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Moderne icone di moda, Sintesi del corso di fotografia

Libro per l'esame d fotografia e cultura visuale della prof Muzzarelli

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Moderne icone di moda e più Sintesi del corso in PDF di fotografia solo su Docsity! MODERNE ICONE DI MODA La confluenza di due grandi e ricchi percorsi come quelli che, a metà ‘800, racchiudono le origini della fotografia e della moda, s’annidano anche le premesse del vasto e affasciante universo della modernità Baudelaire individua come caratteristica della nuova e crescente realtà urbana delle grandi città; 1840-1920 trasformazione della società e della cultura: attenzione verso ciò che è dato, presente “in tempo reale”.  si svilupperà il MODERNISMO: capace di modificare il rapporto tra l’uomo, l’ambiente, la società, la cultura… è anche un importante movimento che conta un’importante partecipazione femminile. PARIGI metropoli che per antonomasia favorisce la nascita della moda e della fotografia. Filo conduttore con la modernità. Fotografia, moda e modernità sono in grado di dimostrare la loro capacità di reciproca influenza e la loro naturale emersione in un fenomeno che sarà destinato a emergere: fashion mass icon. Come ha sintetizzato Christine Buci-Gluckman: modernità: è intrise dell’identità urbana dedita al culto delle immagini e della loro moltiplicazione. Tra metà del XIX secolo e gli inizi del XX, la moda comincia ad acquistare quella fisionomia con la quale oggi la intendiamo: da fenomeno che sostanzialmente distingueva classi sociali elevate a fenomeno di massa cioè come sistema che ha nella dimensione urbana il suo terreno di comunicazione del gusto, che è basato non solo sulla distinzione, ma che sull’imitazione. Questo passaggio tra fine XIX secolo e inizio XX ha tre parole chiave: SOCIETA’ DI MASSA – CONSUMI – CITTA’. Fondamentale in ruolo di quest’ultima con le vetrine, i magazzini, i passages che si configurano come i palcoscenici che accolgono le trasformazioni e le affermazioni delle mode. Fin dagli scritti di George Simmel, moda come mutamento costante, un ciclico e inarrestabile dinamismo del gusto. CAMBIAMENTO, e trasmissione di questo, come elemento distintivo. Per Simmel la moda nasce dalla fotografia. Sostiene Elisabeth Wilson: “La moda somiglia alla fotografia. Entrambe sono prodotte industrialmente, e tuttavia profondamente individuali. Entrambe sono ambiguamente sospese tra presente e passato: il fotografico congela l’essenza dell’istante, mentre la moda cristallizza il momento nel gesto esterno dell’unica-maniera-giusta-di-essere”. Si potrebbe aggiungere che la moda nasce con la fotografia. Si può procedere a ritroso indagando come già nei primi esperimenti le tendenze della moda venissero personificate da celebrità, attori scrittori e ballerine, ugualmente incaricati di recitare sotto e fuori i riflettori la loro parte di icone di massa e di moda. Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento qualcuno sfrutterà infatti il potere “mitizzate” della fotografia e si adopererà per moltiplicare le occasioni di incontro della propria immagine col mezzo fotografico. Il mito moderno, quello di massa, tecnologico e fashionable, ha proprio nel primo cantore della modernità, la sua principale e masochistica cavia vaporizzazione dell’IO Baudelaire. 2. CLEO DE MERODE, MODERNA ICONA DI MODA LA STAR IDOLO DI MASSA Nel saggio sul divismo Edgar Morin individua nella costituzione della star un binomio tra: dimensione arcaica e una moderna strumento fotografico come comun denominatore. Bisogna specificare che le parole star e divo sono usate come sinonimi di icona e mito di massa. Ancora Morin offre delle star l’immagine di soggetti che “partecipano nello stesso tempo dell’umano e del divino, analoghi per certi aspetti agli eroi della mitologia o degli dèi dell’Olimpo”. Sono personaggi che si impongono mediaticamente e traggono la loro forza simbolica da parvenze visibili. Morin le definisce non a caso “presenze-feticcio universali del XX secolo”. Michel Maffesoli parla di fascinazione e irradiazione delle star che proviene da figurine tecnologiche, da fotografie. Recuperando le tesi di Marshall Mcluhan degli anni ’60 in particolare l’intuizione che sia nel mezzo che risieda il messaggio si può dire che nei primi decenni del Novecento è il cinematografo il vero, grande diffuse dello star system, qualche caso ottocentesco precoce e anticipatorio di “starificazione” di tipo fotografico. Il segno cine-fotografico consente fisicamente di un lacerto di realtà. Da un lato, dunque la rivoluzione sta nelle caratteristiche genetiche della traccia del divo dall’altro sta nella possibilità di diffusione e comunicazione di tale traccia, processo che è artefice della divinizzazione delle star. Se con il cinematografo la possibilità di vivere, mimetizzarsi con la star sarà totale con la fotografia vi è un assaggio. Per comprendere come grazie alla fotografia il fenomeno della celebrità assuma un aspetto sociale di proporzioni e modi innovativi basterà pensare alle cartes de visite e gli album fotografici da collezione, alle prime riviste e alle singole foto che si possono trovare egli atelier dal 1839 in poi. Brevetto delle cartes de visite Eugène Disderi del 1854è stato possibile per tutti, perché a prezzi bassi, farsi fare dei ritratti da spedire o regalare collezionismo delle figurine.  