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Mosè sull'arca di Noè (di G. Lupo), Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Sintesi del libro Mosè sull'arca di Noè per il corso di Teoria e storia della modernità letteraria del prof. Lupo (Filologia moderna, Università Cattolica di Milano e Brescia), anno accademico 2021/22.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 15/02/2022

danimoz
danimoz 🇮🇹

4.7

(33)

20 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Mosè sull'arca di Noè (di G. Lupo) e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! G. Lupo, Mosè sull’arca di Noè. Un’idea di letteratura I libri sono come un’arca di Noè: galleggiano sulle onde del tempo e così si salvano e preservano le storie dalla dispersione. La letteratura, però, non si limita a custodire: quando la navigazione termina, il viaggio prosegue a piedi, sulle orme di Mosè, in direzione di una terra da raggiungere. E anche se Mosè non la raggiunge, chi lo segue potrà essere libero. I. Mondi distrutti, mondi costruiti 1.1. Correre avanti, guardando indietro Nella conclusione delle Città invisibili (1972), Marco Polo postula l’aspetto bifronte della città, Gerusalemme e Babilonia, e l’esistenza di due modelli umani opposti, chi si rassegna all’inferno e chi lo fugge, allegorie dell’apocalisse e dell’utopia, delle fasi alterne di caduta e ricostruzione. Il Novecento è per Cesare de Michelis contraddittorio e ambivalente, scisso tra le catastrofi dominanti e un’urgenza di ripresa minoritaria, il secolo tragico del genocidio e dei regimi totalitari, del crollo dell’umanesimo e della fine della civiltà contadina, ma anche il secolo del benessere, del progresso dell’arte e della tecnica. Chi accetta l’inferno sono gli abitanti della città degradata, identificata dall’Ottocento nell’immagine del ventre e dalle Scritture nelle città su cui si abbatte il dies irae. Le si oppone Gerusalemme, città celeste, perfetta, modello per la città cubica di Edoardo Persico (Città degli uomini d’oggi, 1923) e per la Grassano come Gerusalemme di Carlo Levi (1935). 1.2. La dimensione verticale Riconoscere dentro l’inferno i segni di ciò che inferno non è significa instaurare una gerarchia di misure architettoniche dal basso verso l’alto, assecondando il bisogno di verticalità che conduce alla città santa, esente da gravitas. Nell’opposizione tra Gerusalemme e Babilonia si incarna il contrasto tra leggerezza e pesantezza al centro della prima delle Lezioni americane di Italo Calvino (1988). La poetica di Calvino, che consegna al secolo nuovo un’eredità in grado di valicare la cesura col precedente, è «sottrazione di peso», in nome di un desiderio di alleggerire che anima, nelle Città invisibili, la sezione delle città sottili. L’acquisizione della verticalità è celebrata da Elio Vittorini sul «Politecnico»: New York è capostipite delle città del mondo, i suoi grattacieli concludono vittoriosamente l’esperienza della torre di Babele. L’utopia di Vittorini si nutre del sogno di una New York in cui le razze possano dialogare in pace. L’immagine della città verticale, paradigma del capitalismo e della ricchezza occidentale, torna in America Amara di Emilio Cecchi (1939) ed è bersaglio degli attacchi terroristici del 2001, alba dell’«età dell’incertezza» di Zygmunt Bauman e sintomo concreto di un’apocalisse in atto. 1.3. Catastrofi annunciate e inascoltate Le opere apocalittiche si moltiplicano negli anni Settanta del Novecento, quando, «svaniti gli entusiasmi e gli agonismi generosi» del dopoguerra, prevalgono «il disinganno e un senso crescente di sconforto» (Bruno Pischedda, Grande sera del mondo, 2004) e si inaugura la stagione del pessimismo. In tendenza contraria alla tradizione anglosassone di A. Huxley, G. Orwell, H.G. Wells e R. Bradbury, la linea apocalittica italiana comprende opere eterogenee, prive di una visione organica, che tendono a perdere la funzione di interpretare la società e svelarne i pericoli. Le opere apocalittiche circoscritte tra la strage di piazza Fontana e l’assassinio di Aldo Moro – La distruzione di Dante Virgili (1970), Il mondo nudo di Raffaele Crovi (1975), Petrolio