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Maurice Bloch, Da preda a cacciatore. La politica dell’esperienza religiosa, Sintesi del corso di Antropologia

Riassunto dettagliato "Da preda a cacciatore. La politica dell’esperienza religiosa" di Bloch

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 28/02/2021

wittgen
wittgen 🇮🇹

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Scarica Maurice Bloch, Da preda a cacciatore. La politica dell’esperienza religiosa e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia solo su Docsity! Maurice Bloch, Da preda a cacciatore. La politica dell’esperienza religiosa INTRODUZIONE Questo libro è lo sviluppo di un’idea già accennata in un precedente lavoro più specifico, From Blessing to Violence (Bloch, 1986), che dimostrava che, mentre alcuni aspetti del rituale si adattavano funzionalmente al mutare delle circostanze politico-economiche, altri rimanevano immutati nel tempo. Nella misura in cui quella forma essenziale del processo rituale permaneva inalterata al variare del contesto, essa costituiva un problema per le teorie che intendono spiegare i fenomeni in termini di adattamento ad altri aspetti della cultura e della società. L’unica spiegazione possibile era che quella forma dipendesse da fattori irriducibili alle specifiche circostanze storiche in cui aveva luogo l’esecuzione del rituale. Questo saggio vuole indagare la natura di quel nucleo irriducibile del processo rituale. La struttura di base del rituale merina mi sembra presente in una vasta gamma di fenomeni religiosi. La ricerca parte dalla circoncisione dei Merina ma non tutti gli esempi si riferiscono a rituali dello stesso tipo. Quello può essere infatti descritto come iniziazione, ma gli altri no. Termini come “sacrificio”, “possessione” e “iniziazione” hanno una validità molto limitata nell’antropologia religiosa. Queste definizioni sono sempre radicate in una specifica tradizione culturale, sia essa quella dell’autore o del popolo di cui egli scrive, e si rivelano quindi inadatte all’analisi transculturale. Possono essere usate provvisoriamente, come coordinate di riferimento, ma diventano arbitrarie se si vogliono tentare interpretazioni teoriche generali. Quello che si tenta di proporre è un quadro teorico di riferimento più generale. Le mie intenzioni vicine a voler descrivere l’essenza di una particolare classe di fenomeni. Le strutture minime a cui l’autore si riferisce sono considerate il prodotto di caratteristiche generali degli esseri umani. La semiuniversalità delle strutture religiose minime deriva dal fatto che la maggioranza delle società rappresenta la vita umana all’interno di un framework permanente che trascende i naturali processi trasformativi della nascita, crescita, riproduzione, invecchiamento e morte. Secondo Bloch è la quasi universalità di questo costrutto a motivare la ricorrenza dello stesso modello strutturale nei rituali e in altre rappresentazioni religiose in epoche e luoghi differenti. In definitiva il suo intento è stabilire una connessione tra costruzione religiosa e limiti umani universali. Queste strutture irriducibili dei fenomeni religiosi sono rappresentazioni rituali dell’esistenza degli esseri umani nel tempo. La rappresentazione rituale è infatti una semplice trasfigurazione dei processi materiali nella vita delle piante e degli animali, come anche degli esseri umani. Tale conversione avviene in un idioma che ha due caratteristiche distintive: 1) si realizza attraverso un classico processo dialettico in tre fasi, e 2) comprende uno spiccato elemento di violenza o di conquista. Questo processo si chiama “violenza di ritorno”, rebounding violence. In tutte le culture la nascita può essere intesa come l’inizio di un processo di crescita potenzialmente capace di ingenerare un’ulteriore riproduzione. Lo stadio riproduttivo è a sua volta considerato la premessa di un periodo di graduale decadenza che conduce alla morte. Tale processo è ritenuto comune a tutte le specie viventi. La dialettica trasformata delle varie specie è inoltre considerata interdipendente perché una specie fornisce nutrimento ad un’altra. La rappresentazione della vita nei rituali comincia con una completa inversione di questa percezione abituale, nel senso che è un’“altra” vita, descritta come “oltre”, “invisibile”, collocata “nel cielo” o “sottoterra” oppure “su un monte dove non va nessuno”. In queste rappresentazioni rituali sono l’invecchiamento e la morte a condurre una piena esistenza. Ad es l’iniziazione spesso prende avvio con una simbolica uccisione degli iniziati, che nega la loro nascita e i primi anni di vita. Il significato sociale e politico di tale passaggio consiste nell’idea che entrando in un mondo che è oltre il processo vitale si possa, attraverso il viaggio di ritorno, diventare parte di un’entità al di là di quel processo, perciò membri di una discendenza. Pertanto, lasciando questa vita sarebbe possibile vedere se stessi come parte di qualcosa di esterno, e quindi trascendente alla vita stessa. La ragione per cui il movimento verso l’aldilà è politicamente inadeguato è semplicemente che se si lascia questa vita la si lascia, e quindi la totalità costruita perde qualsiasi importanza per il qui e ora. Se ad es. nel caso dell’iniziazione il risultato rituale fosse che gli iniziati diventano perte di un’entità permanente nell’altro mondo, questa entità sarebbe priva di rilevanza politica (perché non sarebbe in questo mondo). La prima parte del rituale implica una dicotomizzazione (netta separazione in due parti) dell’esperienza soggettiva tra un versante iperterreno e un versante trascendentale. Quindi, il trascendentale prende il sopravvento sul terreno in modo che la persona diventi, per un certo periodo, totalmente trascendentale. Questa vittoria di una parte della persona sull’altra è ciò che richiede il primo elemento di violenza nei rituali. Questa violenza è solo una premessa della violenza successiva, che comprende il trionfale recupero esperienziale della vitalità nella persona da parte dell’elemento trascendentale. Tuttavia, la vita recuperate è dominata dalla trascendenza. A differenza della vitalità originaria del primo stadio, che doveva essere estirpata, la vitalità reintrodotta nel secondo stadio è tratta da sorgenti esterne ed è consumata come cibo dal soggetto trascendente, spesso letteralmente. Questa seconda violenza può essere quindi considerata una conseguenza della prima, ed è l’eliminazione della vitalità ordinaria a invocare la sua sostituzione con una vitalità nuova, rubata. L’intero processo rituale può essere considerato come la costruzione di una forma di violenza di ritorno. Questo movimento di conquista e consumo fondamentale perché permette di spiegare le conseguenze politiche dell’agire religioso! Anzitutto esso deve essere violento, altrimenti non riuscirebbe a dimostrare la subordinazione del principio vitale. Inoltre, è direttamente rivolto ad altre specie. Ci saranno esempi di come il consumo di animali possa essere considerato una semplice premessa alla violenza espansionistica contro le popolazioni vicine. Questo lavoro intende dimostrare che nella struttura centrale del rituale così definita - la sequenza che porta alla violenza di ritorno - è racchiusa una spiegazione del simbolismo della violenza presente in molto fenomeni religiosi. Qui risiede anche la spiegazione della nota propensione della religione a dotare società anche molto diverse di un idioma della violenza espansionistica che diventa, in determinate circostanze, una legittimazione della violenza reale. L’autore non assume alcuna propensione innata alla violenza, ma sostiene che la violenza stessa è un risultato del tentativo di creare la trascendenza in religione e in politica. 