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Mirra, Vittorio Alfieri, Appunti di Letteratura Italiana

Analisi di tutte le scene dell'opera Mirra di Vittorio Alfieri, più introduzione.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 08/06/2021

debora-rondinelli
debora-rondinelli 🇮🇹

3.8

(4)

3 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Mirra, Vittorio Alfieri e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! 1 13 LEZIONE 2/11 DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE Si tratta di un trattato politico incentrato sul rapporto tra intellettuali e potere, o per meglio dire, tra letterati (poeti) e potere. Dissenso tra Calzabigi e Alfieri. Il Del Principe è un trattato caratterizzato da una elaborazione discontinua, cominciato nel 1778, un anno dopo la Tirannide. Quest’ultima opera viene scritta tutta d’un fiato, mentre il Principe ve una elaborazione più tortuosa e meno lineare: Alfieri lo interrompe molte volte per il fatto che gli anni ’80 siano gli anni della piena produzione tragica e della produzione delle Rime del poeta. Il Principe verrà ripreso e concluso alla fine dell’85-86. Quando Alfieri conclude il Principe la prospettiva è già leggermente cambiata e cambierà ancora nell’89 quando lo revisionerà una seconda volta prima di stamparlo nell’edizione Kehl, che però non verrà pubblicata. Si può dire che sia uno sviluppo di una parte della Tirannide che parla del ruolo del letterato (capitoli su come si possa vivere sotto tirannide). Troviamo però una risposta irrisolta nella Tirannide: al lettorato si riconosce il fatto di mantenere viva la coscienza, di dire il vero, di stare il più lontano possibile dal tiranno e di cercare con prudenza di diffondere resistenza; se però non è più possibile vivere in maniera dignitosa e prudente, il lettorato deve essere disposto a morire. La scrittura diventa perciò un surrogato dell’azione, non si può agire in altro modo. Il Principe nasce con lo scopo di una risposta immediata ad un problema immediato, così come la Tirannide, nel quale però il ruolo del lettorato veniva definito in base al rapporto con la contemporaneità. Nel Principe il discorso si allarga perché si allontana un po’ dalla contingenza degli eventi. Il rapporto, o meglio non rapporto, tra lettorato e potere è dissezionato, con ricadute importanti. Queste ricadute sono: nuova definizione del lettorato e poeta con annesso ruolo nella società, totale sconvolgimento e ridefinizione di quello che è il canone dei poeti, che stabilisce quali siano autori buoni e autori non buoni, in base a vari criteri (es. eleganza, genere letterario). Alfieri sconvolge il canone, dicendo che autori come i grandi rinascimentali, di cui ci si faceva ancora gran vanto nel ‘700 (es. Ariosto, Tasso), in realtà non sono poeti che entrano nel canone alfieriano (per giudizio politico), il quale distingue letterati liberi e sprotetti da quelli non liberi e protetti. Tutti coloro che hanno servito dei principi non sono poeti liberi e tutta la poesia rinascimentale, a parte alcuni casi (es. Machiavelli), doveva convivere e cercare protezione dei principi, dandogli in cambio la loro celebrazione (celebrati attraverso poesie ecc.). Nessuno nega che Tasso, Ariosto, Virgilio e Orazio siano bravi, ma non sono veri scrittori, perché hanno piegato la verità per compiacere il potere. 14 LEZIONE 3/11 1782 compone Saul 1783 lascia Roma a causa dello scandalo sulla sua relazione con Luisa Stolberg. Non produce molto, ma si dedica all’edizione Pazzini Carli delle sue prime tragedie, che viene stampata e pubblicata a Siena, e alle lettere scritte da Ranieri de Calzabigi, il quale aveva avanzato alcune critiche sulle tragedie di Vittorio a al quale Alfieri risponde con una lettera. 1784 Alfieri si ricongiunge con Luisa in Alsazia e sente di nuovo l’impeto della creazione poetica. L’11 ottobre stende l’idea della Mirra. 1785 si trova di nuovo in Alsazia con Luisa e vediamo la stesura in prosa della tragedia (24-28 ottobre) 1786 versificazione della Mirra (7 agosto-11 settembre) 1788 a Parigi, fa copiare a Gaetano Polidori la versificazione della Mirra, nella prospettiva di pubblicarla nell’edizione Didot 1789 stampa la Mirra nel V volume dell’edizione Didot La Mirra è sottoposta a una sola versificazione, mentre Antigone a due e Filippo a più di due. Ciò non vuol dire che la versificazione dell’86 sia uguale a quella che troviamo nell’edizione Didot, Alfieri, infatti, interviene più volte modificando l’opera. Introduce ulteriori varianti, ad esempio nel primo atto inserisce un foglietto nel quale vengono annotate modifiche alla versificazione già stampata dell’edizione Didot. L’elaborazione della Mirra non è continuativa e occupa gli anni 1784-89. L’idea della Mirra nasce in Alfieri dopo che legge le Metamorfosi di Ovidio (l’episodio di Mirra è contenuto nel X libro di queste nei versi 298-502). Bibli è un altro personaggio mitico, presente nelle Metamorfosi di Ovidio, preda di un amore incestuoso per il fratello. 2 L’autore definisce questa lettura della Mirra delle Metamorfosi casuale e rimane colpito dalle parole di Mirra dette alla nutrice da qui nasce l’idea della tragedia in maniera repentina. I critici discutono sul perché Alfieri abbia avuto l’idea di scrivere Mirra e su quali potessero essere le sue parole che hanno portato l’autore a scrivere la tragedia. Una traccia si trova in un’edizione delle metamorfosi di Ovidio, pubblicata ad Amsterdam: nel libro decimo alcuni versi sono segnati e a margine, accanto al verso 402, vi è una nota in latino. Questa nota sembra indicare con una certa chiarezza come fosse stata proprio questa frase ad accendere in Alfieri l’idea della tragedia. Oltre alle metamorfosi di Ovidio, è probabile che Alfieri abbia consultato altre fonti sul mito di Mirra, tra cui le Fabulae di Igino, un autore latino del primo secolo d.C., e un dizionario delle favole, che ebbe grande fortuna nel ‘700. Inoltre, il poeta prende spunti e suggestioni anche dall’Adone, figlio di Mirra, di Gianbattista Marino e da una grande tragedia seicentesca, il Phèdre di Racine. Il tema dell’incesto è un tema di lunghissima durata e fortuna, a partire dalla bibbia, ed è trattato in vari generi letterari. Il destino di Mirra è segnato da una condanna: in tutti i miti, Mirra è sempre giudicata colpevole, empia, una donna che nutre un amore da respingere, ma al quale amore non sa resistere. Per Alfieri rappresentare una tragedia incentrata su un tema scabroso come l’incesto è una sfida, che accetta perché pensa che si possa ricavare una tragedia originale e che tocchi gli spettatori. Lo spettatore deve scoprire gradualmente il turbamento di Mirra: è una tragedia della reticenza. Si tratta di manifestare il turbamento duplice di Mirra, etico (amore sbagliato) e amoroso (l’attrazione per il fratello), senza che la protagonista accenni alle ragioni del turbamento: è un’autocensura su sé stessa, poiché si vieta di confessare questo amore. L’intento di Alfieri riesce, anche secondo un giudizio obbiettivo. Abbiamo la testimonianza di Massimo D’Azeglio, il quale scrive nella sua autobiografia che sua madre ebbe occasione di assistere a una lettura di Mirra e che a un certo punto della tragedia esclamò “che cos’ha questa donna?”, poiché è soltanto alla fine che si scopre la ragione del turbamento della protagonista. Alfieri scrive che la sua intenzione era quella di far fare e dire a Mirra le stesse cose che faceva e diceva nelle Metamorfosi di Ovidio, ma senza rivelarle. È questo il punto di divergenza tra le due opere: Ovidio fa consumare l’incesto, da cui nasce il figlio Adone, mentre Alfieri tratta di un incesto non consumato e il sentimento della protagonista è tenuto celato per tutto lo sviluppo della tragedia. Mirra è dedicata a Luisa Stolberg. Il sonetto viene redatto il 31 gennaio 1789 a Parigi e pubblicato con poche varianti poco dopo nel quinto volume dell’edizione Didot. Alfieri aveva anche in animo di aggiungere al sonetto un’epigrafe (frase, motto, che si appone all’inizio di un’opera e che è tratta da opere altrui, scelta per particolari affinità con l’opera a cui viene posta l’epigrafe), che poi, però, non venne stampata. Quest’epigrafe è tratta dal libro IX, verso 278, dell’Eneide (“nelle mie imprese mai senza te vorrò gloria”) e ribadisce l’importanza di Luisa per la vita sentimentale e poetica del poeta. Il termine “donna” è un vocativo, usato come “oh donna”. Troviamo 14 versi endecasillabi, cioè formati da 11 sillabe, con rima incrociata/abbracciata per le quartine (abba abba) e rima incatenata per le terzine (cdc dcd). Le rime sono anche: ● Piane ● Equivoche (le parole hanno lo stesso suono, ma significato diverso “si taccia” al v.1 è un verbo, mentre “taccia” al v.4 è un sostantivo; “ben conte” significa “ben note”, mentre “non conte” è un congiuntivo presente del verbo contare) ● Paronomastiche (suono simile, ma significato diverso “fronte” e “fonte” rispettivamente ai v2 e v6) ● Inclusive (una parola contiene un’altra parola in rima “infelice” ed “elice”) ● Grammaticale (stessa forma grammaticale “si taccia” e “dispiaccia” sono due congiuntivi presenti / “elice” e “dice” sono due indicativi presenti / “fronte” e “fonte” sono due sostantivi, così come “amore”, “core”, “dolore”) ● Facili (“amore”, “core”, “dolore”, perché ci sono molte parole che possono rimare con esse nella lingua italiana, soprattutto sotto lo stesso ambito, qui quello sentimentale) Carattere innovativo delle dediche delle tragedie alfieriane. Il poeta ironizza e polemica la consuetudine invalsa nella letteratura italiana di dedicare le proprie opere a persone eminenti o a persone da cui si possa ricavare vantaggi, riconoscimenti e protezione. Questo tipo di dedica è respinta da Alfieri, le cui opere non 5 Siamo all’alba della notte che precede il giorno delle nozze di Mirra e Pereo. Euriclea ha temuto che Mirra potesse morire proprio quella notte, a causa di questo dolore che è aumentato. Euriclea dice che cerca di non lasciarla mai da sola e ogni notte dorme accanto a lei. Quella notta la nutrice fa