di Pier Paolo Pasolini (1992, interrotto nel 1975), Dissipatio H.G. di Guido Morselli (1977), Il pianeta irritabile di Paolo Volponi (1978), Il superstite di Carlo Cassola (1978), Il giorno del giudizio di Salvatore Satta (1979) – sono sintomo di disagio, di disorientamento morale in una civiltà prossima al collasso, come se la crisi petrolifera avesse gettato sospetto sull’ottimismo del boom economico e indotto gli scrittori a un ripiegamento su immagini di un mondo in rovina. Se nella Roma degli anni Trenta la linea apocalittica risente di una solida matrice religiosa, le narrazioni degli anni Settanta sono laiche, condizionate da preoccupazioni legate alle conquiste tecnologiche e al clima di tensione politica, alla violenza del terrorismo e ai traumi linguistici (della neoavanguardia) ed ecologici, alle esplorazioni spaziali. Pur avendo il tono leggero e i protagonisti animali della favola, i romanzi apocalittici aprono uno sguardo disperato sulla realtà. Lontani dall’ottimismo e dalla fiducia nel progresso di Calvino nelle Cosmicomiche (1965) e in Ti con zero (1967), disegnano un universo distopico minacciato dai risvolti negativi delle macchine, dal divorzio tra le scoperte scientifiche e il vaglio etico, dal senso di superiorità dell’uomo sulla natura. Il mondo nudo di Crovi 1 propone un caso di manipolazione della comunicazione verbale, insinuando il sospetto che tecnica e libertà creativa siano incompatibili. Un aspetto comune ai romanzi apocalittici è la rappresentazione del day after, del giorno dopo l’apocalisse: nel Superstite di Cassola e nel Pianeta irritabile di Volponi, il cammino alla ricerca di un altrove è affine al viaggio ascensionale dantesco. La desolazione del mondo è riflesso della solitudine forzata a cui sono condannati, come i protagonisti di Dissipatio H.G. di Morselli e Petrolio di Pasolini, tutti gli uomini. 1.4. La condizione postuma Nella narrativa apocalittica trionfa l’idea della letteratura come epifania del male e racconto della fine di una civiltà minacciata dalla catastrofe. Nella Seconda mezzanotte (2011), Antonio Scurati descrive la sera come momento dell’apocalisse, di un disastro imprevisto e imprevedibile: l’uomo, privato dell’istituto della famiglia, è impossibilitato a testimoniare e solo volgendo lo sguardo indietro si rende conto di essere ormai a valle di una catastrofe già avvenuta. La fine del mondo è preannunciata anche dai racconti dello sterminio di un popolo (La masseria delle allodole di Antonia Arslan, 2004) o nei luoghi di conflitto, dai Balcani all’Oriente. Il tema è ben più radicato nel versante catastrofista della produzione cinematografica. La seconda stagione apocalittica, al contrario della prima, non è animata da un sostrato ideologico né da impegno civile e toni politici; fanno eccezione i romanzi impegnati che riproducono la degenerazione degli anni di piombo, quelli che descrivono, con forti implicazioni etiche, una società ormai preda di diffusa illegalità (Gomorra di Roberto Saviano, 2006, e Alveare di Giuseppe Catozzella, 2011), e quelli che raffigurano la catastrofe in forma di crollo economico. Alla distruzione del mondo annunciata per ragioni ecologiche negli anni Settanta si sostituisce ora il flagello della corruzione morale, ben più profondo della geografia catacombale delle città-fogna. Il contrasto tra il volto e il ventre della città, tra normalità e degenerazione, è all’origine del gusto letterario per il giallo, che nasce per mettere ordine nel disordine, per risolvere delitti e mettere a nudo devianze, e ottiene successo perché capace di placare le inquietudini. Il modello di Gomorra domina sul genere della non fiction novel, una cronistoria in presa diretta, un resoconto – più che un racconto – della realtà affidato ai documenti dei tribunali, in cui il procedimento narrativo si riduce a esercizio massmediatico. La letteratura degli ultimi anni non si concentra più sul tema ecologico, ma ripropone la dicotomia che oppone l’individuo alla collettività. È la letteratura del tempo minimo, breve ma non necessariamente rapida. 