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Massimiliano Tortora, La svolta del 1929. Prima e dopo Gli indifferenti di Moravia, Palumb, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

riassunto dettagliato diviso in capitoli, capitoletti e paragrafi seguendo il libro. Uso delle stesse parole per non discostarsi dal contenuto

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 11/01/2024

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Scarica Massimiliano Tortora, La svolta del 1929. Prima e dopo Gli indifferenti di Moravia, Palumb e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! LA SVOLTA DEL 1929 - PRIMA E DOPO GLI INDIFFERENTI INTRODUZIONE In una conferenza tenuta il 13 giugno 1934 A Napoli, dalla significativo titolo il nuovo realismo, Francesco Orestano si poneva l'obiettivo di ribaltare la tradizione filosofica che riconosceva Al soggetto una piena supremazia e riteneva la percezione dell'io l'unico criterio per stabilire i limiti della verità. Se è indubbio che esiste l'esperienza soggettiva, e se altrettanto indubbio che l'esperienza soggettiva è condizionata e confinata, ossia limitata Qual è l'elemento che pone queste condizioni, questi limiti? in un articolo di un anno più tardi chiamato realtà realismo e surrealismo, Orestano dice che il limite della soggettività Non può essere posto per autogenesi dal soggetto stesso, così Come l'assoluta soggettività è una contraddizione in termini, da che ciò che è assoluto Non può essere soggettivo e parziale. se ne ricava che l'oggetto che fa resistenza e vita all'onnipotenza percettiva dell'io è la realtà. Il problema della realtà occupa oggi il primo posto che aveva un tempo il problema della verità, ristabilita l'esistenza della realtà Si può procedere sulla strada che conduce al realismo, ossia ad una filosofia che indaghi il mondo per quello che è in sè, nella sua concretezza e nella sua irriducibilità alle percezioni singole. Tuttavia Orestano non vuole accantonare la percezione soggettiva. La sua filosofia intende tenere insieme la realtà e la percezione dell'io la quale non viene derubricata ha pure esperienza personale e soggettiva in quanto comunque dotata di un senso. il realismo a cui punta è costituito di oggetto e di soggetto, di mondo ed individuo di realtà e di esperienza. a ciò viene dato il nome di metafisica sperimentale. egli però preferisce dargli una parola sola che esprime sinteticamente il momento del superamento associato a quello della più rigorosa positività e per questo propone il termine di superrealismo. Il realismo di Orestano non intende rimuovere dalla propria sfera di indagine la parzialità dei singoli punti di vista ma vuole essere un tentativo di indagine di comprensione del mondo che consideri anche L'esperienza e la percezione dell'individuo senza negarne né la parzialità né un suo valore. I nuovi narratori nati a inizio secolo ed esordienti dal 1929 in poi non intendono negare l'esperienza modernista né rimuovere le scoperte dell'inconscio e sulla psiche. pur senza dimenticare la soggettività dell'esperienza si pongono l'obiettivo di rappresentare il mondo nei suoi lati indiscutibili plastici ed oggettivi e, nel suo senso comune. quel mondo oggettivo che chiamiamo realtà. anche i giovani romanzieri degli anni trenta intendono inglobare all'interno del proprio realismo anche la vita interiore e psichica dei personaggi colta nella sua incomprensibilità impenetrabilità e contraddittorietà, l'inconscio freudiano che non si piega a nessuna razionalità ed è riducibile ad ogni forma di Statica comprensione. Il romanzo degli anni trenta è di impianto abbastanza tradizionale, che guarda l'800 e al realismo ottocentesco come dei modelli di riferimento ma rispetto a questi ultimi fa segnare uno scarto perché ingloba una parte della realtà (inconscio, dimensioni spazio temporali differenti dalla norma, zone inconoscibili della reale) non indagate nell'Ottocento Perché di fatto ancora inesistenti per questo motivo possiamo parlare di Neorealismo. Questo libro raccoglie dei saggi che trattano del passaggio dal modernismo al Neorealismo, non si tratta di disegnare i tratti dell'una o dell'altra stagione quanto di riflettere proprio sullo snodo che nel giro di pochi anni ha imposto di cambiare parole d'ordine strutture narrative e modi di rappresentazione. tutti i passaggi hanno una loro data simbolica e un'opera che si impone come Turning Point: In questo caso il momento di svolta è segnato da Gli indifferenti di Moravia, uscito nel 1929,hanno Che pertanto può essere indicato nel certificato di nascita del Neorealismo italiano. La prima parte del volume riguarda aspetti come la continuità e la discontinuità, adesione e rifiuto e tradizione ed innovazione, soprattutto nel primo saggio si ragiona sull'ipotesi di una condizione modernista che in qualche modo permea l'intero Novecento e in forma necessariamente tutte le scrittrici e gli scrittori del secolo. mentre nella prima fase si assiste all'euforia dei pionieri costretti a inventare nuovi strumenti per un mondo totalmente nuovo, nei decenni successivi si registra un fenomeno nuovo: quello di inglobare le nuove dimensioni del reale all'interno di narrazione lineari e ordinate non viene pertanto smentita la condizione modernista ma solo addomesticata a livello di rappresentazione narrativa. Ciò non toglie che in particolare tra le riviste più Allineate si è registrato un'aggressione agli autori sperimentali di inizio secolo, un tentativo di screditare ogni forma di Romanzo analitico un sabotaggio ad ogni ipotesi di canone modernista. è proprio questa politica culturale contribuisce ad affermarsi di una generazione di narratori e narratrici portati in prima scena proprio il nome di una poetica ben precisa: il Neorealismo. sono tre le direttive lungo cui si registra il cambio di paradigma nel romanzo italiano. Innanzitutto le strutture narrative analizzate nel primo e nel secondo intervento all'interno degli indifferenti. uno sguardo specifico alle descrizioni, alla rappresentazione dei personaggi alla loro interiorità allo Stile mostra come il romanzo degli anni trenta si stacchi dalle virtuosismo modernista cercando un rapporto più diretto con il lettore. ciò che è davvero una nuova regola è lo statuto del narratore che si spoglia di ogni inattendibilità mostrandosi affidabile preciso e concreto. In secondo luogo il romanzo degli anni trenta restituisce progressivamente alla città la sua centralità e una funzione di dominio e un maggiore prestigio rispetto alla provincia. infine il romanzo riporta piena espressione ciò che in quello modernista era assopito: l'impegno sociale e civile. come ho tentato di mostrare nei due saggi incentrati su letteratura e fascismo, i giovani scrittori di questo periodo avvertono l'esigenza di uscire dal vortice dei propri pensieri e di confrontarsi con la realtà circostante e di assumere una coscienza politica. poiché cresciuti sotto le leggi mussoliniane gli esordienti degli anni 30 fanno fatica a pensare un mondo al di fuori del Fascismo ma non per questo non possono esprimere malessere, disagio e distacco. questa contestazione necessita ovviamente di forme di compromesso sia con la censura sia con se stessi. Il personaggio è netto Depresso e incapace di agire (antitetico alla vitalistico uomo fascista) e il tema del sesso (soprattutto quello femminile inaccettabile dalla dottrina maschilista dell'epoca) sono delle strade che i romanzi degli anni trenta percorrono per esprimere una forma di protesta e di dissenso. queste tre traiettorie si individuano già né Gli indifferenti. Quello di Moravia è in qualche modo un romanzo di svolta che aiuta a istituire una periodizzazione forte con un prima il modernismo e un dopo il Neorealismo. PRIMA PARTE - IL MODERNISMO E LE SUE PERSISTENZE 1 LA CONDIZIONE MODERNISTA: IL PRIMO NOVECENTO E LE SUE PERSISTENZE Una nuova condizione esistenziale - Il dibattito sul modernismo in Italia non ha avuto ragioni specificamente letterarie ma anche la fisionomia del 900 o almeno quei decenni iniziali che hanno informato e influenzato l'intero secolo. VI è una vera e propria rivoluzione antropologica. Vari fisici e scienziati non sono stati eletti direttamente dagli scrittori italiani di inizio secolo Ma è chiaro che una loro storiche in quanto figlie dello stesso spirito dei tempi. e del resto è difficile immaginare Marinetti e breton prima del 1900 ossia prima della esposizione di Parigi e dell'interpretazione dei sogni. Svevo Pirandello e tozzi sono diversi da avanguardi e storiche e non, maltempo stesso savinio Landolfi e Marinetti hanno elementi in comune con Svevo Pirandello e gli altri punto Infine, per chiudere la carrellata in senso temporalmente progressivo i confini Si sfaldano anche verso il basso e situazioni aporetiche si incontrano anche indagando quanto accade dopo il 1929. la proposta di Donnarumma il quale è propenso distinguere un modernismo storico coincidente con gli anni 1904-1925, con fasi successive in cui istanze moderniste riemergono secondo un procedimento carsico. Luperini scrive che il modernismo non è un movimento né tantomeno una scuola ma è una tendenza che condivide una stessa cultura, non una medesima poetica. mira a rinnovare profondamente la letteratura ma lo fa con tecniche e tattiche molto diverse. Zevo e Volponi possono essere appaiati nel profondo sulla base di somiglianze di famiglia che effettivamente ci sono, come ad esempio il monologo interiore (stream of consciousness) l'alterazione e la centralità dell'io, lo sfaldamento delle dimensioni spazio temporali. Gli Ismi sono dei modelli che certamente non illustrano le singole opere ma ne individuano quel minimo comune denominatore che diventa espressione in scala ridotta di quello che è un fenomeno più ampio e più frastagliato. è vero che la descrizione del cavallo ha anche tipico non è sovrapponibile allo specifico cavallo di cui discutono i due immaginare interlocutori e stavolta la Poria è produttiva, Chiavenna un'idea sia pur platonica di cavallo si comprende più velocemente la specificità del singolo. La condizione modernista, il modernismo e le altre forme letterarie - Occorre distinguere il modernismo come fenomeno letterario dalla condizione modernista che indica quel senso di smarrimento e al contempo di hybris che contraddistingue l'umanità del nuovo mondo, una condizione scaturita dalle nuove strutture spazio temporali dalla riconfigurazione dell'individuo su basi freudiane e dalla velocità delle invenzioni tecnologiche. questi processi non agiscono solo su un piccolo novero di scrittori ma intacca tutte le rappresentazioni letterarie. Alla medesima condizione al medesimo senso di precarietà e di scoperta si registrano diverse forme di reazione che producono testi diversi nel primo Novecento cercando di delineare una mappatura del fenomeno Certamente Svevo Pirandello e tozzi costituiscono il centro del campo letterario. sono i loro romanzi che danno voce alle tipiche contraddizioni dell'epoca modernista: la dimensione smisurata dell'io e la sua fragilità, l'ansia di conoscenza e la frustrazione per l'impossibilità di giungere a verità incontrovertibili, l'esigenza di ordine e la rappresentazione del caos, lo scavo dell'interiorità e l'aderenza alla realtà materiale, la contrapposizione tra forma e vita tra forza centripeta della creazione artistica e forza centrifuga del mondo, tra unità e disgregazione. Se interpretiamo il surrealismo come una delle possibili risposte alla condizione modernista con più facilità da un lato Salviamo la specificità della corrente letteraria e dell'altro individuiamo convergenze con esperienze coeve. I punti di convergenza si hanno anche con le avanguardie storiche di marca italiana. quando Marinetti nel manifesto del 1909 scrive che il tempo e lo spazio morirono ieri, Noi viviamo già nell'assoluto perché abbiamo già creato l'eterna velocità onnipresente, sta indicando una condizione che è quella di Svevo e di Pirandello. Tuttavia ovviamente Cosìni e Pascal si smarriscono e spesso rimangono schiacciati di fronte a un mondo che si sottrae alla misurazione oggettiva del tempo e dello spazio ma rimetti trova in questa nuova situazione antropologica e sociale le risorse per proiettarsi in una nuova e Liberata dimensione. Tuttavia se Zeno, Mattia Pascal e Pietro Rosi definiscono i confini del proprio io sulla base dell'attrito col mondo esteriore, Slataper () e Boine () Lasciano che loro eroe sovrasti Il mondo circostante con ovvia ripercussioni a livello di stile di trama narrativa. Ma tutto questo è possibile perché anche i narratori vociani sono entrati in sintonia con una nuova riconfigurazione che pone il soggetto al centro del mondo e in questo senso a mio avviso che si riesce ad uscire dalle aporie di un dibattito e a evitare contrapposizioni che frenano anziché agevolare la Reale comprensione dei testi. Il modernismo dopo la fine del modernismo - Il dibattito sul modernismo ha visto l'esigenza in alcuni critici di circoscrivere in maniera molto netta il campo di indagine ad un campo chiuso, mossa dall'urgenza di istituire una categoria che potesse davvero funzionare per descrivere un'area culturale e letteraria divenuta col tempo Centrale nel canone del romanzo italiano questa delimitazione del campo ha portato ad una contrapposizione molto marcata nella sua periodizzazione bassa: ossia nel suo terreno di confine con il post moderno. qui oltre che questioni culturali e letterarie hanno agito anche ragioni ideologiche. negli anni zero il postmoderno, con tutte le ripercussioni ideologiche che ha avuto nel dibattito italiano sembrava conoscere le sue forme di declino e dunque chi più aveva versato o contrastava la cultura post moderna ha cercato di ristabilire un ordine di valori in base al quale era il modernismo e non in postmoderno a dare forma al ventesimo secolo. Tuttavia oggi si può aprire lo spazio per un ripensamento più lucido è più In generale si crea la possibilità per ridisegnare alcune traiettorie del romanzo italiano successivo a Svevo Pirandello e Tozzi. nel 1929 Gli indifferenti di Moravia presenta un nuovo modello di Romanzo: la realtà Recupera la sua materia, la vita psichica dell'individuo appare nuovamente sintetizzabile riassumibile da una narratore esterno, gli Intrecci danno nuovamente vita a trame lineari in cui alla perdita di equilibrio iniziale segue una