si può dire che è stato questo fenomeno a dare l’inizio a una sorta di image fandom. Questo sarà tema fondamentale del cannibalismo visivo della contemporaneità peep culture ma che bisognerebbe chiamare pop- peep culture perché è palese la mercificazione delle immagini, questo tipicamente pop. LA “CARTE DE VISITE”, EMBLEMA DELLA PEEP CULTURE La possibilità di possedere fisicamente una reliquia del mito fatto immagine, scatenò una moda senza precedenti. Solo la replicabilità e la diffusione democratica possono costruire le caratteristiche essenziali di ciò che oggi consideriamo la costruzione di un fenomeno mediatico impensabile dell’era fotografica. La contropartita sta nella perdita di privacy e di riservatezza. La celebrità è dunque un prodotto dell’era cine- fotografica. Roland Barthes “l’età della fotografia corrisponde all’irruzione del privato nel pubblico, o piuttosto alla creazione di un nuovo valore sociale, che è la pubblicità del privato”. È proprio grazie alla sua funzione di traccia di realtà certificata che l’immagine fotografica e filmica consente la fuga nell’immaginario. Sorgono nuovi studi di ritrattistica, come quello di Nadar, in cui professionisti specializzati con attrezzature apposite, fotografano tutto il bel mondo parigino. Gli impulsi sono alla celebrazione di sé, al narcisismo e all’esibizione. Potersi vedere effigie si rivela da subito un’attrazione irresistibile per la gente comune. Gianni Vattino definisce” la modernità come quell’epoca in cui il mondo si riduce o piuttosto, si costituisce a immagini”. La “Società dello spettacolo “di Guy Debord e quella “dei consumi” di Baudrillard ci hanno descritto la nostra come un’età in cui l’immagine vale più della realtà stessa e per la quale l’immagine di massa, protagonista e motore dello spettacolo, costituisce la principale merce di scambio. CLEO DE MERODE, LO STEREOTIPO DELLA BELLEZZA Cléopatre-Diane de Mérode, detta Cléo proviene da una nobile famiglia austriaca, ma nasce a Parigi nel 1876. È appassionata dell’arte in generale: non solo la fotografia, ma anche il teatro e la danza la attirano e la portano sul palco a soli 7 anni, piccola parte durante l’Operà. Da allora il teatro diventerà il suo palcoscenico. Il primo incontro con la fotografia avviene a soli tre anni, nell’atelier di Nadar: era dotata di una notevole forza fotogenica e l’appuntamento con la fotografia per lei diviene IL “SALON” DEL 1859 Parigi e le grandi capitali europee brulicano di atelier di ritrattistica fotografica e molti dei fotografi non sono altro che ex aspiranti artisti che hanno convertito la loro passione. 1859 è la data dell’incontro tra Baudelaire e la fotografia, infatti i Salon di quell’anno decide finalmente di accogliere anche la fotografia nei suoi spazi espositivi e Baudelaire ne scrive una cronaca. Nello scritto “Il pubblico moderno e la fotografia” considera la fotografia una “nuova industria”, “vero rifugio di tutti i pittori mancati”. Secondo lo scrittore, la fotografia è utile quando si limita a catalogare e “salvare dall’oblio le rovine cadenti” ma non può essere considerata esercizio artistico non prevedendo un contributo derivante dalla creatività personale dell’autore: la sua anima. Da qui si capisce quale inevitabile senso d’inferiorità porta la fotografia ottocentesca a rincorrere e imitare i modi e gli stili della contemporanea pittura PITTORALISMO. CHE COS’E’ IL DANDY Nato in Inghilterra verso la fine del XIX secolo con Lord Brummel e George Byron tra i suoi migliori interpreti, il dandysmo arriva in Francia e trova nell’800 postrivoluzionario di D’Aurevilly e Baudelaire un terreno fertile nella sua eroica opposizione al materialismo e utilitarismo arido della società borghese. Il rapporto tra moda e modernità è sottolineato dal culto dell’artificialità e del feticismo a cui Walter Benjamin renderà omaggio con la famosa espressione “sex appeal dell’inorganico”: la moda è uno degli elementi fondamentali dell’identità del pittore della vita moderna. Il dandy, infatti, tramite un atteggiamento di differenza esprime la sua distanza dal conformismo stereotipato: la moda- o meglio il fuori moda- e l’abbigliamento sono alcuni degli strumenti privilegiati. Tuttavia, la vita del dandy è progettata come un’opera d’arte e il dandismo risulta essere il primo vero fenomeno che esalta la dimensione di arte e vita. In una duplice contradizione il dandy risulta insensibile, freddo e distaccato, ma ricerca la performance; ancora più che l’abito e la maniera in cui lo si porta. Per Baudelaire Costantin Guy è insieme dandy, flâneur, artista e creatore del mondo della moda. Il dandy sceglie un aspetto speciale, un vezzo, un elemento cromatico che lo contraddistingue e che diventa una sorta di firma d’artista: esempio il fazzoletto verde di Wilde, il total black di Baudelaire. La vita, come l’arte che è una merce speciale, è una “merce simbolica” che deve distaccarsi dal reale naturale e assurgere a una dimensione artificiale. Il dandismo è il primo vero fenomeno che esalta la dimensione di arte e vita, elemento che sarà caratteristico di molta arte del’900 a partire dai dadaisti e dai futuristi italiani. Altro discorso è per Gabriele D’Annunzio meglio definito come snob che per tutta la vita insegue l’ambizione di essere dandy. A escluderlo basterebbe l’impassibilità del dandy, distante dall’attivismo e non guerrafondaio cosa che invece caratterizzò D’Annunzio. Il dandy guarda il mondo come uno spettatore con freddezza che può addirittura trasformarsi in stoicismo e in un eroismo fino a sfociare nella morte (spesso suicida). Il dandy è un performer, un’icona solipsichica: SOLIPSISMO l’individuo pensante può affermare con certezza solo la propria esistenza poiché tutto quello che percepisce sembra far parte di un mondo fenomenico oggettivo a lui esterno ma che in realtà è tale da acquisire consistenza ideale solo nel proprio pensiero cioè l’intero universo è la percezione della propria INDIVIDUALE COSCIENZA. La freddezza “performativa” del dandy può trovare sfogo nell’ironia, nel grottesco e nella caricatura che è la critica del dandy fatta da dandy.  