci per il fatto che l'uno e l'altro sono già da sempre il loro non ancora, ciò non significa che la maturazione come fine la morte come fine coincidano anche esse quanto la struttura ontologica della fine. Con la maturazione il frutto si compie. Ma la morte a cui giunge l'Esserci è un compimento in questo senso? Certamente con la morte di esserci ha compiuto il suo corso. Ma, nel contempo necessariamente esaurisce le possibilità che gli sono proprie? Anche un esserci incompiuto finisce. D'altra parte Esserci così poco bisogno della morte per giungere la maturazione, che gli può averla già superata prima della fine. Finire non significa necessariamente giungere a compimento. La domanda: in quale senso in generale, la morte deve essere intesa come la fine dell’Esserci? Finire significa prima di tutto cessare. Finire, in quanto cesare, quindi significare il dissolversi nella non presenza o raggiungerla totale presenza proprio con la fine. Finire, nel secondo senso, può di nuovo o significare essere presente come non ultimato, oppure costruire proprio essere ultimato di una cosa presente come tale. Ma finire nel senso di essere ultimato non implica un compimento. Per contro ciò che pretende essere compiuto deve essere ultimato. Il compimento è un modo che si fonda nel essere ultimato. Ma questo, da parte sua, è possibile solo con determinazione di una semplice presenza o di un utilizzabile. Anche finire nel senso di dissolversi può modificarsi in corrispondenza al modo di essere dell'ente. Non è più disponibile come utilizzabile. La morte dell'Esserci non si lascia caratterizzare adeguatamente da nessuno di questi modi del finire. Poiché sarebbe assunto come semplice presenza. § 49. Delimitazione dell’analisi esistenziale della morte rispetto alle altre interpretazioni possibili del fenomeno Si possono esaminare i diversi generi di morte, le cause, i meccanismi, e le maniere del suo sopraggiungere. Alla base di questa ricerca ontico biologica sulla morte si trova una problematica L'Esserci quotidiano, perlopiù, copre la possibilità più propria, incondizionata è insuperabile del suo essere. Questa tendenza effettiva al coprimento, conferma la tesi che l'Esserci in quanto effettivo è nella non verità. Conseguentemente, la certezza inerente a questo coprimento dell’essere per la morte dev’essere in tener-per-vero inadeguato e non un’incertezza nel senso del dubbio. Si dice: è certo che la morte verrà. Lo si dice senz’altro ma il Si non vede che, per esser certi della morte, ciascun Esserci stesso deve esser certo del suo poter-essere più proprio e incondizionato. Si dice che la morte è certa, e ciò produce nell’Esserci l’illusione che sia esso stesso a esser certo della propria morte. Si assiste infatti ogni giorno al morire di altri. La morte è un innegabile fatto d’esperienza. Tutti gli uomini per quando si sa muoiono. Rigorosamente parlando alla morte può essere attribuita solo una certezza empirica. Finché resta nella certezza di tipo empirico, l’Esserci non può rendersi conto della morte nel modo in cui essa è. Si sa della certezza della morte, ma non si è autenticamente certi della propria. Si dice: “la morte verrà certamente, ma, per ora, non ancora”. Con questo “ma”, il Si contesta alla morte la sua certezza. La quotidianità è indaffarata nel prendersi cura e rifugge dall’intoppo dello stanco e inattivo pensare alla morte. Questo pensiero è costantemente rimandato a un più tardi, facendo appello alla cosiddetta opinione generale. La certezza della morte si accompagna alla indeterminatezza del suo quando. Il coprimento dell’indeterminatezza inquina anche la certezza. Viene così velato il carattere più proprio della possibilità della morte: quello di esser possibile a ogni attimo, il suo essere certa e indeterminata. La morte, come fine dell’Esserci, è la possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile. La morte, come fine dell’Esserci, è nell’essere di questo ente per la sua fine. L’essere per la morte, si fonda nella Cura. L’Esserci, in quanto gettato essere-nel-mondo è già da sempre consegnato