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MEZZI DI PROVA - TONINI, Sintesi del corso di Diritto Processuale Penale

Riassunto del capitolo dedicato ai mezzi di prova del manuale di procedura penale Tonini (2018)

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019
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Scarica MEZZI DI PROVA - TONINI e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! L’esame delle parti A. Considerazioni preliminari Mezzo di prova con cui le parti private contribuiscono all’accertamento dei fatti nel processo penale. Regole generali dell’esame delle parti (applicabili sempre): • Il dichiarante non ha l’obbligo penalmente sanzionato di dire la verità né di essere completo nel narrare i fatti. Qualora decida di non rispondere alla domanda il rifiuto verrà riportato nel verbale ex art. 209 co.2 c.p.p. • Le dichiarazioni vengono rese secondo lo schema dell’esame incrociato e perciò le domande saranno formulate dal PM e dai difensori delle parti private nell’ordine sancito dall’art. 503. • Le domande devono riguardare fatti oggetto di prova. L’esame delle parti viene sottoposto a regimi giuridici diversi a seconda della persona che rilascia la dichiarazione. Il primo regime giuridico riguarda l’esame delle parti cui è sottoposto l’imputato, il secondo riguarda l’esame delle parti cui si sottopongono le parti differenti dall’imputato (responsabile civile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria e la parte civile che non debba essere ascoltata come testimone). B. L’esame dell’imputato Strumento necessario per acquisire contributo probatorio dell’imputato sui fatti oggetto di prova. L’esame ha luogo solamente su richiesta o consenso dell’interessato. Il mancato consenso da parte dell’imputato non deve essere giudicato negativamente dal giudice ma può avere delle conseguenze in quanto non permette all’imputato di adempiere all’onere della prova. L’imputato non è vincolato all’obbligo di rispondere secondo verità; tale obbligo sussiste solamente in capo al testimone (qualifica incompatibile con quella di imputato). L’imputato può dire il falso senza incorrere in conseguenze penali in quanto il reato di falsa testimonianza è un reato proprio, può essere commesso solamente dal testimone. Qualora con false dichiarazioni commetta altri reati, l’imputato beneficia della causa di non punibilità prevista dall’art. 384 co.1. Per tanto, l’imputato sarà punibile solamente quando afferma falsamente che sia avvenuto un reato che nessuno ha commesso o se incolpa di un reato un’altra persona sapendola innocente. Affermare il falso comunque comporta conseguenze dal punto di vista processuale in quanto qualora si accerti che quanto dichiarato dall’imputato è falso il giudice potrà da quel momento in poi considerarlo non credibile e le sue affermazioni successive lo convinceranno difficilmente. L’imputato può avvalersi del diritto al silenzio; qualora si rifiuti di rispondere il rifiuto verrà menzionato nel verbale (209 co.2 c.p.p). Poiché il rifiuto appare dal verbale si deduce che il silenzio può essere valutato dal giudice come argomento di prova e per tanto l’imputato potrà essere considerato non credibile. Altro privilegio dell’imputato è quello di poter affermare di aver “sentito dire” senza essere vincolato alle condizioni di procedibilità di cui all’art. 195 c.p.p. L’imputato quindi potrà riportare di quanto sia venuto a conoscenza senza essere obbligato ad indicare la fonte (persona o documento) in ragione della peculiare posizione di questo soggetto. C. Le parti diverse dall’imputato Il responsabile civile, il civilmente obbligato per la pena pecuniaria e la parte civile che non debba essere esaminata come testimone sono sottoposti all’esame incrociato secondo le regole generali previste dal codice per l’esame delle parti (quindi sono esaminati solamente se lo richiedono o vi consentono, possono non rispondere alle domande, non rispondono di falsa testimonianza e qualora affermino di aver “sentito dire” valgono le ordinarie condizioni di procedibilità di cui all’art. 195 c.p.p. D. Il contributo probatorio dell’imputato tra diritto al silenzio e diritto a confrontarsi con l’accusatore Nel sistema inquisitorio l’imputato è obbligato a rispondere secondo verità e alle sanzioni conseguenti al falso si aggiunge la tortura. Nel sistema accusatorio invece l’imputato non può essere costretto a testimoniare ed anzi ha diritto a restare in silenzio. Si permette all’imputato di offrirsi come testimone volontario solamente di fronte al giudice ed in tal caso il contraddittorio impone che venga tutelato tanto il diritto alla prova spettante tanto alla pubblica accusa quanto all’imputato concorrente nel medesimo reato o in un fatto inscindibile (questi quindi possono controesaminare l’imputato che si è offerto come pubblico testimone). Nel sistema misto di origine napoleonica la qualifica di imputato diviene assolutamente incompatibile con quella di testimone. Il diritto al silenzio viene parzialmente tutelato attraverso la assoluta incompatibilità a testimoniare ma l’imputato non viene avvisato di tale diritto (che non è garantito). Il codice di procedura penale del 1988 ha mantenuto questa soluzione del sistema misto ed in più ha introdotto la totale inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in segreto, prima del dibattimento, da un imputato nei confronti di altro imputato connesso o collegato. Nel ’99 si è introdotto il diritto dell’imputato di confrontarsi con le persone che rendono dichiarazioni a suo carico; poteva in questo modo introdursi la testimonianza volontaria dell’imputato ma si è optato per un istituto particolarmente complesso introdotto con la l. 63/2001. La legge quindi conserva l’assoluta impossibilità di testimoniare per l’imputato e per l’imputato concorrente nel medesimo reato ma, contemporaneamente, introduce una forma di testimonianza coatta a carico degli imputati accusati di aver commesso un reato in connessione debole; questi sono chiamati a testimoniare quando rendono dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità altrui (venendo preventivamente avvisati delle conseguenze che possono derivare dalle loro dichiarazioni E. L’esame di persone imputate in procedimenti connessi L’imputato connesso o collegato contribuisce all’accertamento dei fatti attraverso 4 strumenti di prova. Si intende per imputato connesso l’imputato del procedimento che ha rispetto al procedimento principale un rapporto di connessione (art. 12) o di collegamento probatorio (art. 371 co.2 lett. b) • Esame degli imputati concorrenti nel medesimo reato e situazioni assimilate • Esame degli imputati collegati o connessi teleologicamente • Testimonianza assistita prima della sentenza irrevocabile • Testimonianza assistita degli imputati giudicati Esame degli imputati concorrenti nel medesimo reato Il codice detta una disciplina apposita per l’imputato connesso ai sensi dell’art. 12 lett. A (Reato commesso da più persone in concorso o in cooperazione tra loro o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l’evento). Il soggetto in questione è detto imputato concorrente ed è incompatibile con la qualifica di testimone fino a che nei loro confronti non viene emessa sentenza irrevocabile. L’imputato concorrente gode delle medesime garanzie dell’imputato principale, l’unica differenza significativa sta nell’obbligo in capo all’imputato concorrente di presentarsi per rendere l’esame. La disciplina dell’esame di persone imputate in un procedimento connesso è contenuta nell’art. 210 c.p.p L’imputato concorrente viene esaminato a richiesta di parte o, nei casi di cui all’art. 195, d’ufficio dal giudice. Esso è obbligato a presentarsi tant’è che nel caso occorra il giudice può ordinarne l’accompagnamento coattivo. L’imputato concorrente è ovviamente accompagnato da un difensore di fiducia o d’ufficio e il giudice, prima ancora di iniziare, lo avverte che, fatta eccezione per quanto previsto all’art. 66 co.1 (le generalità), può