serie di peripezie che conducono alla spannung dopo la quale l'eroe Trionferà o soccomberà in ogni caso troverà un nuovo equilibrio. Tuttavia come ha sintetizzato Stefano Guerriero che individua nel romanzo di Moravia un Turning Point non si tratta di una restaurazione ma piuttosto della metabolizzazione di quanto di nuovo il modernismo ha portato. Anche il modernismo sta diventando d'addizione e Ciò significa dare per acquisita una determinata visione del mondo, quella formatasi all'inizio del XX secolo. Per questo motivo Moravia non avverte più il bisogno di inseguire le associazioni di pensiero dei suoi eroi né di rimarcare con analisi infinite le dissociazioni e le contraddizioni tra pensiero bisogno desiderio ed azione. è assodato ormai che l’io è agito da pulsioni profonde di cui non è nemmeno consapevole, la condizione modernista non è più una novità che impone allo scrittore forme di rappresentazione che consentano a chi legge di esperire una nuova dimensione esistenziale ma è diventata ormai strutturale e immanente all'individuo può pertanto essere detta Senza troppe giustificazioni. Potremmo dire che il patto di lettura che Moravia sigla con il suo lettore è ormai di tipo post freudiano, la configurazione di un soggetto incompiuto e contraddittorio non ha più bisogno di essere spiegata può essere direttamente inserita nel racconto. si può tornare a narrare, ma ad andare le vicende di un personaggio che nelle strutture esistenziali profonde non è molto diverso da quello costruito da Svevo e da Pirandello, forse solo meno eccentrico. Modernismo come fenomeno letterario si chiude Ma certamente non si chiude la condizione antropologica che l'ha fatto scaturire. (tutti gli eroi hanno ormai connaturata la condizione modernista ma non la vivono più in maniera eccezionale e per questo la comunicano in maniera più schietta e diretta ). Il postmodernismo è un'opzione del modernismo stesso. l'incapacità di arrivare alla verità, la sensazione di confrontarsi sempre con parole dette Nel presente dell’annunciazione e non con i fatti realmente accaduti, la reclusione dell'io all'interno di un labirinto da cui non è prevista l'uscita sono tratti del modernismo che se esasperati conducono alla fine delle grandi narrazioni, portano a citazionismo e mettono in crisi l'esistenza dei fatti sul classati dalle interpretazioni. sono questi i filoni lungo i quali si distende la condizione post moderna delineata a suo tempo da leotard la quale trova risposte diverse che viaggiano dalla responsabile Euforia al più radicale confronto con il presente e addirittura con la storia. La condizione post moderna è impensabile senza la stagione modernista, Anzi senza la condizione modernista da cui derivano non solo il post modernismo ma anche tutte le altre correnti d'inizio secolo . <LA GUERRA è BELLA BASTA NON LA FARE>. NARRATIVA MODERNISTA E GRANDE GUERRA Definizione del campo - Qualsiasi discorso concernente la rappresentazione o l'assenza della grande guerra nella narrativa modernista necessita di una preliminare definizione di campo, occorre indicare Quali sono i confini che delimitano l'aria del modernismo italiano e conseguentemente Quali sono i suoi romanzieri e novellieri. In un articolo del 2011 c'è il tentativo di circoscrivere l'area di interesse a quell'arco di tempo compreso tra la pubblicazione de Il Fu Mattia Pascal, il primo romanzo italiano che può definirsi novecentesco (o meglio modernista) e quella degli indifferenti 1929 opera che in qualche modo apre una nuova stagione caratterizzata da una maggiore fiducia nella descrittibilità e conoscibilità del mondo una simile periodizzazione ad oggi risulta troppo rigida e vincolante. sebbene rimango convinto che Gli indifferenti inutili le parole d'ordine cambi l'atmosfera letteraria e cominci una nuova fase romanzesca è indubbio che l'eredità modernista sia talmente forte da permeare vaste e ampie zone dei decenni 30 e 40 e poi in maniera discontinua per tutto il Novecento. Come già sostenuto da Donnarumma, distinguerei un modernismo storico 1904-1929 da un periodo successivo ha spesso contraddistinto da una persistenza del modernismo. Continuano a rimanere esclusi dal nostro discorso le avanguardie storiche e il futurismo nello specifico, l'area decadentista, e i vociani che sono coloro i quali hanno rappresentato meglio di altri la necessità drammatica di partecipazione al conflitto. Guerra e canone del primo novecento- E’ in dubbio che oggi L'aria modernista è entrata nel canone e soprattutto costituisce il centro di quel campo letterario che è il primo Novecento altrettanto Ovvio è che La grande guerra è l'evento centrale della prima parte del secolo. ciò che colpisce è che tra i due elementi cardine, ossia il modernismo in letteratura e La grande guerra in storiografia non ci sia un così valido e proficuo incontro al contrario ciò che emerge è proprio una sensazione di assenza o comunque di lontananza. Nessun romanzo è esclusivamente dedicato al conflitto punto fa eccezione Palazzeschi sulla cui marginalità abbiamo però già detto che con due imperi mancati si scaglia contro la guerra egli dichiara la più completa inutilità. negli altri dobbiamo rivolgerci a diari privati poi diventati opere letterarie, a parte di Romanzo come nei capitoli centrali di Rubè o l'ultimo della coscienza di Zeno, o alle novelle, Berecchie di Pirandello oppure una burla riuscita e la novella del buon vecchio e della bella fanciulla per Svevo punto non è da tener presente invece tozzi in quanto le sue novelle di guerra sono pure iscritti di occasione che non lasciano alcuna traccia né nel campo della storia letteraria né in quella personale dell'autore. la marginalità della grande guerra come tema letterario si fa più visibile si è messa a paragone con le dinamiche che reggono il campo letterario degli anni quaranta e cinquanta. questo stretto rapporto con la storia contemporanea è determinato da alcuni fattori innanzitutto quello forse spiega più di altri l'assenza della grande guerra come tema nella narrativa modernista, proprio tra gli interventisti e il modo diffuso tra i giovani intellettuali La guerra è il dispositivo che conduce alla annullamento dell'individuo e all'esaltazione della collettività e dell'umanità. La guerra è la manifestazione più evidente del rischio della dispersione dell'io e della sua identità. Spegni in generale La guerra è depersonalizzante e priva il soggetto di ogni individualità. in questo senso si appaia al cammino compiuto dalla modernità tecnologica e di questa diviene una possibile realizzazione. ed è per questo il motivo per cui romanzieri e novellieri modernisti non possono sentirla come un tema proprio, la questione non è politica o Umanitaria ma più specificatamente culturale: interessa il complicato è ambiguo rapporto che Svevo, Pirandello, Gadda, Borgese, Palazzeschi hanno con la modernità, un rapporto di rassegnata non accettazione. MODERNISMO E MODERNISTI NELLE RIVISTE FASCISTE Uno spettro si aggira per l'Europa: il nuovo realismo- E’ un’opinione abbastanza condivisa che il modernismo italiano, o almeno la sua fase storica, conoscerebbe un suo epilogo alla fine degli anni venti. Gli indifferenti aprirebbe una nuova stagione narrativa che si ispirerebbe ad estetiche ed idee differenti. Ciò che si assiste da Moravia in poi è un ritorno al realismo e a nuovi tentativi di rappresentare la realtà sociale e il mondo circostante. Il cambio di rotta si registra anche in altri contesti europei. In francia vengono pubblicati negli anni trenta i cicli romanzeschi come Chroniques des Pasquier di Duhamel oppure les hommes de bonne volonté di romains. E’ in questo periodo che esordiscono i nuovi romanzieri come Malraux, bernanos e Céline. Nonostante le macroanalogie, i raffronti tra romanzo italiano ed europeo restituiscono anche decisive differenze. In primo luogo in Italia la discontinuità tra modernismo e nuovo realismo è più marcata rispetto a quanto accade altrove. In secondo luogo c’è una differente questione generazionale. E’ inevitabile che il rinnovamento del romanzo sia più mediato di quanto accade in Italia, in cui il decennio 1929-1949 è tutto all’insegna di nuovi e giovani romanzieri nati per lo più all’inizio del 900. e’ negli anni trenta che in italia prende corpo un ricambio generazionale. La particolarità italiana sta nel fatto che il regime fascista trova nei giovani e nella giovinezza i suoi miti di riferimento. E’ inevitabile che il regime intervenga perchè si compia nella cittadella delle lettere una qualche forma di rivoluzione, intervento è dato dall’analisi delle riviste che per scelte volute e consapevoli contribuirono a smantellare il modernismo e a sostituirlo con i contenutisti che di fatto dominano il campo fino alla metà degli anni sessanta. Il campione di riferimento- Il nostro soggetto di riferimento è il modernismo europeo e le riviste fasciste. Per quanto riguarda il romanzo modernista possiamo rivolgere l’attenzione alla narrativa di impianto psicologico e destrutturante la trama. Più complesso è parlare della rivista fascista. Date di riferimento sono: 20 gennaio 1926 entra in vigore la legge 2307 del 31 dicembre 1925, il cui articolo 1 impone <il direttore o redattore deve ottenere il riconoscimento del procuratore generale presso la corte di appello, nella cui giurisdizione è stampato il giornale o la pubblicazione periodica. Il regolamento attuativo dell’11 marzo 1926 sostituisce il riconoscimento del procuratore con quello del prefetto, mettendo di fatto la stampa periodica sotto il totale controllo fascista. Furono soppresse decine di giornali e di riviste. Ci sono pubblicazioni che sono diretta emanazione del partito nazionale fascista, critica fascista di Bottai e Quadrivio di Interlandi sono gli esempi più illustri. Nel 1926 si apre una fase che tollera diverse prospettive. Verso gli anni trenta il regime abbandona la retorica sovversiva e rivoluzionaria per un modello autoritario che trova il pieno compimento nella costituzione dell’impero. Tra il 1932-35 la prima mostra della rivoluzione fascista, la trasformazione dell’ufficio stampa del capo di governo in sottosegretariato per la stampa e la propaganda e poi l’evoluzione nel ministero. Realismo vs Romanticismo - Il discorso di Mussolini tenuto all’Accademia delle Belle Arti di Perugia nel 1926 su «Critica fascista», che in qualche modo indica qual è il prodotto culturale ideale da perseguire capace di esprimere e la «rivoluzione fascista» e la tradizione italiana. All'inchiesta di Bottai partecipano, tra gli altri, Soffici, Bontempelli, Cecchi, Pavolini, Bragaglia, Malaparte. Innanzitutto la parola d'ordine che serpeggia in tutti gli interventi è «discontinuità rispetto al recente passato», ovvero, pensando specificamente al romanzo, rottura con il naturalismo (ma non con il verismo, né tanto meno con il romanzo classico dell'Ottocento), con il decadentismo, con il romanzo analitico (ossia con il modernismo) e con le avanguardie. Sintetizza infine Bottai, nelle Risultanze dell'inchiesta sull'arte fascista del 15 febbraio 1927, che l'arte fascista non deve essere frammentaria, sincopata, psico-analista, intimista, crepuscolare, ecc. perché tutte queste forme artistiche non sono se non malattie dell'arte, ribellioni clinico-estetizzanti alla grande tradizione artistica italiana, che oggi riappare in tutta la sua grandezza. La polemica contro «l'estetismo», «l'analisi psicologica», le «malattie dell'arte» trova sintesi in quella che Pavolini, nel lungo intervento del 1 novembre 1926, chiama «infezione romantica»(altrove «solitudine romantica>>). E se il romanticismo è termine negativo da contrastare e rimuovere, il suo contraltare positivo è offerto dal realismo. È paradossalmente Soffici, il più avanguardista il quale disse: Credo che la letteratura e l'arte che il Fascismo può e anzi deve patrocinare siano quelle le quali [...] meno si prestano ad una definizione semplicistica. [...] Direi che è una letteratura, che è un'arte realistica, intendendo questa parola nel senso che può avere quando si applica alla poesia di Alceo, di Saffo, o alla scultura di Fidia e di Prassitele'. Parla di realismo sintetico per indicare un'arte non oggettivamente veristica ma che nella rappresentazione del vero rivelasse lo spirito lirico e la volontà stilistica dell'autore; un'arte che non astraesse dalla realtà visibile e sperimentasse con i sensi ma dall'osservazione e dallo studio della realtà viva. E’ interessante notare poi che il contrasto tra romanticismo decadente (un'area che si estende da Wilde a Joyce) e realismo si ripropone qualche anno più tardi anni sulle pagine di «Primato» (sempre diretto da Bottai), all'interno di un dibattito lanciato da Lupinacci, che proponeva un ritorno al romanticismo. La reazione alla proposta si arrocca attorno all'esigenza di un'istanza realistica, interpretata ovviamente in senso antiromantico: è significativo che «Primato» dia ampio spazio a queste risposte, rinfrancate peraltro dalle posizioni espresse dagli interventi usciti il primo anno sui numeri 7, 8 e 9 all'interno dell'inchiesta su L'ermetismo e gli ermetici. Il romanticismo sarebbe l'espressione del «più logoro vocabolario borghese» secondo Alicata, mentre Pintor ritiene che «sono proprio i residui di quel pathos romantico il più grave peso morto che l'Europa intellettuale si trascina»: per questo motivo Galvano della Volpe, sia pure in maniera traslata, può chiudere il suo intervento significativamente intitolato Antiromanticismo, invocando «un concetto dell'arte come storicità». Fascismo e modernismo: dalle leggi fascistissime al Ministero per la Stampa (1926-1936) - Se mi sono dilungato sulle posizioni teoriche è perché queste di fatto determinano i criteri di pubblicazione, le modalità di presentazione e soprattutto gli approcci critici. Un certo europeismo selezionato e, più specificamente, un modernismo narcotizzato si notano già in «900» di Bontempelli. È vero che la rivista nasce proprio all'insegna di un'apertura all'arte moderna e contemporanea, e la presenza di Joyce nel comitato di redazione, nonché la prima pubblicazione "italiana' di un capitolo di Ulysse, sembra conferire una patente di 'modernità' all'impresa. Tuttavia una scorsa agli indici, in cui pur compare una traduzione di Virginia Woolf, non restituisce la fotografia che i proclami del direttore aveva promesso. Joyce compare