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Montale: vita e poesia, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

La figura di Eugenio Montale, poeta italiano del Novecento, e la sua poetica. Montale si distingue per la ricerca di oggettività nella poesia, che diventa strumento di comunicazione e manifestazione di un bisogno intimo dell'essere umano. La lingua poetica tende al monolinguismo e la metrica presenta riprese della tradizione lirica. le raccolte di poesie di Montale e le figure femminili che le dominano. Infine, viene descritta la presenza della guerra e del nazismo nella poesia di Montale.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 03/03/2023

francilegge
francilegge 🇮🇹

14 documenti

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Scarica Montale: vita e poesia e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Montale:vita La poesia italiana del Novecento è percorsa interamente dall’esperienza di Eugenio Montale (Genova 1896-Milano 1981), che, dalle iniziali influenze di D’Annunzio allarga i propri orizzonti a suggestioni antiche (Dante) ed europee (la poesia inglese, da Shakespeare e John Donne, di cui fu anche grande traduttore, a Eliot). Nella sua lunga vita Montale operò come attivo promotore di cultura, direttore del Gabinetto Vieusseux di Firenze (1929-1938), vicino alla rivista Solaria, e licenziato perché non iscritto al partito fascista. Dopo la Seconda Guerra Mondiale sarebbe stato a lungo collaboratore del “Corriere della Sera”, e avrebbe vinto il premio Nobel nel 1975. Originario di una famiglia di commercianti, e diplomatosi ragioniere, Montale sviluppò subito una grande passione per il canto, la musica e la letteratura, intrecciando i primi rapporti intellettuali, nel primo dopoguerra, con Gobetti e con il critico Debenedetti. Sulla rivista gobettiana “Il Baretti” pubblicò l’importante saggio Stile e tradizione (1925), nel quale esprimeva il suo rifiuto dell’avanguardia, e la ricerca di semplicità e chiarezza nella formazione di uno ‘stile’ che avesse sempre alla base “coscienza e onestà”: e la stessa esigenza di rigore morale lo spinse ad aderire al Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso allora da Benedetto Croce (1925). Fin dalle prime poesie (a partire dal 1916), la poetica montaliana non pretende di raggiungere direttamente l’assoluto per via di ‘illuminazione’ (come invece proponeva la tradizione simbolista, da Mallarmé in poi, ma anche in Ungaretti), ma tenta di confrontarsi con la realtà, nominando gli oggetti, le cose che circondano l’esistere dell’uomo. La poesia è una forma di conoscenza possibile, di un’oggettività nascosta sotto la superficie del fenomeno, in un contesto che appare sempre più privo di significato. Ed è soprattutto strumento di comunicazione, manifestazione di un bisogno intimo dell’essere umano, nella ricerca di un interlocutore che si esplicita nell’insistenza del rapporto IO-TU, tra mittente e destinatario. Spesso il ‘tu’ è rivolto ad una figura femminile, alla presenza misteriosa di un angelo che può salvare dall’assurdità o dal nulla. Ma talvolta è anche, semplicemente, il gioco di specchi della moltiplicazione dell’io del poeta. La ricerca di oggettività non resta separata dal rapporto con la tradizione letteraria, elemento costitutivo del fare poetico, per mezzo dell’arte allusiva e dell’intertestualità, una sorta di dialogo vivo con i ‘classici’ (soprattutto Dante), parallelo alla contemporanea esperienza di Eliot, di cui Montale condivide la tecnica del correlativo oggettivo. La lingua poetica tende al monolinguismo, arricchendosi di parole anche rare, si tratta di parole-cose, di termini essenziali in un cammino di riscoperta del reale. E anche la metrica presenta riprese della tradizione lirica, nell’equilibrio tra verso libero e versi tradizionali. Nel primo libro, “Ossi di seppia” (1925), pubblicato dalla “Rivoluzione liberale” di Gobetti, si manifesta pienamente una situazione di disarmonia con la realtà, un “male di vivere”, un’esistenza consunta e logorata come l’osso di una seppia, residuo di una creatura ormai priva di vita, abbandonata dalle onde del mare sulla sabbia di una spiaggia. È l’emblema non solo della condizione