avvalersi della facoltà di non rispondere. L’art. 468 stabilisce che l’imputato concorrente deve essere stato inserito nelle liste testimoniali almeno sette giorni prima dell’inizio del dibattimento, indicando le circostanze su cui è chiamato a deporre. addebitato al dichiarante) assumerà la qualifica di testimone. L’imputato connesso o collegato che renda dichiarazioni riguardanti la responsabilità altrui, per reato collegato o connesso teleologicamente al proprio, non deve essere necessariamente consapevole delle conseguenze accusatorie derivanti dalla sua dichiarazione affinché assumi la qualifica di testimone, è sufficiente che il fatto raccontato concerna la responsabilità altrui. A seguito di ciò assume la qualifica di testimone assistito. La compatibilità con la qualifica di testimone è quindi condizionata e parziale; condizionata perché scatta solo qualora il coimputato renda dichiarazioni sul fatto altrui e parziale perché è limitata al singolo fatto altrui già dichiarato. Il testimone assistito con procedimento penale ancora pendente gode del privilegio contro l’autoincriminazione riguardo reati diversi da quelli che sono oggetto del suo procedimento. Inoltre, il legislatore gli ha riconosciuto un ulteriore privilegio: non può rispondere sui fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti. L’obbligo testimoniale è infatti limitato ai fatti altrui già dichiarati, qualora i fatti siano inscindibili il legislatore riconosce al testimone assistito la facoltà di non rispondere sul fatto proprio che, ovviamente, va ad estendersi sul fatto altrui. Tuttavia se il teste assistito decide di rispondere comunque ha un obbligo di verità penalmente sanzionato e quindi perde la possibilità di mentire. LA DISCIPLINA IN QUESTIONE SI APPLICA PRESCINDENDO DALLA RIUNIONE O SEPARAZIONE DI TALI PROCEDIMENTI CONNESSI. Non sempre l’imputato, al momento della dichiarazione, riconosce il fatto come “altrui”. A volte avviene che soltanto con il deposito degli atti il difensore si accorga dell’idoneità di una narrazione a coinvolgere altre persone imprevedibile al momento della dichiarazione stessa. Può accadere quindi che l’imputato, senza accorgersene, renda dichiarazioni rilevanti per accertare la responsabilità di una persona. La testimonianza assistita dell’imputato giudicato: L’imputato giudicato può essere sempre chiamato come testimone assistito in un procedimento connesso o collegato anche se non ha mai reso dichiarazioni su fatti altrui o non ha ricevuto l’avviso previsto dall’art. 64 co. 3 lett. C; in tal caso assume la qualifica di testimone permanente e pertanto avrà l’obbligo di rispondere secondo verità (la qualifica di testimone non è limitata al fatto altrui su cui ha reso dichiarazioni). La posizione processuale dell’imputato connesso o collegato la cui sentenza è divenuta irrevocabile dipende dalla formula terminativa della medesima sentenza. La Corte Cost con un’importante sentenza ha stabilito che si devono distinguere tre situazioni: l’imputato condannato o al quale è stata applicata la pena su sua richiesta (patteggiamento), l’imputato prosciolto con formule terminative diverse dall’assoluzione perché il fatto non sussiste o perché non ha commesso il fatto, l’imputato assolto con formula piena perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto. a. Possono essere sempre chiamati come testimoni assistiti in un procedimento collegato o connesso anche se non hanno mai reso dichiarazioni su responsabilità altrui o non hanno ricevuto l’avviso di cui all’art. 64 co.3 lett. C. Vengono ascoltati come testimoni assistiti ed hanno obbligo di verità penalmente sanzionato. Tuttavia, l’art. 197 bis co. 5 prevede a loro favore la garanzia per cui le dichiarazioni non potranno poi essere utilizzate contro la persona che le ha rese in sede di eventuale procedimento per la revisione della sentenza di condanna e in qualunque processo civile o amministrativo relativo al fatto oggetto della sentenza. Essi godono inoltre del