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MARX e la lotta di classe, Appunti di Filosofia

la lotta di classe, capitale e lavoro salariato nella produzione postfordista

Tipologia: Appunti

2016/2017

Caricato il 23/09/2017

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Scarica MARX e la lotta di classe e più Appunti in PDF di Filosofia solo su Docsity! Giuseppe Antonio Di Marco La lotta di classe tra capitale e lavoro salariato nella produzione postfordista 1. Nella teoria di Marx, posta a base del mio discorso, la produzione del plusvalore, condizione e scopo dell'esistenza del capitale ossia del valore che si valorizza, avviene attraverso due metodi. Il primo consiste nel prolungare la giornata lavorativa oltre il punto nel quale l'operaio avrebbe prodotto soltanto l'equivalente di suoi mezzi di sussistenza, ossia avrebbe riprodotto solo il valore della sua forza-lavoro. Tale metodo, che è quello di produzione del plusvalore assoluto, rappresenta «il fondamento generale del sistema capitalistico»1 sia concettualmente che storicamente. «In principio era apparsa necessaria una certa grandezza minima del capitale individuale affinché il numero degli operai simultaneamente sfruttati e quindi la massa del plusvalore prodotto, fosse sufficiente a esimere dal lavoro manuale la persona che impiegava gli operai, e a farne da piccolo mastro artigiano un capitalista, istituendo così formalmente il rapporto capitalistico […]. Così pure in principio il comando del capitale sul lavoro si presentava solo come conseguenza formale del fatto che l'operaio, invece di lavorare per sé, lavora per il capitalista, e quindi sotto il capitalista»2. Ciò non comporta la trasformazione del processo lavorativo, ma solo il farne la funzione di un processo di valorizzazione, ossia capitalistico. Ma poiché la giornata lavorativa non può prolungarsi in modo da eguagliare le ventiquattro ore, dato che ciò impedirebbe la riproduzione dell'operaio, «per prolungare il pluslavoro, il lavoro necessario viene accorciato con metodi che servono a produrre in meno tempo l'equivalente del salario»3. Si ha così la produzione del plusvalore relativo, la quale «rivoluziona da cima a fondo i processi tecnici del lavoro e i raggruppamenti sociali […]. Al posto della sussunzione formale del lavoro sotto il capitale subentra quella reale»4. A questo punto, se prima il comando del capitale si svolgeva solo come sottomissione di un certo numero di operai che continuavano a lavorare secondo le loro competenze tecniche tradizionali, solo che lo facevano a servizio del capitalista, adesso «con la cooperazione di molti operai salariati il comando del capitale si evolve a esigenza della esecuzione del processo lavorativo stesso, cioè a condizione reale della produzione. Ora l'ordine del capitalista sul luogo di produzione diventa indispensabile come l'ordine del generale sul campo di battaglia»5. In questo modo il processo lavorativo diventa un processo cooperativo, e si intende per cooperazione «la forma del lavoro di molte persone che lavorano l'una accanto all'altra e l'una assieme all'altra secondo un piano, in uno stesso processo di produzione, o in processi di produzione differenti ma connessi»6. Di per sé, l'organizzazione di un processo lavorativo mediante la concentrazione dei mezzi di lavoro e delle forze-lavoro secondo un piano, scaturisce dal fatto che ogni lavoro sociale immediato, appena compiuto su scala più vasta, deve essere diretto e le varie funzioni complessive devono essere armonizzate. Ma nella produzione del plusvalore relativo, «motivo propulsore e scopo determinante»7 di questa combinazione pianificata di forze in uno stesso o in differenti processi di produzione connessi, «è in primo luogo la maggior possibile autovalorizzazione del capitale, cioè la produzione di plusvalore più grande possibile, e quindi il maggiore sfruttamento possibile della forza-lavoro da parte del capitalista»8. Di conseguenza «la direzione del capitalista non è soltanto una funzione particolare derivante dalla natura del processo lavorativo sociale e a tale processo pertinente; ma è insieme funzione di sfruttamento di un processo lavorativo sociale, ed è quindi un portato dell'inevitabile antagonismo fra lo sfruttatore e la materia prima da lui sfruttata»9. Infatti con la cooperazione, insieme alla «massa degli operai simultaneamente impiegati cresce la loro resistenza, e quindi necessariamente la pressione del capitale per superare tale resistenza [….]