caricature che l’amico Nadar ha lasciato di Baudelaire e quelle che quest’ultimo realizza di sé stesso. Anche la caricatura è un modo per deformare, decostruire e criticare la società del presente. BAUDELAIRE, “LUOMO CHE NON SI DIMENTICA MAI” Baudelaire lotta a favore dell’artificio: si ricopre di profumi, aborra la donna senza trucco, si tinge i capelli di verde, grande interesse per il maquillage. Vuole essere diversi ma diverso in mezzi agli altri: la sua è la concezione di chi è in lotta contro qualcosa ma non può fare a meno di quel qualcosa per esistere. Ogni particolare della sua vita è sempre ricercato, voluto programmato: tenta di vedersi come se fosse un altro o, meglio, con gli occhi degli altri. “Per paura d’essere visto, Baudelaire s’impone agli sguardi”. A causa di tutti questi accorgimenti, Baudelaire viveva in una situazione economica precaria e si vedeva spesso al punto di chiedere prestiti agli amici più cari. Jean-Paul Sartre dedica a Baudelaire il famoso saggio dal titolo omonimo e ciò che emerge dalla sua psicologia è questo incessante bisogno di libertà vigilata una sorta di indipendenza che non può prescindere dalla certezza di un controllo. Inoltre, Baudelaire è “l’uomo che ha scelto di vedersi come se fosse un altro”. Paradossalmente il forzato isolamento del dandy rivela un incontrollato desiderio di esibizionismo. IL DANDY E LA FOTOGRAFIA Nonostante le critiche verso il mezzo fotografico, sappiamo che Baudelaire si fece ritrarre diverse volte. Sartre usa sia la realtà che la metafora dello specchio per accentuare l’analisi del dandismo baudelairiano sottolineandone, nell’incessante tensione verso l’appropriazione della sua immagine, la frustrazione che egli ricava dal rapporto con lo specchio. Lo specchio gli restituisce un viso troppo familiare, troppo conosciuto perché gli permetta di vedersi la fotografia può avere una ben più vivida conoscenza del travestimento a cui dedica, tutta la sua vita. Quindi TENTATIVO DI DIVENTARE ALTRO, CREARE UNA DISTANZA TRA I SUOI OCCHI E LA SUA IMMAGINE. L’occhio migliore per fare ciò è quello dell’amico Nadar. Rapporto tra Baudelaire e la fotografia è bipolare: da una parte la rilega all’esterno del mondo dell’arte, perché secondo lui l’arte è tradizionalmente manuale; dall’altra parte invece è sostenitore delle forze concettuali del processo fotografico, capaci di straniare dal reale e dunque aprire all’esperienza di sdoppiamento e di sguardo dal di fuori. Il ritratto fotografico diviene per lui la possibilità di vedersi, di apparire, libero ma contemporaneamente più costruito. Baudelaire è il primo dandy ad usufruire della fotografia, cioè il primo ad utilizzare la fotografia come attestazione della sua scelta di diversità e distacco. Come intellettuale critica lo strumento tecnologico che vuole insidiarsi nell’arte vera; come dandy ne usufruisce per farsi icona. È qui che si fa “altro” come diceva Sartre. Per quanto la fotografia sia uno strumento di MASSA (che va contro i principi dandistici di distinzione), lui ne intuisce la forza della costruzione di miti, nella pubblicazione delle identità, nella fissazione dei travestimenti gli terrà testa la Contessa di Castiglione. IL DANDY, ICONA BLACK AND WHITE la fotografia non sarà arte ma certo è la migliore alleata nella definizione e diffusione delle icone. La sua icona vuole essere quella dei un total black dandy. La fotografia gli serve come testimonianza di ciò che è stato. Il nero è uno dei suoi particolari ossessivi. Verso la metà dell’Ottocento, il colore nero era già entrato da tempo nella moda e si apprestava a diventare il colore della nascente e potente borghesia LA GRANDE RINUNCIA, che voleva distaccarsi dall’aristocrazia e dal suo imminente declino. L’ascesa del colore nero ha quindi motivazioni politiche ed economiche, ma anche di problematiche di differenziazione di sesso e genere. Il nero era quindi utilizzato come comune denominatore, come segno di un’unità comune, mentre il rango era rappresentato dagli accessori. Paradossalmente Baudelaire, vestendosi totalmente di nero, voleva accentuare esasperatamente questa scelta “normalizzante”. Se il dandismo è il culto della diversità nel secolo dell’uniforme, Baudelaire riesce a essere diverso in mezzo ai “diversi”. Egli osserva che il nero è il colore perfetto in un’epoca tragica e che si veste di nero in segno di lutto per l’umanità. Il nero assume anche valenza politica per lui, che si traduceva in una dichiarazione di fede verso gli ideali democratici e sostegno verso la borghesia. Pare però che la scelta total black non sia stata immediata nella sua vita: l’avvento avviene solo trascorsa l’età più giovane perché prima viene descritto con un gusto eccessivo, barocco, opposto al bello classico. Tra i grandi interpreti del nero: - Coco Chanel - Elsa Schiapparelli - Balenciaga - Dior - Ysl Tanto come elemento di ribellione delle sub culture quanto per una vera e propria Black Fashion. più recenti sono i designer giapponesi Kawakubo per Comme des Garçons e Yamamoto. Altro molto importante è Giorgio Armani che oltre al nero ha concesso apparizioni solo al grigio, al beige e al total blue. Usato molto anche nella descrizione letteraria soprattutto nello stile horror esempio l’opera fosca di Edgard Allan Poe, l’idea dell’abito mero legato al lutto questo torna anche in Dickens, Wilde. La scelta del nero diventa così una manifestazione di ideali e di poetica, un modo di far sovrapporre le dimensioni dell’arte e della vita questa “anti-moda” diventa sia performance culturale che dichiarazione di poetica. Del resto nella sua produzione letteraria è pieno di riferimenti al nero, al lutto, al funerale, all’oscurità e alle tenebre della morte. BAUDELAIRE NEGLI ATELIER DEI FOTOGRAFI Nell’album Baudelaire sono pubblicati i disegni, i dipinti e le fotografie che hanno tramandato le fattezze e il volto di Baudelaire. Le caricature occupano un posto molto interessante di questa tradizione visiva, appartenendo per la maggior parte all’abile maestranza di Nadar ma anche dalla mano dello stesso Baudelaire. La conoscenza con Nadar risale addirittura al 1843/44 quando ci collabora per la copertina di “Mysteres galants des theatres de Paris”. Baudelaire si lasciò più volte fotografare, e in modo più assiduo da metà degli anni ’50 sino a pochi anni prima di morire (muore nel 1867). Sottomettersi alla fotografa proprio nel momento in cui il copro inizia a cedere, sembra quasi un gesto di autonomo abbandono e consapevole offerta di sé al mezzo tecnologico più volte descritto da lui stesso come “crudele” proprio per la capacità di rivelare un “verità crudele”. Sceglie la performance fotografica come esperienza estetico-psicologica. È facile pensare che con Nadar e gli altri fotografi, abbia pensato e studiato le pose e gli atteggiamenti per mettersi di fronte