finta di dormire e sente che Mirra è agitata ed è sul punto di piangere, la sente soffocare i singhiozzi e, dopo che si è accertata che Euriclea stesse dormendo, si sfoga piangendo e urlando. Il sonno, secondo l’immagine tradizione, è un essere alato, dotato di grandi ali, che si distende su chi vuole far addormentare. Il sonno non visita da tempo Mirra, che quindi è insonne. (vv.83-99) Mirra piange, grida e pronuncia una sola parola “morte”, che è la cifra di Mirra, ossia l’unica via d’uscita della giovane. Mirra si rivolge in maniera dura alla nutrice, che tenta invano di farle confessare la ragione del suo dolore e che si rivolge a lei con l’amore di una madre. (vv.99-111) Alla prima violenta reazione di Mirra nei confronti di Euriclea, segue un repentino cambiamento di atteggiamento, per l’affetto che prova e forse per spostare l’attenzione dalle domande sul suo dolore, e inizia a rivolgersi a lei con dolcezza. Mirra rimane sempre decisa a non rivelare nulla e imputa la ragione di questo suo sfogo all’inquietudine che le giovani donne prossime al matrimonio provano e dice alla nutrice di non parlarne con la madre. Tuttavia, Euriclea non crede che questo sia il vero e unico motivo del dolore della fanciulla e, quindi, si rivolge a Cecri, tradendo la volontà di Mirra, capitolando dal suo ruolo, poiché, nonostante l’affetto che la nutrice prova per Mirra sia paragonabile a quello di Cecri per la figlia, riconosce la sua impotenza di fronte questa condizione di Mirra e sente che quest’ultima non si fida più di lei. Fa, quindi, un passo indietro e dà a Cecri la pienezza del suo ruolo di madre. Euriclea mostra di non aver capito la ragione del dolore, ma capisce che questo è molto profondo e mortale. (vv.111-119) Cecri con queste sue domande mostra di non aver capito, ma ha intuito qualcosa, anche se quest’intuizione le pare inspiegabile. Ella muove da un dato dell’esperienza: secondo lei, in una donna giovane, bella e agiata come Mirra non può esserci alcun dolore, se non una pena d’amore. Subito si chiede se prova dei sentimenti per Pereo, che Mirra stessa ha scelto spontaneamente, poiché proprio adesso che sta per sposarlo, mostra un dolore così acuto. A questo non ha risposta. Intuisce che la figlia ami un altro uomo, ma si chiede perché insistere su Pereo, se così fosse, dato che i genitori l’appoggerebbero comunque. (vv.119-127) Euriclea dice che il dolore di Mirra non nasce dall’amore. A sostegno di questo, ella esibisce la sua assoluta confidenza con Mirra, che la ritiene una madre e una sorella della quale si può fidare. Dall’espressione del volto e dai sospiri, Euriclea deduce che Mirra non ama Pereo. (vv.128-141) Euriclea insiste sul fatto che il dolore di Mirra non sia causato dall’amore, ma piuttosto dal non amore: constata che la giovane non ama Pereo e si chiede chi altro potrebbe amare. L’unico uomo che lei potrebbe amare è un nobile, ma non uno qualsiasi, poiché Mirra aveva avuto libera scelta ed erano tutti giovani regali. (Non ha capito che il nobile che ama non era tra i pretendenti). (vv.142-150) Un motivo, per il quale Euriclea non crede il dolore di Mirra non nasca dall’amore, è dato dal fatto che l’amore, anche quando è infelice, insoddisfatto, non corrisposto, lascia sempre nutrire a chi ama una speranza; il dolore di Mirra, invece, è disperato (senza speranza). Nei versi conclusivi della battuta di Euriclea, ella invoca la morte, che sarebbe per lei una liberazione, perché non vedrebbe più soffrire Mirra, e che deve raggiungere prima lei che la sua figlioccia. “lento fuoco”, lo si trova anche nell’Antigone (atto III verso 239), quando Emone dice che preferirebbe bruciare lentamente piuttosto che costringere Antigone a prendere determinate decisioni. (vv.150-155) Cecri è disposta ad annullare le nozze con Pereo, se Euriclea ha effettivamente ragione e se ciò vuol dire salvare la vita dell’unica figlia che ha. Ambiguo è l’uso del “a noi” (verso 152), che può riferirsi alle due donne, ma anche a lei e a Ciniro, come genitori. (vv.156-163) Euriclea si allontana da Cecri in preda all’agitazione, temendo che durante la sua assenza Mirra possa essere di nuovo caduta in preda alla più profonda disperazione. Chiude la battuta pronunciando parole di compassione nei confronti della madre naturale. (vv.163-171) Cecri dice che Mirra va accostata con delicatezza e che non vuole ancora andare da lei perché ha paura di turbarla. Cecri ha capito una parte della verità, cioè di com’è effettivamente Mirra, la quale si è sempre mostrata ai genitori come timida, riservata e pieghevole. In realtà Mirra si dimostrerà tutt’altro che pieghevole, poiché non cederà alla tentazione e all’amore per il padre. 6 Il colloquio mostra Cecri ed Euriclea a confronto e rivela molte cose di Mirra, dal loro punto di vista, e il fatto che Mirra rimanga inaccessibile, nonostante le due donne abbiano intravisto qualcosa. ATTO I, SCENA II Cecri rimane sola sulla scena. In questo monologo, si interroga sulle ragioni del dolore di Mirra, sulle quali indaga da un anno ormai. Si domanda se questa estrema afflizione della figlia che la consuma non sia dovuta a una punizione degli dèi, in particolare a una vendetta di Venere, invidiosa della bellezza di Mirra, esaltata troppo dalla madre agli occhi della dea. Qui vi è il motivo della vendetta di Venere che causa l’amore incestuoso di Mirra, sul quale Alfieri tornerà nell’autocommento del parere sulle tragedie e il quale suscita molte perplessità ai lettori contemporanei e successivi, perché ritenuto estraneo alla mentalità di Alfieri e non coerente con lo spirito razionalistico e illuminista del tempo. Tutte le passioni del cuore umane possono essere controllate dall’uomo stesso secondo il pensiero del ‘700. La protagonista, invece, non controlla questa passione, se non con la morte, e, per lo più, i sentimenti per il padre sono provocati dalla vendetta di una dea. L’elemento divino e fatale non è estraneo alle tragedie alfieriane: anche Antigone sente di essere colpevole (colpa diversa da Mirra) e subisce il destino, superiore a lei stessa, che non può decidere e controllare. Il chiamare in causa il destino, gli dèi, le maledizioni, sottolinea un aspetto del pensiero di Alfieri e delle sue tragedie, secondo il quale non tutte le passioni umane sono controllabili dalla ragione. Nonostante la disciplina, o autodisciplina, non si possono controllare gli impulsi più profondi dell’animo. Inoltre, soltanto l’attribuzione a una forza esterna può rendere innocente mirra, fondamentale per quell’oscillazione tra orrore e innocenza di cui Alfieri parla nel sonetto/dedica. 16 LEZIONE 9/11 ATTO I, SCENA III Ciniro e Cecri sulla scena. (vv.186-195) Ciniro si presenta subito come padre, non come re. Si presenterà quasi esclusivamente in tutta la tragedia nelle vesti di padre e di suocero. Contrariamente all’uso dispregiativo del termine “donna” fatto da Creonte nell’Antigone rivolgendosi ad Antigone stessa, qui tale termine viene utilizzato con il mero significato di “signora”. Egli esprime subito la sua preoccupazione e il fatto di non voler forzare la figlia a sposare Pereo. Questo atteggiamento di Mirra pare incredibile al padre, dato che ha scelto lei stessa di sposare l’erede dell’Epiro. Emerge la delineazione di un padre che privilegia la felicità della figlia, la quale viene prima del regno e della fama (opposto di Creonte). (vv.196-202) Cecri delinea il ritratto di Mirra per com’è sempre stata: ella è sempre stata più matura della sua giovane età, costante e per niente volubile, ferma nelle sue decisioni. È sempre stata legata ai genitori, così tanto da prevederne sempre i desideri e accontentarli. Per queste caratteristiche, il comportamento di Mirra è inspiegabile. Si presenta il ritratto della figlia ideale di una famiglia ideale, caratterizzata da concordia, fiducia e armonia, che, però, è stata rotta dall’attitudine di Mirra. (vv.202-215) Ciniro non è convinto delle parole di Cecri e pensa che la figlia si sia pentita della scelta fatta, ma che non abbia il coraggio di dirglielo. Chiede quindi a Cecri di introdurre tutte le sue capacità e il suo affetto per far sì che Mirra si apra con lei. Torna il motivo del silenzio e della chiusura: Mirra non può aprirsi con la madre. Ciniro dice che nel frattempo aprirà il suo cuore alla moglie (anche in questo è diverso da Creonte, che non si apre mai con nessuno). Parte da una constatazione di ordine politico: in quanto re, questo matrimonio porterebbe dei vantaggi, poiché Pereo è l’erede al trono di Epiro. Tuttavia, la convenienza politica passa in secondo piano, perché per Ciniro la cosa più importate è la felicità della figlia, pur riconoscendo a Pereo un alto valore umano. Quest’ultimo è anche un giovane dalle grandi qualità umane e dalla ricchezza di sentimenti, secondo Ciniro. Inoltre, è molto innamorato di Mirra. (vv.215-227) Qui troviamo un autoritratto di Ciniro, il quale è un padre e al tempo stesso un re con delle responsabilità. L’annullamento del matrimonio potrebbe anche portare alla guerra, ma non è interessato al lato politico della questione, perché è prima di tutto un padre, per natura; il caso e la fortuna l’hanno fatto re. Dunque, non potrebbe mai tradire i sentimenti che prova per la figlia. 