. Così pure, col crescere del volume dei mezzi di produzione che l'operaio salariato si trova davanti come proprietà altrui, cresce la necessità del controllo affinché essi vengano adoprati convenientemente»10. Dunque la cooperazione, in quanto cooperazione di operai salariati, qui non è solo una necessità interna del processo lavorativo, ma sta al di fuori degli operai come una forza del capitale che li riunisce. Ciò vuol dire che la direzione del capitalista nell’organizzare la cooperazione ha una forma «dispotica»11. Quindi il capitalista non deriva la sua funzione dal fatto che è un dirigente industriale, ma viceversa, vale a dire è in quanto capitalista, cioè a partire dall'esistenza in partenza della sua separazione antagonistica dal lavoratore, che egli diventa dirigente industriale. Se per la sussunzione formale basta che il capitale abbia raggiunto una grandezza minima tale da permettere l’esenzione del capitalista dal lavoro per svolgere la funzione di sorveglianza, con la sussunzione reale in forma di cooperazione questa sorveglianza si articola e viene ceduta «a un genere particolare di operai salariati»12, i quali esercitano «la funzione della sorveglianza diretta e continua dei singoli operai e dei singoli gruppi di operai. Allo stesso modo che un esercito ha bisogno di ufficiali e sottufficiali militari, una massa di operai operanti insieme sotto il comando dello stesso capitale ha bisogno di ufficiali superiori (dirigenti, managers) e di sottufficiali (sorveglianti, foremen, overlookers, contermaîtres) industriali, i quali durante il processo di lavoro comandano in nome del capitale»13. Nella compravendita della forza-lavoro il singolo operaio vende al capitalista solo la sua singola forza-lavoro, non certo la cooperazione, quale che sia il numero di operai con cui il capitalista abbia effettuato tale compravendita. Dunque gli operai come "liberi" venditori della propria forza-lavoro entrano in rapporto non fra di loro, ma con il singolo capitalista, e solo in questo isolamento essi sono indipendenti. Una volta che la compravendita della forza-lavoro è avvenuta, l’operaio cessa di essere "libero", perché di fatto viene incorporato nel capitale, il quale li mette a cooperare organizzandoli nel processo lavorativo. Orbene, questo processo sviluppa naturalmente una forza cooperativa sociale, quindi accresce la forza produttiva del lavoro: «La giornata di lavoro combinata produce quantità di valore d’uso maggiori della somma di egual numero di giornate lavorative individuali singole, e quindi diminuisce il tempo di lavoro necessario per produrre un determinato effetto utile […]. La forza produttiva specifica della giornata lavorativa combinata è forza produttiva sociale del lavoro, ossia forza produttiva del lavoro sociale. E deriva dalla cooperazione stessa. Nella cooperazione pianificata con altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa la facoltà della sua specie»14. Ma appena l'operaio ha individualmente venduto la sua forza-lavoro al capitalista e questi lo mette al lavoro insieme agli altri operai secondo un piano, essendo il processo lavorativo combinato anche un processo di valorizzazione, ecco che «la forza produttiva sviluppata dall'operaio come operaio sociale è forza produttiva del capitale»15. E poiché ciò che il capitalista ha pagato è solo la forza- lavoro individuale di ciascun operaio, non la capacità naturale del lavoro di ciascuno di sviluppare la cooperazione, questo sviluppo naturale della produttività sociale del lavoro non gli costa nulla e «si presenta come forza produttiva posseduta dal capitale per natura, come sua forza produttiva immanente»16. Questa forza produttiva sociale sviluppata dal lavoro umano di cui il capitale si appropria gratis, che si presenta come una potenza estranea ai lavoratori e li domina dispoticamente, inizia con la cooperazione semplice e si sviluppa nella manifattura, forma di cooperazione che si afferma dalla metà del secolo XVI fino a due terzi del secolo XVIII. La particolare specie di cooperazione è qui la divisione del lavoro, dove «l’analisi del processo di produzione nelle sue fasi particolari coincide completamente con la disgregazione d’una attività artigianale nelle sue differenti operazioni parziali»17. Ogni lavoro unilaterale che compone tutto il corpo lavorativo come combinazione di queste funzioni parziali, rimane però un lavoro artigianale. Il vecchio artigiano, che eseguiva autonomamente