all’obbiettivo fotografico. Egli partecipava all’elaborazione dell’immagine. Nelle fotografie appare sempre con lo sguardo rivolto in macchina, serio e concentrato, freddo, gli occhi cerchiati di occhiaie e la bocca serrata, quasi per non lasciare trapelare nessuna emozione. Questo doveva all’autoproclamazione gay, che ha imposto una moda, quanto alla scelta androgina eterosessuale che accompagnava il primo femminismo storico. In questo stile crossover, in cui maschile e femminile si intrecciano coesistendo, le due istanze omosex e new woman coabitano e hanno elementi in comune come il monocolo, la sigaretta, i capelli dal taglio corto e gli indumenti maschili come smoking e pantalone. Bisogna dire però che il vestire in abiti maschili agli inizi del Novecento, sia quando porta con sé simboli di genere sia quando interpreta simboli femministi, si caratterizza come uno degli emblemi della modernità. È senza dubbio il terreno della creatività delle arti, pittura, fotografia, del cinema, del teatro, della letteratura, del giornalismo, e della moda. In particolare, modo si può sostenere che è proprio prima di tutto la fotografia, un mezzo tecnologico che tra fine Ottocento e inizio Novecento viene considerato nuovo, maschile, meccanico e obbiettivo, a offrire la dimensione ideale alle richieste che le nuove donne stanno sottoponendo al mondo. Una delle conquiste fondamentali che i mezzi di riproduzione cine-fotografica hanno portato nella cultura contemporanea: il recupero della corporeità, del gesto, dell’azione, come ricordava Marshall McLuhan, insomma della realtà riportata e rivissuta virtualmente. Fotografia come veicolo di costituzione e solidificazione in immagine. ANNEMARIE SCHWARZENBACJ DEL MONDO DI ANTONIO MARRAS Antonio Marras nella sua prima collezione di prêt-à-porter (1999/2000) si ispira palesemente ad Annemarie Schwarzenbach nell’estetica delle proprie modelle. La Schwarzenbach è una scrittrice e fotografa svizzera e costituisce una delle figure più emblematiche nel panorama dello stile androgino e lesbo chic. Per Marras è un’ispirazione doppia, perché oltre a costituire qualcosa di lontano (date le origini svizzere della scrittrice) e quindi ad innescare il meccanismo del viaggio, porta in ballo anche un altro viaggio, quello tra i due sessi. VIVO SOLO QUANDO SCRIVO Nata a Zurigo nel 1908, Annemarie è la rampolla di una ricca famiglia di industriali della seta. Vive una vita segnata dalla presenza di una madre ingombrante e scabrosa nelle passioni saffiche che però il marito sembra tollerare. La sua salute è sempre malferma ma la sua personalità si rafforza sempre di più. La scrittura aiuta la ragazza a recidere il legame morboso con la madre che, non a caso, contrasta la passione per la scrittura della figlia. Il collegio prima e l’università dopo la aiutano ad allontanarsi dalla sua prigione dorata. Intorno alla sua figura da sempre si sono sviluppate chiacchiere, sulla sessualità, sui suoi amori tanto che la famiglia era costretta a spostarla di istituto in istituto per far tacere tutte le chiacchiere. Nelle foto dello studentato di Fetan però si vede chiaramente una Annemarie dallo stile androgino e trasgressivo perfezionato da un taglio di capelli mascolino. Riusciva ad affascinare donne e uomini indiscriminatamente, aveva una forte aurea ed un forte ascendente. Divenne adulta e la macchina fotografica continua a far parte delle sue esperienze in forma duplice: 1) Per raccontare visivamente i viaggi e le peregrinazioni ai confini del mondo tentativo di assolvere ansie di relazionarsi con un ambiente sociale in cui lei pare essere sempre e comunque a disagio 2) Servirà agli altri per catturare il suo volto modo per poter immortalare e mettere in scena il suo essere una new woman e insieme un’indiscutibile icona lesbo-chic Annemarie ebbe delle amicizie celebri, le più importanti con Erika e Klaus, figli di Thomas Mann. Per Erika provava amore e dipendenza psicologica tanto che la porterà sempre a vedere l’amica come qualcosa di irraggiungibile, con Klaus condivide la dipendenza da droga e le tendenze suicide. IL VIAGGIO, LA RIERCA DELL’ALTROVE La sua instabilità la porterà a viaggiare molto attraverso l’Asia, l’America e l’Africa nella speranza di un impegno giornalistico riconosciuto e per scappare dai fantasmi della dipendenza. Nonostante la sua attività lavorativa fervente non avrà i meriti a cui ambiva, la sua figura è stata rivalutata solo di recente. La famiglia, in seguito alla sua prematura morte (a 34 anni) ha distrutto i diari di Annemarie, le corrispondenze della ragazza in un tentativo di oblio. La costante che accompagna la Schwarzenbach è la droga e il suo senso di instabilità, di non sapersi adattare. Primo viaggio a Parigi nel 1928 segue alcuni corsi alla Sorbona e inizia a frequentare la bohème della capitale, dopo un primo momento di esaltazione, Annemarie inizia a sentire il divario con gli intellettuali e gli artisti. D’altro canto, sarà proprio questo senso di angoscia e tristezza che alimenterà la sua produzione artistica. Anche a Berlino tra il 1931 e il 1932 sarà eccitata per la vita che riesce a condurre nella capitale tedesca, frequenta locali omosessuali e la sua aria da efebo riscuoterà molto successo ma la sensazione di solitudine non l’abbandonerà mai. Scrive lettere ad Erika nelle quali cerca consolazione: tutte le donne che si avvicenderanno nella sua vita sono surrogati di madri consolatrici, frustrate dalla consapevolezza che Annemarie è malata cronica e innamorata perdutamente della sua stessa angoscia esistenziale. Alcuni ritratti fotografici degli anni berlinesi ritraggono una donna estremamente attraente: indossa giacche in taglio maschile e camicie bianche slacciate da cui emerge il suo esile collo. Lo sguardo è maliziosamente svogliato, i capelli dal taglio corto e la riga da una parte incorniciano il voto della donna moderna. Il suo essere una donna moderna era anche segnalato (oltre che dall’abbigliamento e dal taglio di capelli) dal fatto che guidava una Mercedes Benz, regalatale dai genitori. La sua introduzione al giornalismo avviene grazie alla proposta