7 Ciniro può essere definito un anti-re, un anti-tiranno per eccellenza, perché a differenza degli altri sovrani, non si muove per ragioni di stato (per Creonte viene prima il regno del figlio). (vv.228-237) Ciniro raccomanda a Cecri di rassicurare la figlia, dicendole che qualunque decisione ella prenderà non sarà causa di dolore per loro, ma l’unico motivo di infelicità sarebbe solo il continuare del suo dolore. Ciniro intende incontrare Pereo per capire se l’amore che Pereo prova per Mirra è ricambiato e per prepararlo con delicatezza a un passo che Ciniro vede ormai come inevitabile, ossia la rottura del fidanzamento. Qui si vede l’umanità del re Cipriano, il quale fa attenzione ai sentimenti degli altri. Da un lato, grazie a questo ritratto, si capiscono le parole dette da Cecri ed Euriclea, le quali affermano che Mirra non avrebbe mai potuto amare qualcuno che non avesse determinate qualità, quelle stesse qualità che il padre dimostra di avere. Ciniro, quindi, è degno dell’amore della figlia. Il re ha fretta di sondare il terreno con Mirra e Pereo, perché non ritiene giusto continuare a tenere il promesso sposo nell’incertezza (senso di lealtà) e sente l’urgenza di salvare la figlia. (vv.238-241) Cecri si congeda dal marito e si precipita da Mirra (con l’uso del termine “volo” si delinea quella fretta, quell’agitazione e quell’urgenza che sentono). Altro aspetto del ritratto familiare: quello che è rimasto saldo è la volontà comune dei genitori di Mirra e del vincolo amoroso che li lega e ciò rende l’idea di come Mirra in questa dinamica coniugale sia l’avversaria della madre. La battuta conclusiva sembra ripristinare la gerarchia degli affetti in famiglia e l’uso del “noi” sembra tagliar fuori Mirra, ponendo una distanza tra genitori e figlia. ATTO II, SCENA I Vediamo il colloquio tra Ciniro e Pereo, i quali parlano entrambi con la lingua degli affetti: le occorrenze di termini come “padre”, “figlio”, sono infatti onnipresenti. In questo dialogo emergono le differenze con una coppia omologa nell’Antigone (Creonte ed Emone). Pereo è il nome attribuito al fidanzato di Mirra, scelto da Alfieri; per Ovidio, infatti, non ha nome. Alfieri prende questo nome dalla tradizione classica e in particolare dal figlio di Laudice, una delle 50 figlie di Ciniro. (vv.1-17) Pereo si presenta chiamando Ciniro “re” e dice di essere impaziente di poterlo chiamare padre. Cerca di presentarsi come un figlio che il re acquisterà col matrimonio tra lui e Mirra. Ciniro ribatte chiamandolo per nome, anziché di chiamarlo principe: questo è segno di un legame confidenziale. Tesse nel seguito della battura un vero e proprio elogio di Pereo: Ciniro è felice di averlo come genero e gli dice che egli stesso avrebbe scelto lui tra tutti, ribadisce le sue qualità umane, la sua nobiltà e l’origine della sua famiglia. Maggiore attenzione viene data alle sue qualità umane, grazie alle quali queste, riuscirebbe a primeggiare tra tutti i re. Ciniro si definisce “padre amante d’unica sua figlia”, con il quale fa intendere un profondo affetto genitoriale, ma c’è una confusione inconscia del linguaggio (“amante”). Vi è un’annotazione politica e polemica: Ciniro sostiene che Pereo primeggerebbe tra tutti i re anche se gareggiasse come un semplice cittadino; questo sottolinea la superiorità di comportamento tra coloro i quali si mantengono nell’ambito dell’essere privati cittadini e chi esercita il potere regio (che è un potere tirannico). (vv.17-27) Pereo dice di voler meritare queste lodi fatte da Ciniro nei suoi riguardi, essendo sicuro che le sue parole lo spingeranno a diventare ciò che Ciniro pensa e spera che sia. Dice di essere disposto a conformarsi ai desideri e alle aspettative del padre della donna amata. Pereo si presenta come il figlio ideale e vediamo com’è il contrario dell’Emone di Antigone, poiché quest’ultimo arriva a ripudiare il padre, dicendo che non ha nulla da insegnargli. Invece, Pereo dice che Ciniro ha molte cose da insegnargli. (vv.27-33) Ciniro parla a Pereo quasi come fosse un figlio. Egli ha constatato che Pereo ama Mirra, ma deve chiedergli se questo amore è ricambiato. (Parallelismo con Emone e Creonte, quando il tiranno chiede al figlio se Antigone ricambi il sentimento che lui prova per lei. Ovviamente le finalità sono diverse: quella di Ciniro è una domanda vera, senza secondi fini). (vv.33-49) Pereo risponde con una battuta che conserva un eco dell’Antigone, diversa, ma simile a quella di Emone (atto III). Pereo spera e s’illude che Mirra lo ami, ma si accorge che lei, per quanto desideri amarlo, non può. Egli ha intuito lo sforzo che Mirra fa nell’amarlo (questo è uno dei nodi della condizione di Mirra, la quale si è 10 effettivamente si trova in una condizione di dolore è per cause banali, quali l’allontanamento dalla patria e dai genitori. Qui si nota un altro lampo di verità: col pensiero rivolto ai genitori che sta per lasciare, si comprende la lacerazione di Mirra, che vede nel matrimonio e nel distacco dai genitori da una parte la salvezza, ma dall’altra il dolore che l’allontanamento dal padre le provoca. (vv.184-196) Mirra, non nascondendo un certo fastidio nei riguardi di Pereo e di sé stessa, dà al fidanzato alcune rassicurazioni, coperte da un velo di ambiguità. Ella, infatti, dice cose che sono vere e false al tempo stesso: dice di essersi promessa a lui e di non pentirsene, ma Mirra, veramente, non è sicura, poiché vorrebbe e non vorrebbe sposarsi. Inoltre, afferma che non potrebbe nascondergli nulla, se non qualcosa che dovrebbe nascondere anche a sé stessa (rivelazione), ma anche questo non è vero: Mirra gli sta nascondendo tutto in realtà, perché quello che potrebbe rivelare è indicibile. Quindi prega Pereo e tutti di smetterla di preoccuparsi e lasciarle vivere questa tristezza, la quale prima o poi svanirà, se non stuzzicata dalle domande degli altri. Ella dice che proverebbe disprezzo per sé stessa se lo sposasse pur non apprezzandolo e gli garantisce di star dicendo la verità, quando giura di non voler essere di nessun’altro, se non sua. Questo giuramento è un disperato tentativo di allontanare la passione per il padre. (vv.196-209) Pereo sembra in un primo tempo più tranquillo, rassicurato dalle parole di mirra, e le chiede se voglia comunque sposarlo, senza posticipare la data, dato che non prova disprezzo nei suoi confronti. Mirra risponde in modo deciso “questo è il giorno” e aggiunge che il giorno dopo partiranno e lasceranno per sempre Cipro. Qui si possono notare degli accenti che tradiscono una malinconia dell’allontanamento. Mirra sembra vedere, quindi, nel matrimonio una disperata soluzione, ma anche una salvezza, ed è decisa a sposarsi e a partire. Pereo è interdetto da questo cambio repentino di Mirra, poiché prima Mirra stessa dice che il suo turbamento è anche dovuto l’allontanamento da Cipro, mentre ora vuole andarsene immediatamente. Mirra si tradisce dicendo che vuole abbandonare i genitori e morire di dolore: la prospettiva, quindi, è quella di sposare Pereo, lasciare la patria e morire (la volontà di morte di Mirra è vista sin dalla prima scena). Pereo è completamente sconvolto da queste parole, ha capito la volontà di Mirra (“il dolore ti ha tradito”) e dice che non sarà lui la causa della sua morte. Egli si ribella a Mirra e le chiude questa via di scampo, ch’ella aveva elaborato. Dunque, Pereo condanna Mirra a una morte empia, perché la protagonista, continuando a rimanere nella reggia, alla fine si tradirà e quello che ha cercato di tenere nascosto sarà invece rivelato, prima al padre e poi a tutti gli altri. Va fatto il confronto tra Emone e Pereo per la presenza della dichiarazione di una volontà di morte che coinvolge anche loro, che sembra avvolgere coloro i quali sono vicini alle due protagoniste femminili: infatti, Emone, come prova della sua virtù, si dà la morte e Pereo prima rinuncia al matrimonio e poi morirà. Mirra riceve ultimatum (come Antigone da Creonte) da Pereo che le dice di decidersi a parlare francamente con i genitori e a suggerire un modo per sciogliere questa promessa matrimoniale o egli si sarebbe ucciso. ATTO II, SCENA III Mirra rimane da sola e si sente smarrita, perché si rende conto di quello che ha detto, sa di essersi tradita e, quindi, di aver perso la possibilità di morire lontana dal padre. Ella ha anche il terrore di rimanere da sola con sé stessa e si precipita per cercare il conforto di Euriclea (il verbo “volare” torna) È un’eroina sola, condannata a una solitudine esistenziale, di cui è sgomenta, perché teme di doversi guardare dentro nel profondo. Si chiude il colloquio drammatico tra Mirra e Pereo. ATTO II, SCENA IV (VV.230-247) Euriclea esercita qui la sua propria funzione, ossia quella della nutrice, in quanto persona con la quale Mirra ha sempre avuto la confidenza che solitamente si ha con una sorella. Ciò consiste nel non autocensurarsi, come si fa con i genitori. La stessa Mirra è turbata dalle parole di Pereo e cerca in Euriclea il conforto di cui ha bisogno. Euriclea dice di aver visto uscire Pereo sconvolto e nota che anche la fanciulla lo è. Mirra si sfoga con il pianto, un pianto che suggerisce alla nutrice la convinzione che la protagonista, in realtà, non vuole sposarsi. Euriclea ritiene che sia quindi irragionevole l’ostinazione di Mirra nell’avanzare 11 con questo matrimonio. In questo Euriclea ha capito: Mirra non vuole il matrimonio, ma allo stesso tempo lo vuole, perché si illude che questo sia la sola soluzione alla condizione di dolore in cui si trova. Emerge in Mirra la voglia di morire, ardentemente, e sente che questa morte è l’unica cosa ella merita. (vv.248-257) Euriclea non può fare a meno di notare come soltanto una passione amorosa possa indurre un così grande dolore in Mirra, ma naturalmente la fanciulla risponde risentita, perché teme di rivelare la sua passione segreta, di conseguenza non può riconoscere che Euriclea ha ragione. Si parla delle furie come passioni infernali, non come figure infernali una passione che si trasforma in furia è una passione che sfugge completamente al controllo razionale dell’individuo. (vv.258-269) Mirra reagisce spaventata dal fatto che la madre possa pensare che la condizione della figlia sia dovuta a una passione amorosa e che possa sospettare di cosa si tratti. Le prime parole di Euriclea sembrano rassicuranti: è normale che una madre pensi che la figlia soffri d’amore quando la vede in quello stato. Aggiunge, però, che se Mirra fosse così tormentata per una questione di cuore, ci sarebbe un rimedio, ovvero la speranza che le cose possano cambiare. Siamo di fronte al fatto, ignoto a Euriclea, che non vi è alcuna speranza per Mirra. È dalla totale assenza di speranza, dalla vergogna e dall’infamia di questo amore, che nasce il tormento di Mirra. Euriclea riferisce alla fanciulla che, in preda alla paura per la sua condizione, si è recata supplice all’altare di