tutte le varie fasi del processo lavorativo, diventa un operaio parziale che esegue una sola funzione parziale in cui la sua forza-lavoro è trasformata per tutta la vita. Nella manifattura quella forza produttiva sociale del lavoro che non costa nulla al capitale e appare come forza produttiva naturale a esso stesso immanente, è la divisone millenaria dei mestieri che il capitale trova bella e pronta nella società, esistente e imposta da secoli ereditariamente nelle caste e nelle corporazioni. Quindi la manifattura è, nel suo risultato conclusivo, «un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini […]. Macchinario specifico del periodo della manifattura rimane l’operaio complessivo stesso, combinato di molti operai parziali […]. Il lavoratore complessivo possiede tutte le qualità produttive a uno stesso grado di virtuosismo e le spende allo stesso tempo nella maniera più economica, in quanto tutti i suoi organi, individualizzati in particolari operai o gruppi di operai, li adopera esclusivamente per le loro funzioni specifiche»18. Di conseguenza nella manifattura la merce non è prodotta 2 consistente nel fornire pluslavoro; dall’altro lato «l’operaio, volendo limitare la giornata lavorativa ad una grandezza normale determinata, sostiene il suo diritto di venditore»37, dato che è la stessa specifica natura della merce forza-lavoro, da lui venduta, a comportare dei limiti nel suo uso, che non può durare per un periodo equivalente alle ventiquattro ore. Poiché entrambi, capitalista e operaio, fanno valere non argomenti morali, ma economici, derivanti dalle leggi dello scambio di merci, «fra diritti eguali decide la forza»38. Infatti tutta la storia del modo di produzione capitalistico è storia della lotta sui limiti della giornata lavorativa. Questa lotta, lungo tutta l’età moderna, ha attraversato fasi contrapposte, perché all’inizio è stata lotta del capitale per ottenere l'allungamento della giornata lavorativa onde assorbire la necessaria quantità di pluslavoro per insediarsi come forma di produzione dominante. Questo avveniva «non ancora mediante la pura e semplice forza dei rapporti economici, ma anche con l'ausilio del potere dello Stato»39. Viceversa, dopo che il "libero" lavoratore si fu adattato socialmente a vendere la sua intera vita solo per il prezzo dei suoi mezzi di sussistenza, furono gli operai organizzati a strappare allo Stato con la lotta una legislazione che stabiliva la durata di una «giornata lavorativa normale»40, ossia tale da lasciare un margine sufficiente a poter reintegrare la propria forza-lavoro e a garantirne un «sano sviluppo»41. Ma poiché per il capitale l’aumento all'infinito del pluslavoro di cui appropriarsi gratis è condizione di vita o di morte, ecco che appena gli operai uniti ottengono per legge la riduzione della giornata lavorativa, il capitale tende «a ripagarsi con un aumento sistematico del grado di intensità del lavoro e a stravolgere ogni perfezionamento del macchinario in un mezzo di succhiar più forza-lavoro»42, cosicché è inevitabile che a questo seguano nuove lotte collettive operaie per ottenere di nuovo una diminuzione delle ore lavorative. Come abbiamo visto, dipendendo la divisione del lavoro nell'industria dalla forma capitalistica e non dalla natura tecnica del processo lavorativo, tale divisione non si riproduce in base alle abilità del mestiere, ma attraverso il livellamento verso il basso dei lavori, connessi solo nella forma della cooperazione semplice, a fronte di pochi lavori connessi alle macchine specializzate. Di conseguenza quell’aumento di produttività e risparmio di forza-lavoro umana da impiegare per lo sviluppo sano e armonico dell’individuo, che il processo lavorativo industriale renderebbe possibile, entro la sottomissione reale del lavoro al capitale, in cui la macchina opera, provoca invece, insieme all'estinzione del valore d’uso, anche l'estinzione del valore di scambio della forza-lavoro, perché l’operaio diventa invendibile, dato che la macchina esegue le funzioni che l'operaio prima eseguiva. Così una parte della classe operaia «viene […] trasformata dalle macchine in popolazione superflua, cioè non più immediatamente necessaria per la autovalorizzazione del capitale»43. Infatti alla produzione capitalistica non basta avere a disposizione la forza-lavoro attingendola entro i limiti dell'aumento naturale della popolazione, ma il capitale deve creare, indipendentemente da questo limite naturale, «un esercito