1.5. L’esilio e il sogno In Utopia e disincanto (1999) Claudio Magris assimila al destino di Mosè, che contempla da lontano la Terra Promessa senza mai raggiungerla, i destini dell’uomo e della letteratura che tenti di varcare i confini del presente. Camminare in direzione della Terra Promessa senza raggiungerla tradisce un intento progettuale, postula una parvenza di futuro, una dimensione che la letteratura apocalittica nega e la letteratura utopica coltiva. Più che utopia – non-luogo o luogo felice – la letteratura è progetto, ricerca, tensione al domani tramite l’esercizio della memoria o il recupero dell’identità. La Terra Promessa, distante, è nutrimento per la scrittura. La speranza di approdo – il paese innocente di Ungaretti, la città cubica di Persico – è alimentata da contingenze storiche che spingono alla ricerca dell’utopia: nella città come luogo d’incontro tra l’individuo e la modernità l’uomo smarrisce la strada di casa, e la condizione di nomadismo che ne consegue lo spinge dal non-luogo alla ricerca del luogo felice. Questo giustifica gli interessi architettonici e urbanistici maturati da intellettuali di forte spessore utopico e atteggiamento profetico e testimoniale, disposti ad abbracciare un’istanza civile di rinnovamento. Da narrazione del presente, la letteratura si fa progetto politico in senso etimologico. La ricerca di un luogo felice dà risposta al senso di smarrimento che si genera dentro la città e che gli scrittori accusano quando perdono il domicilio, la memoria, l’identità. Centrali negli autori della linea appenninica sono l’esperienza dello sradicamento e la proiezione verso una meta che non è necessariamente un luogo ma una dimensione intellettuale. L’utopia non è esercizio della fuga come alternativa al presente, ma ricerca di un rimedio al naufragio entro orizzonti che superano la catastrofe e immaginano un destino possibile dopo la fine. I narratori dell’utopia trasfigurano la realtà anziché riprodurla e, così facendo, ne riconsacrano la memoria, sono destinati a risiedere «non in terra promessa», ma «in margine all’accampamento» (E disse di Erri De Luca, 2011). II. Scritture del tempo breve 2.1. Il mondo fermo 2 La precarietà dell’homo instabilis trova riflesso nelle forme di narrazione contaminata dei libri recenti ispirati al tema del (post)lavoro, esemplari e sperimentali come i romanzi di fabbrica. Dopo che la deindustrializzazione ha causato la morte dei concetti tradizionali di fabbrica e classe operaia, la narrazione si concentra sul tema del lavoro come occasione di morte e su una geografia dell’abbandono. La prima linea si sofferma sulle realtà di maggior impatto ambientale (Ternitti di Mario Desiati, 2011, e Veleno di Cristina Zagaria, 2013), su storie di formazioni e deformazioni dentro e intorno alla fabbrica (Acciaio di Silvia Avallone, 2010) e su reportage di incidenti sul lavoro (Il costo della vita di Angelo Ferracuti, 2013). Il secondo filone, ambientato in realtà non più vive, denuncia un’esasperata fame di realtà e percorre le traiettorie della cronaca per recuperare tracce di un impegno morale (Storia della mia gente di Edoardo Nesi, 2011, Viaggio nella notte di Massimiliano Santarossa, 2012, e Invisibile è la tua vera patria di Giancarlo Liviano D’Arcangelo, 2013). Questi scrittori, fautori di un neo-realismo o di un realismo post-moderno, testimoniano più che denunciare, cercano di farsi coscienza critica del proprio tempo, ricordano che la condizione operaia è ancora irrisolta, che l’industria si è trasformata ma non è morta. III. Pianeta Meridione 3.1. Le epopee comunitarie La narrativa post-industriale, che segna il passaggio dall’espansione della fabbrica alla sua dismissione, è voce di una letteratura che aspira a essere coscienza collettiva del Paese. La stessa vocazione anima una narrazione erede del romanzo storico-antropologico e di Raffaele Crovi, profondamente legata a una realtà geografica, che fa ricorso alle risorse della memoria storica, alle scienze umane e all’economia per raccontare le trasformazioni di una comunità. A Raffaele Crovi si deve la definizione dell’area culturale in cui questo genere si è affermato, dal Meridione al Veneto, i due territori in