di un viaggio da parte di Marianne Breslauer. Sull’auto di Annemarie le due donne percorrono terre spagnole scrivendo e fotografando. In Germania le foto della Breslauer non verranno pubblicate perché quest’ultima era ebrea, verranno però pubblicate insieme agli articoli di Annemarie in Svizzera. Il caporedattore della <<Zurcher Illustrierte>> dedica la copertina ad Annemarie che dovrà stare sei mesi in oriente per conto suo. Il viaggio comprende Turchia, Palestina, Siria, Libano, Iraq e Persia. Al suo ritorno i suoi diari di viaggio prenderanno il nome di “Inverno in Asia minore” e saranno corredati da sedici sue fotografie per la prima volta. Il suo viaggio è sicuramente un’esperienza non comune sia per via dei territori inospitali, sia perché era una donna sola che girava con mezzi come la macchina o l’autobus tutto questo accompagnato da malinconia. Il richiamo per l’oriente è forte, la donna riesce a riavere un incarico a Teheran, nello specifico di collaborazione nei siti archeologici. Lì si fidanza con il secondo segretario dell’ambasciata francese in Persia, Claude Clarac (che era omosessuale come lei). Diventerà suo marito e le permetterà di avere il passaporto diplomatico. La sua vita rimane comunque intervallata da momenti di buoi, disintossicazione e tentativi di suicidio ma grazie al marito, uomo delicato quanto colto, riuscirà a vivere momenti sereni. Nelle foto insieme e Claude sono praticamente vestiti uguali: camicie maschili, pantaloni a righe, morbidi, unico vezzo l’orologio al polso. Il suo stile è perfettamente androgino lesbo-chic. Le immagini dei periodi di svago sono fortemente contrastanti con quelle del suo ricovero a Samedan (cantone svizzero), con i polsi bendati. La sua attività giornalistica continua e tra il 1933 e il 1935 pubblica sessanta articoli usciti su diversi magazine svizzeri. La sua attenzione va alle genti dei paesi che visita, il suo occhio indugia sulla liberà e sulla dignità di uomini e donne. Compone una raccolta di racconti, La gabbia del falcone, e una specie di diario che chiamerà Morte in Persia. La scrittura e la fotografia sono i mezzi con cui cerca l’immedesimazione nei paesaggi che visita. La vita come moglie di un diplomatico la esaspera, così appena può lascia il marito e torna in Europa, con un fisico sempre più debilitato dalla morfina. GLI STATI UNITI E L’UTOPIA DEL FOTOGIORNALISMO Riceve una proposta lavorativa da parte di Barbara Wright, la fotografa americana infatti vuole che Annemarie Schwarzenbah realizzi un reportage di tipo sociale, dopo la crisi del ’29 e il New Deal di Roosevelt, nelle regioni più arretrate degli USA. La fotografa e scrittrice si focalizzerà sulle condizioni industriali della Pennsylvania, sulle condizioni dei braccianti agricoli negli Stati del Sud, sul razzismo, sullo sfruttamento del lavoro minorile; questo è un periodo molto intenso di lavoro fotografico e giornalistico. Annemarie scrive articoli che invia alla << Zurcher Illustrierte>> corredandoli di foto prese dall’Archivio della Rural Resettlement Administration, la futura Farm Security Administration: celeberrima struttura voluta da Roosevelt per affrontare e studiare le condizioni della popolazione rurale americana che possiede un reparto di documentazione fotografica guidato da Roy Strycker che dal 1935 dà l’avvio a uno straordinario ed esteso programma di reportage sociale. Professionalmente Annemarie decide di stare a distanza abbastanza ravvicinata con il soggetto e soprattutto il suo punto di vista è ribassato, da sotto in su. Questo sarebbe abbastanza naturale quando si scatta con una macchina a pozzetto, adatta alla visione del corpo, colpisce che il medesimo punto di vista sia adottato anche con la 35mm. La Schwarzenbach sembra cercare di entrare dentro le cose e farle emergere rispetto al punto di vista dell’osservatore. Lo stile pittorico e romantico che l’avevano accompagnata finora cede il passo ad uno stile più obiettivo e diretto (parallelismo con Jacob fogge dei costumi disegnati da Leon Bask, i tessuti, le provocazioni di quelle performance pubblicizzate dalle riviste che accolgono disegni, fotografie, testi e programmi teatrali. I pantaloni da harem delle odalische, i turbanti dei sultani, i drappi orientali dei palazzi, i tappeti, i cuscini di broccato, si imprimono in modo indelebile nella mente di coloro che a fiumi accorrono ad assistere ai balletti. CON POIRET <<LA RUSSIA AVANZA A PASSI FELPATI>> Il creativo che viene più spesso associato ai balletti russi ma che in realtà non creò mai nulla di specifico per loro fu Paul Poiret. Tra i suoi clienti, comunque, si annoverano Nijinsky e la Pavlova. Poiret invita Diaghilev e Nijinsky nel suo atelier per mostrare loro le sue fantasiose creazioni per l’ultima collezione. La figura femminile si sta liberando dai corsetti e dalle sovrastrutture tanto care alla Belle Époque e le silhouette si stanno liberando man mano. Anche l’interior design rimane colpito dallo stile dei balletti e le case iniziano a riempirsi di cuscini e tappeti di seta su cui le dame si siedono per accogliere gli ospiti. Lo stesso Poiret è protagonista dell’abbattimento delle differenze tra arte e moda grazie ai suoi famosissimi party, il più famoso la Milleduesima notte (nel 1911) che fu una sorta di omaggio parigino al mondo dei Balletti Russi: tutti dovevano presentarsi mascherati e la maggior parte dei costumi sfoggiati erano disegnati da Poiret in persona. Poiret fu bravissimo a creare un intero lifestyle, dal profumo al cuscino per la casa. Nell’aprile del 1911 apre uno studio di arti decorative dove disegnano e realizzano cuscini, tappeti, carte da parati e ceramiche. Ovviamente non può non servirsi di validi collaboratori come Paul Iribe che usa la tecnica di colorazione a meno e stampa a pochoir. Tra l’altro nel 1911 su <<Art et Décoration>> appaiono anche tredici fotografie di modelle in abiti in stile sultano, scattate da Edward Steichen, non ancora fotografo di moda per Vogue. Poiret fa poi passi avanti con le collaborazioni, disegna gli abiti di Sarah Bernhardt per la Reine Elisabeth e anche per l’Inhumaine di Marcel l’Herbier. Il