1. INIZIAZIONE Orokaiva, Papua Nuova Guinea (Oceania). Gli orokaiva praticano quella che vene definita nella letteratura antropologica come “iniziazione”, perché è considerata un passaggio fondamentale per iniziare, o continuare, la propria vita come una persona pienamente morale. Al momento stabilito per il rituale, il villaggio viene invaso da parte di persone nascoste nei boschi circostanti. Questi indossano maschere con piume di uccello e zanne di maiale. Imitano i versi degli uccelli. Questi invasori rappresentano gli spirito ancestrali dei morti del villaggio e danno violentemente la caccia ai bambini da iniziare. C’è un’analogia con la caccia al maiale, perché rincorrono i bambini spingendoli su una piattaforma che ricorda quella dove vengono uccisi proprio i maiali. Anche se la morte dei bambini dovrebbe essere teorica, capita che il rituale possa portare alla morte reale di questi ultimi. Gli adulti, accettando che i propri figli vengano iniziati e prendendo parte al processo, si sottomettono consapevolmente ad un attacco rivolto ai propri figli e dunque per estensione contro loro stessi. Tale collaborazione con un attacco esterno che spesso implica un’idea di penetrazione è un elemento essenziale dei modelli rituali in esame. Dopo essere stati condotti sulla piattaforma i bambini vengono bendati e condotti in una capanna isolata nel bosco, fuori dal villaggio, dove vengono tenuti in isolamento senza la possibilità di mangiare, parlare, lavarsi e guardare fuori. Proprio durante questo isolamento spesso sopraggiunge la morte reale dei bambini. Nella capanna viene detto loro che sono diventati spiriti dei morti. La trasformazione in spiriti è infatti ciò che gli orokaiva credono avvenga dopo la morte, e i bambini hanno attraversato un processo che mima appunto la loro “morte”. Come i malai essi sono stati “uccisi”, sulla stessa piattaforma e come i morti hanno perduto la propria vista e la propria parola, cose di cui sono stati privati nella capanna. Sempre nella capanna vengono sottoposti a diverse prove e apprendono dei segreti: vengono loro mostrate le maschere che potranno indossare. Infatti ora gli iniziati sono considerati morti e quindi spiriti. Imparano a suonare flauti che sono le voci degli spiriti, e le loro danze. Quindi, dal momento dell’iniziazione fino alla loro morte, gli orokaiva rimarranno parzialmente spiriti. Questa trasformazione si manifesterà nel diritto di indossare le maschere degli spiriti, di far sentire la voce di questi ultimi attraverso i flauti, di rappresentare gli spiriti nel corso di rituali come quello dell’iniziazione. Dopo l’isolamento nella capanna tornano al villaggio molto trasformati. Elemento essenziale di questa trasformazione è il loro rapporto con i maiali. Tornano infatti non più come prede ma come cacciatori di maiali, quindi da vittime sono diventati assassini di altri “bambini” che sono in realtà i maiali. Quindi si verifica una caccia al maiale. La rappresentazione simbolica degli iniziati come cacciatori-guerrieri è enfatizzata dalla danza trionfale che essi eseguono tornando al villaggio e dal fatto che salgono su una piattaforma simile a quella su cui erano stati condotti i qualità di maiali vittime della caccia, dalla quale adesso distribuiscono la carne dei maiali uccisi. Ciò che Bloch vuole dimostrare è che il sacrificio, la possessione spiritica, i rituali di fertilità e i funerali contengono lo stesso nucleo di trasformazione da prede in cacciatori dell’iniziazione, e che tale modello è presente anche nelle cerimonie di stato, in alcuni aspetti della politica, come anche nelle idee alla base delle regole su incesto ed esogamia (riproduzione tra soggetti di tribù diverse). costituisce un umiliante ritorno allo stadio originario precedente il rituale, ma piuttosto è un trionfale progresso. Gli adulti nell’iniziare i propri figli hanno permesso che questi venissero uccisi, consumati e conquistati dagli spiriti proprio come essi stessi erano stati a loro volta uccisi e consumati nel corso della propria iniziazione. Tutti gli abitanti del villaggio accompagnano i bambini nel loro viaggio verso il bosco, e tutti si identificano con i bambini quando questi fanno ritorno come cacciatori. Tutti sono quindi conquistati e conquistatori, Benché nell’iniziale scena di caccia gli adulti del villaggio siano associati agli spiriti invasori, pure una parte di loro viene inseguita intorno al villaggio, poiché sono i loro figli, una parte di loro, ad essere cacciati. Il costume ha innanzitutto il sembiante di un uccello, ma contiene anche caratteristiche del maiale, tipo le zanne che ne simboleggiano la forza. Diversamente dalle piume che sarebbero cresciute addosso ai danzatori mascherati, gli elementi propri del maiale sono considerati parte dei maiali catturati e uccisi. La caccia al maiale cui gli iniziati prendono parte dopo il periodo di isolamento non è l’unico atto aggressivo imposto ai bambini al momento del ritorno. Dopo le fasi conclusive, agli iniziati maschi viene offerta una decorazione, l’otohu, l’emblema omicida. La caccia al maiale che chiude il rituale diventa una guerra simbolica contro gli estranei. Il modo in cui l’otohu viene consegnato è significativo: è offerto da un anziano che sia stato a suo tempo un noto guerriero. Prima di consegnarlo egli recita ai bambini il nome delle sue passate vittime, incoraggiandoli a diventare anche loro guerrieri. La caccia al maiale si rivela quindi essere il primo passo di una caccia sempre più estesa ai danni di vicini e nemici. Quando la situazione è propizia e i vicini sono deboli, questa retorica omicida segnala l’inizio di concrete spedizioni militari. Il ruolo dei maiali nella caccia degli iniziati e quello dei nemici uccisi sono intercambiabili, e non è un caso che gli Orokaiva usino la stessa parola per indicare l’uccisione dei maiali o di esseri umani, e di nessun altro essere vivente. I maiali sono in parte una metafora della vitalità esterna che deve essere conquistata e consumata. L’atto finale del consumo è fisicamente reale, è diretto verso il mondo esterno e spesso assume la forma di un’invasione di quel mondo. Con la chiusura del rituale in una rappresentazione di violenza simbolica che rischia di trasformarsi in ostilità reale abbiamo la sequenza completa della violenza di ritorno. Il punto di partenza è stata la rappresentazione rituale di una scissione della persona in due elementi, di cui uno consuma l’altro. Questa sembra una chiara soluzione al problema che molte società sono chiamate a risolvere: in che modo gli umani possano essere gli elementi costitutivi di strutture istituzionali permanenti. A tal fine essi devono apparire immortali e immutabili, e quindi in qualche modo non umani. Allo stesso tempo devono essere realmente vivi. La riproduzione biologica e sociale dipende dalla creazione di una catena di individui che nascono, crescono e muoiono, e in cui i giovani prendono il posto degli anziani. In definitiva, il senso della vita è che il giovane conquista il vecchio e consuma il suo prodotto. In contrasto con tale rappresentazione un rituale come l’iniziazione orokaiva rovescia completamente il segno della realtà. Nella prima parte la continuità sembra essere raggiunta attraverso la morte che sostituisce la vita. Nella seconda parte il giovane torna, ma questo non costituisce un rovesciamento della prima parte, poiché da questo momento gli iniziati rappresentano i morti e si trovano sotto la guida degli antenati. Il ritorno degli iniziati come mera prosecuzione di quanto accaduto in precedenza. Questi giovani antenati recuperano la propria vitalità, ma questo non costituisce un rovesciamento, poiché la vitalità recuperata manca di autonomia e proviene dall’esterno. La presenza di altri esseri che, a differenza degli iniziati, possono essere conquistati