Venere (sacra a Cipro) e ha cominciato un rito, bruciando censi, pregando e pronunciando il nome di Mirra, per la quale vuole chiedere un’intercessione da parte della dea. (vv.269-283) La battuta mirra è un esempio significativo del suo parlare rotto di fronte ai vari shock ai quali è sottoposta nel corso della tragedia. Mirra subito giudica negativamente Euriclea che va da Venere, dea dell’amore, quello stesso amore che la tormenta perché infame e che non può essere approvato dalla dea. Venere viene definita implacabile perché la furia amorosa non lascia scampo a chi la prova. Subito dopo essere esplosa in questa serie di esclamazione, Mirra sembra tornare in sé perché teme sempre di rivelare il segreto. Euriclea continua a raccontare cos’è successo davanti all’altare di Venere: gli incensi bruciano a fatica (segno che non sono apprezzati), il fumo anziché salire verso l’alto, sono per il basso (segno dell’ira di Venere), la statua della dea agli occhi di Euriclea sembra rianimarsi e guardare la nutrice in modo minaccioso e adirato, inducendola ad allontanarsi velocemente dal tempio, con lo sguardo della dea che la segue anche all’esterno. Capiamo con questo racconto il terrore provato dagli uomini al cospetto dell’apparizione della divinità, a maggior ragione quando questa è adirata contro essi. (vv.283-292) Le Erinni sono le furie infernali. Mirra è smarrita ed esprime, in maniera concisa, lo smarrimento e la solitudine dell’essere umano che si sente abbandonato dagli Dei e che sente di non godere più del loro favore (“abbandonata io son dai numi”). Come abbiamo già detto, Mirra è un’eroina della solitudine, non solo per quanto riguarda il cerchio familiare, ma a livello universale: non c’è più nulla o nessuno a cui ella si possa rivolgere. Questo senso di abbandono profondo suggerisce una sola autentica via d’uscita, ossia la morte, che sta per chiedere a Euriclea, come un estremo atto di pietà e di compassione per lei. È ormai incapace di sopportare un dolore così enorme, aggravato dalla persistenza e dalla lentezza con la quale questi la opprime. (vv.293-299) Mirra, dunque, chiede alla nutrice di darle la morte. La sua condizione è diventata insopportabile anche per gli altri, tra cui i suoi genitori che si consumano vendendola così. Al verso 297, troviamo un chiasmo “odiosa” e “dannosa” sono, inoltre, aggettivi in rima e ciò accentua ed evidenzia gli effetti della condizione di Mirra su lei stessa e sugli altri, alla condizione non c’è un’altra via d’uscita, se non la morte. (vv.300-311) La richiesta della protagonista sconvolge Euriclea al punto tale che questa perde i sensi. La prima parte della battuta di risposta di Mirra esprime una disperata durezza e un senso di delusione nei riguardi della nutrice, che le è stata accanto sin dalla nascita e le ha inculcato altissimi principi morali, i quali fanno di Mirra, nonostante la sua passione, una fanciulla integra moralmente (come Antigone). Grazie a questi principi, ella preferisce la morte all’infamia, e la merita. Successivamente a questo, Mirra si smarrisce di nuovo, perché ha pronunciato la parola “infamia” e pensa di essersi svelata (lo teme). Cerca disperatamente di riprendere il controllo delle parole e poi si accorge della nutrice che ha perso i sensi, a causa dello stupore orrendo, provocato dalla sua richiesta. Si rivolge nuovamente alla nutrice nella lingua degli affetti, la quale era stata rifiutata prima, chiamandola seconda madre e ridandole quel ruolo materno che Euriclea sente di avere. 12 (vv.312-320) Anche nella battuta di Euriclea, per sottolineare lo sgomento e lo stupore inorridito che ella prova, vi è un chiasmo e vi sono delle ripetizioni. Mirra risponde dicendo che la sua richiesta non è dovuta a ingratitudine nei confronti di Euriclea e che il suo dolore non la rende inconsapevole di partecipare al dolore degli altri. Dato che Euriclea si rifiuta di accettare la richiesta, ella avrà notizia della figlioccia morta prima ancora che giunga nell’Epiro (dichiara, quindi, di essere ancora decisa a sposare Pereo). Euriclea è ancora incredula alla sua decisione, poiché le nozze non sono sostenute da alcun sentimento da parte di Mirra. Vuole congedarsi dalla figlioccia dicendo che avrebbe riferito tutto ai genitori (“corro”). (vv.320-335) Mirra riprende, seppur faticosamente, il controllo di sé e, di fronte all’intenzione di Euriclea di informare i suoi genitori, si rivolge alla nutrice in maniera imperiosa, quasi ricattandola: la nutrice avrebbe perso tutto l’amore e la fiducia della fanciulla. Dal tono imperioso passa poi alle preghiere, con climax ascendente (“ti prego, scongiuro”), e poi cerca di dare nuovamente una giustificazione mite alla sua condizione, invitando la nutrice a non tenere conto delle parole che ha pronunciato, perché in preda al dolore si dicono cose che non si vorrebbero dire e alle quali non si dovrebbe dare troppa attenzione. Dunque, le è stato sufficiente questo sfogo, per sentirsi il coraggio raddoppiato, per riprendere il controllo di sé e incita Euriclea a starle accanto e ad aiutarla con la sua presenza e le sue parole a fare l’unica scelta onorevole che le resta, cioè il matrimonio con Pereo. Queste parole più che tranquillizzare, inquietano, perché evidenziano tutto lo sforzo di mirra, che sta per sposarsi, e che deve fare ricorso a tutto il suo coraggio per ciò. Ma mirra le pronuncia nel tentativo di autoconvincersi, di riprendere in mano la situazione e tornare a essere quella che è sempre stata, una “domina signora di sé stessa”, capace di decidere di sé, ma anche la fanciulla che è sempre stata in grado di prevenire i desideri degli altri, soprattutto dei genitori. Mirra ripropone la via con Pereo perché è la via con la quale giungerà alla morte. L’aggettivo “orrevol” si contrappone all’infamia, della quale Mirra si sente di essere macchiata. 18 LEZIONE 11/10 ATTO III, SCENA I In questa prima scena vi è il colloquio tra i due genitori di Mirra, Ciniro e Cecri. (vv.1-19) I due continuano a essere molto preoccupati e a non comprendere le ragioni del dolore e dell’oscillazione nelle decisioni della figlia. Cecri esprime la certezza che Mirra non ami affatto Pereo e che questo matrimonio non può che portare quest’ultima alla morte. È un‘intuizione corretta, che però non c’entra con precisione il bersaglio, perché le ragioni le rimangono ignote. Ciniro, con una certa impazienza, dice di voler sentire direttamente dalla figlia il fatto che non ami Pereo e che quindi si senta obbligata. Egli ha fatto convocare Mirra a nome della madre, quasi temendo che col suo nome ella si sarebbe potuta spaventare e sottrarre all’incontro (intuizione inconsapevole, ma corretta mirra tutto vorrebbe tranne che trovarsi sola con il padre, anche se in fondo è la cosa che desidera di più). Ciniro ribadisce che lui e la moglie non vogliono forzare Mirra a far nulla e sottolinea l’amore che provano per lei. Il linguaggio mostra una misteriosa ambiguità, sul fatto che Mirra ami profondamente i genitori. La mancanza di confidenza tra i tre personaggi è indicata con l’uso del verbo “chiudere”, che continua a sottolineare la condizione di Mirra, la quale è ormai totalmente inaccessibile. Ciniro dice che hanno sempre voluto che Mirra fosse libera di scegliere, per sé e per i genitori stessi (“arbitra”, ossia colei che decide). Mirra si presenta sulla soglia della porta e Cecri, vedendola arrivare, subito percepisce in lei un cambiamento esteriore: l’espressione della figlia sembra più lieta, meno dolorosa e i suoi passi più sicuri. Vediamo l’auspicio desideroso e malinconico della madre perché Mirra possa tornare quella di una volta. L’apparente maggior serenità di Mirra subito provoca in Cecri gioia, causata dal solo lampo, bagliore di una condizione dello spirito differente. ATTO III, SCENA II Mirra appare sulla scena. (vv.19-52) All’invito di Cecri di avvicinarsi, Mirra si blocca spaventata perché vede che, oltre alla madre, dalla quale sola pensava di andare, c’è anche il padre e quindi cerca di ritrarsi, poiché teme sé stessa. 15 e come sostegno alla vecchiaia dei genitori. Torna il tema della preoccupazione nei confronti dei genitori (Antigone nei confronti di edipo, che non ha neanche il supporto fisico della figlia). Mirra sente molto il vincolo dei legami affettivi, a prescindere dalla passione per il padre. È una figlia devota e rivolge il suo pensiero alla vecchiaia dei genitori e alla loro solitudine che sarà alleviata dalla presenza dei nipoti, se acconsentiranno a un distacco ora doloroso, ma che può promettere una vita diversa a tutti. La reggia diventa infausta e una prigione per Mirra, nonostante non ci sia un tiranno e un padre come Creonte. Tuttavia, bisogna comunque sfuggire a un tiranno, difficile da eludere, perché non si tratta di un re spietato che vuole imporre la propria volontà, ma che vive dentro Mirra stessa. Mirra crede momentaneamente a questo tentativo, ma non potrà sfuggire a sé stessa, quindi sarà un tentativo vano. Dice si sentire dentro il suo cuore un presagio funeste, di morte, nel caso le venga impedito di partire. (vv.204-222) Vediamo una reazione oscillante da parte dei genitori, tra timore, dolore e speranza. Ciniro è spaventato, tuttavia acconsente alla volontà della figlia, preferendo il distacco da lei piuttosto che continuare a vederla in quella condizione. Cecri, in lacrime, tace per il momento e, dopo aver sottolineato il dolore che causerà questo distacco e aver constatato che la sua vita dopo la partenza di Mirra sarà sconsolata, si augura che almeno avrà dei nipoti. Anche Cecri allora concorda sul fatto che le nozze devono essere celebrare. Alfieri mette in rilievo l’atteggiamento sentimentale dei genitori di Mirra: essi sono spaventati e storditi da tutto ciò, però l’affetto che provano per la figlia ha un fondo egoistico (Cecri e Ciniro si concentrano sul dolore che proveranno dopo la partenza di Mirra). Queste parole lasciano intendere come nei confronti di questa figlia vi sia un diaframma che impedisce loro di comprendere Mirra e che isoli ancora di più