una sola volta come Carducci; e allo stesso modo Tolstoj e Cechov. Ora, se si tiene presente che Bontempelli sbarca a Parigi con l'intenzione di misurarsi con «Commerce», non si fatica a notare le divergenti proporzioni tra i due progetti, e non si può tacere dell'opposta evoluzione che le due riviste hanno conosciuto. «900», sostiene giustamente Susanna Mancini, approda a un «rifiuto della letteratura retorica e vacua fatta solo di 'parole e l'opzione per una letteratura di 'fatti' e d'intreccio che non ha bisogno del bello stile»; «Commerce», invece, riesce a connettersi con tutte le spinte eversive, ma non avanguardiste, degli anni Venti-Trenta. Ma soprattutto gravava su «900» l'aspettativa di Mussolini, che, stando alla convincente ricostruzione di Artieri, cercava strumenti per dare «un colpo d'arresto al Futurismo» ricorrendo addirittura ad «una forma di realismo socialista in letteratura». Va da sé che non solo Kafka, ma nemmeno Pirandello e Svevo (che invece vide ventilata un'ipotesi di pubblicazione su «Commerce») potevano trovare spazio sulle pagine della rivista di Bontempelli. Ma per cercare di avere il polso della situazione del decennio 1925-1935, utile può essere mettere a confronto due riviste che con l'apparato statale e dittatoriale avevano legami diversi: la fascistissima «Quadrivio» (dal cui direttore nacque più tardi la vergognosa «La difesa della razza») e «Occidente» di Ghelardini. Tutta la corrente modernista, intesa come ultimo segmento del pensiero decadente europeo, viene emarginata: infatti non c'è traccia di Pirandello narratore (e si lascia spazio solo al drammaturgo, che era impossibile da ignorare), e nemmeno di Svevo, fatta eccezione per un accenno di Falqui e per la traduzione di un brano di Stanislao Joyce, appunto su Svevo e Joyce. E allo stesso modo mancano all'appello Kafka, Woolf e Proust. Più in generale la cultura europea intesa nel suo asse anglofrancese è vista come segno di decadenza. Si potrebbe citare «Oscar Wilde, tipico rappresentate del decadentismo dell'ultimo Ottocento», che secondo Lo Vecchio Musti apparterrebbe alla categoria di coloro che «finiscono con lo stancare loro stessi e chi li legge o li ascolta». Anche in questo caso è il principio della discontinuità, declinata come rifiuto di romanticismo e formalismo a favore di fatti, contenuti e realtà, quella che deve prevalere. Così, oltre a un suggestivo intervento di Gallian su Bontempelli la rivista lascia ampio spazio ai nuovi narratori, ossia a quelli che, rubando una definizione degli anni Sessanta di Bassani, potremmo chiamare «narratori-narratori»: ad esempio Soldati, Brancati (redattore della rivista), o Bernari, all'epoca Bernard, fortemente lanciato dal gruppo di «Quadrivio». Oltre a molti racconti infatti lo scrittore pubblica un'anteprima di Tre operai. La politica culturale di «Quadrivio» si risolve in una chiusura ferma nei confronti delle più recenti sollecitazioni letterarie europee (romantiche e decadenti), in un recupero di un Ottocento classico (in poesia ad esempio Pascoli e Carducci), e nel lancio di giovani narratori, fascistizzati nell'interpretazione, ed etichettati come espressione di un ritorno al realismo. Il modernismo non esiste, così come il Futurismo sembra non aver mai avuto luogo. Più mossa sembra essere invece la situazione in «Occidente», che sin dall'Introduzione del primo numero si candida ad offrire «un panorama ampio diffuso delle attività europee e mondiali nel campo delle lettere», una «sintesi critica delle correnti letterarie per creare un'onda lunga che dal romanzo classico dell'Ottocento arriva fino agli anni Quaranta di Cain, di Steinbeck, di Faulkner; ma anche di Brancati, di Soldati, di Morante. Si tratta di fatto di creare un percorso in cui sia possibile accantonare il decadentismo e il modernismo, vissuti entrambi come espressione della crisi borghese (sia dall'ottica fascista, che da quella socialista). Questa omissione, specificamente per quanto concerne il romanzo modernista, sembra molto marcata in Italia, e prosegue con alterne vicende fino agli Sessanta, quando la crisi del romanzo lineare e l'ascesa di neoavanguardia e di spinte letterarie eversive di vario genere impongono di recuperare la linea Pirandello-Svevo - e Joyce, e Proust, e Kafka -. Il modernismo diventa così la patria delle prime forme di antiromanzo, e non è un caso che, almeno in Italia, i suoi autori vengono chiamati d'avanguardia' o 'sperimentali (sottolineando in questo modo la forza di rottura rispetto al passato). L'inversione di giudizio, che permette il recupero del romanzo primonovecentesco, mantiene e rafforza la dicotomia tra modernismo e realismo, come se il secondo termine presupponesse la linearità e la tradizione, e rappresentasse dunque la negazione delle istanze più profonde del primo. Parte seconda - MORAVIA E IL NEOREALISMO 1929: Gli indifferenti e la nuova stagione del realismo Gli indifferenti e il superamento del modernismo - Debenedetti aveva indicato il 1930 quale «data iniziale» per una determinata epoca del romanzo italiano. E quest'epoca nuova, capace di protrarsi fino al secondo dopoguerra, trova il suo certificato di nascita ufficiale nell'«esplosione, nel 1929, degli Indifferenti di Moravia», nonché «nell'interpretazione realistica» che ne fu offerta subito dopo la pubblicazione. Sarebbe in sostanza il romanzo d'esordio di Moravia a segnare una discontinuità con il modernismo. Non che il modernismo non abbia avuto una vocazione realistica, anzi si è parlato anche di "realismo modernista". Tuttavia uno dei principi su cui si impernia il romanzo del modernismo italiano ed europeo è proprio quello che contesta la possibilità di una referenza diretta al reale, e di conseguenza nega l'interpretabilità pacifica e piena del mondo che si raffigura: gli scrittori di inizio secolo rifiutano il miraggio ormai tramontato del romanzo quale "casa di vetro" trasparente, e ritengono la letteratura un prisma deformante incapace di restituire la realtà così com'è. Tutt'al più è il medium narrativo a condurre a gradi di verità irraggiungibili per i veristi e per i romanzieri dell'Ottocento, e può costituire uno strumento privilegiato per tentare di indagare zone che nel XIX secolo non erano adeguatamente scandagliate: nello specifico la vita psichica del personaggio. Un concetto non è mai messo in discussione: il mondo risulta ininterpretabile, e perché mai percorribile nella sua totalità, e perché incessantemente cangiante, e infine perché costituito di frammenti che si legano e si separano senza una legge predeterminata. Con Gli indifferenti, nel 1929, Moravia parte proprio da questo punto, invertendo però la tendenza. Il «flusso della soggettività», inaugurato da Il fu Mattia Pascal nel 1904, proseguito con Tozzi, e concluso in crescendo da La coscienza di Zeno (1923) prima e da Il vegliardo poi (1928), si interrompe, per lasciare spazio a un romanzo più sbilanciato verso l'oggetto, e più fiducioso nelle proprie capacità di rappresentare il mondo. 1.2 Una nuova casa di vetro - La stagione che Moravia inaugura con Gli indifferenti, e che più o meno si concluderà nei primi anni Sessanta, si basa sul presupposto che i modernisti avevano più messo in discussione. Per Moravia e gli altri "edificatori" (in senso lato) del romanzo la letteratura può essere schermo neutro e perspicuo poiché il personaggio ha una sua interezza e una corrispondenza tra ciò che pensa e ciò che fa. E anche nel caso in cui tale rapporto salti, il narratore interviene a sanare la contraddizione evidenziando la consapevole menzogna (e la sua eventuale necessità), mostrando la debolezza del personaggio, offrendo spiegazioni che tengano insieme posizioni invece divergenti. Ci si trova agli antipodi del modernismo, che proprio dell'asimmetria sistematica tra vita psichica ed esteriorità fa la sua parola d'ordine. E ancor più dell'asimmetria è l'assenza totale di qualsiasi legame tra privata e pubblica a costituire il tratto caratteristico del personaggio modernista; al punto che nessuna azione potrà mai trovare diretta spiegazione nella volontà del personaggio agente: sempre oscure infatti rimarranno le ragioni profonde che hanno condotto Zeno a chiedere la mano di Augusta. Questo iato, quando c'è, viene invece prontamente colmato dal narratore moraviano: sicché interiorità e manifestazione esterna nel personaggio non sono mai veramente disgiunte, e finiscono piuttosto per riaggregarsi in un'unità compiuta e definita. Un'unità, questa dell'io moraviano,' che restituisce al romanziere la possibilità concreta di raffigurare il mondo che osserva, riuscendo addirittura ad ampliarlo rispetto agli antenati realisti dell'Ottocento (in quanto focalizzato anche sulla coscienza del personaggio). Ciò stronca sul nascere qualsiasi messa in discussione dello statuto narrativo e della sua possibilità mimetica, spingendo la scrittura romanzesca verso altri tratti costitutivi. La lettura de Gli indifferenti ne mostra specificamente quattro (che saranno poi principi cardine di altri autori coevi o immediatamente successivi a Moravia): voce narrante attendibile; descrizioni raffigurative; preminenza della realtà sociale; lingua media e referenziale. 1.3 Le strutture del romanzo 1.3.1 Il narratore attendibile- Il narratore del romanzo ha i tratti di una voce del tutto attendibile; la sua credibilità è data per scontata, e ciò che è da verificare è semmai l'oggetto di raffigurazione, non la veridicità del messaggio. Il narratore è eterodiegetico e onnisciente, non distante dai modelli ottocenteschi. Il dato è quanto mai rilevante giacché tutto il modernismo italiano aveva puntato unicamente sull'omodiegeticità: Zeno e Mattia Pascal sono gli esempi classici, a cui si affiancano Uno, nessuno e centomila, Moscardino e Il servitore del diavolo, La vita intensa, solo per limitare il campione a testi canonici. E anche i narratori eterodiegetici, come quelli di Con gli occhi chiusi, Il podere, Rubè, in realtà si confinano all'interno di una focalizzazione fissa, che mostra il mondo solamente attraverso gli occhi di un solo personaggio (il protagonista), di cui si mettono in evidenza anche i diversi passaggi mentali. Il motivo di questi procedimenti, veramente esclusivi nell'area modernista italiana, è per certi aspetti banale: oggetto di raffigurazione del romanziere infatti è la vita psichica e interiore dell'io, il suo sviluppo, le sue propagazioni; e anzi tale oggetto, piuttosto che essere uno tra gli altri, si erge a unico elemento di rappresentazione del romanzo. Pertanto usufruire di un dispositivo che permetta di indagare le «actual minds» dei personaggi diventa condizione assolutamente indispensabile: di qui il ricorso al narratore omodiegetico e alla focalizzazione interna fissa. Diverso è il caso di Moravia. Il narratore de Gli indifferenti infatti può abitare la mente di Carla, di Leo, di Michele, di Lisa e di Maria Grazia senza incontrare alcuno ostacolo. Ma di questi personaggi non segue tutta la tortuosa evoluzione del pensiero, secondo quel procedimento messo in moto da Joyce e da Svevo, o per altre vie da Tozzi; dei loro pensieri piuttosto viene data solo la sintesi finale. La limpidezza del pensiero dei personaggi si vede esemplarmente nell'ultima pagina del romanzo, quando Carla esprime le sue preoccupazioni a Michele. La posizione di Carla è a tinte forti, e non sostenuta dalle vitali contraddizioni che vivono Zeno Cosini e Mattia Pascal: «tutto è così semplice» è il segmento finale di una riflessione, di cui il lettore può conoscere solo il tratto centrale, e non anche tutte le apparentemente inutili digressioni. In fondo anche la confessione di Michele, a cui Carla appunto replica, non ha zone di ambiguità. E lo stesso riscontro si otterrebbe anche dall'analisi delle parole di Leo, il quale, proprio nel momento in cui Carla e Michele si lasciano andare a riflessioni meno limpide e più complesse, è preso dall'impulso di gridare. In questo modo, la psiche del personaggio risulta essere a tutto tondo, senza troppe zone di chiaroscuro e soprattutto senza vere e inspiegabili contraddizioni. Una vita interiore così lineare perde naturalmente d'interesse, in quanto non può più offrire dati che la vita esterna, materiale e ufficiale già non mostra; anche perché, come già detto, tra pensiero e azione non si dà mai profondo contrasto, e ogni disaccordo viene ricondotto dal narratore a menzogna, debolezza. Esemplare è il cambio di atteggiamento di Leo, nel primo capitolo, al veder comparire Maria Grazia nel momento in cui lui cerca di sedurre Carla. E procedimenti simili, sin dal capitolo iniziale, sono offerti da Carla e da Michele. La vita psichica del personaggio pertanto non è più la miniera da esplorare in ogni direzione, senza mai arrivare per l'individuo sia fortemente ridimensionato, e che il focus narrativo si sforzi di abbracciare una parte di mondo più ampia: più specificamente la realtà sociale. È sin troppo facile sostenere che Gli indifferenti sia una riproduzione sufficientemente fedele della borghesia romana, la quale, depurata delle sue specificità, ben rappresenta quella italiana e forse, almeno in parte, quella europea. Ed è altrettanto facile estendere questo discorso a molte delle opere di Brancati, di Soldati, di Bassani, di Cassola, di Alvaro, ecc. Ebbene questa nuova attenzione alla società contemporanea - che non disdegna però la descrizione psicologica dei personaggi - è conseguenza di una rinnovata fiducia nella parola narrativa, che non è più filtro deformante, ma strumento di comunicazione. 1.3.4 La lingua media - La fiducia nella parola romanzesca, e nel linguaggio in genere, ha una ripercussione immediata a livello stilistico. La lingua non solo lascia convivere (ormai decaratterizzate, deprivate dei loro valori sociolinguistici e culturali più esibiti) polarità diverse, annullandone le differenze, ma sfrutta altre risorse in via di affinamento rivolte anch'esse a tradurre un'immediatezza di impressioni e comunicazioni che stanno vicini alla parola. Come ben sostiene Coletti, la lingua di Moravia ha chiaramente perduto quell'espressionismo che caratterizzava una certa narrativa tardo ottocentesca e buona parte del modernismo (Tozzi su tutti), e soprattutto ha cancellato il principium individuationis di impronta linguistica che negli anni precedenti a Gli indifferenti si era visto applicato in più di un romanzo (in Svevo è sistematico già a partire da Senilità). L'istituzione di una lingua media coincide poi con un codice unanimemente condiviso da tutti i personaggi. Il personaggio moraviano anche attraverso le proprie parole conferma un'adesione all'immagine di uomo medio, e testimonia il suo essere pervaso da una mediocrità che è costitutiva della società tutta nella quale è inserito. Ciò significa che nel sistema de Gli indifferenti, anche la lingua contribuisce a rendere somiglianti tra loro i personaggi -> epica degradata. 