una volta per tutte assicura il coronamento dell’immagine della morte che si impossessa della vita attraverso l’esternalizzazione di una serie di conquiste. La presenza di una specie aliena, i maiali, è fondamentale per la costruzione di istituzioni umane che trascendano il ciclo di vita. Essi assicurano che la vitalità possa essere abbandonata e riacquistata senza alcuna contraddizione, poi a differenza degli iniziati i maiali in quanto vittime assolute non sono in grado di conquistare a loro volta, e assicurano che la direzione della conquista non possa dunque essere invertita. Abbandono del villaggio per il bosco, dove si conduce un’esistenza alternativa e speculare. Qui la nascita e la crescita sono solo gli scarti senza valore di una vita vissuta grazie alla morte. Nel mondo del rituale, l’esistenza è letteralmente trascendente. Si tratta di un mondo dall’altra parte. Inevitabilmente però questo mondo può essere abitato dai viventi solo per qualche tempo poiché non è possibile senza morire davvero. Questo vuol dire che l’esistenza nel villaggio, dove il giovane prende il posto del vecchio, e l’esistenza nel bosco, dove il vecchio prende il posto del giovane, devono combinarsi. Questo dualismo ha a sua volta due aspetti. In termini di eventi esterni, tale combinazione è assicurata dall’alternarsi di periodi rituali e periodo di vita ordinaria. Gli esseri umani sono rappresentati in parte come maiali e in parte come spiriti. Il primo elemento (maiale) è tratto dal processo in cui il giovane sostituisce il vecchio, e il secondo (spirito) dal processo opposto in cui il vecchio sostituisce il giovane. Non dobbiamo ovviamente pensare che abbia una rilevanza psicologica nella vita quotidiana, ma nei rituali dove la contraddizione prende forma, essa si manifesta nelle decorazioni delle maschere che combinano caratteristiche di maiali e di uccelli. Il parallelo tra la relazione interna preda-cacciatore e la rappresentazione esterna che conferisce al rituale il suo potere. Complessa analogia interno/esterno. La combinazione in un unico corso e in una sola comunità dei due modi opposti di esistenza. L’idea che gli Orokaiva concepiscano la persona come in parte maiale e in parte spirito rischia di essere fuorviante. Suggerisce una combinazione statica, mentre ciò che abbiamo di fronte è la combinazione di due processi. Un processo è scandito dalla nascita, dalla maturazione, attività produttiva, rappresentato dai maiali; l’altro è alimentato dalla morte e dalla conquista, nella misura in cui consuma continuamente la crescita del primo elemento. Questa rappresentazione del consumo ininterrotto dell’elemento vitale da parte del trascendentale è il modo in cui lo spirito può apparire permanente all’interno di una comunità vivente in continua trasformazione, e in cui le istituzioni sociali, costituite da persone trascendentali, possono apparire presenti e vive. Il processo: la persona è rappresentata come simbolicamente duale, con un versante caotico e vitale e l’altro superiore e trascendentale. Le due parti vengono messe in movimento l’una contro l’atra in modo che l’una sparisca. Tale creazione è evidentemente necessaria per qualunque sistema sociale che poggi sull’illusione di una struttura istituzionale trascendente rispetto ai singoli individui. Perché la costruzione della violenza funzioni è necessaria una duplice violenza: “violenza di ritorno”. C’è la violenza dell’espulsione dell’elemento vitale originario, e la successiva violenza per il consumo della vitalità esterna. Questi diversi aspetti della violenza si implicano necessariamente a vicenda. A causa del parallelismo tra processi interni e rappresentazione esterna del rituale, anche questa violenza di trionfo ha due aspetti, uno interno alla persona e invisibile e l’altro esterno e chiaramente visibile. Bloch sostiene che il sistema rituale, lungi dall’essere una totalità organizzatrice, abbia senso e potere solo in quanto si basa su una concezione della riproduzione che ha origine all’esterno del processo rituale. Quindi le immagini rituali sono costruite sulla negazione di questa visione. Cioè ciò che il rituale crea non è altro che un’interpretazione paradossale di processi, come la nascita, l’invecchiamento e la morte: è la percezione pratica di questi processi naturali la vera fonte del significato, e non il sistema rituale. I rituali devono necessariamente avere come punto di inizio un’esperienza non rituale! 2. SACRIFICIO I fenomeni definiti come totemismo e sacrificio non sono così eterogenei da impedire l’utilizzo di queste parole come indicatori generali di manifestazioni correlate. Queste manifestazioni sono così poco collegate che sarebbe del tutto inutile cercare una spiegazione del sacrificio unica. Piuttosto dovremmo considerare i cosiddetti sacrifici come casi particolari tra le infinite manifestazioni di una gamma molto più ampia di fenomeni. Sono due gli esempi di sacrificio che ricorrono più frequentemente nell’immensa letteratura non antropologica: il sacrificio degli antichi Greci e quello biblico. Per gli antichi Greci qualunque consumo di carne costituiva un sacrificio. I Greci non uccidevano mai animali domestici per nutrirsi se non a fini sacrificali. Legame indissolubile quindi tra religione e consumo. Le implicazioni politiche e militare di tale legame sono ugualmente presenti in tutti questi casi. Per i Greci i sacrifici erano necessari prima di avviare qualunque procedimento giuridico o di intraprendere qualunque importante atto governativo, giacché avrebbero conferito all’esecutore potere e saggezza. Soprattutto, i sacrifici erano essenziali prima di qualunque impresa militare, poiché si riteneva che l’esecuzione del rituale avesse il potere di conferire vigore. I fenomeni definiti come “totemismo” e “sacrificio” non sono così eterogenei da impedire l’utilizzo di queste parole come indicatori generali di manifestazioni correlate. D’altra parte queste manifestazioni sono così poco collegate che sarebbe del tutto inutile cercare una spiegazione del sacrificio che sia unica. Piuttosto dovremmo considerare i “sacrifici” come casi particolari tra le infinite manifestazioni di una gamma molto più ampia di fenomeni. Sono due gli esempi di sacrificio che ricorrono più frequentemente nell’immensa letteratura non antropologica: il sacrificio degli antichi Greci e quello biblico. Per gli antichi Greci qualunque consumo di carne costituiva un sacrificio. I Greci non uccidevano mai animali domestici per nutrirsi, se non a fini sacrificali. Legame quindi indissolubile tra religione e consumo. Le implicazioni politiche e militari di tale legame sono ugualmente presenti in tutti questi casi. Per i Greci i sacrifici erano necessari prima di avviare qualunque procedimento giuridico o di intraprendere qualunque importante atto governativo, perché avrebbero conferito all’esecutore potere e saggezza. Soprattutto, i sacrifici erano essenziali prima di qualunque impresa militare, poiché si riteneva che l’esecuzione del rituale avesse il potere di conferire vigore. 1) Ifigenia: i Greci erano pronti a spiegare le vele alla volta di Troia quando i loro propositi bellici furono vanificati dalla mancanza di vento. Questo fatto è inteso dalle fonti come una punizione inflitta dalla dea Artemide per un’offesa. La soluzione suggerita dagli oracoli era che Agamennone, capo della spedizione, sacrificasse sua figlia Ifigenia. Ma proprio all’ultimo momento Ifigenia fu sostituita da una cerva, fu divisa in parti uguali, alcune delle quali vennero bruciate per nutrire con il loro odore gli dei disincarnai, mentre altre furono arrostite per essere consumate dagli umani. In tal modo i fortificati Greci trovarono il vento a favore e poterono infine uccidere i Troiani, stuprare le loro donne e bruciare la città.