alla propria morte. Esistendo per la propria morte, esso muore effettivamente e costantemente fino a quando non sia pervenuto al proprio decesso. Che l’Esserci muoia effettivamente, significa al tempo stesso che esso si è già sempre deciso, in un modo o nell’altro quanto al suo essere-per-la-morte. L’elusione quotidiana e deiettiva davanti alla morte è un essere- per-la-morte inautentico. Poiché l’Esserci esiste, si determina come quell’ente che esso è, sempre partendo da una possibilità che esso stesso è e comprende. § 53. Progetto esistenziale di un essere-per-la-morte autentico Di fatto l’Esserci si mantiene innanzitutto e per lo più in un essere per la morte, inautentico. L’Esserci è costituito dall’apertura, cioè da una comprensione emotivamente situata. In primo luogo, la morte, in quanto possibile, non è un possibile utilizzabile o una semplice- presenza, ma una possibilità d’essere dell’Esserci. La morte in quanto possibile, deve allora palesarsi il meno possibile nella sua possibilità. Un modo in cui l’Esserci si rapporta a un possibile nella sua possibilità è l’attesa ogni attesa comprende il suo possibile in relazione al se e al quando e al come esso sarà realmente presente. L’essere per la possibilità, in quanto essere-per-la-morte, deve rapportarsi alla morte in modo che essa si sveli come possibilità. A questo modo di essere per la possibilità noi diamo il nome di anticipazione della possibilità. La vicinanza massima dell’essere-per-la-morte come possibilità coincide con la sua lontananza massima possibile da ogni realtà. La morte, in quanto possibilità, non offre niente da realizzare all’Esserci e niente che esso stesso possa essere, come realtà attuale. Essa è la possibilità dell’impossibilità di ogni comportamento verso ogni esistere. L’essere-per-la-morte come anticipazione della possibilità, rende possibile questa possibilità e la rende libera come tale è l’anticipazione di un poter essere di quell’ente il cui modo di essere ha l’anticiparsi stesso. Nella scoperta anticipante di questo poter-essere, l’Esserci si apre a se stesso nei confronti della sua possibilità più estrema. La morte è la possibilità più propria dell’Esserci. In essa si fa chiaro all’Esserci che esso, nella sua possibilità eminente, è sottratto al Sì, cioè che, anticipandosi può già sempre sottrarre a esso. Solo la comprensione di questo potere rivela la perdizione effettiva della quotidianità del Si-stesso. La possibilità più propria è incondizionata. La morte non appartiene solo indifferentemente al proprio Esserci, ma lo reclama in quanto singolo. L’incondizionatezza della morte, qual è compresa nell’anticipazione, isola L’Esserci in se stesso. L’Esserci è autenticamente se stesso solo se si progetta primariamente nel suo poter-essere più proprio, anziché nelle possibilità del Si-stesso. L’anticipazione dischiude all’esistenza, come sua estrema possibilità, la rinuncia a se stessa, dissolvendo in tal modo ogni sclerotizzazione su posizioni esistenziali di volta in volta raggiunte. Come possibilità insuperabile, la morte isola l’Esserci, ma solo per renderlo, in questa insuperabilità, consapevole come con-essere del poter-essere degli altri. La possibilità certa della morte apre l’Esserci come possibilità solo se esso, anticipandosi nella morte, rende possibile a se stesso questa possibilità come il poter-essere più proprio. L’apertura della possibilità si fonda nella possibilizzazione anticipatrice. Nell’anticipazione, l’Esserci può accertarsi del suo essere più proprio della sua totalità insuperabile. Perciò l’evidenza dei dati immediati dell’esperienza vissuta, dell’io e della coscienza resta necessariamente indietro rispetto alla certezza dell’anticipazione. Nell’anticipazione della morte, indeterminatamente certa, l’Esserci si apre a una minaccia continua proveniente dal suo stesso Ci. L’essere-per-la-fine deve mantenersi in questa minaccia costante e può così poco dissiparla da dover piuttosto dar forma alla indeterminatezza della certezza. La tonalità emotiva porta l’Esserci dinanzi all’esser-gettato del suo che-c’è. Ma