1.3.5 Conclusioni - Ne Gli indifferenti una narrativa a forte impronta realistica si renda possibile grazie ad una nuova trasparenza degli oggetti del mondo e del mondo stesso: si veda in primis la corrispondenza tra interiorità ed esteriorità, poi la capacità del linguaggio di essere referenziale, la comune struttura di fondo dei diversi personaggi/uomini, la fiducia nel poter rappresentare il mondo reale così com'è, fino a ricreare un'idea generale coincidente di fatto con la realtà sociale configurata nel romanzo. Nel '30 Brancati esordisce con L'amico del vincitore (cui farà seguire Singolare avventura di viaggio nel '34 e Gli anni perduti nel 41); intanto danno avvio alla loro produzione romanzesca Silone, nel '33, con Fontamara, e Soldati, nel '35, con America prima amore (che anticipa di due anni La verità sul caso Motta); mentre è del '41 Lettere di una novizia di Piovene. Tutti romanzi che si muovono lungo il solco tracciato da Gli indifferenti, come dimostra facilmente l'analisi delle descrizioni, del sistema dei personaggi, della lingua e dello stile. E non solo il neorealismo e la letteratura resistenziale, ma anche la successiva narrativa italiana continua a seguire un impianto decisamente realistico: questo suggerisce la produzione di Bassani, dalla prima delle Cinque storie ferraresi, ossia Lida Mantovani, fino a Il giardino dei Finzi-Contini. Questa ricostruzione non vuole sostenere che una narrativa realistica tradizionale sia esclusiva nel trentennio 1929-1963 (prendendo come termine ante quem La giornata di uno scrutatore): è infatti facile notare che ancora dopo Gli indifferenti, ma prima della guerra, autori come Bilenchi prolungano senz’altro l’onda del modernismo. E dopo la guerra, Carlo Emilio Gadda scrive pagine che nulla spartiscono con il moravismo, e si riconnettono piuttosto al modernismo. Ma queste eccezioni, tanto più perché provenienti da esperienze letterarie rilevanti e non marginali, non costituiscono ostacolo al nostro discorso, giacché è ovvio che più correnti convivano nello stesso periodo e si fronteggino. È perciò all'interno di un conflitto di poetiche che individuiamo uno specifico modello, istituito da Gli indifferenti di Moravia e che ha saputo imporsi negli anni che separano il modernismo dal postmoderno: gli anni, possiamo dire, del "nuovo realismo". RACCONTARE SOLO IL CONOSCIBILE: GLI INDIFFERENTI DI ALBERTO MORAVIA 2.1 Gli indifferenti come momento di svolta - È opinione critica ormai condivisa quella secondo cui Gli indifferenti rappresenta un vero e proprio turning point nella storia del romanzo italiano e della narrativa in genere, con cui si chiude la stagione modernista, o almeno la fase "eroica" del modernismo', e si apre il trentennio all'insegna della narrativa realistica (fino al '63, sempre per individuare date simboliche, ma non prive di sostanza e di significato). Certamente, se confrontato con La coscienza di Zeno (per tacere di Joyce o Proust), un romanzo come Gli indifferenti colpisce per la linearità della trama, l'attendibilità del narratore, la concretezza del mondo rappresentato (ossia la referenzialità delle descrizioni), la sintesi e non l'analisi della vita interiore, l'adozione di un italiano standard. Sono elementi questi che, con inevitabili varianti, contraddistinguono anche la produzione di Alvaro, Soldati, Bernari, Brancati, Silone. Ovviamente il cambio di passo è influenzato anche da altri fattori, oltre quelli più squisitamente estetici. In primo luogo ha giocato un ruolo essenziale il cambio generazionale. Nel 28 muore Svevo, a seguire Pirandello, mentre Tozzi già negli anni 20. E in questi anni esordiscono nuovi scrittori: oltre a quelli già citati (Alvaro, Silone, Brancati, ecc.), che certamente sono più vicini al modello moraviano, vi sono Vittorini, Morante, Pavese, Cialente, de Céspedes, Buzzati, Masino'. E chiaro insomma che la schiera dei modernisti e decadentisti, nata tra il 1860 e il 1880, viene sostituita da una nuova generazione di giovanissimi nati per lo più a inizio secolo (fa eccezione Alvaro-1895) . Il cambio generazionale, poi, è agevolato dal regime, che ha già tra le sue parole d'ordine la "giovinezza", e dunque promuove quella che possiamo chiamare la nuova narrativa. Ovviamente è implicito nella politica culturale del regime un messaggio palingenetico, nonché l'obiettivo di creare discontinuità con la precedenza produzione primonovecentesca, letta come manifestazione di debolezza e di immoralità. Infine contribuisce al cambio di guardia il mercato editoriale. Se ne ricava che Gli indifferenti di Moravia si colloca all'alba di una nuova fase: quella che possiamo definire della cultura romanzesca. Il lettore comune, non riconosce più, come ancora accadeva negli anni Venti, alla poesia il primato assoluto tra le varie forme di espressione letteraria. Nel sistema e nella gerarchia dei generi dunque il romanzo si svincola da subalternità e deficit di prestigio, e si offre al lettore senza ulteriori giustificazioni. Inoltre proprio la passata stagione modernista ha dimostrato che l'opera romanzesca può essere difficile e complessa, e dunque colta ed elaborata. Moravia può pertanto scrivere un romanzo più leggibile, per un pubblico più ampio, senza cadere nel commerciale e nel facile. Apre davvero la stagione del "libro per tutti". Naturalmente il modernismo non chiude i battenti da un giorno all'altro, e continua a essere pervasivo anche per i più giovani narratori. I quali danno per scontati alcuni presupposti: relatività del mondo, frattura tra teoria e prassi o tra pensieri e azione, multiprospettivismo, vita psichica, dettagli. Moravia e gli altri non puntano a riformulare l’essenza del personaggio e del suo mondo, ma solo la sua rappresentazione. Come ha efficacemente sostenuto Stefano Guerriero: Con accenti debenedettiani, Moravia si rende conto che "evidentemente questa crisi del personaggio corrisponde ad una simile crisi del concetto dell'uomo". Con Gli indifferenti di Moravia si apre quella stagione realistica che non taglia i ponti col passato: il modernismo diventa «tradizione» che non necessita mediazioni e spiegazioni. Moravia sa di poter contare su un lettore che è stato contagiato da Joyce e Svevo e che dunque non deve essere istruito sulle dinamiche psichiche del personaggio. Per questo motivo nel suo romanzo d'esordio le istanze realistiche, ossia il patto di lettura all'insegna di una parola referenziale e attendibile, si coniuga con una visione del mondo ampiamente novecentesca: quella istituita dal modernismo. 2.2 Il patto di lettura - Si ricavano dati che confermano una matrice realistica. Il narratore non cade mai in contraddizione o si rivela bugiardo - come invece accade in Svevo e Pirandello -, né mostra titubanze che rivelano una sua insufficiente conoscenza. Inoltre, invertendo la tendenza modernista che prevedeva per lo più una focalizzazione fissa (anche imposta da un narratore omodiegetico, Moravia adotta un narratore che gode il privilegio di una focalizzazione zero, che spesso si autolimita nelle forme della focalizzazione multipla o alternata: è pertanto in grado di vedere il mondo con gli occhi di tutti i personaggi, ma anche di leggere nei loro pensieri. Un narratore di questo tipo pretende e ottiene immediatamente la fiducia incondizionata del lettore. Il patto tra chi racconta e chi legge è dunque all'insegna della verità. Il patto di fiducia così saldo rende attendibile anche la mimesis del mondo extradiegetico. Gli indifferenti è un affresco sociale della decadente e lasciva borghesia romana sotto il fascismo'. Le descrizioni non concernono mai tutto l'insieme, ma si soffermano solo su alcuni piccoli dettagli, che si impongono all'attenzione del lettore. L'esibizione del particolare, che non sarebbe così visibile se non fosse accompagnato dal silenzio sul resto della scena, ha lo scopo di conferire maggiore autorità alla voce narrante, la quale si configura come un'autorità che, se può riferire addirittura di aspetti minimi, probabilmente domina e conosce l'intero universo diegetico, e tace su ciò che non è rilevante. 2.3 Raccontare la realtà in un mondo cambiato: la condizione modernista introiettata - Altrettanto sostenuta, spesso non in termini oppositivi, la tesi che riconduce la prima opera moraviana alla temperie primonovecentesca. E una delle tante aporie che sono nate attorno al dibattito modernista. Tuttavia è più proficuo impostare il discorso sul piano dell'evoluzione culturale. Che sia tramontato ogni punto di vista oggettivo e marmoreamente veritiero non è più oggetto di discussione; così come la consapevolezza che vi sia un inconscio che spinge l'io verso esigenze profonde che sfuggono allo stesso soggetto è ormai sapere comune. Lo scrittore esordiente degli anni Venti e Trenta non deve più giustificare questi concetti e li può considerare un orizzonte condiviso. L'esordiente del 1929 può contare su un lettore più preparato e colto: un lettore che ha già vissuto, nelle pagine dei maestri d'inizio secolo. L'esordiente del 1929 può tornare al mondo concreto, tangibile, materiale; quel nocciolo duro della realtà, che rende in ogni caso quello in cui viviamo un mondo comune. Al tempo stesso, all'interno di questo strato condiviso di realtà, occorre mostrare tutte le incongruenze che sono tipiche di quella condizione modernista, che è deflagrata all'inizio del Novecento e che ha caratterizzato tutto il secolo. 2.4 L'alternanza dei punti di vista - L'elemento strutturale in cui Moravia fa convergere coscienza modernista ormai acquisita e racconto realistico è il narratore, il quale stringe con il lettore un patto di fiducia all'insegna di una narrazione realistica e veritiera. Inoltre corrobora la "sensazione del vero" anche la temporalità lineare: nel testo infatti non si registrano analessi e prolessi, e i tre giorni scorrono - oltretutto con una velocità abbastanza costante (fatta eccezione per il XV capitolo, dedicato alle fantasie di Michele) - con un ritmo 3 LA FUNZIONE VERGA NEL ROMANZO ITALIANO DEGLI ANNI TRENTA Il ritorno a Verga tra gli anni Venti e gli anni Trenta - Il ritorno al realismo che si registra a partire dagli anni Trenta si intreccia con il richiamo a un nume tutelare: Giovanni Verga. Del resto il rimando è obbligato, nel momento in cui si riflette sulle possibilità di una narrativa che si faccia specchio della realtà. Già nel pieno degli anni Venti il nome di Verga diventa per molti sinonimo di "ricostruzione", necessaria dopo lo sconquassamento delle avanguardie e la fortuna del frammentismo vociano. Con Verga si può tornare a raccontare storie, a scrivere romanzi. Il riferimento non è solo a Tempo di edificare di Borgese (1923), ma anche ad alcune posizioni apparse su «La Ronda» (rivista che non intende rilanciare il romanzo, ma che guarda a Verga con interesse), e su «Pegaso», oltre che ad alcuni interventi di Titta Rosa, che voleva chiudere la "crisi del romanzo", così da ritornare a narrazioni compiute e lineari. Il ritorno al realismo è un'evoluzione letteraria, ma è anche una mozione politica. È noto infatti che, a partire dal dibattito su «Critica fascista» sviluppatosi negli anni '26-'27 a seguito del discorso di Mussolini a Perugia, realismo diventa anche parola d'ordine del regime. Per citare un solo esempio su tutti si ricordino gli interventi pubblicati su «Quadrivio». Borgese nel '23, che non a caso dedica Tempo di edificare a Verga e Tozzi, vecchio e nuovo edificatore - Verga è visto come lo scrittore della compattezza, della stabilità, delle architetture solide. E insomma il romanziere le cui opere si oppongono a ogni forza centrifuga. Il pur rapidissimo bilancio sulla ricezione critica degli anni Venta-Trenta rivela come vi sia una propensione verghiana nella critica e anche negli scrittori della generazione precedente (Svevo, Pirandello, Tozzi, Borgese, De Roberto, ecc.). Diverso è il caso, invece, degli esordienti, ossia di coloro che hanno pubblicato la loro opera prima intorno agli anni Trenta: Moravia, l'apripista con Gli indifferenti (1929), Alvaro (Gente in Aspromonte, 1930)®, Masino (Periferia, 1933), Silone (Fontamara, 1933), Bernari (Tre operai, 1934), Brancati (i racconti giovanili, Singolare avventura di viaggio fino a Gli anni perduti del 1941). Ebbene non tutti questi romanzieri agitano la bandiera verghiana. Più forte è l'esigenza di chiudere, senza rinnegare, la precedente esperienza modernista, che aveva spinto il romanzo ai suoi limiti estremi, ma che ormai si era esaurita e rischiava di cadere in un virtuosistico manierismo. Moravia nel suo unico articolo firmato Alberto Pincherle, disse che Pirandello, Joyce, Proust hanno avuto grande influenza e a lungo andare questa prevalenza dell'elemento cerebrale è uno squilibrio che impedisce l'opera d'arte; la realtà non è mai stata tanto male descritta e interpretata come ora che se ne discute tanto, c’è una gran nebbia, una grande oscurità: evidentemente quella della subcoscienza. Con questo non voglio dire che si debba tornare alla narrazione pura e semplice dei fatti, senza alcun commento psicologico; osservo solamente che questo commento da qualche tempo ha superato di gran lunga, per la sua mole, il testo cioè l'azione. I nuovi narratori degli anni Trenta dunque escono dalla deriva modernista per ritornare alla centralità del personaggio, degli eventi, e di un narratore che racconta una storia. Non tutti si affidano esplicitamente al nome di Verga, ma tutti mettono in pratica quella che possiamo chiamare una funzione Verga. Lo si vede nel capolavoro di questo periodo, Gli indifferenti. 