privilegio contro l’autoincriminazione ai sensi dell’art. 198 co.2 per cui non può deporre su fatti da cui potrebbe emergere la propria responsabilità penale ma, di regola, non hanno privilegio sul giudicato. Il legislatore protegge il dichiarante solamente nel caso in cui, una volta condannato con sentenza irrevocabile, non può essere obbligato a deporre su fatti per cui è stata pronunciata sentenza di condanna nei suoi confronti se nel procedimento aveva negato la propria responsabilità o non aveva reso alcuna dichiarazione (art. 197 bis co.4). Questo privilegio non può essere invocato dalla persona nei cui confronti sia stata emessa sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (patteggiamento) b. L’imputato prosciolto con formule diverse dall’assoluzione possono sempre essere chiamati come testimoni assistiti in un procedimento connesso o collegato anche se non hanno mai reso dichiarazioni sui fatti altru. Tali dichiaranti non godono di privilegio contro l’autoincriminazione sul fatto proprio coperto da sentenza irrevocabile in quanto l’interesse difensivo è affievolito poiché opera il ne bis in idem (divieto di un secondo giudizio). Essi godono del normale privilegio contro l’autoincriminazione in relazione a fatti diversi da quello per cui si è proceduto a loro carico. c. Gli imputati connessi o collegati assolti con sentenza irrevocabile perché non hanno commesso il fatto o perché questo non sussiste devono essere trattati in modo simile al testimone comune in quanto l’assoluzione sancisce la loro estraneità rispetto al fatto (posizione resa ancor più stabile dal ne bis in idem). Tali soggetti quindi vengono esaminati senza l’assistenza di un difensore e senza che sia indispensabile un riscontro esterno, vengono meno le norme che segnano la netta differenza con il testimone comune. Resta ferma la disciplina dell’inutilizzabilità contra se delle dichiarazioni rese (la Corte Cost. ritiene ancora applicabile l’art. 197 bis co.5 dopo aver esaminato la situazione degli imputati assolti con formula ampia). Quanto al privilegio sull’autoincriminazione, il dichiarante è obbligato a rispondere secondo verità sul fatto proprio coperto da sentenza irrevocabile (resta fermo il privilegio sull’autoincriminazione per fatti diversi). H. LA DEPOSIZIONE DEGLI INDAGATI O IMPUTATI CONNESSI IN CASO DI ARCHIVIAZIONE O DI NON LUOGO A PROCEDERE La giurisprudenza di legittimità sente sempre più l’esigenza di sottrarre alcuni tipi di imputati connessi e collegati e di testimoni assistiti alla necessità dei riscontri. La situazione conseguente alla sentenza di non luogo a procedere: Per quegli imputati nei confronti dei quali sia stato pronunciato un provvedimento di non luogo a procedere per un reato connesso o collegato al principale valgono le regole generali sulla prova dichiarativa (di loro, infatti, non è fatta menzione nell’art. 197). Gli imputati connessi per concorso nel medesimo reato che siano stati oggetto di sentenza di non luogo a procedere vengono esaminati ai sensi dell’art. 210 mentre gli imputati collegati o connessi teologici oggetto di non luogo a procedere sono compatibili alla qualifica di testimone nei limiti di cui all’art. 64 co. 3 lett. C (vengono sentiti come testimoni assistiti sul fatto altrui se hanno reso dichiarazioni sul fatto altrui precedute dall’avvertimento che avrebbero poi assunto la qualifica di testimone limitatamente ai fatti dichiarati), altrimenti vengono ascoltati ai sensi dell’art. 210. La situazione conseguente al provvedimento di archiviazione: L’art. 197 riguardante l’incompatibilità con la qualifica di testimone si limita a parlare di imputati, tuttavia si deve ritenere che la norma sia estendibile agli “indagati” in forza dell’art. 61 che provvede all’equiparazione tra imputato e indagato. Nei confronti dell’indagato che sia stato oggetto del provvedimento di archiviazione vale quanto previsto per l’imputato connesso o collegato oggetto di sentenza di non luogo a procedere. La Corte costituzionale appoggia