industriale di riserva disponibile che [gli] appartiene in maniera così completa come se […] l'avesse allevato a sue proprie spese»44, mediante la svalutazione della forza-lavoro, resa possibile dalle macchine nella grande industria. E poiché l'accumulazione è prodotta dalla popolazione operaia stessa, ecco che quest'ultima «produce in misura crescente […] i mezzi per render se stessa relativamente eccedente»45. Questa popolazione eccedente creata dal capitale, ovvero dalla stessa popolazione operaia in quanto forza produttiva del capitale, costituisce una leva essenziale dell'accumulazione, in quanto per mezzo di essa il capitale può agire contemporaneamente su un duplice fronte: «Se da un lato la sua accumulazione aumenta la domanda di lavoro, dall'altro essa aumenta l'offerta di operai mediante la loro "messa in libertà", mentre allo stesso tempo la pressione dei disoccupati»46, oltre a moderare le pretese salariali degli operai occupati, li «costringe […] a render liquida una maggiore quantità di lavoro rendendo in tal modo l'offerta di lavoro in una certa misura indipendente dall'offerta di operai. Il movimento della legge della domanda e dell'offerta di lavoro su questa base porta a compimento il dispotismo del capitale»47. Si vede qui con chiarezza che l'operaio, malgrado appaia "libero" prima di essersi venduto al capitalista, in realtà gli appartiene in ogni momento della sua vita, perché quando ha il lavoro è costretto a lavorare sempre di più, con la conseguenza che, sotto la pressione degli operai disoccupati, questo suo lavoro gli diventa sempre più precario; quando non ha il lavoro, è in un «ozio forzoso»48, in quanto appartiene alla popolazione superflua creata dal capitale per la sua brama di accumulazione. Sotto quest'ultimo aspetto dell'essere - grazie a questa sua funzione di modo d'esistenza del capitale - «sempre pront[a] a rendere "superfluo" l’operaio salariato»49, la macchina agisce come «concorrente strapotente»50 dell'operaio stesso. Non solo il capitale usa la macchina in funzione di concorrente, ma «la proclama apertamente e tendenzialmente potenza ostile all’operaio e come tale la maneggia. Essa diventa l’arma più potente per reprimere le insurrezioni periodiche degli operai, gli scioperi ecc., contro la autocrazia del capitale […]. Si potrebbe scrivere tutta una storia delle invenzioni che dopo il 1830 sono nate soltanto come armi del capitale contro le sommosse operaie»51. Questa storia la si può continuare a scrivere fino a oggi: basta ricordare, per restare più vicini a noi, la creazione della "Fabbrica ad alta automazione" negli anni Settanta - Ottanta del secolo scorso, come risposta del capitale alle lotte organizzate degli operai negli anni Sessanta - Settanta52. E così, «quella figura indipendente ed estraniata che il modo di produzione capitalistico conferisce in genere alle condizioni di lavoro e al prodotto del lavoro nei riguardi dell’operaio, si evolve […] con le macchine in un antagonismo completo»53. Dunque, l’industria fondata sul macchinario è rivoluzionaria quanto alla natura tecnica del suo processo lavorativo, perché «con le macchine, con i processi chimici e con altri metodi essa sovverte costantemente, assieme alla base tecnica della produzione, le funzioni degli operai e le combinazioni sociali del processo lavorativo»54. Nel resto della società l'industria «rivoluziona con altrettanta costanza la divisione del lavoro […] e getta incessantemente masse di capitale e masse di operai da una branca della produzione nell’altra. Quindi la natura della grande industria porta con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell’operaio in tutti i sensi»55. Al confronto la manifattura, insieme a tutti gli altri metodi passati di produzione, rimane sostanzialmente conservatrice in quanto fondata sulla divisione del lavoro ossia su una composizione soggettiva del processo lavorativo. Ma, come abbiamo visto, il macchinario, con la sua rivoluzione costante dei processi lavorativi, è anche capitale, e di conseguenza la forma di questo duplice contenuto è dispotica nella sua separazione dall’operaio, quindi è micidiale per il libero sviluppo di questi come uomo. Se da un lato la produzione industriale tende sopprimere la divisione del lavoro, «dall’altra parte, essa riproduce la antica divisione del lavoro con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica»56. Nella grande industria la soppressione della divisione del lavoro non solo significa la