merito di Paul Poiret è stato quello di aver fatto incontrare la moda con l’avanguardia del tempo, ma anche di aver fatto in modo poi che quella cultura e quell’arte influenzassero tramite l’abbigliamento la vita e lo stile quotidiani. Il caso di Coco Chanel invece è più complicato. Diventa mecenate di Diaghilev dopo averlo conosciuto a Venezia nel 1920 ma il suo rapporto con la Russia passa attraverso l’intenso rapporto d’amore con il compositore Stravinskij. Chanel si innamorerà anche del nipote dello zar Alessandro II, Dimitrij. Coco ne conosce la sorella, la gran duchessa Maria Pavlova, che in difficoltà economiche si è inventata un’attività di ricamo e decorazione dei tessuti aiutata da altre nobili. Grazie anche al supporto di Chanel la principessa riesce a dar vita alla Kitmir House, diventando un punto di riferimento per i principali stilisti parigini. Dalla collaborazione con la granduchessa nascono gli abiti della fase russa di Chanel. La collezione di Chanel mostra l’impronta fortissima di questa identità culturale: adotta la camicia contadina russa che viene trasformata nell’uniforme della Parigi chic. Fa sfilare le modelle russe dentro pellicce avvolgenti. Chanel ha modo di collaborare anche alla realizzazione dei costumi per l’Antigone di Jean Cocteau ed ha l’occasione di disegnare gioielli per la prima volta. ADOLF DE MAYER FOTOGRAFO DEI BALLETTI RUSSI In prima fila ad applaudire il debutto parigino di Nijinsky ci sono anche Olga e Adolf de Meyer. Dopo aver praticato un pittorialismo d’obbligo per chiunque si cimentasse a fine Ottocento con lo strumento fotografico, De Meyer aveva affinato la sua tecnica con una propensione agli effetti di controluce, ai giochi di specchi e alle rifrazioni visive. Personaggio eclettico ed ambiguo (fu anche sospettato di spionaggio) Adolf de Meyer aveva cominciato a poco a poco a sentire il richiamo del nuovo mondo americano e del secolo che si stava aprendo su interessanti prospettive artistiche e professionali. Nel 1913 inizia l’avventura americana con Condé Nast e questo porterà a farlo considerare il primo fotografo di moda in senso stretto, titolo che ottiene imponendo uno stile e una maniera fotografica inconfondibile e che domineranno le pagine di “Vogue” del 1917. Il destino di De Meyer poi è segnato da un momento di svolta epocale, quella in cui Condé Nast decide di sostituire a poco a poco le illustrazioni di moda con le più fotografie. L’illustratore di moda Paul Iribe decide di finanziare un’operazione culturale interessante: produrre un libretto che racconti per immagini il corpo e l’anima dell’icona di danza Vaslav Nijinsky. Sarà proprio Adolf de Meyer a realizzare le fotografie al divo. Realizzerà trenta immagini. I De Meyer oltre ad introdurre gli artisti dei balletti russi nei circoli elitari londinesi, scattano numerose fotografie ai diversi spettacoli di Nijinsky, alcune verranno pubblicate in seguito su Vogue e Vanity fair. IL <<PRELUDE>> DI NIJINSKY Dal 1910 Vaslav Nijinsky comincia a mettere mano alla coreografia de L’après-midi d’un faune: vuole emanciparsi da Diaghilev e sottolineare il suo genio. Non soltanto interprete ma anche autore. Questa scelta segna probabilmente l’inizio della crisi con Diaghilev; una volta che Nijinsky otterrà successo come coreografo non ascolterà più il suo mentore. Diaghilev allora sorpreso dai cambiamenti che vuole fare il ballerino chiede consiglio a Léon Bask che lo rassicura dicendo che questa rivoluzione sarà destinata a fare storia e che costituirà la base del modernismo nella danza. Il nuovo balletto era diverso, contorto, tanto che molte ninfe-ballerine rifiutarono il ruolo perché i movimenti non erano standard ma molto difficili da imparare. Il balletto venne messo in scena nel 1912 e suscitò emozioni contrastanti: se da un lato metà platea restò piacevolmente sorpresa, dall’altro molti avranno dei dubbi. Sono pochi i minuti in cui il quadro coreografico di Nijinsky viene considerato osceno e scioccante. Un fauno, disteso a suonare il flauto, non è visto da un gruppo di ninfe che si apprestano a fare il bagno in un ruscello. Una ninfa si sta svestendo quando le altre si accorgono del fauno e fuggono. Il fauno riesce a catturare quella svestita ma nel giro di pochissimo non gli rimane in mano che il velo della stessa. Appartatosi ne annusa il profumo e si lascia andare all’autoerotismo. Questo è il famoso finale in cui è a petto nudo ed indossa una calzamaglia attillata maculata. La calzamaglia è disegnata da Bask ed è realizzata in modo tale che non ci sia soluzione di continuità tra carne e costume. Il tutto completato da corna appuntite, grappoli d’uva appesi in vita e le mani atteggiate secondo metafore falliche. Nei suoi diari annoterà sempre <<io sono il fauno>>. La coreografia di Nijinsky andrà verso un revival di una Grecia arcaica e dura ma anche nelle posture anatomiche dell’arte egizia. Seguono altri esperimenti coreografici del ballerino, uno in particolare (Nella Sagra) i suoi movimenti di avanguardia entreranno in piena sintonia con la disarmonica e poliritmica musica di Igor Stravinskij. Poi andrà tutto molto veloce, dal matrimonio complicato alla rottura con Diaghilev fino all’isolamento e la sofferenza mentale che lo condurrà alla morte. LEON BASKT, COSTUMISTA E FASHION DESIGNER Il ballerino russo del fauno privilegia le linee e le forme a dispetto dei volumi e della profondità, lasciandosi ispirare dai Nabis e dalla pittura à plat. Le tuniche che Baskt disegna per le ninfe sono fatte di garze plissettate color crema che si sovrappongono a più strati e i motivi decorativi ricordano l’arte greca arcaica: onde, volumi, scacchiere e motivi vegetali stilizzati. Si pensa che all’origine dell’ispirazione primitiva di Baskt ci sia la visione che ebbe della Kore greca in un suo viaggio. Dal momento che le ballerine danzano a piedi scalzi, Baskt decide di dipingere le piante e le unghie dei piedi di rosa. Il trucco rosa viene è usato anche per decorare il loro volto e i loro occhi. Lèon Bakst e Jean Paquin lavorano insieme ad una linea che richiamano la chiave dei balletti russi, questo stile viene