questa soluzione interpretativa mentre le S.U. Cass. Hanno prospettato una soluzione innovativa per cui la persona nei cui confronti sia stata disposta archiviazione perde la qualifica di indagato e pertanto sfugge all’ambito applicativo dell’incompatibilità a testimoniare ai sensi dell’art. 197. L’art. 61 in questo caso viene indagato nel senso per cui sono equiparati agli imputati gli indagati “in pendenza delle indagini a loro carico”. La soluzione della Cassazione non risulta accettabile in quanto basata su un’interpretazione meramente letterale che lascia senza tutela l’archiviato che, nonostante tutto, si trova in una posizione delicatissima poiché le indagini a suo carico potrebbero essere riaperte. I. Considerazioni sulla disciplina della testimonianza assistita La dottrina si è chiesta se la testimonianza di cui all’art. 197 bis sia coatta o volontaria. Alcuni ritengono che la testimonianza assistita sia volontaria per due motivi: in ragione dell’art. 64 co. 3 lett. B e C e in ragione del fatto che il testimone in questione gode sempre del privilegio contro l’autoincriminazione. In realtà però questi avvisi sono dati quando la persona è sentita come indagato e questa non sempre è in grado di comprendere se ciò che dichiara può comportare oggettivamente una responsabilità altrui. Tuttavia, integrato il presupposto, l’imputato è costretto a presentarsi come testimone. Per quanto attiene al privilegio contro l’autoincriminazione, questo spetta anche al testimone comune ma a nessuno è mai venuto in mente di affermare che al sua deposizione sia volontaria. La testimonianza assistita resta quindi coatto, l’imputato citato deve presentarsi. La testimonianza assistita sarebbe volontaria qualora l’imputato si offrisse di testimoniare davanti al giudice in una posizione di parità rispetto al P.M. In base alla legge 63/2001, l’imputato connesso o collegato ai sensi dell’art. 12 lett. C è costretto a diventare testimone assistito e può accadere, in caso di riunione dei procedimenti, che divenga testimone assistito all’interno del suo stesso procedimento. Tale scelta ovviamente contrasta con le garanzie fondamentali previste dal modello inglese e francese. L. IL COLLABORATORE E IL TESTIMONE DI GIUSTIZIA La l. 45/2001 ha reso stringenti i requisiti che consentono ad imputati e condannati di divenire collaboratori di giustizia e quelli per ottenere misure di protezione e benefici processuali e penitenziari. La successiva l. 6/2018 ha dato al testimone di giustizia una regolamentazione diversa da quella precedente che lo assimilava al collaboratore di giustizia. Collaboratore di giustizia: La persona che manifesta la volontà di collaborare per un delitto terroristico, mafioso o assimilato è ammessa a misure di protezione se si trova in stato di grave e attuale pericolo per effetto della collaborazione. Può ottenere benefici sia in relazione alle misure cautelari sia a quelle definitive (deve però espiare almeno un quarto della pena o dieci anni se condannato all’ergastolo). Il collaboratore di giustizia è tenuto ad un adempimento processuale molto importante in quanto, entro 180 giorni, deve fornire al P.M. le notizie in suo possesso che siano utili alla ricostruzione dei fatti e delle circostanze su cui è interrogato, alla ricostruzione di altri fatti di maggiore gravità e allarme sociale di cui è a conoscenza, alla individuazione e alla cattura dei loro autori, all’individuazione, al sequestro e alla confisca del denaro, dei beni e di ogni altra utilità di cui egli e altri appartenenti a gruppi criminali dispongono direttamente o indirettamente. Le sue dichiarazioni vengono riportate nel c.d. verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione. Con la sottoscrizione di tale verbale il collaboratore di giustizia si impegna per il futuro a rendere dichiarazioni su quei fatti propri o altrui che sono riconducibili alle informazioni in esso contenute, pena la perdita dei benefici riconosciuti in base al programma di protezione. In