dissoluzione di metodi arretrati di lavoro e di rapporto con la natura, e in questo senso un grande progresso, ma simultaneamente significa il carattere mostruoso di questo progresso in quanto esso è promosso dal capitale, dunque è mediato dalla minaccia all'operaio «di fargli saltare di mano col mezzo di lavoro il mezzo di sussistenza e di render superfluo l’operaio stesso rendendo superflua la sua funzione parziale»57. A questo punto per l’industria, cioè per lo sviluppo della sua stessa natura, «diventa questione di vita o di morte sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità assoluta dell'uomo per il variare delle esigenze del lavoro; sostituire all’individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l’individuo totalmente sviluppato, per il quale differenti funzioni sociali sono modi di attività che si dànno il cambio l’uno con l’altro»58. A questo scopo è necessaria la soppressione della divisione del lavoro, quindi del modo di produzione capitalistico che la mantiene artificiosamente, con grave danno al sano sviluppo dell'uomo. 3. La cosa a mio avviso essenziale da ricavare da questa esposizione della teoria di Marx, è che la "grande industria" non si esaurisce affatto nel modo di produzione capitalistico, tutt'altro: essa è l'unità dialettica, ossia antagonistica, del punto di apogeo del capitale e della sua crisi, vale a dire essa contiene, nella natura del suo processo lavorativo, tutti gli elementi per la formazione di una società dove c'è la proprietà individuale (che non significa proprietà privata, come era la proprietà individuale del contadino o dell'artigiano nell'Europa occidentale prima dell'espropriazione capitalistica) sulla base della socializzazione dei mezzi di produzione e della terra creatasi nella storia del capitale. Perciò il modo di appropriazione capitalistico, con la sua divisione del lavoro, costituisce un ostacolo alla realizzazione delle possibilità che si sono 6 sviluppate a partire dal suo stesso modo di produzione. Esso rappresenta ormai il vecchio, mentre il nuovo, che è rappresentato dal continuo rivoluzionamento dei processi lavorativi, può svilupparsi nel modo più pieno possibile proprio senza di esso, cioè senza che la stragrande maggioranza degli individui sia rapinata del suo intero tempo di vita da una minoranza per avere in cambio solo dei sempre più miseri mezzi di sussistenza; vale a dire senza che la necessità naturale di mangiare, bere, vestirsi ecc., assuma la forma dell'asservimento a questa esigua minoranza. Questo mi sembra il punto decisivo. Nessuno può negare che, a partire dagli anni Settanta del secolo XX, ci sia stata una radicale innovazione dei processi lavorativi, industriali in senso stretto e non, dall'automazione meccanica alla loro informatizzazione e strutturazione a rete, dove il lavoro tende ad assumere un carattere sempre più "immateriale", come si dice. Ma da ciò si è voluto desumere che abbiamo a che fare con un passaggio di produzione il quale avrebbe caratteri assolutamente nuovi rispetto a una fase precedente, caratterizzata come produzione industriale. A mio parere questi discorsi richiedono che ci si intenda su che cosa significa "grande industria". Secondo me, questi passaggi produttivi denominati "immaterializzazione del lavoro", "postfordismo", "economia della conoscenza" ecc., sono solo la conferma, l'estensione e l'innalzamento all'ennesima potenza di quello che Marx chiama il "sistema di fabbrica", il quale, a differenza della manifattura, presuppone l'organismo di produzione oggettivo, derivante dall'applicazione al processo lavorativo della scienza della natura sia essa la fisica, la chimica, la biologia, l'informatica ecc. Quindi tali processi si riferiscono solo al fatto che la grande industria continuamente rivoluziona i processi lavorativi negli strumenti, nelle combinazioni sociali e nelle funzioni degli operai. Ma al tempo stesso anche quello che si chiama postfordismo, ristabilisce oggi - come ieri il fordismo o come l'altro ieri il telaio meccanico - la divisione del lavoro, ma solo nella misura in cui postfordismo, fordismo e telaio meccanico si presentano come forme di esistenza del capitale, non come necessità tecnica dell'organizzazione dei loro rispettivi processi lavorativi, come avveniva invece nella manifattura. Laura Fiocco, esaminando il modello della "fabbrica integrata" allo stabilimento Fiat di Melfi, ha messo bene in luce le peculiarità di questi nuovi processi lavorativi, e