quest’ultima. Cecri e Ciniro sono una coppia unita, compatta, e in tutto questo Mirra appare come un’entità sempre più sola. Alla fine di questo colloquio Mirra si rivolge alla madre in termini molto affettuosi, dicendole che, acconsentendo alla sua volontà di sposare Pereo, è come se le desse la vita per la seconda volta. Questa sarà l’ultima circostanza in cui Mirra si rivolgerà a Cecri come figlia. LEZIONE 19 16/11 ATTO III, SCENA III Cecri e Ciniro sono soli sulla scena e commentano quanto detto dalla figlia. (vv.223-235) Essi sono colpiti dall’aspetto di Mirra, che sembra suggerire di essere tornata padrona di sé stessa. Ciniro dice che sembra che ci sia un potere oscuro e sovrumano in Mirra. Cecri allora interviene rivolgendosi direttamente a Venere e alla sua capacità di vendicarsi crudelmente nei riguardi di chi ritiene l’abbia offesa. Cecri comincia a raccontare alcune inquietanti circostanze per ora accenna solo alle parole superbe pronunciate al cospetto della dea, che avrebbero dovuto far scaturire l’ira di Venere soltanto su di lei, e non sulla figlia. Importante è l’uso dell’aggettivo “innocente” (Mirra). (vv.235-250) Piena di orgoglio e di superbia per essere la sposa di un marito eccezionale e madre di una figlia eccezionale, la fama della cui bellezza ha superato quella di venere e ha attratto persone da tutta la Grecia, più di quante lo stesso culto della dea poteva far venire, Cecri non ha omaggiato la dea bruciando l’incenso durante le feste a lei dedicate. Si ribatte con compiacimento su alcune peculiarità della sua fortuna in quanto madre e moglie: l’unione con il marito, bello e amabile, e la nascita della figlia, anche lei bellissima. Ha fatto vanto della bellezza di Mirra e questo ha scaturito la vendetta di Venere, anche se Mirra stessa è molto modesta riguardo la sua bellezza. (vv.251-271) Nonostante le numerose offerte a Venere fatte da Cecri per cercare di rimediare al suo atto di orgoglio e superbia, la dea si è chiusa in sé e non ha mai dato segno di apprezzare queste offerte. Ciniro, che ha sempre ritenuto la compagna sincera, la rimprovera, seppur blandamente, per il fatto di non avergli mai rivelato questo avvenimento, perché egli, in quanto padre INNOCENTE (di nuovo), avrebbe forse potuto rendere più accette le sue suppliche alla dea. Ciniro spera ancora di poter rimediare battuta piena di “forse”, tentenna nella sua speranza e nel dubbio. L’illusione di Ciniro, anche se dubitativa, è che la dea rinunci a turbare la figlia, se ella lascerà Cipro (a lei consacrata), quindi accoglie con sollievo il giungere di Pereo, in quanto è il solo che la può salvare, al prezzo che la figlia lo abbandoni subito. 16 ATTO III, SCENA IV SONO QUA Pereo entra in scena. (vv.272-281) Vi è l’immagine mitica della vita umana vista come un filo che viene filato dalle parche, le quali a un certo punto lo spezzano, spezzando così la vita. Pereo sembra quasi scusarsi del suo aspetto e del fatto di non essere stato così sollecito nel presentarsi a Cecri e Ciniro. La decisione che ha preso, l’ha presa con grande sofferenza, la quale costerà a Pereo la sua stessa vita. Offrendo la sua generosità, si rammarica di non poter impiegare il rimanente della sua vita a favore dei genitori di Mirra non può, perché il prezzo da pagare sarebbe portare Mirra alla morte. Dunque vuole che si rompa la promessa fatta, fatale, perché se mantenuta ucciderebbe Mirra. Nello stesso tempo, Pereo non sopravviverà a questa decisione. (vv.281-301) Ciniro, nonostante Pereo gli abbia annunciato la sua decisione, gli si rivolge chiamandolo “figlio” lingua degli affetti, questa volta però segna l’isolamento di Mirra, perché sta venendo a formarsi un mondo impenetrabile che la esclude. Nelle parole di Ciniro viene riferita l’estrema decisione di Mirra, spiega a Pereo come lei stessa non sa dare una precisa ragione al suo dolore e questa salute ormai fragile sembra essere non più conseguenza, stato d’animo, ma causa, come se Mirra fosse entrata in un circolo vizioso, che si può spezzare con il matrimonio e soprattutto con la partenza dei due sposi. La partenza è presentata a Pereo come prova d’amore che lui può dare a Mirra, dicendo che solo lui potrà alleviare il dolore della protagonista. Ribatte sul fatto che Pereo è la sua ultima speranza, che può alleviare la condizione di Mirra, la quale vuole subito partire con lui, dando prova così dei suoi sentimenti per Pereo. (vv.302-305) Pereo ha un’intuizione corretta nelle oscillazioni di Mirra, nella nostalgia da lei manifestata per quella possibilità di riappropriarsi di una vita felice, c’è però sempre l’altro estremo della bilancia, ossia la morte. (vv.305-315) Cecri ha sposato in pieno la tesi esposta da Mirra, sull’efficacia che in un cuore e mente giovane può avere il cambiamento di condizione, ma soprattutto di luogo. Cecri vuole credere a tutto questo e quindi si conforma alle parole della figlia, potremmo dire che a Cecri fa comodo, in maniera inconscia, aderire a questa tesi di Mirra, perché credere che andandosene Mirra potrebbe stare meglio la solleva dalla responsabilità che sente per essere stata la causa della sua sofferenza. Consiglia al futuro genero anche di non parlare più del dolore di Mirra, perché l’unico effetto è quello di accrescere questo dolore. Pereo si accerta ancora che Mirra per lo meno non lo detesti. (vv.316-331) La conclusione è speculare a quella del colloquio tra Ciniro, Cecri e Mirra: vediamo il rapido rientro del personaggio nelle proprie stanze per prepararsi alle nozze il più rapidamente possibile, come fa Mirra. In più quest’ultima dice alla madre “tu mi dai la vita per la seconda volta” e Pereo dice a Ciniro “mi hai fatto tornare in vita”. Ricordiamo che Pereo era in una condizione di non vita, di morto vivente, e le rassicurazioni di Ciniro lo riportano alla vita. Per i due sposi, dunque il colloquio con i genitori e futuri suoceri sembra quasi segnare la possibilità di una rinascita, che però sarà delusa, perché Mirra non riuscirà a soffocare la sua passione e ad accettare davvero il matrimonio con Pereo. Occorre in queste parole l’immagine di una Mirra com’era stata, l’immagine della fanciulla sempre pronta a prevenire e conformarsi ai desideri altrui, così ha fatto sempre fino alla passione dolorosa e apparsa in lei. Ciniro dice che se Pereo riuscirà a usare la stessa dolcezza che i genitori hanno usato con lei, Mirra allora si conformerà ai desideri del marito. Per quanto riguarda il lessico, abbiamo un’oscillazione tra la speranza per il possibile sollievo, che questo matrimonio e l’allontanamento possono arrecare, e dall’altra il dolore della separazione (“involarci”). Ciniro decide che il matrimonio sarà celebrato all’interno della reggia e non al tempio. Pereo “volo” che richiama l’involo? di Ciniro, stessa radice. ATTO IV, SCENA I Mirra si sta preparando al matrimonio e la nutrice, una volta che ha appreso che ella intende lasciare subito Cipro, mostra la propria gelosia. (vv.1-19) Euriclea, che ha già avuto sentore di quali siano le intenzioni di Mirra, si rivolge a lei con un certo risentimento lamentoso, chiedendolo se davvero è intenzionata a non portare nessuna delle sue serve e sottolinea come Mirra non abbia saputo distinguere tra tutte le sue ancelle ed Euriclea. 17 Mirra è dolce figlia per Euriclea. Ricatto sentimentale: che cosa ne sarebbe stato di lei, dice Euriclea, una volta che sarebbe rimasta sola, con Mirra lontana? Mirra, che faticosamente si era ricomposta, viene di nuovo pressata da queste parole di Euriclea, che esprimono egoismo. La nutrice si sente tradita ed è offesa che non la reputi diversa dalle altre serve. Mirra ribadisce che ha già deciso e ha l’autorizzazione dei genitori. Euriclea insiste sul legame che ha con Mirra e mai si sarebbe aspettata di riscontrare nella fanciulla una simile durezza nei suoi riguardi, rendendosi conto che questa durezza è solo una corazza che ella ha costruito per difendersi dalle passioni. Mirra cerca anche di consolare Euriclea, adducendo l’impossibilità di portarla con sé; ella, infatti, vuole troncare tutti i legami con la reggia di Cipro ed Euriclea sarebbe un elemento destabilizzatore. La nutrice però non tace e continua a tormentare Mirra. Oltretutto, le rinfaccia quasi il fatto che voglia partire così presto. La gelosia la si può vedere nell’aggettivo possessivo “tuo” riferito a Pereo, sottolineando che Mirra ha dimenticato e vuole dimenticare tutti gli altri suoi affetti. (vv.20-40) Euriclea prima ha augurato che per lei questo giorno delle nozze sia per lei fausto, purchè io sappia che lei sia felice che cazzo ho scritto? Euriclea è crudele nei riguardi di Mirra, mostra di pensare soltanto a sé, al suo dolore, al fatto che rimarrà sola e senza ragione di vita. Augurandole un giorno fausto e propizio, ironicamente, sottolinea malignamente il cambio di stato d’animo di Mirra, di come ora sia contenta di andarsene. Anche Euriclea, seppur in misura più accentuata, mostra nei confronti di Mirra un affetto, che però ha un risvolto egoistico, che si traduce in un ricatto morale che fa vacillare la protagonista, la quale dice che deve essere spietata con tutti, se vuole resistere, e dura prima di tutto con sé stessa. Si vede la costruzione di una forza d’animo che Mirra non è più in grado di esercitare. ATTO IV, SCENA II Mirra deve ora affrontare nuovamente Pereo. Euriclea è una testimone muta. (vv.41-49) Pereo, dopo il colloquio con i genitori di Mirra, si presenta alla futura sposa con uno sguardo lieto e si dichiara pronto a esaudire senza indugio il suo desiderio, ossia a partire subito dopo le nozze alla volta dell’Epiro. Sineddoche vele per navi valore evocativo, perché Mirra aspira a sciogliere le vele al vento, è un’immagine liberatoria dell’oppressione che lei sentiva nella reggia di Cipro, ripresa dell’immagine da Pereo, aspirazione a un nuovo inizio e alla libertà dall’oppressione del dolore. (vv.50-73) Mirra si rivolge a Pereo con affetto, chiamandolo per la prima volta “dolce sposo”, elevandolo alla condizione matrimoniale imminente, assicurandolo che partire