 I bambini erano un’estensione dei padri. Accettando di praticare il sacrificio, Agamennone stava collaborando con l’attacco divino diretto contro di lui. Il primo elemento della sequenza di violenza sacrificale è quindi la violenza parzialmente autoinflitta del protagonista principale. Ma poi la violenza cambia direzione e da vittima Agamennone diventa aggressore. Mangia infatti la carne dell’animale sacrificale. Il processo giunge a compimento quando i Troiani e la loro città vengono consumati dal fuoco. Da conquistato, Agamennone è diventato conquistatore. 2) Abramo e Isacco: nella Genesi Dio ordinò ad Abramo di offrire in sacrificio il figlio invece della consueta pecora. Tuttavia all’ultimo momento Dio mise un montone al posto di Isacco. In cambio dell’obbedienza di Abramo, Dio gli fece una promessa: “la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici”. Le analogie tra la storia di Ifigenia e quella di Isacco sono notevoli. Il legame tra questi due e la pratica dell’iniziazione orokaiva è che in tutti e tre i casi troviamo gli stessi elementi: 1. è evocata una terribile vicinanza alla morte da parte dei viventi; 2. in tutti e tre i casi sono i bambini a rischiare di morire, e cioè i membri della società che hanno una vita davanti a sé e possono garantire la continuità del gruppo; 3. in tutti e tre i casi un animale prende all’ultimo momento il posto del bambino. Questo significa che la vitalità reale della vittima viene preservata nell’esaudimento dell’originaria promessa a Dio, agli dei o agli antenati, poiché questi a causa della loro natura incorporea si accontentano di ricevere la componente immateriale dell’animale; 4. la parte sostanziale della vittima, cioè la sua potenziale vitalità, è ricevuta in forma di carne da parte dei partecipanti umani, che così sostituiscono e reintegrano la vitalità perduta nell’iniziale atto di abnegazione; 5. questo consumo permette all’intera comunità di riguadagnare energia per rivolgere la propria forza all’esterno, in forma di aggressione militare contro le altre popolazioni e i loro bambini. Il movimento di andata e ritorno della vitalità hanno costituito il fondamento della teoria “comunicativa” del sacrificio proposta da Hubert e Mauss nel 1899. Quest’ultima teoria ha sostituito una precedente interpretazione del sacrificio che lo considerava un modo per ingraziarsi gli dei attraverso il dono. Secondo Hubert e Mauss il sacrificio consiste in un movimento verso il divino, attraverso la morte della vittima, e quindi in un ritorno al profano. Esso può avere luogo per due ragioni. La comunicazione stabilita attraverso il sacrificio può servire a entrare momentaneamente in contatto con il divino per farsi perdonare o ottenere benefici: “riti di sacralizzazione”. Oppure la comunicazione stabilita ha l’obiettivo di porre fine ai contatti indesiderati con il soprannaturale: “riti di desacralizzazione”. In entrambi i casi il sacrificio mira anzitutto all’attraversamento del confine tra il sacro e il profano. Critica a questa teoria: Herbert e Mauss sarebbero stati indebitamente influenzati dalla preminenza attribuita al sacrificio vedico e all’interpretazione del sacrificio nella tradizione giudaico-cristiana. Ciò li avrebbe portati a presumere che quelli che sono in realtà modelli piuttosto specifici potrebbero essere usati per costruire una teoria universale. Ma questa teoria è en lontana dall’essere universale, e in particolare non si applica assolutamente all’Africa. Hanno cercato di fare del sacrificio l’elemento chiave della loro definizione di religione, e hanno considerato le idee cristiane sul sacrificio come la piena realizzazione di forme inferiori. L’importanza del dono nel sacrificio non necessariamente in contrasto con l’idea dell’autoidentificazione con la vittima. Come i doni possano costituire in moltissime società una forma di dono del sé. L’aspetto del consumo e del sacrificio di sé sono entrambi presenti nella maggior parte dei casi di sacrificio, ed è la combinazione di questi due lenenti ad assumere significato. Questa combinazione ci permette di dimostrare la relazione del sacrificio con l’iniziazione, e di sostenere che l’immolazione simbolica del quasi-sé nella prima parte del sacrificio e gli aspetti politici, militari e culinari della seconda parte si implicano a vicenda. desideri asociali e individualistici, come il desiderio di cibo e gratificazioni sessuali. Questi sono normalmente controllati dal terzo elemento cioè dalla mente, la quale si sviluppa con l’età adulta, poi si indebolisce nella vecchiaia e infine scompare con la morte dell’individuo. Si manifesta nell’autocontrollo della persona e nel suo atteggiamento socialmente partecipativo. La facoltà linguistica è un’espressione della mente. In questo i Buid si rivelano vicini ai Dinka e le idee dei Buid circa la relazione tra uomini e maiali. Per i Buid gli animali condividono con gli uomini il corpo e l’anima, che sono entrambi guidati dai desideri. Ma è la capacità di controllo esercitata dalla mente, e quindi il linguaggio, a differenziare gli esseri umani dagli animali. L’aspetto negativo dell’animalità è tuttavia bilanciato da un aspetto positivo, vale a dire la sua vitalità. Dal momento che i loro corpi e le loro anime non sono sottoposti al controllo della mente, la vitalità degli animali è in qualche modo superiore a quella degli umani. Forte inquietudine per la possibile mancanza di differenziazione tra gli esseri umani e gli animali, in particolare i maiali. Infatti i maiali sono molto vicini agli esseri umani, dato che sono addomesticati e vivono sotto le case. I Buid sembrano pensare che se non fosse per il controllo della mente gli esseri umani sarebbero come maiali. Questa parziale identità con i maiali significa che se gli esseri umani non fossero sottoposti al controllo della mente essi diventerebbero il nutrimento naturale di esseri superiori. Quanto sia concreta questa preoccupazione emerge nel contesto dei funerali, dove si ritiene che i morti, avendo perso la protezione della mente ed essendo perciò divenuti come maiali, possano diventare potenziali prede degli spiriti. I Buid dicono che essi sono i maiali degli “spiriti”. Il modo in cui la mente offre protezione dagli spiriti divoratori emerge nel rituale di possessione spiritica, fulcro della religione buid. L’invocazione dei familiari è molto comune, tipo tutte le notti. Il richiamo dei familiari attraverso il canto permette alla mente di volare, superando l’insediamento. La ragione di questi atti di possessione è proteggere la comunità dai vari spiriti maligni che cercano di attaccare le anime dei suoi membri per consumare i corpi dopo la morte. Come negli es. di prima, questo abbandono della vitalità ricorda quanto avviene dopo la morte: i Buid credono che dopo il trapasso la mente raggiunga un insieme trascendentale e indifferenziato, mentre il corpo e l’anima restano brevemente sulla terra. Il corpo viene mangiato dai malvagi spiriti predatori, e l’anima diventa per un breve periodo uno spirito egoista. Nel caso dei Buid l’elemento trascendentale, la mente, non sopravvive alla morte della persona. Differisce quindi dalla dimensione spirituale degli Orokaiva, che assume la forma di uno spirito ancestrale immortale. L’elemento