concreto, il collaboratore di giustizia viene ascoltato come imputato concorrente senza obbligo di verità penalmente sanzionato o come testimone assistito (con l’obbligo di verità sul fatto altrui già dichiarato) secondo il legame tra il suo procedimento e quello in cui è chiamato a deporre. Testimone di giustizia: La specificità del testimone di giustizia è stata assicurata sotto vari profili con la l. 6/2018. Innanzitutto, è stata data una definizione giuridica per cui è testimone di giustizia colui che: ha reso dichiarazioni di fondata attendibilità intrinseca e rilevante per le indagini o per il giudizio, che si trova in una situazione di grave, concreto e attuale pericolo rispetto alla quale le ordinarie misure di sicurezza non sono adeguate, non ha riportato condanne per delitti dolosi o preterintenzionali né ha tratto profitto dall’essere venuto in relazione con il contesto delittuoso (è invece ammissibile che abbia tenuto comportamenti penalmente rilevanti a causa dell’assoggettamento a singoli o ad associazioni criminali), non è e non è stato sottoposto a misure di prevenzione. La legge gli da una protezione preferibilmente nel luogo di origine con misure di inserimento sociale ed economiche. Inoltre, gli attribuisce l’assistenza di un referente che lo accompagna nel percorso fino all’inserimento nel piano provvisorio di protezione. Nei confronti del testimone di giustizia vanno utilizzati gli strumenti processuali dell’incidente probatorio e dell’esame a distanza. Confronti, ricognizioni ed esperimenti giudiziali A. CONSIDERAZIONI PRELIMINARI Il documento è la rappresentazione di un fatto incorporata su di una base materiale con metodo analogico o digitale. Il concetto di documento comprende quattro elementi: fatto rappresentato, rappresentazione, incorporamento e base materiale. Fatto rappresentato: Fatti, persone o cose (234) ma ance contenuti di pensiero espressi in dichiarazioni di scienza o di volontà. Il fatto rappresentato è, quindi, tutto quel che può essere oggetto di prova; quindi può consistere non solo in un fatto naturalistico ma anche in una dichiarazione. La rappresentazione: Consiste nella riproduzione di un fatto in modo da renderlo conoscibile quando non è più presente. Le modalità di rappresentazione sono le più varie: parole, immagini, suoni o gesti. La rappresentazione può avvenire per opera dell’uomo (testimonianza) o automaticamente mediante strumento (registratore). Incorporamento: Operazione con cui la rappresentazione viene fissata su una base materiale. Il codice prevede più varie forme di incorporamento. L’art. 234 parla di scrittura e fotografia ma può avvenire in qualsiasi maniera. Oggi i metodi di incorporamento sono, essenzialmente, il metodo analogico e il metodo digitale. Il metodo analogico permette la rappresentazione su base materiale tramite grandezze fisiche variabili con continuità. In questo caso la rappresentazione è materiale perché esiste unitamente alla base materiale su cui è incorporata. Lo strumento che opera l’incorporamento può essere manuale o automatico (es. fotografia). Attraverso il metodo digitale invece la rappresentazione è incorporata su base materiale mediante grandezze fisiche variabili con discontinuità. Il dato che contiene l’informazione in questo caso è detto informatico ed è caratterizzato dalla dematerializzazione nel senso che il documento esiste indipendentemente dall’incorporamento sul supporto fisico. Base materiale: Può essere la più varia, l’importante è che sia idonea a conservare la rappresentazione al fine di riprodurla quando occorra. Non è richiesto che sia particolarmente durevole ma ciò è auspicabile vista la finalità probatoria del documento. Il documento tradizionale è quella rappresentazione di un fatto incorporata a base materiale mediante metodo analogico. Il documento informatico consiste nella rappresentazione di un fatto incorporata su base materiale mediante metodo digitale. Vi sono delle difficoltà in quanto il dato informatico può essere