sola con lui è la cosa che ella più desidera al mondo, “sola con te” ribadisce Mirra. Ritiene che la medicina ai suoi mali fatali sia proprio il fatto di sottrarre alla propria vista tutto quanto ha fatto parte del suo passato immagine di Mirra che si immagina solcare nuovi mari, vedere nuovi regni per tornare quella che era. Quando lei riuscirà a recuperare sé stessa, allora potrà sperare di non essere più motivo di dolore per Pereo, a cui chiede soltanto requie, ossia una tregua, cioè di non continuare a parlare del passato di Mirra, ricordandole oggetti e persone che lei ha lasciato, e che forse sono la stessa origine dei suoi mali vi è l’illusione indiretta che Pereo non può comprendere la vera ragione del dolore di Mirra (il padre) ed è un’allusività ambigua che pervade tutta la tragedia e che dà al lettore un senso di incomprensione, che però sente l’ambiguità. Mirra qui vede la prospettiva di un futuro migliore. (vv.74-96) Pereo mette la sua vita nelle mani di Mirra. Dichiarazione d’amore senza condizioni di Pereo, che è disposto a tutto per lei, vivrà solo per lei, disposto ad accontentare tutti i desideri di Mirra, a ricoprire ogni ruolo possibile, sposo, amante, fratello, amico e servo (manca il ruolo del padre). Pereo si consegna a Mirra senza alcuna difesa, che sarà arbitra e donna non solo del suo destino, ma anche di quello di Pereo. (vv.96-106) Mirra, in uno stato di esaltazione per l’assoluta generosità e amore di Pereo, gli riconosce il ruolo di essere l’unico a poterla curare dalla sua malattia, dal suo dolore e confida che a poco a poco ella potrà nutrire amore per lui, una volta che l’amore di Pereo sarà riuscito a scacciare il dolore che risiede nel cuore di Mirra. 20 Cecri interviene, insistendo sul ruolo di padre di Ciniro. Si noti il chiasmo ai vv.229-230, il quale è rinforzato dall’enjambement (per modo di dire cit. pp, perché in realtà la frase è conclusa) “tu sei padre, padre tu sei”. Ella è rimasta sgomenta davanti all’attacco del marito nei riguardi della figlia ed è ancora più colpita dalla risposta della figlia all’attacco del padre. Vede Ciniro da una parte che trattiene a stento la propria ira e dall’altra Mirra che trattiene a stento la propria disperazione. Cecri sottolinea come Mirra non sia padrona di sé stessa e sia fuori di sé. Ciniro lascia la scena, molto turbato, incapace di reggere anche la sola vista della figlia così sconvolta, e quasi deprecando il fatto di essere il più infelice dei padri. Sull’orlo delle lacrime, Ciniro si ritrae a sfogarsi col pianto altrove. Si nota la differenza con altri padri/re della drammaturgia alfieriana, es. Creonte. Dopo aver detto a Cecri ed Euriclea di stare accanto a Mirra per farla riprendere, egli promette che tornerà per parlare con la figlia, non come padre irato, ma affettuoso. Un elemento importante in tutta la tragedia di Mirra sono le didascalie implicite, le quali si fanno molto presenti, es. l’insistenza con cui tutti i personaggi ribattono sull’aspetto sconvolto di Mirra; chi recita nella parte della protagonista non deve esprimere a parole il suo sconvolgimento, ma si deve comprendere dall’aspetto. (vv.242-244) Euriclea rivendica ancora una volta il ruolo di madre seconda, anche se molte volte si sente più madre di Mirra di quanto non lo sia Cecri. L’aveva già chiamata figlia anche all’inizio della scena, quasi come se sentisse di essere in concorrenza con Cecri. È quasi incapace di parlare per il troppo pianto. ATTO IV, SCENA VI Anche Euriclea sta per lasciare la scena, congedata da Cecri che vuole parlare da sola con la figlia. ATTO IV, SCENA VII Cecri rimane da sola con la figlia, con la quale ha finalmente quel colloquio al quale si era impegnata con Euriclea sin dal termine della scena I dell’atto, ossia da quando Cecri aveva detto che avrebbe fatto chiamare la figlia, ma poi è mancata l’occasione ecc. (vv.244-252) L’uscita di Ciniro provoca turbamento in Mirra, che riesce a chiamarlo “padre”: quest’appellativo è strettamente collegato a “madre” che usa subito dopo e sottolinea il fatto che, dopo aver chiesto la morte a Ciniro, ora la protagonista la sta per chiedere a Cecri, in quanto suoi genitori. Mirra definisce sua madre “pietosa”, ossia compassionevole, e le dice che se è davvero tale, deve dare un’arma alla figlia. Mirra garantisce il pieno possesso delle sue facoltà, qui dichiara, nonostante l’aspetto sconvolto, di essere tornata “domina”, padrona di sé. Quindi, la sua richiesta non è motivata dal turbamento o dallo sconvolgimento, ma dalla lucidità, in nome della quale, Mirra conclude con un’affermazione minacciosa. Dice alla madre che si pentirà, ma sarà troppo tardi, di non aver dato lei stessa l’arma a Mirra per uccidersi. Questo sarebbe stato il vero gesto di pietà di Cecri. (vv.253-270) Cecri è una buona madre, come possiamo vedere anche dagli scritti su Alfieri, ma in qualche modo abdica al suo ruolo di madre, cercando di accreditarsi come sorella di Mirra per stabilire un rapporto confidenziale con la figlia. Cecri sostiene che la figlia non sia in sé, che vaneggi, quando Mirra stessa ha detto poco prima di essere pienamente in sé e che dunque la sua richiesta di morte muove da un ragionamento razionale. Questo insistere di Cecri provoca il fastidio di Mirra, la quale è sconvolta dall’offerta della madre di condividere un dolore non condivisibile e di porsi a lei come sorella, quindi non soltanto abdicando al ruolo di madre, ma proponendosi come confidente. Cecri dice non importa la vergogna per come sono andate le nozze con Pereo, ora che quell’ostacolo è stato superato grazie alla natura che ha prevalso sulla figlia. Cecri pensa che il matrimonio fosse tra le ragioni del dolore di Mirra, un dolore che ora reputa condivisibile e per il quale può confidarsi in lei. Ma queste parole di Cecri provocano un effetto opposto in Mirra, la quale cambia aspetto (didascalie implicite): il suo sguardo sembra più turbato e addirittura irato. Infatti, Mirra comincia a provare ira nei riguardi della madre, un’ira che di qui a poco esploderà con le parole. (vv.271-277) La battuta di Mirra si divide in due parti. Nella prima parte, comincia a manifestarsi anche verbalmente l’ira della protagonista nei riguardi della madre. Fa uso del verbo “squarciare”, riferito al cuore, sottolineando il profondo dolore di Mirra e il suo essere in preda di sentimenti laceranti. 21 Soltanto il tentativo di Cecri di avvicinarsi provoca in lei un sentimento di repulsione. Mirra, poi, faticosamente (parlare rotto, segnato da punti di sospensione) recupera ancora una volta il controllo di sé e chiede perdono alla madre, definendosi figlia ingiusta, ingrata e indegna dell’amore materno e supplicando la madre di lasciarla al suo destino e di ucciderla. Rinnova, dunque, la richiesta di darle la morte. (vv.277-281) Cecri rifiuta di accettare le parole di Mirra e cerca di costruire nuovamente un rapporto di confidenza con la figlia, dicendo non soltanto che la morte della figlia causerebbe la sua stessa morte, ma proponendosi di vegliare lei stessa sulla vita futura della figlia, di essere sempre con lei e di condividere ogni suo dolore. (vv.282-287) Queste parole di Cecri scaturiscono la reazione furiosa di Mirra, la quale risponde con violenza alla madre. La sola vista della madre e la sola idea di averla accanto per tutta la vita provocano in lei una totale ribellione. La vista di Cecri è per la protagonista repellente e disgustosa, ad un punto tale che preferirebbe strapparsi gli occhi per non vederla più  ripresa del mito epico di Edipo, il quale si strappa gli occhi dopo aver saputo di aver commesso incesto. Cecri si profila in queste battute di Mirra come la rivale di lei, non come madre, e il fatto che ella provi a essere madre e sorella alla fanciulla, suscita in quest’ultima una reazione violentissima. (vv.287-289) Il fatto che Cecri finalmente avverta che Mirra la detesta non le permette, però, di capire il motivo. Cecri non è in grado di ascoltare fino in fondo ciò che la figlia le sta dicendo. Le parole di Mirra dovrebbero, oltre che far rabbrividire la madre, anche farla insospettire. La reazione di Cecri non nasce da una riflessione razionale sulle parole della figlia, ma da una reazione epidermica, ella infatti rabbrividisce, perché sente che ciò che Mirra le sta dicendo è terribile, anche se continua a non capire cosa sia davvero terribile in tutto ciò. (vv.289-297) La battuta di Mirra è violentissima nei riguardi della madre. Ella non riesce a tacere, a domare l’empito della passione dell’odio nei confronti della madre, che è la prima, l’unica e l’eterna ragione del dolore di Mirra (perché è la sposa di Ciniro, anche se Mirra non lo dice). Cecri anche qui non riesce a vedere al di là di ciò che Mirra le sta dicendo. (vv.297-302) La protagonista, approfittando del fatto che la madre continui a non capire, riesce ancor una volta a riprendersi e ad attribuire a una forza ignota e oscura queste parole, che escono dalla sua bocca quasi contro la sua volontà. Cerca in qualche modo di rassicurare la madre, che ha amato e che ama, e c’è di nuovo la manifestazione della divisione dell’io di Mirra, della sua lacerazione nei confronti di Cecri, che ama e che odia. Anche se Cecri non ci fosse, Mirra non cederebbe mai alla passione per il padre, come fa la Mirra di Ovidio. La protagonista implora ancora per l’ultima volta la madre di darle la morte. (vv.302-306) Questa conclusione rivela come la madre, che ha avuto dei segni molto più espliciti che in passato dei sentimenti della figlia, non riesca comunque a coglierli. Cecri, quindi, torna a quell’atteggiamento semplicistico che ha adottato all’inizio della scena. Torna a essere la madre che cura e che pensa che col riposo il dolore della figlia cessi. Questo ci fa capire la sostanziale incapacità di Cecri di cogliere la verità. Ella cerca anche di sostituirsi a Euriclea, imponendosi e pensando di riuscire a scacciare le ombre che turbano l’animo di Mirra. Si pone come la madre perfetta, ma in maniera superficiale. Cecri si ritrae, dopo lo smarrimento dovuto alle parole della figlia, e sembra adagiarsi su una specie di auto conforto sulla possibilità di recuperare una dimensione esistenziale serena anche per la figlia, semplicemente riappropriandosi del suo ruolo di madre con l’accudimento di Mirra e con il conforto anche materiale alle esigenze di Mirra. Questo sottolinea, ancora una volta, l’enorme solitudine di Mirra, che non ha più un ruolo in questa famiglia, composta da un padre amorevole e da una madre che le vuole bene, ma che non la comprende e che non è stata presente come forse avrebbe dovuto. Quest’armonia familiare s’incrina e diventa irrecuperabile. 