che incede sopravvive alla morte, cioè l’anima, condivide l’animalità del corpo. Le sessioni di canto che hanno luogo quasi ogni notte e coinvolgono normalmente un solo medium possono essere più correttamente interpretate come preparazioni minori dei rituali molto più elaborati, le sedute spiritiche. Queste sono giustificate dall’insorgere di problemi o malattie più gravi. Ciò che le differenzia dai più comuni casi di possessione è la collaborazione di un gran numero di medium e la presenza dell’intera comunità. Il senso è che i vari medium possano unire le forze e cacciare i potenti spiriti maligni. Questa collaborazione intellettuale ci permette di capire che quello che Gibson chiama “mente” non è una dimensione individuale quanto collettiva. La comunità delle menti è in un certo senso immortale perché se le menti individuali vanno e vengono la loro unione rimane. Un altro elemento trascendentale è che gli spiriti familiari si trasmettono da un individuo all’altro e sono quindi al di là della mortalità umana. Tutti questi elementi trascendentali sono contrapposti agli elementi individuali e instabili associati agli animali e alla loro vitalità, che per i Buid rappresentano il corpo e l’anima egoista. Le sedute principali dei Buid sono anche sacrifici, vale a dire uccisione, cucina e consumo di carne rituale di un animale (maiale o pollo). Questi sacrifici sono motivati da ragioni diverse. Due casi estremi: quello in cui gli spiriti coinvolti nel sacrificio sono benevoli e quello in cui sono totalmente ostili agli esseri umani. Il caso di un bambino la cui malattia era considerata causata dall’invasione di una intera orda di spiriti in casa sua. I partecipanti appesero un maiale a testa in giù e lo fecero oscillare sulla testa del bambino. Nell’istante in cui uccisero il maiale, i medium esortarono gli spiriti a lasciare il bambino. Bloch pensa sia inevitabile vedere il maiale ucciso come un sostituto del bambino che gli spiriti maligni avevano cominciato ad attaccare a morsi (Gibson non sarebbe d’accordo). Dopo l’uccisione tutto cambia: gli spiriti si sono saziati dell’anima del maiale e gli esseri umani possono abbandonarsi ad un rinvigorente banchetto a base di carne, specificamente destinato a restituire le forze al bambino. Quando il sacrificio è volto a provocare l’intervento degli spiriti benevoli è leggermente diverso. Si devono richiamare gli spiriti benevoli, allontanati a causa del comportamento antisociale di alcuni membri della comunità. Uccidono un maiale a mo’ di invito. Poi fanno una festa rigeneratrice. In entrambi i casi, gli spiriti sono invitati a condividere il pasto comune: a tal fine viene offerto un piccolo pezzo di carne per evocare la loro presenza nel gruppo umano e permettere loro di unirsi ad esso. Se partiamo dell’ipotesi che il sacrificio non possa essere definito in modo transculturale, e che questo termine non sia altro che un modo per indicare un insieme di elementi che fa parte di una più ampia famiglia di rituali, non c’è motivo di limitare il nostro tentativo di spiegazione all’uccisione e consumo di carne del maiale, ignorando gli altri elementi della seduta. Sembra ragionevole analizzare l’evento come una totalità che comprende al proprio interno tanto l’elemento di possessione spiritica quanto l’uccisione dei maiali. La possessione spiritica dei Buid costituisce la risposta ad un problema potenziale, immaginato come l’invasione di forze ostili e invisibili. La risposta all’invasione non è l’identificazione con tali forze, come nel caso dell’iniziazione orokaiva o del sacrificio dinka. Benché i Buid trasformano la propria società in una realtà del medesimo ordine di quella degli spiriti, una comunità disincarnata di menti. Nel far questo essi anticipano la morte individuale perché abbandonano il proprio elemento vitale e animale. Sono ricostruiti in un’unità più ampia e trascendente, destinata a durare nel tempo al di là delle singole persone. Poiché i medium non possono rimanere nel loro stato trascendentale essi devono riconquistare la vitalità e quindi la mortalità attraverso il consumo collettivo di carne di maiale. Un elemento centrale delle etnografie dinka e orokaiva è la violenza di ritorno. I Buid provano orrore per qualunque forma di aggressione e non si impegnerebbero mai in una forma di dominio che implichi la superiorità di una persona sull’altra. La ragione di tale mancanza di aggressività si può trovare nella storia dei Buid: per molti secoli hanno dovuto continuamente fuggire da aggressori esterni infinitamente più potenti di loro. I Buid sanno che un’aggressione da parte loro sarebbe controproducente. Così usano la simbologia della violenza di ritorno per ottenere la riproduzione. Essi conquistano i propri maiali come gli Orokaiva, ma diversamente da questi tale conquista non costituisce la premessa ad ulteriori aggressioni. Ciò non significa che la simbologia dei Buid non contenga al proprio interno la possibilità di essere trasformata in una variante aggressiva magari in circostanze storiche diverse. 3. LA COSMOGONIA E LO STATO “Cosmogonico” al fine di evidenziare come tutti i rituali dissolvano il particolare in un processo generale capace di rinnovare la creazione della vita morale. Benares, il luogo in cui si crede che il dio Visnu abbia creato il mondo: si tratta di un ardente Ghat sulla riva del Gange dove molti indù vanno a morire, a portare le ceneri dei parenti e a farsi cremare. Il motivo per cui il sito in cui è stato creato il mondo sembra costituire un luogo adatto alle cerimonie funebri risiede nel fatto che gli indù concepiscono la cremazione del corpo come un atto di sacrificio nel quale il corpo costituisce un’offerta da parte della persona defunta. La persona morente sta volontariamente offrendo il proprio corpo agli dei. In questo modo la cremazione diventa un atto finale di rinuncia ascetica. Questo può essere considerato un ulteriore esempio della prima parte della violenza di ritorno. Parry vuole dimostrare come, nonostante gli elementi di rinuncia presenti nella cremazione, i rituali che seguono implichino in vari modi la ricreazione del corpo del defunto. Una serie di palle di riso, chiamate con lo stesso termine per indicare l’embrione umano, rappresenta la ricreazione del corpo della persona defunta.Se mangiata dalle persone in lutto può rappresentare una sorta di seme in grado di fecondare le donne sterili. La persona morente, immolandosi volontariamente sulla pira funebre, ripete l’atto di creazione di Visnu. Il processo inizia in entrambi i casi con un attacco alla vitalità originaria: questo produce il fuoco che a sua volta conduce alla ri-creazione. Due principali divinità di Benares: Shiva e Visnu. Shiva rappresenta gli aspetti ascetici della perdita della vitalità. La sua presenza è continuamente evocata dagli asceti necrofagi che vagano attorno ai ghat. Visnu è associato alla pratica generatrice di vita del sacrificio stesso, che nel funerale assume la forma della cremazione vera e propria. Ciascuna divinità implica necessariamente l’altra, tanto che entrambe sono talvolta considerate manifestazioni dello tesso dio supremo. Shiva è simboleggiato da un fallo eretto, che può rappresentare la riproduzione arrestata cioè l’ascetismo