ritengo che la sua descrizione non contraddica la possibilità di inquadrarli nel concetto di grande industria nell'accezione marxiana sopra esposta. Rispetto al processo lavorativo fordista, quello toyotista, teorizzato da Taichi Ohno, sostituisce la catena di montaggio - dove, nel caso dell'industria dell'auto, le scocche scorrono da monte a valle, il prodotto è fatto in serie e vi è accumulo di scorte di magazzino - con una linea di produzione "snella", in cui si simula una domanda a valle da parte del cliente a un team che trasmette a un altro team più a monte la richiesta del semilavorato su misura, cosicché ancora più a monte anche le ordinazioni dei materiali vengono fatte ed eseguite just in time ossia in relazione al bisogno "immediato", in modo da evitare giacenze di magazzino e quindi sprechi. Per lo stesso motivo si esige che il prodotto venga fatto con zero errori, in modo da evitare sprechi di materie prime. Il tutto appare quindi come se si lavorasse in modo artigianale su richiesta, da parte del cliente, di un prodotto personalizzato. La cooperazione qui consiste nell'autoattivazione dell'operaio per soddisfare il cliente lavorando consapevolmente e con senso di appartenenza nell'"Unità tecnologica elementare" (Ute), dove gli operai non sono mai fissi in un posto, ma variano le mansioni, e dove non ci sono differenze gerarchiche tra operai, tecnici e impiegati, perché tutti cooperano alla soluzione dei problemi man mano che si presentano. A differenza che nel processo lavorativo della produzione fordista, «non si tratta […] più, semplicemente, di organizzare "scientificamente" il modo di usare corpi umani quali ingranaggi flessibili di un mostro meccanico, come nella fabbrica fordista, bensì di prestare cervelli umani ad una struttura robotica incapace di autogestirsi le disfunzioni tecnico-operative (nonostante i dispositivi elettronici) e di autoripararsi»59. Ma, nonostante il processo lavorativo appaia fondato su relazioni di gruppo tra uomini e non su un macchinario, in realtà esso non ha nulla a che vedere con la manifattura o l'artigianato. Infatti mentre nella manifattura si trattava di un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini, quindi era la macchina a comportarsi come un operaio complessivo combinato di molti operai parziali, nella fabbrica integrata accade l'inverso, perché il processo lavorativo è incentrato su una cooperazione di uomini che funziona come un macchina, cioè come un automa, forza motrice che retribuiti, di riproduzione sociale), per cui si parla di "femminilizzazione del lavoro". Il lavoro femminile della grande industria, a cui fa riferimento Marx, è paradigmatico in generale del lavoro dequalificato, reso uguale e ridotto a cooperazione semplice, per cui oggi potemmo parlare di femminilizzazione del lavoro nel senso che tutti i lavoratori, al di là dell'appartenenza di "genere", sono femminilizzati in quanto ridotti alle mansioni più semplici possibili dalla divisione del lavoro, non derivante dalla natura del processo lavorativo della grande industria, nel senso ampio qui inteso, ma dalla forma capitalistica che esso assume. 4. Quanto i metodi per la produzione del plusvalore relativo siano anche metodi per la produzione del plusvalore assoluto, ossia per aumentare a dismisura la giornata lavorativa, lo si vede nell'Accordo Separato dello stabilimento Fiat "Giambattista Vico" di Pomigliano d'Arco, riconvertito dalla produzione dell'Alfa Romeo a quella della Nuova Panda, del giugno 2010. L'Accordo prevede, al punto 1, che «la produzione della futura Panda si realizzerà con l'utilizzo degli impianti di produzione per 24 ore giornaliere e per 6 giorni la settimana, comprensivi del sabato, con uno schema di turnazione articolato a 18 turni settimanali […]. Lo schema di orario prevede il riposo individuale a scorrimento nella settimana, [e] per lo stabilimento prevede, a livello individuale, una settimana di 6 giorni lavorativi e una a 4 giorni»65. Il punto 2 prevede che «per far fronte alle esigenze produttive di avviamenti, recuperi o punte di mercato, l'azienda potrà far ricorso a lavoro straordinario per 80 ore annue pro capite, senza preventivo accordo sindacale, da effettuare a turni interi. Nel caso dell'organizzazione dell'orario di lavoro sulla rotazione a 18 turni, il lavoro straordinario potrà essere effettuato a turni interi nel 18° turno, già coperto da retribuzione […], o nelle giornate di riposo»66. Inoltre questo punto regola «il lavoro straordinario, nell'ambito delle 200 ore annue pro capite»67, a seconda delle esigenze produttive. Il punto 5 dice: «Per riportare il sistema produttivo dello stabilimento Giambattista Vico alle migliori condizioni degli standard internazionali di competitività, si opererà, da un lato, sulle tecnologie e sul prodotto e, dall'altro lato, sul miglioramento dei livelli di prestazione lavorativa con le modalità previste dal sistema WCM e dal sistema Ergo-UAS»68. Questi sono dei sistemi ergonomici che dovrebbero migliorare la postazione di lavoro, per cui permettono, in modo collettivo «sulle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo»69, e in modo collettivo o individuale a scorrimento «sui tratti di linea meccanizzata denominati 'passo-passo', in cui l'avanzamento è determinato dai lavoratori mediante il cosiddetto 'pulsante di consenso»70, di sostituire le due pause di 20 minuti ciascuna per turno con tre pause da 10 minuti ciascuna. La monetizzazione di questi 10 minuti di pausa guadagnati riguarda «solo […] le ore di effettiva prestazione lavorativa, con esclusione […] delle ore di inattività, della mezz'ora di mensa»71 e delle assenze diversamente coperte per legge o contratto. Il punto 6 prevede «un importante investimento in formazione […] collegat[a] alle logiche WCM»72. Sostiene Antonio Di Luca, sulla base della sua esperienza di operaio tra la Fiat Mirafiori di Torino e lo stabilimento di Pomigliano, che «la possibilità di aumentare di 80 ore (oltre le 40 già previste dal CCNL [Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro]) lo straordinario collettivo non negoziabile con le RSU [Rappresentanze Sindacali Unitarie] porta il totale a ben 15 giornate annue lavorative, rendendo così strutturale il 18° turno ed obbligando al lavoro di domenica»73. I sistemi ergonomici Ergo-UAS e WCM sono applicazione delle scienze della natura al processo lavorativo. Ammettendo per ipotesi che questi sistemi non comportino rischi per la salute dei lavoratori, l'aumento di produttività che ne consegue non serve ad alleviare la fatica e liberare tempo per il libero sviluppo dei lavoratori, né l'investimento in formazione sulle tecnologie dei processi lavorativi serve alla loro armonica crescita, come certo accadrebbe se il processo lavorativo qui non si presentasse come forma di esistenza del capitale. Operando come mezzi per la sottomissione reale del lavoro al capitale, l'introduzione di questi sistemi serve invece solo ad aumentare l'intensità del lavoro, guadagnando dieci minuti a operaio sulle pause e molto di più ancora se si considera lo spostamento della refezione nella mezz'ora finale del turno. Perciò oggi, come ieri, la lotta per l'emancipazione di tutti gli uomini dallo sfruttamento deve cominciare dalla riduzione della giornata lavorativa in vista della soppressione della divisione del lavoro. Ma questo richiede sempre l’azione collettiva, perché «la storia della regolazione della 10 giornata lavorativa in alcuni modi di produzione, la lotta che ancora dura per tale regolazione, in altri modi, dimostrano tangibilmente che il lavoratore isolato, il lavoratore come “libero” venditore della propria forza-lavoro, soccombe senza resistenza quando la produzione capitalistica ha raggiunto un certo grado di maturità. La creazione della giornata lavorativa normale è dunque il prodotto di una guerra civile, lenta e più o meno velata, fra la classe dei capitalisti e la classe degli operai»74. La situazione odierna mostra che le vittorie conseguite in due secoli su questo terreno non sono scontate, perché allungare la giornata lavorativa con tutti i mezzi è questione di vita o di morte per il capitale. 5. Osserva Marx che «l'impulso del capitale verso il prolungamento, senza misura e senza scrupolo, della giornata lavorativa, viene soddisfatto innanzitutto in quelle industrie che prime furono rivoluzionate dall'acqua, dal vapore, dalle macchine, e che furono le prime creazioni del modo di produzione moderno: nelle filande e nelle tessitorie di cotone, lana, lino, e seta. Il modo materiale di produzione cambiato e i rapporti sociali fra produttori, cambiati in corrispondenza di quello, creano dapprima eccessi mostruosi, provocando poi, in antitesi agli eccessi, il controllo sociale che delimita per legge la giornata lavorativa con le sue pause, la regola e la rende uniforme»75. Credo che questo ciclo si ripeta a ogni innovazione del processo lavorativo che il sistema della grande