23 LEZIONE 24/11 ATTO V, SCENA I Ciniro solo sul palcoscenico e dalle sue parole comprendiamo che Pereo si è dato la morte. (vv.1-8) Ciniro dà l’annuncio, anche agli spettatori, della morte di Pereo. Secondo la tecnica teatrale alfieriana, questo avvenimento, che si svolge fuori scena e del quale avremo una descrizione più dettagliata 22 nelle parti successive dell’atto, non viene annunciato o descritto dal coro, ma è uno degli stessi personaggi della tragedia a raccontarlo agli spettatori. Il primo pensiero di Ciniro è per Pereo, il quale era un giovane infelice, sinceramente innamorato di Mirra, che ha mantenuto la promessa pronunciata alla fine delle fallite nozze. Egli prova un senso di colpa nei riguardi del giovane, perché non è riuscito a salvarlo. Il suo pensiero, in quanto padre, è rivolto anche al padre di Pereo, e non è il pensiero di un re che ha visto fallire un’alleanza matrimoniale, ma da padre a padre, che vedrà tornare il cadavere del figlio, che si è suicidato, anziché vederlo tornare come sposo felice. A questo pensiero segue un ritorno alla eguale miseria della reggia di Cipro. (vv.8-21) Dopo il pensiero rivolto al dolore del padre di Pereo, vediamo il dolore di Ciniro, che vede la sua vita spezzata dall’ignoto dolore della figlia. Un pensiero va anche a Mirra, la quale, nonostante ancora viva, a differenza di Pereo, non è certamente meno infelice di lui. Anche la vita dei genitori (“noi”) non è ancora una vita degna di essere vissuta. Dopo questo sfogo, Ciniro chiede ancora una volta di vedere Mirra, per cercare di avere da lei delle spiegazioni e asserisce di voler accostare la figlia con animo duro e impenetrabile, convinto che Mirra nasconda un segreto orribile che la tormenta. Mirra dovrà confessargli la verità, oppure Ciniro non vorrà mai più vederla. Ciniro ha ormai compreso come la figlia nasconda qualcosa di terribile, ma ovviamente non ha idea di quanto sia orribile e grande il suo segreto. (vv.22-36) Ciniro, anche lui in preda a un’oscillazione dei sentimenti, sembra quasi subito tornare sulle proprie decisioni, chiedendosi se sia giusto ch’egli manifesti tutta l’ira nei confronti della figlia, la quale stava già soffrendo, perché oppressa da una forza fatale e dall’ira di Dei offesi. Dopo questo cedimento sentimentale, il re di Cipro torna a farsi forza, perché bisognoso di un chiarimento, e quindi, confidando sul fatto che Mirra non è mai stata abituata a essere interpellata dal padre in maniera dura, finalmente non avrà il coraggio di opporsi così ostinatamente alla volontà del padre di sapere. Mirra non si affretta al colloquio con il padre, anzi si avvicina lentamente. I suoi passi sono anche pesanti, come se Mirra stesse mostrando anche fisicamente il segno oppressivo del dolore che la tormenta e si stesse mostrando al padre con l’aspetto di una condannata a morte. Ciò è la previsione di quello che accadrà. ATTO V, SCENA II (vv.37-43) Ciniro esordisce con toni piuttosto risentiti e si presenta alla figlia sdegnato. Non avrebbe mai pensato che la figlia si sarebbe spinta fino a interrompere in quella maniera le nozze, gettando infamia e disonore su tutta la famiglia. Ancor più difficile da comprendere per Ciniro è il fatto che la figlia sia così restia a presentarsi al suo cospetto e a obbedire ai suoi ordini. Ciniro rimarca come, anche in questo, quella Mirra descritta sin dal primo atto come una fanciulla che ha sempre cercato di prevenire i desideri dei genitori, qui non l’abbia fatto, e non abbia nemmeno voluto rispondere con sollecitudine a quanto il padre le ha intimato. (vv.43-47) Il parlare di Mirra è rotto, segnato dai vari puntini di sospensione, che denunciano la sua difficoltà di fronte al padre, perché continuamente oppressa dalla paura di rivelare la passione per il padre stesso. Mirra ricorda di avere supplicato il padre di darle la morte, come punizione dei suoi tanti errori, nell’atto precedente. Se lui l’avesse uccisa, non sarebbe successo ciò che è accaduto alle nozze. La conclusione della battuta mostra tutta la disperazione di Mirra. (vv.47-60) Ciniro avverte alcuni sentimenti di Mirra: la vergogna, che traspare dai suoi atteggiamenti (anche se si tratta della vergogna che la protagonista prova per l’amore per il padre) e il senso di colpevolezza (anche se Ciniro non sa la causa profonda). Presenza di didascalie interne: gli sguardi tremanti, gli occhi incerti e fissi a terra. Ciniro minaccia nuovamente la figlia di negarle il suo amore paterno. Vi è un particolare affollamento dei termini riferiti alla famiglia: “padre”; “figlia”, che all’orecchio di Mirra suonano ormai insopportabili. Ma sul finire della battuta, Ciniro viene colpito dal pianto silenzioso e irrefrenabile di Mirra, la quale forse piange a causa dell’ira del padre, la quale sarebbe per lei peggiore di ogni morte. (vv.60-65) Qui ritorna l’espressione relativa al fatto che l’atteggiamento di Mirra ha fatto sì che chi la circonda sia diventato favola, ovvero oggetto di chiacchiere e pettegolezzi. Oltretutto tale comportamento ha provocato la morte di Pereo. Mirra ancora non sapeva ancora nulla e Ciniro glielo annuncia con una certa brutalità. 25 Ciniro continua a provocare in lei un dolore sempre più insopportabile, chiamandola “unica amata” tra le sue braccia. Al v.166 e poi al 167 c’è uno dei pochi casi di rima, costituita dalla ripetizione della parola “iniqua”, riferita alla passione che lei prova, che acquisisce una straordinaria valenza e dà la cifra di questo sentimento di Mirra. (vv.169-177) L’uso dei due termini “padre” e “Ciniro” sottolinea come il padre venga sdoppiato da Mirra nei due ruoli, quello del padre e quello dell’uomo, che Mirra ama. Già in questo sdoppiamento Mirra si tradisce e se ne accorge, infatti, nella battuta successiva cerca di ritrattare, dicendo che non sa cosa sta dicendo e che non prova amore per lui, cercando ancora di sottrarsi alla presenza del padre. La battuta di Ciniro in mezzo alle due di Mirra dà proprio idea di come Ciniro abbia colto lo stridore di quanto la figlia abbia appena detto. Egli avverte qualcosa, ma ancora non se ne capacita. Accusa Mirra di ingratitudine, denuncia la propria esasperazione per gli atteggiamenti di Mirra e le minaccia di perdere effettivamente l’amore paterno. (vv.177-183) Ecco la rivelazione. Di fronte al dolore insopportabile di una separazione e della certezza di essere odiata dal padre, la volontà già fragile della fanciulla cede in maniera irrimediabile. Mirra, quindi, rivela, seppur non esplicitamente, chi sia la fiamma che brucia in lei, partendo dalla sconsolata considerazione di dover morire lontana dal padre, con la certezza che questi la odi. La battuta rivelatrice è quella riferita alla madre, la quale è più fortunata di lei, perché morirà, a differenza della protagonista, a fianco di Ciniro. Questa frase è modellata sul verso 422 delle Metamorfosi di Ovidio, “O madre, felice te che sei sua moglie”, ed ha ormai il marchio dell’irrimediabilità. Ciniro coglie quanto Mirra sta rivelando, come un’improvvisa illuminazione che fa luce su un segreto enorme e disonesto (“qual terribil lampo”). La figlia a questo punto è definita da Ciniro “empia”. (vv.183-197) C’è una didascalia esplicita dell’autore: Mirra rapidissimamente prende la spada del padre e si trafigge con essa. Ciniro è in preda a una tempesta di sentimenti. Chiama Mirra ancora “figlia”, che rapidamente si è tolta la vita, rapida come è stata la sua bocca a rivelare un segreto che è stata costretta a rivelare. Ma avendolo rivelato in punto di morte, la protagonista sente di morire meno colpevole. (vv.197-205) Ciniro è diviso tra due sentimenti diversi: da una parte, è un padre infelice che vorrebbe sparire per l’orrore che egli prova nei confronti di questa rivelazione, non osando avvicinarsi a Mirra (donna) morente, dall’altra non riesce ad allontanarsi perché resta comunque sua figlia. Mirra non chiama più Ciniro “padre” e Cecri “madre”, ma li chiama con i loro nomi, perché ormai non riesce più a sforzarsi di contenere i suoi affetti in quelli legittimi. Ciniro e Cecri, che sono un fronte unito, non vengono più riconosciuti da Mirra come genitori, in quanto ne riconosce esplicitamente l’alterità rispetto a lei. 24 LEZIONE 25/11 ATTO V, SCENA III Mirra giace morente per terra, mentre sopraggiungono Cecri ed Euriclea. (vv.205-218) Vi sono battute brevi e un uso abbastanza marcato della frangitura, ossia dello spezzettamento dell’endecasillabo tra battute di personaggi diversi, che sottolinea la concitazione del momento. Sulla battuta finale di Cecri della scena c’è una didascalia esplicita, per cui Cecri deve essere trascinata fuori scena da Ciniro, mentre al verso 206 ce n’è un’altra, per la quale Ciniro deve correre incontro alla moglie, impedendole di avanzare e di vedere la figlia morente. È una scena piuttosto breve, in cui, secondo il costume alfieriano, i personaggi non indulgono nella conclusione della tragedia in grandi discorsi, per evitare un effetto melodrammatico. Cecri continua a rivolgersi a Mirra come madre, mentre Ciniro quasi le impedisce ciò, nonostante sia ancora oscillante. Euriclea chiama ancora Mirra per nome, mentre per i genitori di lei, anche se rimane figlia (“svenata”), diventa donna (“iniqua”), che ha rivelato di provare una fiamma oscura e censurabile. Ciniro che è il depositario di questa confessione della figlia, si riferisce a lei con l’uso dei pronomi (“ella”, “costei”), cercando di strapparsi dall’affetto, dall’animo, questa figlia empia. Cecri continua a chiamare Mirra figlia, non volendo abbandonarla nel momento della morte. Risulta commovente l’immagine finale della madre che si vede allontanare nel momento della morte della figlia, non potendo più in alcun modo assolvere il suo ruolo di madre. 