ma anche la riproduzione stessa, cioè l’opposto. Visnu pur essendo un violento creatore sacrificale raggiunge tale status solo dopo un lungo periodo di ascetismo alla Shiva. Questo legame tra due divinità opposte può essere facilmente individuato all’interno di un rito sacrificale come la cremazione: l’ascetismo della rinuncia al corpo conduce immancabilmente acca fase sacrificale della cremazione associata a Visnu, e quindi il cadavere è considerato anche un ri-creatore di vitalità. Rinnovando il sacrificio nei funerali e in altri riti indù, i partecipanti stanno trasformando se stessi dall’asceta della prima fase nel re della seconda, da Shiva a Visnu, da prede in cacciatori. Il significato di questo movimento ci mostra l’assoluta continuità tra pratiche che consideriamo tipicamente religiose (sacrificio) e la sfera politica. Tale passaggio intermedio congiunge le due dimensioni, facendo apparire un atto religioso strumentale come parte di un’iniziativa cosmica più generale, il che comporta inevitabilmente una teoria politica. Le implicazioni profane di questo legame tra religione e politica: es. del Giappone. Uno degli pasti più noti della cultura contemporanea giapponese è il fatto che in essa esistano due religioni che operano congiuntamente: shintoismo e buddhismo. Questa dualità assume diverse forme. Le case tradizionali giapponesi contengono almeno due altari distinti: la miniatura di un santuario shintoista e un antico altare buddhista. Questi altari domestici sono riproduzioni in miniatura dei luoghi di culto pubblici. I villaggi giapponesi tradizionali hanno confini definiti che spesso separano l’area abitata dalla foresta circostante. I templi buddhisti e i santuari scintoisti di solito attraversano questo confine, collegando l’esterno con l’interno. Ciò è possibile perché entrambi sono costruiti come dei viali. Il tempio deve essere una via perennemente aperta attraverso la quale gli abitanti possano rinunciare al mondo lasciandoselo alle spalle. La struttura a viali del tempio esprime quindi la fondamentale idea che il buddhismo consista nell’apprendimento di un “cammino” di rinuncia alla vitalità attraverso la meditazione o il culto. Anche la guida dei defunti verso il paradiso durante il viaggio finale. Il cammino che il buddhismo rende possibile inizia prima della morte e continua dopo di essa. Soltanto durante la vecchiaia l’interesse per questo viaggio finale comincia ad assumere importanza per la gente comune. Assolutamente concreto, prende forma in una serie di pellegrinaggi compiuti dagli anziani verso i più famosi monasteri. I pellegrinaggi costituiscono una preparazione alla morte. In questo il buddhismo si avvicina all’induismo perché i pellegrinaggi verso Benares, come la pratica di portarvi i cadaveri, sono visti come un atto consapevole dei morenti attraverso i quali essi trasformano la propria morte in un volontario e organizzato atto di rinuncia. Sono i monaci buddhisti ad occuparsi della sistemazione del corpo: è loro il compito di portarlo dalla casa al cimitero per la sepoltura o la cremazione. I profani ritengono che il compito dei monaci in queste circostanze sia quello di allontanare l’impurità e la debolezza della morte dalla casa del defunto e dai viventi. In parte attraverso la purificazione rituale e in parte attraverso il fatto che i monaci prendono quei resti con sé. Per la gente comune il buddhismo consiste in un sistema di rimozione dei morti. Il viaggio dell’anima e del corpo è un viaggio verso l’esterno che procede lentamente. Il culto giapponese degli antenati è interessato anzitutto all’eliminazione dell’impurità che il morto inevitabilmente implica. L’ambiguità di questo culto è evidente nel festival annuale Bon: ha luogo per alcuni giorni in estate, ed è l’occasione in cui le anime degli antenati sono chiamate a raggiungere le rispettive tavolette e a rientrare nella propria casa. Durante questo periodo i monaci buddhisti sono invitati nelle case a recitare preghiere più significative. Quest’ultimo evento viene normalmente scongiurato ad ogni costo, a causa dell’associazione dei monaci con la morte (invece durante questo evento no). Dopo pochi giorni le offerte fatte alle tavolette vengono portate al confine dell’area abitata, nella speranza che gli antenati seguano il cibo senza accorgersi di cosa sta avvenendo. Infine le offerte vengono gettate in un ruscello che scorre lontano in modo che lo spirito del defunto lo segua e venga portato via. Allora cominciano i veri festeggiamenti. Bon non è dunque una celebrazione degli antenati, quanto piuttosto una celebrazione del loro allontanamento! Il buddhismo giapponese produce il primo elemento di violenza della conquista di ritorno in modi diversi. Per il vivente si tratta di una violenza autoinflitta che assume la forma di un necessario pellegrinaggio ascetico e punitivo e, almeno nel caso dei monaci, di una meditazione che richiede spesso degli stacchi preliminari al corpo come la flagellazione e il digiuno o prove spaventose. Per il morto questa violenza è gestita da coloro che rimangono e assume la forma degli inganni necessari a cacciare l’anima dopo la morte. A differenza del buddhismo, lo shintoismo non è una religione secondo l’accezione abituale del termine, ma piuttosto un insieme di culti in qualche modo simili. Condivide un elemento con il buddhismo, cioè l’idea di un cammino da compiere, e la materializzazione di tale cammino nell’architettura dei luoghi di culto. Questo scambio della vitalità interna per una vitalità esterna destinata ad essere produttrice di nuova vita rievoca immediatamente la struttura della violenza di ritorno. I Dinka sacrificano indistintamente bestiame di sesso femminile e maschile, ma nei riti sacrificali più importanti uccidono solo bestie di sesso maschile. Questo elemento maschile è necessario al fine di essere trasformato durante il rituale nell’elemento femminile! C’è dunque un mutamento sessuale del bestiame: l’animale sacrificale è letteralmente trasformato da maschio in femmina, viene vestito con una sottana femminile. Una volta ucciso l’animale, i suoi genitali vengono recisi per trasformarlo in femmina. Normalmente il bestiame rappresenta la vitalità originaria del gruppo, espressa attraverso l’associazione tra le bestie e i giovani uomini. La mascolinità vitale si manifesta soprattutto nell’ammirazione riservata alle corna dell’animale. La cura del bestiame è inoltre un’attività quasi esclusivamente maschile, mentre alle donne sono vietati contatti. Prima del rituale gli animali incarnano dunque un simbolo prevalentemente maschile. Tuttavia l’obiettivo della prima fase del rituale è proprio quello di indebolire la vitalità che il bestiame esprime. Per questo i Dinka dicono che durante l’invocazione le corna si afflosciano, perché lì la bestia viene sconfitta e ha inizio la femminilizzazione dell’animale sacrificale. Spiegazione: prima di tutto i Dinka associano la femminilità alla debolezza militare. In misura ancora maggiore associano la perdita di vitalità originaria con la perdita delle loro donne attraverso il matrimonio. Appare quindi del tutto comprensibile che la vitalità originaria venga femminilizzata nella misura in cui è indebolita dal rituale. Un altro aspetto del