3.2 Immagini verghiane: un repertorio diffuso e condiviso negli anni trenta - All'inizio degli anni Trenta il campo narrativo italiano assiste a un ricambio generazionale, che a sua volta comporta un mutamento di struttura (il ritorno a una trama ben costruita e lineare), di modi narrativi (dallo sperimentalismo modernista al neorealismo novecentesco), e anche tematico: in particolare si registra in questi anni un ritorno al romanzo di ambientazione contadina. Nella letteratura italiana, la tradizione campagnola è antica. Nel mondo verghiano la natura sa regalare momenti di serenità, e financo di appagamento, ma è una pace che riguarda solo il singolo, e mai la comunità: si pensi ad esempio alle «belle notti d'estate» in cui Malpelo, «stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell'alto» (odiando però la luna, che spezzava quel piacevole buio). Ma al di là di queste piccole gioie personali, il mondo verghiano accantona ogni lirismo e si concentra maggiormente sui meccanismi sociali, descrivendo una comunità rigidamente divisa in due classi contrapposte: la borghesia dominante e il proletariato abbandonato da dio e dagli uomini. Tra i due mondi non c'è dialogo, nemmeno a livello di scontro (sia pure in un'elementare forma di lotta di classe), e ogni possibilità di passaggio dall'uno all'altro universo è precluso, come del resto spiega Padron 'Ntoni al nipote in uno dei confronti più duri del romanzo. Il mondo di Vita de' campi e dei Malavoglia, ancor più di quello di Mastro-Don Gesualdo, è statico e immobile. Il romanzo campagnolo degli anni Trenta, una delle espressioni più evidenti del realismo di quel periodo, riparte proprio da questa bipartizione. Sia sufficiente avere a mente l'impostazione che regge Fontamara di Silone (in cui la legge è universale e vale per tutta l'umanità) o pensare al bipolarismo che regola i romanzi di Francesco Perri; o basti anche solo rileggere l'incipit di Gente in Aspromonte. L'ostinato presente indicativo restituisce al lettore di Gente in Aspromonte la sensazione di un mondo sempre uguale a sé stesso, che non può segnare Alcuno scarto rispetto al passato, è la stessa in mobilità che contraddistingue il mondo dei Malavoglia e che impedisce Ogni passaggio sociale. per questo motivo i poveri di Verga e di Alvaro resteranno sempre tali. È la manifestazione di un mondo bipartito, i cui due emisferi non si toccano mai, se non nel momento dello sfruttamento. Del resto un'uguale impostazione si ha anche nel proletariato urbano di Bernari, altro esordiente degli anni Trenta letto con la lente verghiana (celebre il titolo del capitoletto Teodoro va via di casa perché in una famiglia di operai non si può essere che operai, in cui la staticità sociale si associa al desiderio di fuga, simile a quello del giovane 'Ntoni)". E, per ampliare il nostro campione di esempi, poco cambia se si interrogano i testi di Brancati, un autore che certamente non può essere annoverato tra i "campagnoli" Alvaro e Silone. Ebbene si pensi a un racconto come Paese di montagna, in cui l'ottica è quella delle tre ricche «signorine» che per motivi economici sono state costrette ad abbandonare la città. Anche in questo caso il lettore esperisce un senso di separazione (ricchi-poveri; città-campagna) e di stasi, che non riguarda solo le protagoniste (che vivono giorni tutti drammaticamente uguali), ma anche la storia contadina nel suo complesso, che condanna le giovani generazioni alla stessa sorte delle precedenti. Monotona è la vita; ma per questo non è pesante e noiosa. Anzi, è di una leggerezza che farebbe paura, se il particolare effetto di quella monotonia non fosse proprio l'assenza della paura, insieme a una delicata sfiducia e a una rinunzia piacevole a sperare. 3.3 Un ulteriore tema verghiano: la ribellione negata - Ad eccezione di Fontamara in cui nell'ultima parte ambientata a Roma la lotta assume quasi casualmente un connotato apertamente antifascista (come antifascista è l'opera stessa), nelle altre forme di "romanzo campagnolo" la rivolta può trovare spazio sulla pagina o nella forma parodico-degradata, o in quella mitica. Proprio Fontamara, ad esempio, replica la rivolta delle donne già narrata da Verga: contro la «tassa sul sale» ne I Malavoglia, contro la deviazione del torrente in Fontamara. Soprattutto in quest'ultimo, la scena è tra il picaresco, il ridicolo e anche il tragico, per l'ingenuità delle rivoltose. Certo è che in entrambi i casi l'opposizione al potere, tanto più perché innalzata dalle donne anziché dagli uomini, appare velleitaria. Quando invece la rivolta sfocia in una ribellione più compiuta, come avviene con Antonello in Gente in Aspromonte, deve dar vita a figure quasi leggendarie, che poco hanno a che fare con la realtà. Sicché, tanto Rosso Malpelo diviene un personaggio da leggenda, sia pure a distanza di anni dalla sua scomparsa, Antonello diventa l'immagine assoluta della bontà. Rosso Malpelo (satana) e Antonello (il santo) diventano entrambi leggende: la loro minaccia agisce a livello di immaginario collettivo, ma non può intaccare davvero i rapporti sociali; anzi ne costituisce una sorta di tragica conferma. E del resto, anche quando la ribellione assume connotati più marcati e definiti, finisce tragicamente. Cosa resta della rivoluzione compiuta in Libertà e in Fontamara? Entrambe sono sedate nel sangue, e nessuna delle due riesce davvero a sovvertire il potere vigente, né a ottenere una più equa ridistribuzione delle terre. La situazione di scacco è totale. 3.4 Il trionfo del modello verghiano: la voce narrante - Il cuore del progetto verghiano tuttavia non è né a livello tematico, né più ampiamente contenutistico: risiede invece nella fisionomia del narratore, che a sua volta è punto di sostegno per l'intero progetto ideologico messo in campo dall'autore. L'atteggiamento conservatore e privo di prospettive alternative al contingente si realizza perché la voce narrante non segna uno scarto rispetto al mondo narrato: pertanto il mondo raccontato è l'unico punto di vista possibile. L'alternativa, semmai, è quella di Fantasticheria, che consente sì di avere del reale uno sguardo d'insieme, e magari più lucido, ma al tempo stesso mette in crisi il concetto stesso di narrazione. Gli anni Trenta ripartono proprio dal narratore verghiano. Infatti gli autori di questo periodo non ricorrono ad un narratore superiore e paternalista di tipo manzoniano né aspirano ad incarnare il flaubertiano roman-sur Rain che procede grazie a una voce narrante inafferrabile e trasparente. al contrario il Neorealismo italiano si affida ad un narratore integrato nella comunità: il suo punto di osservazione è sempre orizzontale e mai capace di cogliere il mondo dall'alto, così come il suo punto di vista (posizione ideologica) è comune a quello dei protagonisti e dei personaggi. Evidente è il caso di Fontamara, che si costruisce attraverso un sistema di scatole cinesi. Sicché ci sono tre narratori (padre, madre e figlio) che raccontano le tragiche vicende del paese: sorprende però che non si registri alcuna differenza tra le tre diverse voci narranti; le quali non a caso si mescolano e si scambiano, senza creare in chi legge alcun disorientamento. Inoltre in Fontamara vi è il livello superiore del personaggio-autore che traduce e mette per iscritto la narrazione orale dei fontamaresi: e questo passaggio non ha funzione falsificante (come invece avviene nel romanzo modernista, in cui la scrittura cristallizza e deforma), ma serve solo a unire e amalgamare le tre intercambiabili voci narranti. Negli altri casi i romanzieri oscillano tra un narratore-testimone, sebbene non apertamente dichiarato (senza nome e in fondo senza consistenza fisica) e una voce narrante tendenzialmente impersonale, ma che appartiene alla comunità. Il primo caso è quello di Alvaro. Gente in Aspromonte infatti non è raccontato da un pastore calabrese, ma certamente da qualcuno che conosce bene l'ambiente. Le pagine iniziali, scandite dal presente indicativo alternato a gerundio, descrivono le dure condizioni di vita. Certamente il «noi» e il «loro» marca una differenza, che però non è di sostanza. Chi racconta conosce troppo bene la vita dei pastori, perché in fondo vi è spazialmente vicino. Sembra che le massaie che salgono in montagna vengano proprio dalla valle in cui risiede il narratore; e dove poi si trasferisce anche Argirò. Insisto molto su questo punto, perché questa coabitazione è alla base dell'omogeneità ideologica che permea l'intero romanzo. Il narratore infatti condivide con i suoi personaggi la stessa visione politica (in senso ampio): si schiera contro Mezzatesta e indugia sui suoi atti più sgradevoli; condivide il desiderio di rivalsa covato da Argirò, e realizzato con il seminario di Benedetto; ma al tempo stesso ampia area in cui si trova più facilmente un dubbioso "non consenso", anziché un esplicito dissenso, sono essenzialmente due. In primo luogo la generazione nata poco dopo l'inizio del secolo e il 1915 - ovvero gli esordienti nell'Italia letteraria tra le due guerre - si è formata a livello scolastico, e dunque civile, interamente sotto il fascismo: ha frequentato liceo e università già di regime. Per questa generazione è impossibile immaginarsi un mondo al di fuori del fascismo. E, in queste condizioni, per i più l'antifascismo - ossia l'opposizione frontale - non è un'opzione che può rientrare nel proprio orizzonte mentale e ideologico; tutt'al più si può provare malessere, disagio, insofferenza, all'interno però di uno schema che non prevede l'esternazione, se non in forme mediate e compromissorie. In secondo luogo non si comprende il meccanismo del consenso se non si tiene presente un passaggio fondamentale nel rapporto tra fascismo e intellettuali, o meglio nella catena di controllo e di affiliazione da parte del regime. Certamente la censura, e i conseguenti sequestri di libri, chiusure di riviste, arresti ha agito; anche se è da dire che il controllo era molto più capillare per i quotidiani che non per gli editori, sottoposti almeno fino al '38 a forme di censure più blande e confuse. Ma ciò che veramente ha creato il silenzioso consenso è la strategia di finanziamento che Mussolini mise in moto a favore degli scrittori. Fino al 1934 le figure intellettuali e le testate giornalistiche che vengono sostenute economicamente sono circoscritte, ma comunque rilevanti: solo per fare qualche nome, risultano a libro paga Aleramo, Barilli, Cardarelli, Guglielminetti, e periodici come «Antieuropa», «L'Impero», «L'Italiano», «Il Selvaggio», «Tevere». Con la guerra d'Etiopia e poi nel '40 i finanziamenti si fanno più ingenti. Si passa da 132.000 lire per 23 giornalisti e scrittori e 12 riviste del 1933 a 211.000 lire del 1934 (27 intellettuali e 11 riviste); nel 1938 si investe un milione e mezzo circa per 101 personalità e 69 riviste; mentre l'anno dopo la spesa complessiva sale a sette milioni (132 intellettuali e 69 riviste per sette milioni), per poi crescere a dismisura durante il conflitto. Anno dopo anno la parola scritta non viene solo sottoposta a censura, ma di fatto sostenuta economicamente; ed è un sostegno senza il quale diventa difficile scrivere. Ebbene tutto questo sistema di sovvenzionamento non passa attraverso bandi pubblici e procedure istituzionali, ma attraverso forme di trattative private, rese ancor più privatistiche se si tiene presente che questi pagamenti non venivano registrati nel bilancio pubblico, ma gestiti direttamente dal Ministero, che a sua volta li riceveva dalla polizia; e naturalmente autorizzati dal Duce, che approvava o respingeva. Il tipo di procedura non è rilevante dal punto di vista formale e amministrativo (siamo pur sempre sotto un potere dittatoriale), ma ha un grande valore simbolico, poiché impone un atto di sottomissione e la sottoscrizione di un documento che di fatto testimonia un'entusiastica adesione al regime. Questo ingabbiamento fa leva poi sul fatto che in molti casi il regime non richiede particolari compiti e, a livello artistico, lascia ampi spazi di manovra. In alcuni casi come quello che riguarda il futurista Emilio Settimelli, la sovvenzione compra il silenzio di uno scrittore troppo impulsivo, poco gestibile, ma al tempo stesso fiancheggiatore. Alla maggior parte degli scrittori il regime fascista richiede sostanzialmente una pubblica e «ostentata adesione alla dottrina e alla pratica fascista», sotto cui, però, si può godere di una delimitata e confinata libertà (l'ossimoro e voluto): del resto la paura e l'autocensura avrebbero agito prima. Questa circoscritta libertà viene concessa perché Mussolini era particolarmente sensibile alle accuse di incultura e di volgarità mosse al fascismo negli anni Venti, ed era disposto ad accogliere voci anche diverse pur di aumentare il tasso intellettuale all'interno del suo movimento; fosse anche solo sotto forma di fiancheggiatori. Per questo motivo molto spesso l'esplicita dichiarazione di sostegno, senza che poi questo divenisse reale, poteva essere sufficiente a garantire le condizioni per scrivere. Ma proprio su questo punto si misura un divario generazionale e una diversa percezione tra giovani e non. Borgese, ad esempio, ritiene questa strada moralmente e ideologicamente inaccettabile. Il modus operandi del regime crea le condizioni, per la generazione formatasi sotto il fascismo, di un'illusione di libertà, e agevola la formazione di una "zona grigia", in parte sottomessa, in parte, soprattutto nel corso degli anni Trenta, più insofferente. Ma questa insofferenza - che non coincide necessariamente con un consapevole antifascismo così come si è voluto talvolta dire a posteriori - non ha che un'unica strada per esprimersi: quella della dissimulazione. 