umana, ma anche della poesia, in grado di esprimere quel disagio, una poesia essenziale che va oltre le convenzioni dei “poeti laureati", e attraverso la quale è forse possibile “scoprire uno sbaglio di natura, il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità” (I limoni ). È una poesia dell’assenza: assenza dell’uomo nella sospensione meridiana, resa dallo stile nominale e dal verbo all’infinito (Meriggiare pallido e assorto); e assenza di una dimensione trascendente e consolatoria con la quale sia possibile entrare in comunicazione. La poesia allora non afferma, ma nega, ed è in grado di ‘dire’, di comunicare. Nella raccolta successiva, “Le occasioni” (1939), lo stile si eleva all’altezza dell’allegoria metafisica. Le ‘occasioni’ sono infatti gli istanti in cui avviene la rivelazione dell’essenza delle cose, la loro ‘epifania’. Ma allo stesso tempo si acuisce la crisi della memoria e del senso delle cose. La casa dei doganieri è un vero ‘anti-idillio’, che nell’incipit rovescia il leopardiano A Silvia: “tu non ricordi la casa dei doganieri”. Il poeta si rivolge col ‘tu’ ad Annetta (o Arletta), cioè Anna Degli Uberti, la prima fanciulla amata, conosciuta nel ’20 a Monterosso, morta giovane e già ricordata in Incontro. È ormai impossibile distinguere realtà-apparenza, vita-morte. Ne deriva un senso della negatività della conoscenza, in cui emergono le misteriose apparizioni di emblematiche figure femminili, come la misteriosa ebrea austriaca Dora Markus, e soprattutto la donna-angelo Clizia, una giovane studiosa americana di Dante (Irma Brandeis), conosciuta nel ’33 a Firenze e dedicataria delle Occasioni. A Clizia, che svolge una funzione salvifica paragonabile alla Beatrice dantesca, “iddia che non s’incarna” (e di cui si rappresenta un’angosciosa partenza in treno, simile ad una celebre lirica di Carducci), si collega inoltre il mito ovidiano dell’amante del Sole, trasformata in girasole. Clizia, in particolare, domina un’importante sezione del libro intitolata Mottetti, brevi epigrammi in cui si cerca di decifrare i segni della presenza o dell’assenza dell’angelo. La grande Storia, la guerra e il nazismo, irrompono nella poesia di Montale con La bufera e altro (1956), in testi come la terribile Primavera hitleriana (ricordo di una visita di Hitler “messo infernale” a Firenze nel ’38). torna la teologia negativa in Piccolo testamento, dichiarazione di estraneità ad ogni consentimento ad una rasserenante fede religiosa o ad una certezza ideologica. Resta però l’idea che nell’oscurità sia possibile scorgere almeno un tenue bagliore, il segno di una speranza o di una fede. E torna soprattutto Clizia, come grande simbolo vitale la cui luce continua a vivere tra gli uomini, anche dopo la sua partenza, anche nel fango e nell’aridità della vita (Anguilla). Nel secondo dopoguerra Montale collaborò al periodico “Il Mondo” con Bonsanti e Loria (1945-1946), un interessante esperimento di cultura impegnata e attuale nell’Italia della ricostruzione, e poi per molti anni al “Corriere della Sera”, pubblicando recensioni di critica musicale, elzeviri, racconti, saggi e articoli. Da questa esperienza di scrittura nascono le prose montaliane, pubblicate in raccolte di racconti brevi e di dimensione quasi lirica (Farfalla di Dinard 1956), di saggistica (Auto da fé 1966), e di appunti di viaggio e di cronaca (Fuori di casa 1969), oltre ad un importante saggio Sulla poesia (1976). Dopo un lungo silenzio poetico (che corrisponde comunque al fecondo esercizio di traduttore di poesia straniera, e di scrittore di prosa), Montale innoverà profondamente il suo stile, avvicinandosi alla prosa e alla poesia del quotidiano, ad iniziare da Xenia (1966), che in greco significa ‘doni’, i doni che si fanno agli ospiti (il titolo del XIII libro degli epigrammi di Marziale); in realtà, una raccolta di poesie dedicate alla moglie morta, Drusilla Tanzi, soprannominata “la Mosca” (“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino”). Dall’epigramma si passa alla satira sferzante contro l’imbarbarimento dell’uomo nella raccolta “Satura” (1971), che rovescia la poetica delle Occasioni, dalla poesia alla prosa, nel
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