significato della femminilizzazione: quando l’animale viene ucciso nel corso del rituale la sua identificazione con l’artefice del sacrificio viene meno, ed esso diventa la carne di un’altra specie che può essere tranquillamente consumata dagli umani. Questo elemento esibisce un parallelismo perfetto con il fatto che quando le giovani cresciute all’interno del gruppo giungono alla piena maturità sessuale, vengono cedute come spose agli esterni. Nel momento in cui l’animale assume interamente il carattere femminile, esso diviene a sua volta esterno. Interessante osservare che in seguito i genitali vengono consumati dalle donne. Sembra che questa ingestione della mascolinità da parte di un membro di sesso femminile del gruppo sacrificante preluda all’idioma sessuale della seconda parte del sacrificio, invertendolo. Proprio questo spiega come il bestiame possa essere associato sia alla virilità sia alla femminilità, poiché gli animali subiscono un processo di trasformazione attraverso le diverse fasi del rituale. Un’altra prospettiva: l’esperienza dei soggetti che vi partecipano, gli artefici del sacrificio. Poiché nella prima parte del sacrificio sussiste un legame fra la vittima e l’esecutore del sacrificio, anche quest’ultimo inizia come soggetto maschile per poi essere indebolito e infine femminilizzato. Quando l’animale viene ucciso l’associazione fra autore e vittima del sacrificio si spezza e il primo è nuovamente rappresentato quale consumatore maschile di una vittima femminile. Ladakh, una regione dell’India settentrionale, estensione culturale del Tibet. La prima parte del rituale di matrimonio ruota attorno alla spedizione che parte dalla casa del proprietario di bestiame per andare a prelevare la sposa dalla propria dimora. Una volta entrati nella casa i giovani devono affrontare le resistenze dai parenti della ragazza, che tuttavia vengono infine corrotti. A questo punto il capo della banda maschile conficca trionfalmente in un recipiente di grano una freccia che ha portato con sé. Il gruppo porta la donna nella casa dello sposo. Occorrerà del tempo prima che questa sia pienamente integrata, ma l’avvio di questo processo è segnalato dal fatto che la sposa condivide pubblicamente un pasto con il marito e che lo scialle cerimoniale che le copriva il capo durante il viaggio viene posto nel granaio della dimora del marito. Esiste un elemento legato al 1) simbolismo sessuale e riproduttivo. Nel rituale la famiglia dell’uomo è rappresentata dai giovani che arrivano alla casa della sposa. La sfera domestica violata da cui proviene la donna nel corso del rituale è rappresentata in modo preminente da quest’ultima: il simbolismo della freccia piantata nel grano è denso di evocazioni sessuali. 2) Il simbolismo della conquista. La cattura della sposa mette in scena l’accesso a un territorio delimitato da parte di una banda di uomini associati alle divinità, che sembrano rappresentare un’armata reale mentre si fa strada verso la riconquista di ciò che le garantirà una gloriosa riproduzione. La sposa è associata al grano, considerata in un certo senso come parte delle riserve alimentari e della fertilità, elemento di vitalità in questo senso. La regola dell’incesto, che impone alla famiglia ladakh di reperire spose al di fuori di se stessa per sopravvivere, implica che il destino coniugale dei membri femminili e maschili sia piuttosto diverso, e questo inevitabilmente influisce sulla concettualizzazione del genere. I due elementi costitutivi della famiglia possono essere definiti rispettivamente come mascolinità e femminilità. Qua la femminilità è associata ad una vitalità che è al contempo produttiva e caotica, mentre la mascolinità si associa agli dei e ad un’immagine ultraterrena di stabilità e ordine sociale. In seguito, quando avrà luogo il matrimonio dei propri figli, agendo essa stessa come un’entità divina/maschile, la famiglia recupererà la fertilità nella forma della donna esterna: essa porterà quindi a compimento la sequenza della conquista di ritorno “consumando” questo genere di “alimento” per assicurarsi la riproduzione. Molti membri di popoli africani o asiatici ritengono che i membri di una stessa discendenza condividano le medesime ossa. Presso i Ladakh è la casa di cui gli abitanti fanno parte ad essere considerata l’attore sociale principale. Una casa ladakh riproduce il modello di un corpo con il santuario a rappresentare la testa; le persone sono le membra dell’organismo. Questo senso della corporeità implica che ciò che accade ad atri membri della famiglia, indipendentemente dal fatto che si tratti di uomini o di donne, in certa misura coinvolge anche ogni suo altro membro. Ciò significa che tutti, maschi e femmine, partecipano a loro volta all’esperienza matrimoniale dell’altro genere. Così quando la casa ladakh è conquistata e penetrata dai cacciatori di mogli, tutti i suoi membri sono simbolicamente oggetto di conquista e di “femminilizzazione”. Analogamente, quando la famiglia cattura e consuma una sposa, tutti i suoi membri conquistano e diventano “mascolinizzati” e simili agli ebrei. Tutti gli attori rituali, maschi o femmine, sono potenzialmente maschili e femminili. I rituali portano in superficie le fluttuazioni di questo complesso equilibrio androgino ricorrendo a semplificazioni e riduzioni delle sue componenti interne. Questo rituale matrimoniale è ovviamente in qualche misura accordato, altrimenti non riuscirebbe senza disponibilità della famiglia della sposa, dunque si tratta di un rapimento fasullo. Perché cedono le proprie figlie allora? Per potersi riprodurre a loro volta, come esseri propriamente morali. Perché se non cedessero le loro figlie allora non potrebbero aspettarsi di riceverne a loro volta dunque dovrebbero praticare l’incesto e non sarebbero morali. Avrebbero figli subumani, cioè privi dell’elemento che li eleva sopra agli animali. [La stessa cosa avviene x gli Orokaiva che devono accettare la conquista dei loro bambini in qualità di maiali altrimenti questi rimarrebbero subumani proprio come i maiali.] 5. MILLENARISMO Non sempre i rituali risultano convincenti e indiscutibili a tutti coloro che ne prendono parte. I significati evocati nel rituale entrano in contraddizione. Ora consideriamo i Merina del Madagascar. Uno degli obiettivi del presente saggio è quello di verificare se alcune delle conclusioni cui Bloch è giunto sulla cerimonia di circoncisione dei Merina si possano estendere ad altre regioni del mondo. Vediamo prima la circoncisione ebraica al tempo in cui iniziava a consolidarsi il cristianesimo. I Merina rappresentano gli individui come costituiti da due elementi: un elemento ancestrale, permanente e asciutto, e uno vitale, caotico e bagnato. L’elemento umido è dominante nel bambino, ma con la crescita esso lascia il posto gradualmente all’elemento asciutto, poi scompare del tutto dopo la morte e il cadavere viene seppellito affinché possa asciugarsi. Dopodiché viene riesumato e collocato in un sepolcro comune. L’elemento asciutto è solo degli esseri umani, e il suo sviluppo nella persona simboleggia il legame crescente con gli antenati. Così nella sua esistenza l’individuo diventa progressivamente antenato. Ma finché è in vita (come per gli Orokaiva) non può