4.2 Una blanda estetica di regime - A seguito del discorso tenuto da Mussolini il 7 ottobre 1926 all'Accademia delle Belle Arti di Perugia, nasce un lungo dibattito su «Critica fascista», che poi ha ripercussioni su tutte le riviste allineate degli anni Trenta: «Bargello», «Quadrivio», «Meridiano di Roma», per passare alla più mossa «Occidente», fino a giungere a «Primato>>. Ebbene, sintetizzando all'estremo i termini di quella discussione (che vede coinvolti Bottai, Pavolini, Soffici, Spirito ecc.), si può dire che il dibattito si riduca a un'opposizione che poi attraversa il ventennio fascista nella sua interezza: l'esigenza di «realismo», ossia della rappresentazione del mondo concreto e oggettuale, comporta il rifiuto di ogni forma di «romanticismo», inteso come espressione dell'io e più in generale della «psiche». Ma la contrapposizione «realismo»-«romanticismo» ancor prima che estetica è morale: l'uomo forte, sano e di saldi principi da una parte, contro quello debole, malato e lascivo dall'altra. Ne consegue il taglio netto con il romanzo modernista e con tutte le sue derive psicologiche, a vantaggio di una nuova generazione (quella nata a inizio secolo) chiamata a raccontare "realmente" la florida situazione del mondo mussoliniano. Poiché lo statuto di "realismo" è quanto mai sfuggente, l'impulso del regime si risolve unicamente nell'imporre un rifiuto delle narrazioni dell'io, della mente, della psiche, che trovano in Joyce, Proust, Svevo, ecc. i loro rappresentanti. (agevolato da un ritorno a una narrazione dell'oggetto, che si attua in tutta Europa e che si vede anche in Italia, già a partire dai primi anni Venti: si pensi a Borgese). Al di fuori di questa zona interdetta un giovane scrittore può godere di una certa autonomia, fatto salvo il principio di non parlare mai male del fascismo. Ciò non toglie, però, che il clima repressivo mette in moto un meccanismo di autocensura che agisce prima della scrittura. Sicché finiscono per non essere chiari nemmeno i confini che separano il lecito dall'illecito. Prendono corpo le ambiguità di giovani narratori degli anni Trenta, come Moravia, Bernari, Brancati, Masino, Morante, Vittorini, Bilenchi e il più agé Alvaro. Sono romanzieri che da un lato rispettano i limiti delineati dal regime, e dall'altro, senza esprimere una parola che possa essere indicata come antifascista, portano avanti - con consapevolezza diversa - una corrosione e talvolta un'aggressione vera e propria a quella che possiamo chiamare un'antropologia fascista: scardinano insomma l'ideale di uomo elaborato dal regime. Per "uomo fascista" ci riferiamo in particolare a quella specie umana - l'uomo nuovo - disegnata da Brancati ne L'amico del vincitore (1932), ispirata a un certo vitalismo (termine che ritorna più volte nelle rievocazioni di Brancati), a un culto dell'energia (anche fisica) e della forza. È un nuovo tipo di uomo che il fascismo ha saputo creare. Eppure a partire dagli anni Trenta la schiera degli esordienti - quella più vittima della propaganda fascista - si smarca da questo schema. E proprio nella raffigurazione del personaggio, che di fatto rovescia quegli ideali vitalistici che abbiamo appena indicato, trova espressione il malessere confusamente percepito dai giovani scrittori degli anni Trenta. In modo particolare sono tre gli elementi: la riconfigurazione della giovinezza; una generica malattia dell'anima; la sfera sessuale. Tutti e tre gli elementi trovano un loro archetipo ne Gli indifferenti di Moravia, romanzo che da un lato corrisponde ai canoni realistici cari al regime, e dall'altro entra in frizione con l'establishment culturale, attirando gli strali della critica più ortodossa: Margherita Sarfatti denuncia l’assenza di un criterio morale sincero e profondo». Il problema è in primo luogo ideologico, antropologico e morale, e solo in seconda battuta, per ovvia ricaduta, politico. In ogni caso Moravia è stato troppo smaccato, e per questo viene crocifisso da una parte della critica (ma non da quella più illuminata: Borgese, Solmi, Pancrazi). Chi, dopo di lui, si muoverà sul solco segnato da Gli indifferenti, sarà più accorto, e tenterà le vie di una contronarrazione più dissimulata. 4.3 Per un'antropologia diversa: la perenne giovinezza - Nel giugno del 1928 Giuseppe Bottai su «Critica fascista» pubblica un editoriale da cui poi scaturisce un articolato dibattito: Un regime di giovani, la giovinezza è l'elemento cardine dell'Italia fascista. E tuttavia già con la fine degli anni Venti la dismissione del giovanilismo avviene sia in forme palesi, come testimoniano la tassa sul celibato(1927) e la successiva campagna demografica («Non è uomo chi non è padre»)», sia in forme ambigue: la Gioventù italiana del littorio è del '37, mentre i Guf (Gruppi universitari fascisti) risalgono al 20 e vennero ristrutturati con attenzione nel '27. Ebbene queste strutture avevano il compito di frenare ogni forma eversiva della generazione più giovane. Sicché la celebre frase di Margherita Sarfatti, secondo cui l'Italia è «una nazione che ha tutta vent'anni», riletta oggi suona molto meno trionfalistica, e più realisticamente sinistra: una nazione di non adulti, che non potrà mai crescere. Ciò viene rappresentato nella narrativa dei giovani scrittori tra le due guerre. L'esempio più evidente ed eclatante è quello de Gli anni perduti di Brancati, i cui protagonisti sono immersi in una infruttuosa attesa del futuro radioso, simboleggiata dalla fallica torre che non riuscirà mai a essere completata. Ora, questo romanzo così smaccatamente estraneo al fascismo, è però del 1941, quando ormai la crisi politica e ideologica di Brancati si è già consumata, e la guerra è iniziata e ha risvegliato le coscienze. In Vita tranquilla, il cui titolo vuole mettere in scacco ogni prospettiva avventurosa dei giovani protagonisti, ritroviamo il sonno eterno della giovinezza: «"Noi siamo di quelli" mormora Antonini, l'avvocato "che fino a cinquantacinque anni sembrano dei ragazzi"». Ma in fondo lo sperpero della giovinezza, consumata in un'inutile attesa senza fine, si ha anche nei Ricordi (1933; altro titolo malinconico). Così come si è ugualmente rovinata la vita la protagonista di Altri amori (1940) di Alvaro, che ha aspettato diciannove anni per potersi fidanzare pubblicamente con il signor Toma. Ma a ben vedere, allargando il campione anche ai romanzi, quanto avviene in Alvaro e Brancati non è dissimile dalla storia di Teodoro in Tre operai di Bernari, e da quella di Michele e di Carla ne Gli indifferenti: sono tutti personaggi incastonati in una castrante «dimensione adolescenziale di attesa e di sogno». Se ne ricava un senso claustrofobico, reso ancora più evidente dal ricorso quasi ossessivo al narratore omodiegetico, che impedisce uno sguardo altro e più aperto; e anche nei casi in cui gli autori si affidano a voci esterne l'ideologia e il linguaggio del narratore sono i medesimi dei personaggi. L'aria rimane irrespirabile e la giovinezza continua a essere un carcere sonnolento da cui non c'è via di fuga: una maledetta Nataca. Non si tratta però di una nevrotica malattia dell'anima, sul modello di quella descritta da Tozzi negli anni Dieci. Nella narrativa degli anni Trenta è il mondo circostante a sbarrare la strada che porta a diventare adulti: ed è questo il tratto distintivo che la novellistica e il romanzo di questo periodo inseriscono all'interno di un topos - quello della non crescita e dello sperpero del tempo - abbastanza ricorrente in letteratura. Le opere di questo periodo non fanno altro che riconfigurare a livello narrativo la politica interna del fascismo, che esalta i giovani, solo nella misura in cui rimangono tali. Di fronte a una giovinezza narcotizzata rimane la possibilità del percorso opposto: quello suggerito in particolare (ma non solo) da Alvaro, ossia di una sabotare il regime, ma solo per esprimere insofferenza, malessere, disagio. I racconti (soprattutto quelli editi su giornali e riviste) e i romanzi degli esordienti degli anni Trenta si pongono, quasi istintivamente, l'obiettivo di «raccontare altrimenti», come direbbe Ricoeur, la realtà circostante; e dunque di elaborare una contronarrazione, che rimane ancora oggi una delle testimonianze più evidenti di come il pervasivo e violento regime fascista avesse comunque i suoi lati di debolezza. 5 STRATEGIE DI AFASCISMO NELLA NARRATIVA ITALIANA DURANTE IL REGIME 5.1 Letterati e fascismo - Rispetto alla stagione degli anni Settanta-Ottanta, oggi si guarda al tema con un minore investimento ideologico e con un distacco che può consentire uno sguardo più oggettivo. Tuttavia ogni qualvolta si affronta l'argomento è necessario stabilire quali sono i paletti, i preconcetti che regolano la nostra analisi sono tre. 5.1.1 Antifascismo e Resistenza: gli anni Trenta - In primo luogo facciamo nostra la distinzione, suggerita da diversi storici, che separa antifascismo e Resistenza. Senz'altro tra i due momenti - ossia l'insoddisfazione o addirittura l'avversione durante gli anni del regime e il momento della lotta armata - c'è un collegamento e il primo ha trovato poi sbocco nel secondo, ma è innegabile il «valore periodizzante dell'8 settembre»: la trasformazione di Mussolini da oppressore a nemico determina un risveglio di coscienze e di azione, che non è in perfetta continuità con quanto avvenuto prima. Apre alla «possibilità che l'antifascismo possa essere valutato come fenomeno specifico, con un valore autonomo idoneo a caratterizzare un'intera fase storica». In altre parole l'antifascismo degli anni Trenta deve essere valutato secondo principi propri, e non con la lente della successiva Resistenza, che rischia di svilire un'esperienza politica che invece è rilevante, o comunque di derubricarla a fase che trova poi la definitiva maturazione solo con l'esperienza bellica. Inoltre gli anni Trenta rischiano di essere fraintesi se non si tiene presente la crisi dello stato liberale che attraversa le coscienze politiche di inizio secolo, e non ha torto Franco De Felice quando sostiene che fascismo e antifascismo sono entrambe risposte a quella identica crisi. Mussolini certamente ha rappresentato la reazione di ordine violento, volto a sostituire una democrazia parlamentare giudicata debole, inetta ed efficace. Ma anche quello che oggi chiamiamo antifascismo si alimenta di una certa sfiducia nei confronti delle istituzioni, e porta a guardare con sospetto gli organismi statali in genere. Si potrebbe quasi sostenere che «l'antifascismo è un fenomeno sociale», che per alcuni tratti (ma ovviamente non in assoluto) quasi prescinde dal fascismo stesso, e trova sbocco contro le istituzioni anche autonomamente: il discorso diventa poi ancora più pressante per i giovani cresciuti sotto la repressione mussoliniana, ossia per gli scrittori degli anni Trenta che qui prenderemo in esame. In ogni caso, quello che vogliamo sostenere è che l'antifascismo dei romanzieri non può essere valutato quantitativamente, ossia misurando il livello di opposizione al regime, ma va interpretato alla luce di una situazione che non prevede ancora la ribellione e che mescola insofferenza per il fascismo con altre forme di sfiducia nei confronti dello stato, paradossalmente conciliabili con i dettami del regime (è il caso emblematico del "fascismo di sinistra"). Anche per questo motivo è più giusto parlare di antifascismi, anziché di antifascismo. 5.1.2 Violenza e permeabilità del regime - Molto spesso i discorsi sulla continuità del regime sia con il prima (l'età giolittiana), sia con il post (le strutture repubblicane) hanno impedito una giusta messa a fuoco dei problemi. E’ necessario sempre ricordare come il regime fascista tradisca una contraddizione. Da un lato si caratterizza per una violenza di stato che mostra il suo volto già nel '24 con l'omicidio Matteotti, e che poi diventa legge scritta nel 1926 con il Testo unico di Pubblica Sicurezza, che amplia la discrezionalità della polizia e istituisce il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Il risultato fu che «15.806 furono gli antifascisti (di cui 748 donne) deferiti al Tribunale speciale; quelli processati 5.620 (di cui 124 donne) nella stragrande maggioranza operai di appartenenza politica comunista». In altre parole la repressione era reale e non solo percepita, e creava un clima di pericolo (o di terrore se si vuole) che induceva anche inconsciamente a introiettare il divieto di dissenso; tanto più per la generazione di scrittori che esordisce negli anni Trenta, e che si è formata interamente sotto il regime (Moravia e Brancati sono del 1907, Vittorini del 1908, ad esempio). Dall'altro lato se il dissenso non si esprime (e forse nemmeno può nascere se non in pochi intellettuali), l'insoddisfazione è diffusa, e costituisce la base di ciò che definiamo antifascismo. Ora tanto il regime reprimeva, quanto era capace di assorbire proprio i personaggi più distanti dal verbo mussoliniano. Non occorre aspettare «Primato» (o certe edizioni dei Littoriali); si prenda l'esperienza dell'Enciclopedia italiana, che proprio negli anni Trenta di fatto diventa monumento del regime, e che pure conta tra i suoi «collaboratori novanta firmatari del manifesto antifascista di Croce». Non si tratta solo di «totalitarismo imperfetto», ma di una contraddizione che è insita sia nel regime, sia nell'antifascismo, e soprattutto quello giovanile, che prova disagio, ma non riesce a pensare a qualcosa di diverso dallo stato mussoliniano, né può fare a meno delle sue strutture organizzative. Sicché quando si ragiona dell'atteggiamento tenuto dagli scrittori degli anni Trenta non si può negare la violenza di stato in nome della permeabilità delle strutture di regime da parte di futuri oppositori, e nemmeno elevarla a forza che rendeva impossibile qualsiasi forma di azione. Paura e disagio convivono, e spingono al tempo stesso all'immobilità e alla reazione, sebbene camuffata e spesso nemmeno troppo consapevole. 5.1.3 Scrittori e non intellettuali - Quando si discute del complicato rapporto tra fascismo e mondo della cultura, così come è opportuno distinguere l'esperienza degli anni Trenta da quanto accaduto dopo l'8 settembre 1943, è altrettanto necessario separare il comportamento degli intellettuali da quello degli scrittori, anche quando le due funzioni vengono svolte dalla medesima persona (il caso di Vittorini è quello più emblematico: un conto sono gli articoli pubblicati sul «Bargello», un altro discorso merita Il garofano rosso). La scrittura letteraria ha un suo codice specifico, che punta alla riemersione del represso e a suscitare un sentimento perturbante nel lettore. Al netto di alcune esperienze particolari, il suo obiettivo polemico (e costruttivo) non è specificamente un regime politico, ma colpisce la società tutta: le sue false credenze, i suoi tabù, le sue forme di repressione. Che poi certi bersagli coincidano anche con il sistema politico vigente è questione che agisce a un secondo livello. La letteratura, e il romanzo, può essere il luogo privilegiato per analizzare quel disagio che una parte del mondo culturale ha provato nei confronti del regime, trovando un punto di compromesso tra sfida al potere e rispetto delle regole. E proprio questa mediazione è in fondo uno degli ingredienti specifici di un particolare tipo di antifascismo: quello dei romanzieri nati a inizio secolo, ed esordienti negli anni Trenta. Nelle loro opere, infatti, è possibile rintracciare una linea di pensiero che si propone antitetica al sentire comune proposto dalla volgarità mussoliniana, sia pure in forme dissimulate, e pertanto non immediatamente censurabili. Solo accettando la specificità della scrittura romanzesca - ossia la sua cifra inevitabilmente metaforica - si riesce a dare sostanza all'antifascismo letterario degli anni Trenta. È chiaramente difficile per questi giovani immaginare un mondo alternativo a quello imposto da Mussolini. Per questa ragione adesione e insoddisfazione si mescolano, e finiscono per informare uno delle diverse forme di antifascismo degli anni Trenta: quello dei romanzi. 