fatto conoscere ai lettori americani di Vogue alcuni mesi dopo: si sancisce l’entrata di Baskt nella moda e soprattutto l’idea che moda e arte siano territori che si rinforzano l’un l’altro. Fece molto comodo a Baskt avere come testimonial niente di meno che la marchesa Casati Stampa e anche aver confezionato numerosi costumi per la censurata Salomé la cui interprete fu la famosa Ida Rubinstein. <<CREDERO’ SOLO IN UN DIO CHE DANZA>> Il progetto editoriale del libretto Sur le Prélude à l’après-midi d’un faune è estremamente lussuoso, lo stesso Nijinsky partecipa con il contributo di mille libbre. Nelle mille copie programmate per la stampa le immagini realizzate da De Meyer non sono riproduzioni ma vere e proprie fotografie inserite all’interno del volume. È il primo ballerino che nella storia collabora consapevolmente con un fotografo al livello dell’arte. Le fotografie sono accompagnate da tre testi nati come cronaca. Il frontespizio è uno spettacolare acquerello di Baskt dedicato al <<Fauno con il velo>> e le immagini sono incollate su carta giapponese. Il libretto viene edito nel 1914 ma la Prima Guerra Mondiale ne interrompe la stampa. Pare che un gruppo di libretti fosse destinato all’America ma un sottomarino ne causò la sparizione. Lo stesso Diaghilev non riuscì a possederne una copia. Di questi libretti ne sono sopravvissuti solamente sei e la cosa più scandalosa è che del balletto più famoso del XX secolo non è rimasta nessuna traccia perché Diaghilev non dette mai il permesso per la ripresa filmica, mentre le fotografie erano concesse perché non ritenute in competizione con la frustrante realtà. Le foto di De Meyer permettono di cogliere particolari come le posizioni di piedi e braccia che sono il perno della sua estetica rivoluzionaria, queste immagini riescono a non emanare alcuno sforzo. Certi scatti di De Meyer non sono rintracciabili nella coreografia, segno che la sessione fotografica diventa una sorta di performance nella performance in cui sperimentare nuovi ritmi e nuovi movimenti. Nei suoi diari Nijinsky scrive: quella di Vogue UK in cui la Donyale Luna è fotografata da David Bailey. Donyale Luna, al secolo Peggy Anne Freeman da Detroit, diventa simbolo di cambiamento in quegli anni. La modella gioca molto con il suo aspetto tanto che, indossando una parrucca e delle lenti a contatto colorate, riesce a diventare modella ideale anche per i vestiti metallici di Paco Rabanne. Ben presto non si accontenterà più del solo mondo della moda e inizia le collaborazioni con Andy Warhol e Federico Fellini (Satyricon). Ma è un’apparizione a risultare efficace più delle altre: quella del 1966 nella parodia del mondo della moda realizzata da William Klein. In Qui etes-vous, Polly Maggoo? Luna recita sé stessa, un idolo magico che viene da un altro mondo. Trascorre l’ultima parte della propria vita a Roma dove muore poi per overdose a soli 34 anni. NANCY CUNARD, UNA <<DONNA DI CULTO DELL’ETA’ DEL JAZZ>> Tra coloro che hanno diffuso la black culture tramite la costruzione visiva di uno stile africano vi è sicuramente Nancy Cunard. Di lei per fortuna abbiamo ricordi, appunti e memorie sulla sua casa editrice, These Were the Corusche messi assieme alle sue opere ci permettono di ricostruire il profilo di questo personaggio. Nata in Inghilterra nel 1896 dal matrimonio di un nobile inglese con una donna americana amante della vita elegante e mondana, Nancy Cunard si distinse fin da ragazzina per il suo carattere difficile. Molto presto la Cunard si allontana dalla madre, il loro rapporto non era mai stato felice e anche grazie ad un matrimonio durato appena due anni, riesce ad approdare nella città che le era sempre sembrata un paradiso di libertà: Parigi. Nancy entra in contatto con la libertà più disinibita, con l’energia artistica più creativa. Tre le frequentazioni più assidue di Nancy abbiamo Louis Aragon, suo compagno e amante per alcuni anni e grazie al quale si avvicina all’attività giornalistica. La Cunard scrive poesie che pubblica su molte riviste e più tardi scrive un poema lungo, Parallax, edito dai coniugi Woolf. Nel 1927 la stessa Nancy apre una piccola casa editrice che pubblicò opere di Carrol ma soprattutto di Ezra Pound. Pound fu un incontro fondamentale della sua vita fin tanto che quest’ultimo non si convertì al fascismo, una scelta che Nancy reputò incomprensibile. I magazine si occupano spesso di lei e viene immortalata anche da numerosi scrittori che ne fanno la musa per diversi personaggi nelle loro opere, vedi un Samuel Beckett che fa nominare a Lucky di Godot il nome Cunard ben sei volte. <<IVORY, GODS, MASK, FETISHES>> Già da tempo Nancy adotta uno stile androgino che la rende riconoscibile, in particolar modo le sue braccia sono sempre adornate da una miriade di bracciali d’avorio, segno della sua passione collezionistica di oggetti africani. Nel 1928 a Venezia, Nancy conosce Henry Crowder, un musicista afroamericano che divenne suo compagno ma anche quel tramite reale con le questioni del colonialismo. Il rapporto con Crowder dura pochi anni ma diventerà il vero motivo essenziale e ideologico che avrebbe animato tutta la sua vicenda. Quando farà uscire il rapporto con il musicista alla luce del sole, la madre la disereda immediatamente e da ciò nascerà Black Man and White Ladyship, manifesto apertamente schierato contro la madre e il razzismo in generale. Da quel momento in poi Nancy si dedica apertamente alla causa razziale e anticoloniale. Comincia a lavorare a un’antologia sulla storia e la cultura africana che inizialmente battezza Color e che poi uscirà con il titolo Negro: an anthology, made by Nancy Cunard 1931-1933. La gente è curiosa di conoscere i particolari della sua vita e cerca informazioni sul suo modo di essere e di vestire. Quando viaggia Nancy è inseguita dai giornalisti e dai fotografi che così facendo alimentavano il mito di una donna dissoluta e senza morale, trasgressiva e provocatoria. È interessante vedere come Nancy Cunard abbia costruito la sua stessa maschera, alimentandola visivamente e fotograficamente e intrecciandola con la sua stessa vita con un uso