industria sotto il capitale porta con sé, dunque riguardi anche le trasformazioni cosiddette "postindustriali" della globalizzazione. Di conseguenza è prevedibile che l'aumento esponenziale dell'odierna brama del capitale di impadronirsi, come sempre, di tutto il tempo di vita degli individui, sia che estorca loro sempre più lavoro, sia che li tenga nell'ozio forzoso della disoccupazione, provochi una reazione di tutti i proletari per difendersi da questa rapina mondiale. Ma l'organizzazione delle lotte comporta, una volta che gli operai si sono resi conto di «come possa avvenire che, nella stessa misura in cui lavorano di più, producono una maggiore ricchezza altrui e cresce la forza produttiva del loro lavoro, perfino la loro funzione come mezzo di valorizzazione del capitale diventa sempre più precaria per essi»76, e una volta che hanno scoperto «che il grado d'intensità della concorrenza fra loro stessi dipende in tutto e per tutto dalla pressione della sovrappopolazione relativa»77: comporta, dicevo, «una cooperazione sistematica fra gli operai occupati e quelli disoccupati per spezzare le rovinose conseguenze che quella legge naturale della produzione capitalistica ha per la loro classe»78. Occupati nelle industrie e nei servizi, e disoccupati, residenti o immigrati, e, tra questi, regolari o clandestini, sono in tutto e per tutto classe operaia con interessi comuni contro la classe dei capitalisti che cercano di dividerli nella concorrenza. Solo entro questo quadro si può iscrivere l'obiettivo di un reddito di base per tutti, indipendente dall'avere o no un lavoro. 1 K. Marx, F. Engels, Gesamtausgabe (MEGA). Zweite Abteilung. "Das Kapital" und Vorarbeiten, Band 10 (Text), Berlin 1991, p. 458 (d'ora in poi così citato: MEGA2, seguita dall'indicazione della sezione in numero romano e del volume in numero arabo, separati da una /, eventuale parte in numero arabo separata da un punto dal numero indicante il volume, città e data di edizione - la prima volta -, e pagina); tr. it. D. Cantimori, Il capitale. Critica dell'economia politica. Libro primo, Roma 1994, p. 557. 2 Ivi, pp. 297-298; tr. it. cit., p. 372. 3 Ivi, p. 458; tr. it. cit., p. 557. 4 Ibidem. 5 Ivi, p. 298; tr. it. cit., p. 372. 6 Ivi, p. 293; tr. it. cit., p. 367. 7 Ivi, p. 298; tr. it. cit., p. 372. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 Ibidem; tr. it. cit., pp. 372-373. 11 Ivi, p. 299; tr. it. cit., p. 373. 12 Ibidem. 13 Ibidem. 14 Ivi, pp. 296-297; tr. it. cit., pp. 370-371. 15 Ivi, p. 300; tr. it. cit., p. 374. 16 Ibidem; tr. it. cit., p. 375. 17 Ivi, p. 305; tr. it. cit., p. 381. 18 Ivi, pp. 305-315; tr. it. cit., pp. 381-392. 19 Ivi, p. 321; tr. it. cit., p. 399. 20 Ivi, p. 320; tr. it. cit., ibidem. 21 Ivi, p. 326; tr. it. cit., p. 405. 22 MEGA2, II/1(Text).2, p. 571; tr. it. E. Grillo, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, 1857-1858, Scandicci 1997, vol. II, p. 390. 23 Ivi, p. 581; tr. it. cit., vol. II, p. 401. 24 Ibidem. 25 MEGA2, II/10 (Text), p. 347; tr. it. cit., p. 429. 26 Ibidem. 27 Ivi, p. 436; tr. it. cit., pp. 530-531. 28 MEGA2, II/1(Text).2, pp. 581-582; tr. it. cit., vol. II, pp. 401-402. 29 Ivi, p. 582; tr. it. cit., vol. II, p. 402. 30 MEGA2, II/10 (Text), p. 436; tr. it. cit., p. 530. 31 Ibidem. 32 Ibidem. 33 Ivi, p. 362; tr. it. cit., p. 446. 34 Ivi, p. 458; tr. it. cit., p. 557. 35 Ivi, p. 210; tr. it. cit., p. 269. 36 Ibidem. 37 Ibidem. 38 Ivi, pp. 210-211; tr. it. cit., ibidem. 39 Ivi, p. 244; tr. it. cit., p. 306. 40 Ivi, pp. 238 ss.; tr. it. cit., pp. 300 ss. 41 Ivi, p. 210; tr. it. cit., p. 268. 42 Ivi, p. 376; tr. it. cit., p. 462. 43 Ivi, p. 387; tr. it. cit., p. 475. 44 Ivi, p. 567; tr. it. cit., p. 692. 45 Ivi, p. 566; tr. it. cit., p. 691. 46 Ivi, pp. 574-575; tr. it. cit., p. 700. 47 Ivi, p. 575; tr. it. cit., ibidem. 48 Ivi, p. 571; tr. it. cit., p. 696. 49 Ivi, p. 391; tr. it. cit., p. 480. 50 Ibidem. 51 Ivi, pp. 391-392; tr. it. cit. ibidem. 52 Cfr. L. Fiocco, L'effetto kanban nell'organizzazione del lavoro alla Fiat di Melfi, http:// www.intermarx.com/temi/fiat.html. 53 MEGA2, II/10 (Text), p. 388; tr. it. cit., p. 476. 54 Ivi, p. 438; tr. it. cit., pp. 533-534. 55 Ivi, pp. 438-439; tr. it. cit., p. 534. 56 Ivi, p. 439; tr. it. cit., ibidem. 57 Ibidem. 58 Ibidem; tr. it. cit., pp. 534-535. 59 L. Fiocco, L'effetto kanban nell'organizzazione del lavoro alla Fiat di Melfi, cit. 60 Ibidem. 61 Ibidem. 62 Ibidem. 12
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