la situazione emotiva che può tenere aperta la costante e assoluta minaccia incombente sul se- Stesso ed emergente dal più proprio e isolato essere dell’Esserci è l’angoscia. In essa l’Esserci si trova di fronte al nulla della possibile impossibilità della propria esistenza. Ciò che caratterizza l’essere-per-la-morte autentico progettato sul piano esistenziale può essere riassunto così: l’anticipazione svela all’Esserci la dispersione nel Si-stesso e, sottraendolo fino in fondo all’aver cura che si prende cura, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: la libertà per la morte. § 54. Il problema dell’attestazione di una possibilità esistentiva autentica Ciò che andiamo cercando è un poter-essere autentico dell’Esserci che sia attestato dall’Esserci stesso nella sua possibilità esistentiva. Prima di tutto occorre che questa attestazione sia rintracciabile, se essa deve darsi a comprendere all’Esserci nella sua esistenza autentica possibile, dovrà avere le proprie radici nell’essere dell’Esserci. L’attestazione deve far comprendere un poter- essere-se-stesso autentico. Con l’espressione se-stesso abbiamo risposto alla domanda intono al Chi dell’Esserci. Il Chi dell’Esserci per lo più non lo sono io stesso, ma lo è il Si-stesso. L’esser se-Stesso autentico si determina come una modificazione esistentiva del Si, da definirsi esistenzialmente. Con la perdizione dell’Esserci nel Si, tutto è già sempre deciso circa il poter-essere dell’Esserci più prossimo ed effettivo, cioè dell’essere-nel-mondo prendente e avente cura. Il Si ha già sempre esonerato l’Esserci dall’afferrare queste possibilità di essere. Il Si nasconde la tacita sottrazione che esso compie della scelta esplicita di queste possibilità. Resta indeterminato chi propriamente scelga. Questo non scelto coinvolgimento nel Nessuno, in virtù del quale l’Esserci è irretito nell’inautenticità, può essere eliminato soltanto se l’Esserci si riprende dalla dispersione del Si. L’andarsi a riprendere dal Si, cioè la modificazione esistentiva del Si-stesso in autentico esser se- Stesso, deve aver luogo come recupero della scelta. Ma recupero della scelta significa scegliere questa scelta stessa, decidersi per un poter-essere fondato nel proprio se-Stesso. Scegliendo la scelta, l’Esserci rende in primo luogo possibile a se stesso il proprio poter-essere autentico. Poiché però l’Esserci si è perso nel Si, prima di tutto deve ritrovarsi. Ma per farlo deve esser mostrato a se stesso nella sua autenticità possibile. L’Esserci ha bisogno dell’attestazione di un poter-essere se- Stesso tale che, rispetto alla possibilità, esso già sempre lo sia. La coscienza dà a comprendere qualcosa, apre. Questa caratteristica, formale, indica che il fenomeno dev’essere ricondotto all’apertura dell’Esserci. L’apertura in quanto costituzione fondamentale dell’ente che noi sempre siamo, è costituita dalla situazione emotiva, dalla comprensione, dalla deiezione e dal discorso. La chiamata della coscienza ha il carattere del richiamo dell’Esserci al suo più proprio poter-essere e ciò nel modo del risveglio al suo più proprio, essere-in-colpa. Alla chiamata della coscienza corrisponde un sentire possibile. La comprensione del richiamo si rivela come un voler-aver-coscienza. Ma in questo fenomeno ha luogo quella scelta esistentiva di scegliere se-Stesso che noi, per la sua struttura esistenziale, chiamiamo decisione. § 55. I fondamenti ontologico-esistenziali della coscienza L’analisi della coscienza prende l’avvio da un dato indifferente di questo fenomeno: che essa, in qualche modo, dà qualcosa a comprendere. La coscienza apre e appartiene perciò alla cerchia dei fenomeni esistenziali che costituiscono l’essere del Ci in quanto apertura. Le sue strutture più universali, cioè la situazione emotiva, la comprensione, il discorso e la deiezione, sono già state spiegate. Col suo mondo l’Esserci c’è per se stesso e, innanzitutto e per lo più, in modo tale da aver aperto il suo poter-essere a partire dal mondo di cui si prende cura.
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