26 Il ruolo di padre è ancora più impedito a Ciniro, che definisce sé stesso chiamandosi per nome, per separare il suo ruolo di padre da quello di amante attribuitogli dalla passione di Mirra. ATTO V, SCENA IV (vv.218-220) Soltanto Euriclea rimane accanto a Mirra, riaffermando quel suo ruolo di madre seconda. La battuta di Mirra è continuamente rotta dai puntini di sospensione che danno l’idea della fatica con cui ella pronuncia le sue ultime parole. L’aggettivo “empia” ricorre in tutta la tragedia e delinea da una parte qualcosa che va contro la morale, e dall’altra l’idea di una colpa, perché Mirra si sente colpevole per l’amore che prova per il padre. ANALISI DEI VERSI 218-220 ELABORAZIONE DI ALFIERI Nella stesura, che è il primo momento in cui la tragedia comincia a realizzarsi, svolto in prosa, all’inizio Mirra quasi rimprovera Euriclea dicendo che la compassione e il pianto di lei sono tardivi e inutili, spiegando dopo la ragione di ciò. Aggiunge che era al mattino Euriclea che avrebbe dovuto fornirle un’arma o un veleno sicché, prima di essere costretta a rivelare il suo segreto, sarebbe morta innocente e onorata. Questa è una battuta breve, ma non sintetica e poco incisiva essendo in prosa. Quando passa alla versificazione la questione del ritardo di Euriclea viene risolta con il verbo “dovevi”. Corregge poi il “dissi” in “chiesi” per sottolineare il fatto che Mirra si fosse rivolta alla nutrice per chiederle uno strumento di morte e non soltanto per comunicarle la sua volontà di morire. Si tratta, quindi, di una richiesta precisa e cogente. Questa prima versificazione viene poi corretta (si tratta di correzioni interne, Mirra viene versificata una volta sola) per essere il più espressivo e stringente possibile. Alfieri rovescia la costruzione della frase ridando un altro ordine alle parole e rendendo il verso più asciutto, ad esempio con la sostituzione di “soccorrermi” con “darmi”. L’accorciamento della parola consente ad Alfieri di compattare questo rimprovero in un verso mezzo, in modo da isolare la battuta “innocente ecc.” e concentrarla come verso a chiusura della tragedia. Inoltre, sostituisce “allor” con “or” per segnare la divaricazione delle due condizioni, cioè l’innocenza che avrebbe potuto preservare se si fosse data la morte la mattina e l’innocenza che invece ha perso. L’avverbio “allor” è inutile, perché c’è già il verbo all’imperfetto “moriva” e quindi con “or” accentua l’attualità del momento in cui Mirra muore. Alfieri usa anche la figura del poliptoto, che riguarda la ripetizione del verbo “morire” coniugato prima all’imperfetto e poi al presente. L’ultimissimo verso viene ancora ritoccato, portando il pronome personale “io” in prima posizione spostando l’aggettivo “innocente” a metà verso. Nella seconda metà viene fatta l’aggiunta della congiunzione “ed” e la posticipazione dell’avverbio di tempo “or”. Ciò permette di costruire un verso a chiasmo: la prima parte ha verbo e aggettivo, mentre nella seconda parte viene prima l’aggettivo e poi il verbo. Abbiamo, dunque, un verso che inizia e finisce con il verbo “morire” e che vede vicini gli aggettivi “innocenza” e “empietà”, che sono i due poli del carattere di Mirra. Corregge ancora “in levare”, cioè togliendo qualcosa: egli elimina la congiunzione “ed”, non reputandola necessaria e ottiene come risultato i due aggettivi in stretta contiguità. Alfieri lavora su due principali vie: 1.La ricerca di uno stile che riesca a dire molto in poco, quindi una ricerca della sintesi, dove si toglie il più possibile. 2.Una particolare cura nella scelta del lessico e della posizione delle parole. Per trarre le conclusioni su Antigone, muoviamo da quanto viene scritto in alcuni documenti di Alfieri e non: 1.Nella lettera di Ranieri de Calzabigi ad Alfieri 2.Nella risposta di Alfieri a Calzabigi 3.Nel parere sulle tragedie La lettera viene indirizzata ad Alfieri tragedia da Calzabigi, anch’egli poeta, scrittore e autore di tragedie e melodrammi, nell’agosto del 1783 in stretta attinenza e conseguenza dell’edizione Pazzini Carli delle tragedie alfieriane dell’83. Di questa tragedia Calzabigi apprezza sia il soggetto, che definisce semplice e disposto, nel senso di ripartito, in maniera semplice da Alfieri. La semplicità del soggetto sottolinea il fatto che nell’Antigone l’azione sia compatta, unica e priva di diversioni. È un soggetto che Alfieri è riuscito a rappresentare con solo quattro personaggi. 27 Vengono fatte da Calzabigi altre considerazioni generali sulla maniera in cui Alfieri tratta il sentimento amoroso, tra Antigone ed Emone, che viene esposto in maniera tragica e non melodrammatica o lirica. I teorici della tragedia del ‘700 normalmente asseriscono che l’amore non è un sentimento tragico e Alfieri in questo si distacca dalla comune opinione settecentesca, riuscendo a fare dell’amore un sentimento tragico. Calzabigi è d’accordo con lui perché per loro la questione non risiede nel fatto dell’opportunità o inopportunità di trattare l’amore nella tragedia, quanto nel fatto di come venga trattato in essa. L’amore non deve essere trattato con ad esempio eccessiva liricità, ma quando questo viene espresso con una sostenutezza lontana dal lirismo, allora può essere sentimento tragico. Calzabigi, lodando l’amore tra Antigone ed Emone, loda contemporaneamente l’atteggiamento di Argia, che è egualmente un’eroina “amorosa”, il cui amore è totalmente diretto a Polinice. Calzabigi apprezza la tenerezza di Argia, che viene rappresentata con dignità e controllo. Per quanto riguarda il soggetto, le passioni e gli affetti rappresentati, Calzabigi mostra un deciso apprezzamento. Queste passioni, che collidono una con l’altra, producono avvenimenti straordinari e danno vita a dei sentimenti che sono degni del genere tragico. Calzabigi è molto colpito per esempio dalla seconda scena del terzo atto, ovvero la scena del colloquio tra Antigone, Emone e Creonte, e anche dalla scena successiva, che vede il colloquio tra Antigone ed Emone. Calzabigi critica della tragedia innanzitutto il repentino cambiamento di idea di Creonte sulla sorte di Antigone (scena quarta atto v), quando Creonte, che ha constatato che Antigone non è nemmeno ancora arrivata al campo dove doveva morire, si rivolge ad Ipseo, sussurrandogli un misterioso ordine, ossia di riportare Antigone nella sua cella e di eliminarla immediatamente. Questo è per Calzabigi troppo improvviso ed è fondato su delle considerazioni che non tengono molto. Tuttavia, deve riconoscere che questa situazione offre l’opportunità ad Alfieri di impiantare poi l’incontro tra Antigone ed Argia, che si rivela molto commovente. Successivamente sembra che Calzabigi torni sulle proprie considerazioni (è come se stesse riflettendo ad alta voce), e dice che questo cambiamento improvviso di idea da parte di Creonte viene comunque spiegato da Creonte stesso. La perplessità di Calzabigi, però, rimane comunque. Egli critica poi l’atteggiamento di Creonte nei riguardi del figlio. Creonte, per essere un re-tiranno, mostra un’eccessiva fiducia in Emone, che potrebbe aiutare Antigone a fuggire. Questa sua troppa fiducia viene giudicata inverosimile da Calzabigi e ritenuta un elemento poco convincente. Dopo aver discusso un’altra tragedia, cioè la Virginia, torna ancora su Antigone, riprendendo un’altra critica che era già tra le righe, ovvero lo scioglimento della tragedia, cioè la conclusione. Il fatto che Creonte, dopo che ha assistito al suicidio di Emone, chiuda la tragedia con una battuta del genere non è sufficientemente incisivo e, anche dal punto di vista della tessitura verbale, questo è uno scioglimento in tono minore di quanto la tragedia in realtà avrebbe richiesto. Sottolinea ancora elementi positivi, tornando sulla questione dell’amore tragico, sottolineando alcune battute e citandole, soprattutto quell’ordine che Antigone da ad Emone di continuare a vivere e di scontare con la vita il delitto del loro amore. Rimane colpito da uno dei versi a gradino/a frangitura che apre il dialogo risolutivo tra Creonte e Antigone: “scegliesti?”” ho scelto” “Emone?” “morte”. Calzabigi dice che questi versi sono degni di Sofocle. Torniamo sulle critiche alla conclusione della tragedia: i pochi versi con i quali Creonte chiude la tragedia, sembrano far trasparire che la morte di Emone gli sia quasi indifferente, mentre per tutta tragedia ha dimostrato di amarlo. Dunque, vi è un annullamento quasi dell’amore paterno e viene sottolineato un elemento di freddezza. La risposta di Alfieri alla lettera di Calzabigi risale ai primi di settembre dell’83. Egli risponde punto per punto, ma si sofferma di più sull’atto V, scena IV e sullo scioglimento, mentre tocca solo di sfuggita la questione della fidanza, ossia della fiducia, di Creonte nei confronti del figlio (atto III, scena III e IV). Alfieri dice che il fatto che Creonte cambi inaspettatamente parere nel quinto atto è soprattutto dovuto alla volontà di avere un efficace effetto teatrale, concetto che spiega nelle righe successive. L’effetto teatrale è l’ingrediente fondamentale della drammaturgia. L’autore stesso ha avuto modo di sperimentare l’efficacia della scena di persona, nel corso della rappresentazione di Antigone, e ha potuto constatare come nel pubblico questo cambiamento di opinione avesse prodotto delle reazioni catalogate come terribili  la tragedia, infatti, deve suscitare emozioni forti. Si sofferma sull’efficacia di quella battuta misteriosa “odimi Ipseo”, anche se Alfieri stesso nutriva qualche perplessità su questa questione. Creonte, come dice Alfieri, non è tiranno a caso, ma è un tiranno che prevede e riflette sulle sue azioni, per cui questo cambiamento improvviso sembra non essere in linea con la
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