modificato anche da persone differenti dall’autore e, inoltre, un successivo accesso al file tramite il dispositivo provoca la modifica del contenuto stesso. Per questo, bisogna assicurarsi che la prova sia autentica e genuina e ciò comporta la necessità di particolari cautele come ad esempio la creazione di una copia clone su di un hard disk. Altri aspetti problematici si configurano nel momento in cui il documento informatico venga ricercato procedendo tramite altri mezzi di prova come l’ispezione o la perquisizione… Così la l. 48/2008 ha imposto che siano adottate cautele che assicurino la conservazione del documento informatico e ne impediscano l’alterazione. B. DOCUMENTO E “DOCUMENTAZIONE” Il codice non definisce il documento ma prevede un requisito positivo ed uno negativo: il requisito positivo è indicato nell’art. 234 co. 1 e prevede che, affinché si possa parlare di documento, sia sufficiente uno scritto o altro oggetto idoneo a rappresentare un fatto, una persona o una cosa; il requisito negativo si ricava dalla sistematica del codice e dalla relazione al progetto preliminare per cui l’oggetto rappresentato deve essere un fatto o un atto differente dagli atti processuali compiuti nel procedimento nel quale il documento è acquisito. Se l’oggetto rappresentato dal documento è un atto del medesimo procedimento allora il codice utilizza il termine di documentazione. La forma di documentazione di un atto del procedimento è , ad esempio, il verbale. Il verbale che rappresenta un atto del procedimento (l’atto che persegue le finalità del procedimento e che è compiuto da uno dei soggetti legittimati) non è un documento ma una forma di documentazione. Per tanto per documentazione si deve intendere la rappresentazione di atti processuali compiuti nel procedimento in cui la documentazione è effettuata. La regolamentazione della documentazione è contenuta negli art. 134 – 142 e nella normativa speciale relativa al singolo atto. L’utilizzabilità della documentazione per tanto dipende dal singolo atto rappresentato in essa. Ad esempio, gli atti di indagine sono di regola inutilizzabili in dibattimento. Costituiscono documentazione anche i verbali degli atti compiuti in altri procedimenti penali o civili rispetto a quello nel quale ne è richiesta l’acquisizione. Il documento, viceversa, rappresenta un fatto o un atto differente dall’atto processuale compiuto nel procedimento in cui il documento è acquisito (es. diario, agenda dell’offeso o dell’indagato o di un terzo). La sua regolamentazione è contenuta negli art. 234 – 243 del codice. Il documento in quanto mezzo di prova è utilizzabile in dibattimento. C. IL VALORE PROBATORIO DEL DOCUMENTO CONTENENTE DICHIARAZIONI Dopo l’entrata in vigore del codice nell’ 88 si è formata un’opinione dottrinale per cui il documento contenente una dichiarazione non fosse utilizzabile in dibattimento come prova del fatto narrato in quanto ciò sarebbe stato contrario al principio di oralità. La Corte costituzionale con sent. 142/1992 ha chiarito che l’art. 234, nel disciplinare il documento, non fa una distinzione tra rappresentazione di fatti e rappresentazione di dichiarazioni e, pertanto, il documento contenente una dichiarazione può costituire prova dei fatti in esso rappresentati ai sensi dell’art. 190 Tuttavia, un limite all’utilizzo dei documenti può essere riscontrato nell’art. 11 co.4 Cost per cui la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rilasciate da chi si rifiuta di essere sottoposto ad interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. Perciò, l’imputato avrà sempre il diritto di confrontarsi con l’autore della dichiarazione anche se contenuta in un documento. D. IL DOCUMENTO ANONIMO L’attendibilità della prova documentale viene valutata dal giudice solamente qualora si tratti di documenti di cui è noto l’autore. L’autore può essere infatti chiamato a deporre così da rivolgergli domande riguardanti la sua attendibilità e credibilità. Non si può ovviamente valutare la credibilità