consapevolissimo dei media. Il suo elemento più ricorrente sono i bracciali d’avorio, qualcuno che la frequentava testimonia che la Cunard ne avesse qualcosa come 402. La sua predilezione per il nero, per le giacche di pelle, per il trucco pesantemente caricato di Kajal dimostrano la sua volontà di crearsi un’immagine dannata e controcorrente maschera di donna fatale sessualmente libera. Seppe sfruttare la propria immagine di bella e dannata inventando spesso finti incontri piccanti per alimentare la stampa durante la presentazione del suo “Negro”. Lascia che la sua immagine e la sua vita siano oggetto di curiosità, nel 1923 intraprese un viaggio a NY nel quale usa la sua notorietà come strumento di denuncia: promuove una campagna contro i pregiudizi e l’ingiustizia di una vicenda poco chiara, dei ragazzi neri di Scottboro erano stati accusati di volenza sessuale verso due donne bianche (a questa vicenda si interessò anche Annemarie). Definita come performer capace e determinata nell’usare la sua immagine per comunicare anzitutto la sua diversità, una vera e propria dichiarazione di identità di genere, e quindi le sue idee, le sue posizioni politiche e tutta la distanza da una normalità che il suo mito deve rifuggire per potersi consolidare e trasmettere secondo le nuove regole impostate dalla società dello spettacolo. IL FETICCIO FOTOGRAFICO È interessante rileggere i ritratti fotografici che autori noti e meno noti hanno fatto della donna, infatti questi ultimi possono essere letti come tessere del mosaico visivo della sua personale mitografia. La Cunard ha partecipato attivamente ad ognuno di essi, sono vere e proprie performance fotografiche atte a mettere in scena, il mito. Nancy stessa fotografa amici ed amanti e tiene gli scrapbook con ritagli, ritratti e ricordi che fanno da contrappunto alla sua storia. Tra i personaggi di cui colleziona i ricordi troviamo Diaghilev che conosce personalmente. Purtroppo, i giornali si occupano sempre più dei suoi comportamenti eccessivi e dei suoi look e meno del suo lavoro da scrittrice ma questo è il prezzo da pagare. Nancy con Cecil Beaton e Man Ray, fa in modo che nei ritratti fotografici i bracciali siamo sempre in primo piano OGGETTI RELIQUIA. Accanto gli immancabili bracciali la presenza di stoffe e materiali che simulano la pelle maculata di animali è un altro richiamo al suo impegno interraziale e alla sua sessualità disinibita. Oltre ai bracciali indossa elementi tipici dell’abbigliamento maschile, ammiccando alle tematiche del cross-gender. La storia e le scelte di Nancy Cunard autorizzano a prenderla ad emblema di un uso della fotografia che potremmo definire senza dubbio pubblicitario nel senso dell’adozione dello strumento fotografico per vendere la propria identità negrofilia. Anche Rrose- Duchamp indossa nella versione della boccetta di profumo di Marcel Duchamp un copricapo in stile africano con un ampio piumaggio che circonda tutto il capo e scende fin sopra gli occhi. Un simile oggetto di feticcio è presente anche in alcuni scatti di Curtis Moffat a Nancy Cunard dei tardi anni Venti: abito di velluto, il trucco che segna il volto e lo sguardo, ma l’attenzione è catturata da una specie di cappello-parrucca pieno di piume che le avvolge il capo come se fosse una specie di idolo tribale o di capo indigeno. Gli stessi elementi individuati nei ritratti di Cecil Beaton si ritrovano anche negli scatti di Man Ray realizzati in studio. In alcune immagini indossa un abito a stampa animalier e nell’altro un semplice abito nero. Un altro esempio di uso della fotografia per veicolare i rapporti umani e psicologici di Nancy lo troviamo in Henry-Music, la raccolta di partiture realizzate da Henry Crowder nel 1930. La copertina realizzata da Man Ray è interamente occupata da reperti africani, bracciali e sculture. Il rapporto però di Nancy con l’autore-musicista sono ancora più evidenti nel piccolo collage al margine della copertina. Qui Man Ray ha sovrapposto a un ritratto di Crowder due braccia coperte di bracciali a dire che lei è lì, presente come musa, compagna e editore. Nancy si fa anche fotografare come icona di moda e di stile degli anni ’20 quando indossa abiti di Sonia Delaunay. LADY, FEMMINISTA, ANDROGINA, QUEER L’attivismo politico di Cunard diviene piena prassi durante la guerra civile spagnola. Trasferitasi a Barcellona da inizio ad una intensa attività giornalistica di corrispondente per varie testate europee. È in questo periodo che collabora con Pablo Neruda ad una raccolta di vari interventi a difesa del popolo spagnolo. Sebbene sia stata vista come simpatizzante comunista, la Cunard si definisce anarchica e contro ogni forma di tirannia. La sua casa in Normandia con all’interno i bracciali, le opere d’arte viene trafugata e distrutta così come anche la biblioteca, i documenti e i materiali di lavoro dal partito nazista. Nonostante questo, continua a viaggiare e scrivere ma la sua salute aggravata dalla dipendenza da alcol la farà morire nel 1965 a Parigi mentre stava scrivendo un poema contro tutte le guerre, ossessionata dall’avvento dei fascismi. 7.GABRIELE D’ANNUNZIO, ECCENTROCO SNOB AUTOBIOGRAFIA DEL MITO C'è chi considera la gestione del proprio mito, l'opera più autentica di D'Annunzio, "primo scrittore a costruire il proprio". Trasferitosi a Roma (dove rimane dal 1882 al 1888) D'A. si dedica ad un'intensa attività di giornalismo, rendendo in parole l'abbigliamento e lo stile delle dame dell'epoca in occasione di feste e appuntamenti chic. Impressionante la capacità che egli dimostra nel commentare le mises femminili e soprattutto la serietà con la quale dispensa consigli su stili, mode, abbinamenti, acconciature e buon gusto. Egli è consapevole di quanto l'arte sia merce e di quanto la moda sia espressione di modernità; ha inoltre una passione ormai nota per l'esteriorità e l'estetismo, motivi per i quali diventa esperto conoscitore del fenomeno moda questo lo si vede all’interno di periodici come “La Tribuna”, “Il Capitan Fracassa” e la “Cronaca Bizantina” precursore dei fashion blogs. Lo scopo è
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