essere del tutto antenato perché ha ancora l’elemento vitale. L’elemento umido è comune a tutte le forme di vita. Sebbene i Merina sembrino convinti che l’elemento bagnato sia maggiormente presente nelle donne rispetto agli uomini, sono tuttavia consapevoli che al di là della rappresentazione rituale le cose presentano una certa ambiguità. Dal momento che donne e uomini sono viventi uguali, allora periranno, e quindi diverranno entrambi antenati completamente asciutti. La circoncisione inizia con la polarizzazione dei due elementi in contrasti, cioè bagnato e asciutto, mediante un processo di netta contrapposizione definito schismogenesi. Nella circoncisione merina la battaglia e la vittoria definitiva della prima conquista si esprime attraverso attacchi alle piante e alle donne, e culmina nella quasi uccisione dell’aspetto femminile del bambino mediante l’operazione stessa. A quel punto l’atto di violenza è seguito da una violenza di ritorno nella parte conclusiva del rito. Il bambino morto e divenuto simbolicamente asciutto come un antenato acquisisce nuovamente l’elemento vitale bagnato mediante la conquista ed il consumo della vitalità appartenere a esseri esterni. Nella forma di uno scontro fisico simulato attraverso un’allusione alla conquista sessuale delle donne da parte degli uomini, e al consumo estremamente violento di animali e di piante particolarmente fertili e vitali. Nel 1863 il sovrano Radama II abolì la circoncisione. Ci fu una rivolta che portò ad un caos generale, perché le persone comuni sentivano che l’abbandono dei rituali equivaleva al rifiuto di ristabilire quell’ordine ancestrale che avrebbe posto fine al caos e che sarebbe stato possibile raggiungere nella prima parte del rituale di circoncisione. Si imputava al sovrano di essersi sottomesso agli estranei conquistatori, e si temeva che questi estranei li avrebbero trattati (i Merina) come le piante nel proprio rituale di circoncisione (o come i maiali nell’iniziazione orokaiva): sarebbero stati consumati in un rito da parte degli stranieri per garantire forza a questi ultimi. Così i Merina dettero vita ad un rituale all’interno dei propri corpi: diventarono posseduti. Cioè agivano in questo modo come se la sensazione interiore di possessione dovesse essere l’origine e la causa di una rappresentazione del rituale abolito. In questo modo disobbedivano alle autorità politiche costituite. Nel dar seguito soltanto alla prima parte del rituale, i Merina si proiettavano al di là dell’esistenza biologica. Rinunciavano alla propria vitalità originaria attraverso la possessione e diventavano antenati sotto il dominio dei re ancestrali, ma si astenevano dal tornare alla vitalità mediante il consumo e la violenza di ritorno. Rifiutandosi di coltivare i campi stavano rifiutando di consumare l’elemento vitale perché non volevano sottomettersi ai capi che li avevano traditi. “Movimenti millenaristi” = movimenti cristiani medievali i cui appartenenti si adoperavano per accelerare la fine del mondo allo dopo di scambiarla con una vita eterna nell’oltretomba. Speravano che il periodo di caso sarebbe stato solo il preludio del secondo avvento di Cristo. L’elemento chiave dei millenaristi è proprio il rifiuto della seconda fase della violenza di ritorno, cioè la rinuncia alla conquista della vitalità esterna, che rappresenta un rifiuto di proseguire l’esistenza terrena. Ogni millenario guarda alla morte come un necessario epilogo! I Merina speravano nel regno degli antenati quindi nella morte. La prima parte della circoncisione merina è dunque assimilabile ad un funerale successivo ad un amore simbolica internazionale. Normalmente questa fase preludeva un ritorno alla vita. Tuttavia i ribelli non volevano ritornare alla vitalità attraverso il consumo di cibo o donne, perché avevano rinunciato all’esistenza terrena. Ambivano piuttosto ad una continuazione eterna della propria vita oltre la mortalità della carne. Capire cosa significava la circoncisione per chi la praticava. La Bibbia: secondo gli antichi ebrei la circoncisione era una forma del patto tra l’uomo e Dio. Patto concepito interamente nel modello della conquista di ritorno. La promessa nell’Antico Testamento era che qualora gli ebrei si fossero rimessi interamente a Dio, al punto di accettare di esserne uccisi, sarebbero stati ricompensati da una vita prospera e dalla vittoria sui loro nemici. Quindi dovevano consentire a Dio di regolare ogni elemento fondamentale delle loro funzioni vitali, portando una cicatrice sui propri genitali. Ma poi questa sottomissione diventa preludio alla riproduzione. Violenza di ritorno che imponeva che questo assoggettamento fosse seguito da un ritorno glorioso al mondo, attraverso una facoltà riproduttiva esplicitamente consacrata! Sia Merina che Cristianesimo accettavano la prima conquista e volevano sfuggire ad un’esistenza insoddisfacente favorendo la morte della propria vitalità. Ma tuttavia rifiutavano di sostituire la propria vitalità interna con la vitalità esterna consumata. La simbologia della violenza di ritorno offre almeno tre diverse traiettorie di legittimazione della pratica: 1) l’affermazione della riproduzione; 2) la legittimazione dell’espansionismo, che a sua volta può essere rivolto a) verso l’interno, legittimando una gerarchia sociale, oppure b) verso l’esterno, incoraggiando l’aggressione nei confronti dei vicini; 3) l’abbandono dell’esistenza terrena. In ogni singolo caso o momento storico particolare prevarrà una di queste alternative, ma le altre saranno comunque presenti in forme più o meno velate. 6. MITO Appendice: per un certo tempo gli antropologi hanno individuato una relazione diretta tra mito e pratica. Lévi-Strauss (1958) dimostra chiaramente come tale approccio fosse in realtà fuorviante, evidenziando come la mitologia costituisca spesso una speculazione sulla prassi. Più che fornire una guida per l’azione, i miti sembrano concentrarsi sulle possibilità terrificanti del fallimento del sistema, cioè sull’impossibilità delle sue implicazioni teleologiche. Tuttavia la distinzione tra mito e rituale non è netta come suggerisce Lévi-Strauss. Esistono anche miti che fungono da linee guida per pratiche sociali conservatrici e per rituali che costruiscono la violenza di ritorno. Spesso i miti si volgono ad una considerazione dolorosa dei problemi occultati dalle facili soluzioni proposte dai rituali della violenza di ritorno. Abbiamo sottolineato come il matrimonio laddakh fosse collegato ad un mito che contempla la cattura della sposa. Mito che fa parte di una storia più grande, in cui il protagonista eroe Kesar era frutto di unioni bizzarre. Uccide un orco e vive con la moglie di quest’ultimo, da cui ha un figlio. Poi la sua prima moglie trova un marito, al che lui torna dalla prima moglie e la riconquista. Questi comportamenti violavano la moralità condivisa dai comuni mortali e sono tipici dei miti. Nel mito troviamo la rappresentazione immaginaria di mondi senza violenza di ritorno, o nei quali i soggetti consumati diventano consumatori. Così nella mitologia orokaiva troviamo storie di maiali che, essendo stati catturati e penetrati dagli spiriti ancestrali, al pari degli esseri umani iniziati
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