di un autore anonimo. Inoltre, bisogna sempre ricordare che l’imputato ha il diritto di confrontarsi con il suo accusatore e ciò non sarebbe possibile qualora si ammettesse l’utilizzo del documento anonimo come mezzo di prova. Allora il legislatore ha provveduto a disciplinare il documento anonimo in maniera tale da tener conto di queste esigenze. Il codice distingue il documento contenente una dichiarazione anonima dall’ipotesi in cui il documento contenga una rappresentazione diversa dalla dichiarazione come, ad esempio, una foto. Il codice prevede l’inutilizzabilità del documento solamente nel caso in cui questo contenga una dichiarazione anonima; il documento anonimo che contiene una rappresentazione differente dalla dichiarazione non viene regolato dal codice. In ragione del libero convincimento del giudice, le ipotesi di inutilizzabilità della prova devono essere previste espressamente e per tanto i documenti anonimi non dichiarativi possono essere utilizzati. Se si è di fronte ad un documento misto che riporta tanto una dichiarazione quanto una rappresentazione differente occorre ritenere che il documento anonimo sarà utilizzabile limitatamente alla parte in cui la rappresentazione non consiste in una dichiarazione. Il codice prevede all’art. 239 che il documento possa essere sottoposto alle parti private o ai testimoni per verificarne la provenienza e, per tanto, il documento cessa di essere anonimo nel momento in cui l’autore ne riconosce la paternità. Quindi, una volta accertato l’autore di una dichiarazione il documento cessa di essere anonimo e diventa utilizzabile in dibattimento. Occorre accertare se l’autore è credibile e la dichiarazione attendibile. L’assenza di sottoscrizione nel documento lo rende anonimo soltanto formalmente in quanto, qualora l’autore ne riconosca la paternità, il documento cessa di essere sostanzialmente anonimo. Resta ferma la possibilità di ricercare l’autore del documento anonimo tramite perizia. Per quanto attiene al valore probatorio, la mancata sottoscrizione con il proprio nome da parte dell’autore (indipendentemente dal riconoscimento della paternità successivo) è sinonimo di rifiuto di volersi prendere le responsabilità di quanto scritto. Il problema dell’utilizzabilità si risolve con il riconoscimento della paternità ma si pone per lo più un problema di credibilità della fonte e di attendibilità della dichiarazione. La mancata sottoscrizione rende problematico, ma non impossibile, attribuire alla dichiarazione un significato probatorio. Il codice prevede al contempo due eccezioni al divieto di utilizzare documenti contenenti dichiarazioni anonime; l’art. 240 infatti prevede l’utilizzabilità delle dichiarazioni che costituiscono corpo di reato e quelle che comunque provengano dall’imputato. Il corpo del reato deve sempre essere acquisito al procedimento. Per tanto i documento contenenti dichiarazioni anonime saranno sempre ammessi in procedimenti penali in cui esse costituiscono il corpo di reato (quando mediante le stesse o sulle stesse è commesso il reato) oppure quando ne costituiscono il prodotto. La seconda eccezione permette di utilizzare i documenti contenenti dichiarazioni anonime che provengano comunque dall’imputato; bisogna chiarire se sia necessario che l’imputato sia autore della dichiarazione anonima o se è sufficiente che sia lui a presentare nel procedimento la dichiarazione. Quando si accerta che l’imputato è autore della dichiarazione il documento che la contiene cessa di essere anonimo e per tanto se si richiedesse che l’imputato sia autore della dichiarazione, l’eccezione di cui all’art. 240 sarebbe inutile. Perché l’eccezione in questione abbia un senso è opportuno interpretare la disposizione nel senso per cui sia sufficiente che sia l’imputato a presentare in procedimento il documento anonimo. Ovviamente il valore probatorio di questi documenti sarà limitato perché sarebbe difficilissimo valutarne l’attendibilità.
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