5.2 Il romanzo e il fascismo - C'è un ulteriore elemento da tener presente per comprendere la specificità del rapporto tra scrittori e potere fascista: quello che riguarda il dibattito sul romanzo e i mutamenti che si registrano nella gerarchia dei generi letterari. Proprio nel momento in cui la letteratura italiana sforna i suoi capolavori narrativi (si pensi a Svevo e Pirandello negli anni Venti), scoppia una Diatriba sul romanzo, ossia un lunghissimo dibattito che occupa quasi un ventennio e che può essere sintetizzato nell'assertiva formula di Cajumi, La crisi del romanzo, o nella più aperta interrogativa diretta di Moravia, C'è una crisi del romanzo?. I critici e gli scrittori vedono una crisi del genere. Si tenga però presente che tutto il dibattito ha come obiettivo polemico il disordine creato dalle avanguardie e le derive del romanzo analitico, ossia quello modernista. Insomma tutte le voci più rilevanti non fanno altro che richiedere un ritorno all'ordine: un'esigenza che viene da lontano, come dimostrano «La Ronda» (1919-1923) da una parte e Tempo di edificare di Borgese (1923) dall'altra, e che prosegue poi gli articoli di Papini, Montale, Prezzolini, Consiglio, Moravia, Vittorini, Jovine, e tanti altri. In sintesi, puntando più sulla pars destruens che non su quella costruens, e dunque attaccando il recente passato più che dare ricette prescrittive per il futuro, il dibattito invita a un romanzo unitario, lineare e soprattutto comprensibile: un romanzo per tutti, e non solo per le élite. A metà degli anni Venti, specificamente nel '25, il romanzo comincia ad aumentare le sue vendite e a imporsi pertanto come genere dominante. Grazie proprio alla complessità dei modernisti, il romanzo si è attestato come forma di scrittura complessa, e dall'altro risponde agli appetiti culturali di una nuova fascia di lettori che per la prima volta si affaccia al mercato librario. Ne consegue che questa esigenza di ordine ha sì ragioni specificamente poetiche (contro le avanguardie e contro la «zavorra psicanalitica», ma anche sociali: tradisce l'esigenza di un romanzo comprensibile, leggibile da tutti; e dunque un romanzo con una temporalità progressiva, con più fatti e meno pensieri, e con un'attenzione al mondo contemporaneo. Un romanzo realista; o meglio «neorealista». In questa situazione, che è tutta letteraria e sociale, si inserisce il regime, il quale non può che trarre giovamento dagli smottamenti in atto. In primo luogo la dittatura appoggia gli scrittori esordienti, capaci di veicolare il mito della giovinezza (giovani che spesso scrivono di giovani: Bernari ad esempio) che è cardinale nella retorica fascista; inoltre i nuovi romanzieri possono essere rappresentativi di un'energia nuova, che soppianta la debolezza (di taglio psicanalitico) della vecchia narrativa di inizio secolo. Al tempo stesso il richiamo all'ordine reclamato dai critici è in perfetta sintonia con l'ordine imposto e sbandierato dal fascismo-regime, pronto a rompere con tutte le poetiche d'avanguardia (dal futurismo a «900» di Bontempelli) e, così come accade a tutte le dittature, a puntare sul realismo. Se si ripercorrono gli articoli che hanno animato il dibattito su «Critica fascista» tra il '26 e il '27, si nota propongano soluzioni di tipo realistico. Ma questo incontro tra un romanzo-romanzo, ossia lineare e realistico, e il regime si arricchisce di un ulteriore elemento: la scelta dell'ordine (in narrativa) diventa anche una questione etica. Tutti gli interventi fascisti nel dibattito sul romanzo, infatti, vedono nelle nuove soluzioni romanzesche un recupero di moralità, che invece il modernismo aveva perso. Anzi, come sostiene Granata nel '32, gli Aspetti del nuovo scrittore fascista devono rappresentare un esempio di comportamento etico e rispettabile → il fascismo è portatore di ordine, di etica, di rigore sociale in letteratura come in politica. Sia i vari Vittorini, Moravia, Jovine, ecc., sia il regime, propongono un cambio generazionale (l'appoggio agli esordienti), una narrativa piano politico (abbandonato alla fine), e nemmeno professionale (il protagonista viene stupidamente bocciato, rimanendo dunque fermo), ma proprio a livello sessuale. Il giovane eroe vittoriniano infatti non riesce a unire sentimento e sesso, e anche quando finalmente conosce il corpo femminile, deve trasformarlo in quello protettivo di una mamma: è l'assurda trasformazione che informa la prostituta Zobeida. Il testo di Vittorini (il garofano rosso) mostra come il sesso non solo diventi elemento centrale della narrazione, ma addirittura un metro di giudizio positivo: e dal romanzo a uscire vincente è Tarquinio e non Alessio, proprio perché Tarquinio si dimostra capace di gestire in maniera adulta (e anche cinica) la complicata sfera del piacere sessuale. E in fondo è portatore di sconfitta anche il sesso che contraddistingue Singolare avventura di viaggio di Brancati, l'opera che forse più di altre mostra il lato anarchico e distruttore dell'eros. Già a partire dal III capitoletto il protagonista è sopraffatto dal desiderio, e anziché gestire il sesso ne è gestito lui stesso. Tutto il racconto si snoda intorno a questa dorsale: il desiderio sessuale non può essere governato, e confligge con l'ordine sociale imposto dal fascismo, e con la mora e richiesta dal Cristianesimo. Una chiara forma di afascismo, che però ha tracce di opposizione troppo evidenti: tali da non passare inosservate ai fascisti, e da agire sullo stesso Brancati, che da questo momento inizia la sua lunga marcia verso l'antifascismo. 5.4.2 La donna sessualizzata - Il tema del sesso diventa ancora più scottante in quanto chiama in causa il corpo della donna e la sua sensualità. E sin troppo facile notare che la donna sessualizzata, ossia conscia del proprio corpo e dei piaceri che ne possono scaturire, non coincide affatto con l'immagine della sposa, della madre e della sorella inseguita da Mussolini, e dall'altro la chiama in causa come fascista e come costruttrice del mondo nuovo che Mussolini intende costruire. Possiamo individuare quattro fasi del complicato rapporto tra stato fascista e mondo femminile. La prima è quella che Elisabetta Mondello definisce «diciannovista », e che cerca di dialogare con le grandi conquiste ottenute nel 1919: la capacità giuridica femminile, «che liberava la donna dall'obbligo della autorizzazione maritale o giudiziaria in materia civile e commerciale»; e il diritto di voto amministrativo e politico (passato alla Camera, ma poi non approvato per lo scioglimento del Parlamento; sarà concesso il diritto amministrativo solo nel 1925). Dopo questa prima fase in cui Mussolini cerca di cavalcare il femminismo, si ha la svolta del 25-'26, che riduce drammaticamente i diritti delle donne. In Italia le donne nel 1927 subiscono una decurtazione del salario del 50%, nel 1929 vedono aumentate le tasse scolastiche (medie e università) del 30%-50%, nel 1933 hanno un tetto massimo di assunzioni nella pubblica amministrazione, e nel 1938 questo tetto è fissato al 10%. Il momento di svolta di queste politiche sociali viene individuato nel 26 maggio 1927, quando Mussolini pronuncia il cosiddetto Discorso dell'Ascensione: «quella data viene indicata come il momento iniziale di quel processo di involuzione relativo alla condizione della donna che la ricondurrà al tradizionale ruolo di "sposa, madre, sorella". Dopo il fallimento della campagna demografica (com'è noto il 1936 conosce il più basso tasso di natalità), Mussolini si arrende al corso della storia, e concede più spazio di manovra alle donne e soprattutto ai fasci femminili. Ma questa inversione di rotta - tardiva peraltro - viene bloccata dalla guerra, con la quale inizia la quarta e ultima fase della storia delle donne sotto il fascismo. In base a questo schema è evidente che i giovani romanzieri degli anni Trenta (e abbiamo volutamente chiamato in causa solo scrittori uomini) esordiscono e pubblicano nel periodo in cui la legislazione abbassa la donna a riproduttrice di specie e a servitrice dell'uomo: un'idea di donna e di famiglia su cui il regime punta particolarmente. E tuttavia tanto la morale ufficiale viaggia in una direzione, tanto altre sollecitazioni, accolte dalle donne, percorrono vie diverse e opposte. Si apre dunque uno squarcio che consente alle donne di epoca fascista di vivere una «doppia morale». Da un lato si aderisce pubblicamente al ruolo matrimoniale e materno, ma dall'altro si inseguono i modelli femminili proposti da giornali, periodici, rotocalchi e cinema hollywoodiano, che non disdegnano la cura di sé e la ricerca della bellezza. All'interno di questo meccanismo che da un lato sabota i «processi di modernizzazione e di emancipazione femminile» e dall'altro non riesce a stabilizzare l'immagine tradizionale, si inserisce il romanzo degli anni Trenta. Rispetto anche a quanto accadeva con il modernismo, nel neorealismo si registra un'evoluzione sociale. Nonostante siamo portati a considerare il modernismo molto più disinibito di altre correnti (e certamente quello inglese e francese lo sono; quello italiano meno), a ben vedere ne La coscienza, dove tra Zeno e Guido si consumano diversi rapporti, il corpo della donna non è mai mostrato; e lo stesso accade con Tozzi (tranne una coscia ferita con il temperino da un confuso Pietro), e con Pirandello (dove anzi la moralità e la pornografia cinematografiche diventano oggetto di implicita riflessione nei Quaderni di Serafino Gubbio). Ma soprattutto nel romanzo modernista la donna continua a essere oggetto di conquista, costretta a dissimulare ogni forma di ricerca del piacere e dunque mai motore di un meccanismo palesemente seduttivo: ne La coscienza Augusta aspetta e ride, Ada cerca un buon partito (la sana morale borghese), e Carla si vende per necessità; ne Il fu Mattia Pascal Adriana, che ha solo nobili intenzioni, viene comunque avvicinata; mentre in Con gli occhi chiusi Ghisola, che ama i corpi maschili, finisce inevitabilmente in una casa chiusa, e dunque è punita per la sua sessualità. In tutti i casi dunque la morale borghese che relega le donne ai margini del meccanismo sociale è salva. Nulla di tutto questo accade nel romanzo neorealista. Colpiscono casi evidenti come Singolare avventura di viaggio, in cui Anna non ha mai la falsa coscienza che contraddistingue Enrico e si abbandona al sesso consapevole di quanto sta accadendo; e come Il garofano rosso, con Zobeida che è un'affettuosa e affezionata donna che si prostituisce, e Giovanna un'adolescente che ha il coraggio del primo bacio, che sceglie i suoi fidanzati e perde anche la verginità. Ma in fondo questi personaggi sono sin troppo marcati per insidiare la morale fascista, sebbene diventino poi oggetto di viva polemica l'uno (Brancati) o addirittura di censura l'altro (Vittorini). In realtà sono soprattutto i personaggi femminili in età da marito e dai tratti più "istituzionali" ad assumere una fisionomia antitetica a quella proposta dal pensiero clerico-fascista, e a candidarsi come degli antimodello non incapaci di persuadere lettrici e lettori. L'esempio più evidente è offerto da Tre operai. Maria, ad esempio, è una donna hollywoodiana a tutti gli effetti. Ebbene questo personaggio cosi estraneo ai dettami fascisti trionfa nella storia: alla fine del romanzo ha un ricco marito, e vive una vita agiata, simile a quella che aveva sognato da ragazza, e che forse sognano tante lettrici del ceto medio. Anna invece è caratterizzata da grande serietà e da un senso etico spiccato, ma nemmeno lei corrisponde alla donna fascista: lavora, si trasferisce da una città all'altra, si accoppia, fa figli, cambia fidanzati. E’ insomma una donna moderna, sebbene più riservata e più tradizionale della sorella Maria. E infatti - si potrebbe dire - viene punita con la sfortuna (la morte del figlio), con la malattia e poi con la morte. Ma senza cedere troppo al moralismo si fa fatica ad accettare la sua sorte, soprattutto se messa in parallelo a quella di Maria: è una reazione calcolata e abilmente suscitata da Bernari. Infatti la fine tragica della ragazza suscita la partecipazione emotiva di chi legge, e in questo modo impone l'eroina come il personaggio più positivo del romanzo (molto più degli uomini): se ne ricava che Anna, l'anticanone del fascismo (donna moderna e indipendente), esce moralmente vincitrice dalla vicenda di Tre operai. All'interno della contraddizione che ella esprime e che è propria del suo tempo (tradizionalismo e modernità), Bernari mette l'accento sull'emancipazione: Anna è sì punita dalla vita, ma viene assolta dai lettori (o almeno dall'autore implicito, ossia dall'ideologia sottostante al testo). Sicché entrambe le sorelle finiscono per trionfare, pur veicolando un'immagine femminile assolutamente inconciliabile con i canoni vigenti. Ma ancora più emblematico è il percorso dell'eroina romanzesca degli anni Trenta per eccellenza, Carla Ardengo. È indubbio che sia vittima di un carnefice spietato che approfitta del suo potere economico, nonché del suo ruolo familiare (è amante della madre), e che ricorre ai mezzi più squallidi (far ubriacare la ragazza) pur di godere del corpo della sua figliastra. Eppure, sebbene vittima e sebbene priva di attrazione nei confronti di quest'uomo troppo anziano, Carla oltre a subire accetta Leo: e anzi guardandolo bene lo giudica al pari di altri, forse anche meglio. Il punto è che Leo è l'unica possibilità che Carla ha per vivere la propria sessualità: farsi avvicinare da altri coetanei (certamente più appetibili) significa consegnarsi ai pettegolezzi e dunque perdere la propria reputazione, indispensabile per un futuro matrimonio e un posto in società. Pertanto rimane solo Leo, che paradossalmente garantisce esperienza e discrezione. Ed è proprio con Leo - senza per questo negare il disprezzo - che Carla si scopre donna, desiderosa anche dei piaceri del corpo. In breve, nei romanzi chiamati in causa (Gli indifferenti, Tre operai, Il garofano rosso, Singolare avventura di viaggio; ma si potrebbero aggiungere molti racconti di Alvaro e di Brancati) la donna appare improvvisamente sessualizzata: dotata di una carica che fa saltare ogni parametro, e manda in frantumi la cupola di vetro entro cui il fascismo vuole racchiuderla. E’ una forma per smarcarsi dal fascismo, che però ha in continuità con il fascismo un elemento: il punto di vista maschile, finisce per essere un oggetto privo di autonomia e destinato all'osservazione da parte dell'uomo. Saranno invece le narratrici a garantire uno sguardo più oggettivo e anche più articolato, capace di denunciare davvero l'oppressione culturale, sociale e fisica che vessa il mondo femminile: la loro rappresentazione della donna sarà una denuncia più aperta e consapevole, che può anche raggiungere livelli di aperto antifascismo, sia pure mescolato ad ancora più urgenti rivendicazioni sociali. 