cui maggiormente l’immaginario individuale e quello collettivo dialogano in chiave storico-sociale e psico-sociale. Questi romanzi, nati dall’incontro tra micro-storia e macro-storia, hanno una profonda vocazione testimoniale, «riflettono e studiano situazioni di crisi civile e di ricerca di identità sociale» (Crovi, Parole incrociate, 1995), intrecciano un dialogo tra la non-storia della civiltà contadina e la contro-storia come reinterpretazione delle categorie storiche, per conservare la memoria di terre e nazioni cancellate. Con la ripresa del romanzo storico- antropologico, quale genere della multidisciplinarietà e del ripensamento etico-ideologico, la letteratura si pone al servizio della realtà, si fa indagine di trasformazioni in atto e riflesso di aspirazioni collettive, stabilisce un rapporto saldo tra lo scrittore e la sua terra, generalmente periferica. Gli stessi fenomeni si registrano in aree ancora lontane dallo sviluppo economico, ma non ignare di trasformazioni sociali. Dietro le vesti di un romanzo di formazione, Malvarosa di Raffaele Nigro (2005) delinea un’immagine di un Meridione illuso di aver agguantato con lo sviluppo industriale il treno della modernità e ora condannato al fallimento, luogo di morte in cui sono vivi i resti della civiltà contadina, ma prevale il senso di decadenza e sconfitta. Il “pianeta Meridione” – secondo la definizione coniata da Crovi in Diario del Sud (2005) – non è più la città del sole di Tommaso Campanella né la terra dipinta di Alfonso Gatto, ma un luogo infernale: così lo descrivono Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (1945), le inchieste giornalistiche di Giorgio Bocca e Gomorra di Roberto Saviano (2006). Il Sud, metafora della catastrofe imminente, è un universo neobarocco popolato da simboli funerei, che ha per capitale Napoli. 3.2. Identità disperse e lingue migranti Il problema della ricostruzione di un’identità, che si presenta a tutti gli scrittori del nuovo millennio, è ancor più urgente per gli autori del Mezzogiorno, alla ricerca di un nuovo vocabolario per raccontare i cambiamenti indotti dal rapporto problematico tra il Mezzogiorno e la modernità. Il Mezzogiorno, con la sua estrema varietà di paesaggi, si è sempre opposto ai tentativi di trovare una lingua per raccontarlo, compiuti da Carlo Levi e prima di lui da Giovanni Verga, Federico De Roberto, Luigi Pirandello. Il nuovo dizionario per narrare il Mezzogiorno si trova, più che sulle coste, inclini alla mobilità, nell’entroterra appenninico, che vive lento e immerso nel silenzio, diffidente verso la Storia e per questo più incline all’utopia, convinto che sia conveniente investire energie nel tempo a venire. Quando il linguaggio degli anni Cinquanta – civiltà contadina, assenza di Storia, immobilismo – ha ormai perso significato, la ricerca della lingua è ricerca di un’identità, complicata dall’incapacità di trovare l’orientamento in un paesaggio mutato o dalla tendenza alla fuga, dalla tentazione dell’altrove. In Narratori di un Sud disperso di Filippo La Porta (2000), il Sud è disperso perché si è «allontanato da se stesso fino a stravolgersi o a nascondersi». La dispersione afferisce all’immagine della fuga, così come la diserzione dei giovani scrittori meridionali dell’antologia Disertori 5 (2000). Disertori o dispersi, i narratori del Mezzogiorno italiano sono consapevoli che solo un riposizionamento geografico, linguistico ed etico può restituire le coordinate per reinterpretare il Sud oltrepassando l’immobilismo attribuito alla civiltà contadina. La cultura migrante, o letteratura dell’emigrazione, offre una risposta convincente, che coniuga il desiderio di fuga a una possibile soluzione alla dispersione, e si propone come veicolo di conoscenza e strumento di indagine sociologica, a livello sia tragico (Vita di Melania Mazzucco, 2003) sia comico (Parenti di Gaetano Cappelli, 2000). Entrambi i romanzi sono eredi dell’immaginario letterario novecentesco che proietta sul continente americano il miraggio dell’utopia. Non mancano esempi di scrittori che guardano in altre direzioni e raccontano l’epos tragico degli arrivi (Raffaele Nigro, Mimmo Sammartino, Giuseppe Catozzella) o l’abbandono delle radici (Carmine Abate, Paolo di Stefano, Laura Pariani). La letteratura recupera esperienze di vita ai margini, riscattando una periferia di cui pochi anni prima si era decretata la morte. Nell’idea della fuga e del rischio di dispersione che le è connaturato si rintraccia il legame del secolo nuovo con il Novecento, nato dalla riscoperta della ricchezza della provincia. Contro le consonanze e la somiglianza generica, questa linea letteraria promuove le particolarità. 