6 CITTA’ E CAMPAGNA: DAL MODERNISMO AL NEOREALISMO 6.1 Città vs campagna: l'Ottocento - L'opposizione città-campagna ha costituito uno degli assi portanti della narrativa italiana moderna: dal Decameron ai promessi sposi. La campagna è il luogo dei diminutivi e dei vezzeggiativi («campicello» e «casuccia»), mentre la città è per sua struttura violenta e minacciosa («città tumultuose»), disordinata e caotica («le case aggiunte alle case»), alienante e claustrofobica. Naturalmente la realtà urbana non è solo a tinte fosche, ma è anche il luogo dell'abbondanza e della ricchezza (i pani si trovano per terra anche in tempo di carestia), e complessivamente della vita agiata. E soprattutto nella seconda parte dell'Ottocento (sia sufficiente uno sguardo al romanzo francese: Éducation sentimentale di Flaubert, Bel ami di Maupassant). La città nel romanzo dell'Ottocento si presenta subito nel suo essere più grande, e dunque più capace di accogliere ed esprimere le contraddizioni della modernità: l'agio e il benessere da un lato, la miseria e l'emarginazione dall'altro. La città nella narrativa del XIX secolo è espressione della modernità. E come tale non può che porsi in alternativa alla campagna, che, sebbene non più (solo) bucolica, trova nella sua ruralità una più confacente dimensione umana. Ciò che qui preme sottolineare è che quello tra città e campagna si presenta come un binomio totalmente oppositivo fino agli anni Novanta dell'Ottocento, costruito su due polarità inconciliabili. Così non può stupire che per fuggire all'ambiente ostile e falso di Trieste (descritta in Una vita come fosse una metropoli) Alfonso Nitti deve tornare dalla madre, ossia al suo villaggio di campagna. 6.4 La campagna degli anni Trenta: tra mito e politica (Vittorini, Alvaro, Silone) - Uno dei punti fermi nella rappresentazione letteraria del mondo rurale è la staticità, che a sua volta deriva da una sostanziale impermeabilità alle conseguenze del processo storico. Insomma la campagna sembrerebbe vivere in un non-tempo (o tempo immobile), in cui le azioni si ripetono identiche da sempre, perché non scosse da alcuna discontinuità; un mondo isolato, dunque, che segue un proprio ciclo: quello naturale, ovviamente. Non stupisce pertanto se nelle narrazioni "rurali" la politica e la lotta sociale non abbiano diritto di cittadinanza. Eppure, proprio in questi anni (gli anni Trenta), in cui la campagna è oggetto di una battaglia ideologica (Strapaese) e ogni elemento della realtà è sottoposto a fascistizzazione, anche le narrazioni incentrate sull'ambiente rurale recuperano precise istanze politiche, e concedono ai propri personaggi se non coscienza civile almeno un'adesione istintiva a istanze di lotta e di rivendicazione. Del resto già i personaggi de Il capofabbrica e del Conservatorio di Santa Teresa registravano il fascismo, e al nuovo potere in ascesa in qualche modo si relazionavano. Ma del mutato paradigma si fa emblematica portavoce soprattutto un'opera che ha segnato una generazione: Conversazione in Sicilia (1941) di Vittorini. Il romanzo rompeva con la tradizione più schiettamente naturalistica, che aveva caratterizzato la rappresentazione della campagna, e virava, senza perdere il suo statuto realistico, verso soluzioni apertamente liriche, ancestrali, mitiche. Il viaggio che il protagonista compie in Sicilia, dove deve incontrare la madre, è costellato di personaggi che si ergono a forme eterne dell'umanità (il Gran Lombardo, il sellaio Ezechiele, l'arrotino Calogero, ecc.). E l'arrivo in Sicilia coincide con il recupero di una civiltà contadina remota e primigenia (rappresentata anche dalla madre ovviamente), che non si lascia intaccare dai mutamenti storici. In questo senso Conversazione in Sicilia sigla un compromesso al rialzo, in cui l'immobilità della campagna (comune a tanta precedente letteratura) non paga dazio a forme di crudo realismo, ma assurge piuttosto a mito. Eppure, proprio in questo mondo quasi astratto, la storia si ricava un suo posto privilegiato: il male storico, già annunciato dall'arrotino Calogero esplode nel finale quando il protagonista incontra il fratello Liborio, morto un mese prima nella Guerra civile spagnola. L'evento che ha svelato alla gioventù formatasi pienamente sotto il regime la menzogna del fascismo, e ha determinato per molti il definitivo allontanamento da Mussolini (tra questi Vittorini, ma anche Bilenchi), si impone nelle pagine finali, divenendo tema cardine: quello verso cui tutta la narrazione era tesa. Ed è il punto di appoggio di tutte le interpretazioni che leggono, a ragione, il romanzo in chiave antifascista. E dichiaratamente antifascista - tanto da dover essere pubblicato a Zurigo - è Fontamara (1930) di Silone. Anche qui il mondo rurale è immobile, chiuso, statico. Si tratta della stessa immobilità che caratterizza Gente in Aspromonte (1930) di Alvaro. Ora questa estraneità al mondo rimette in circolo quella dualità città-campagna che abbiamo già detto essere caratteristica. Ma in questi testi l'opposizione è talmente forte, da dare vita all'istituzione di due razze diverse che non possono comunicare tra loro: «un cittadino e un cafone difficilmente possono capirsi». Sicché quella che è naturale invidia per la vita agiata di città - un topos che lega il giovane 'Ntoni al padre di Antonello in Gente in Aspromonte - sfocia in rivolta e desiderio di riscatto. Tuttavia, per quanto concerne questo aspetto sociale, tra Silone e Alvaro corre una differenza. Gente in Aspromonte infatti si schiaccia su un topos ribellistico già sfruttato dalla narrativa rurale di inizio secolo: se si rileggono La morte del duca d'Ofena di d'Annunzio e I butteri di Maccarese di Tozzi si rintracciano ribellioni contro i potenti mosse dalla rabbia, ma in fondo prive di agganci alla storia ufficiale e agli eventi in corso. Fontamara invece, (si pensi alla protesta ribelle delle donne, che ha una chiara fonte ne I Malavoglia di Verga), compie un passo ulteriore. Le ultime pagine infatti, benché raccontino personaggi privi di qualsiasi coscienza di classe, mettono in scena fascisti, «cafoni» col mito socialista (e l'involontario riferimento a Che fare? di Lenin), e una lotta che non può essere dislocata in qualsiasi altro tempo o luogo. Insomma in quel mondo immobile che è la campagna, al pari di quanto registrato in Conversazione in Sicilia, la storia riesce finalmente a entrare; e lo fa naturalmente con il suo lato più violento e oppressivo. Nel caso di Fontamara poi, a voler sovvertire quel postulato che vuole la storia raccontata sempre con il sangue dei vinti, il punto di vista e la voce narrante sono quelle degli oppressi e degli sfruttati (i due coniugi scampati al massacro e il loro figlio). In ogni caso, Silone, Vittorini e parzialmente Alvaro dimostrano non che la contrapposizione città-campagna viene meno, ma che deve essere diversamente articolata. E uno dei loro ponti è offerto dalla storia e dalla realtà sociale. 6.5 La città negli anni Trenta: moderna, difficile, corrotta - Il primo dato che colpisce nella narrativa degli anni Trenta è la sostanziale assenza delle masse, caratteristiche invece dell'immaginario collettivo, e sempre fotografate in romanzi e racconti di epoche precedenti (Éducation sentimentale, I promessi sposi, Per le vie, ecc.). Del resto la stagione modernista non era passata invano, e aveva lasciato una tensione verso lo scandaglio del soggetto e verso le sue psichiche contraddizioni. Pertanto è abbastanza normale che gli autori si siano concentrati più sull'individuo che non sulle scene corali, anche quando era loro obiettivo quello di offrire un'immagine dell'ambiente cittadino che non è affatto omogenea e unitaria. Certamente rimane in alcuni narratori l'idea della città moderna, sebbene spesso collocata altrove. È il caso di America primo amore (1935), in cui Soldati non si esime dall'esaltare l'avanguardia (e, precedendo Calvino, la geometria) degli agglomerati urbani statunitensi (New York, Chicago, Washington), senza per questo sorvolare sulla diffusa miseria e povertà. Le contraddizioni evidenziate da Soldati riportano subito all'altro aspetto molto più frequentato dai romanzieri di questo primo periodo: quello della città difficile, che naturalmente si riallaccia alla raffigurazione delle classi popolari. Tre operai (1934) di Bernari assume come modello di riferimento Alexanderplatz di Döblin, al pari di quanto avviene per altri "romanzi metropolitani" italiani dell'epoca: si pensi ad esempio a Quartiere Vittoria (1936) di Ugo Dèttore. I personaggi di Tre operai sono costantemente sfruttati e si scontrano con una realtà, quella urbana, che obbliga ad essere più avvertiti se non addirittura cinici. E a uscire sconfitti dal romanzo non sono solo i protagonisti maschili, Teodoro e Marco, più propensi a lasciarsi andare e a farsi prendere dagli eventi (come Renzo a Milano), ma anche quelli femminili, Anna su tutti, che mostrano maggiore capacità di reagire e di costruire la vita: già al suo arrivo a Roma, infatti, la ragazza apprende che impegno, precisione e dedizione al lavoro non bastano per riuscire ad avere una condizione economica dignitosa e una vita tranquilla. Ma la sconfitta del personaggio femminile può assumere anche le forme dell'inevitabile e tragica perdizione: un traviamento imposto dall'ambiente cittadino, ostile e spietato suo malgrado. Mi riferisco a Erica e i suoi fratelli (1936) di Vittorini. La quattordicenne protagonista viene abbandonata dalla madre, corsa ad accudire il marito malato, a sua volta emigrato «lontano nelle montagne», a seguito del licenziamento in tronco da una fabbrica milanese. Rimasta sola, la ragazza si prende cura dei suoi fratelli con un'efficienza straordinaria e una spensierata allegria, anche perché convinta che la madre sarebbe tornata non troppo tardi. Tuttavia dopo non molto le riserve lasciatele scarseggiano, i furti ai suoi danni si intensificano, e soprattutto attorno a lei serpeggia un costante timore: quella di doversi prendere cura della ragazza e dei suoi fratelli. Ed è uno scatto d'orgoglio e una profonda etica del lavoro che aprono a Erica le strade della prostituzione: l'unica via per continuare ad accudire i suoi piccoli. In questo modo la città mostra il suo lato più duro - città difficile appunto - che vince e schiaccia i suoi abitanti, indipendentemente dagli sforzi che questi compiono. Non molto più edificante è però l'immagine che emerge quando ad essere in primo piano sono i ceti borghesi e alto borghesi. Roma ricostruita ne Gli indifferenti, nel 1929 quando era l'emblema dell'urbe fascista, è una città corrotta da un punto di vista morale ed etico. Nessuno dei cinque personaggi infatti si mostra capace di uscire dalle lusinghe mortifere del salotto di casa e degli ambienti formali della capitale. E ancor più del finale, in cui com'è noto Carla e Maria Grazia vanno a un ballo in maschera, è la riscrittura dell'"addio ai monti" di Manzoni a dare il senso della città e della sua popolazione. L'addio di Carla al suo mondo viene pronunciato poco prima dell'amplesso con Leo, e in realtà più che segnare il definitivo distacco si rovescerà in una più piena adesione al mondo borghese. E negli ambienti privati si trovano inevitabilmente i singoli, e non certo le masse: è naturale pertanto che l'espressione della città in un testo come Gli indifferenti sia delegata ai personaggi e alle loro vicende. Sono Leo, Carla, Michele, Maria Grazia e Lisa a dare volto alla corruzione morale di Roma, che Moravia intende ostinatamente raffigurare. E del resto lo stesso procedimento che si registra con i personaggi brancatiani in Singolare avventura di viaggio (1934), i quali infatti riescono a tratteggiare l'anima profonda di Roma con il semplice loro agire. In ogni caso, mentre nel finale descrive il rientro improvviso a Roma del suo eroe, il narratore ne svela tutta la pochezza; una pochezza che è la stessa di una città ormai priva di qualsiasi baricentro morale. La città sul finire degli anni Quaranta finisce per perdere il suo primato nei confronti della campagna: non è più il luogo in cui, a fronte di mille contraddizioni, si registrava un più alto stadio di modernità, e dunque di capacità gestionali, intellettuali, operative. Nel 1941, in Paesi tuoi, Pavese fa incontrare il contadino Talino e il cittadino Berto. Ebbene, tra i due, il più scaltro, benché profondamente alterato da un punto di vista psichico, sembra essere il primo, che trascina il compagno di galera a casa, nelle Langhe (abbandonando quindi la città), e poi in qualche modo lo gestisce continuamente. E l'inizio, molto remoto, di una mutazione antropologica. La cultura contadina, che pur sopravvive in Pavese, è ormai contaminata dalla scaltrezza cittadina, al punto che è il meccanico Berto che deve andare nelle Langhe, per poi dover ammettere la propria incapacità a reggere. Infatti, dopo la morte della sua donna, Gisella, uccisa proprio da Talino, il personaggio decide di tornare in città. Ma ormai Torino, come le altre città letterarie di questo periodo, non ha più così tanto da insegnare alla campagna.
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