3.3. La Storia è mobile In opposizione alla visione storica antievoluzionistica di Verga, il Novecento ha consegnato agli scrittori meridionali la possibilità di infrangere il tabù con la rivolta popolare. Molti dei testi nati lungo la dorsale appenninica affrontano il tema del ribellismo, individuale (Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro, 1930) o collettivo (Fontamara di Ignazio Silone, 1933), declinato in momenti storici diversi: nei primi anni del fascismo, nelle fasi pre- e post-unitaria, nell’immediato secondo dopoguerra. Il tema della lotta per la conquista di un lembo di terra da coltivare è segno di un dissenso espresso dai contadini dell’entroterra contro uno Stato prevaricatore che, nonostante le transizioni storiche, continua a mostrarsi ostile ai deboli. Nel periodo tra la nascita e il crollo della dittatura fascista, epilogo dell’esperienza monarchica e prologo di nuovi feudalesimi, il motivo che domina la narrativa meridionale è la conquista di terre per colmare antichi divari. Sull’esempio della matrice testimoniale di Cristo si è fermato a Eboli, le scritture provenienti dalle aree interne rischiano, però, di abbracciare una visione parziale e una troppo rigida impostazione teorica, e di non saper rappresentare i processi di trasformazione socioculturale in atto. Finché si è trattato di manifestare un disagio collettivo, gli scrittori hanno offerto una valida testimonianza; ora, invece, sono posti di fronte all’alternativa tra la cronaca, che si limita a ratificare una situazione, e la costruzione di un’alternativa. La vocazione alla denuncia ignora sia la lezione di Vittorini, che chiama la letteratura a registrare i processi evolutivi della mentalità e della vita, sia la tensione all’utopia. 3.4. Artigiani vs. contadini Nel 2011, in occasione del centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, l’allestimento in Basilicata di una mostra dedicata a Leonardo Sinisgalli ha suscitato il disappunto di quanti ritenevano che l’entroterra appenninico fosse meglio rappresentato dall’opera di Rocco Scotellaro. Si è qui riproposta l’opposizione tra Sinisgalli e Scotellaro, il primo allontanatosi dalla Lucania in giovane età in direzione della civiltà delle macchine, il secondo divenuto emblema dell’impegno politico e della lotta per la libertà contadina. I due autori guardano al medesimo orizzonte, ma da due prospettive distinte: Scotellaro è attratto dal folclore antropologico dei contadini, Sinisgalli dall’etica degli artigiani, anello mancante di tutta la narrativa meridionale. Con i suoi tentativi di poesia impura e le sue stratificazioni scientifiche e industriali, Sinisgalli dimostra com’è possibile raccontare il Mezzogiorno evitando i temi ormai stantii di un meridionalismo che si manifesta nei miti della terra e nelle lotte contadine. La questione meridionale dev’essere riformulata alla luce della consapevolezza che i confini del Mezzogiorno si sono ormai estesi ben oltre le coordinate della subalternità agraria. Il Sud raccontato da Sinisgalli non ha voltato le spalle al passato, ma si è trasformato, è diventato bacino di sogni traditi e promesse inadempiute, teatro di contraddizioni morali più che economiche. Affascinato dalla modernità, ha smarrito l’alfabeto con cui progettare il futuro. Di fronte al fallimento delle passioni politiche, i narratori meridionali hanno sempre conservato la vocazione alla denuncia; Sinisgalli, al contrario, propone coordinate e codici interpretativi nuovi. 3.5. Meridione e Mediterraneo La prospettiva di Carlo Levi si innesta sullo stesso paradigma della non-storia proposto da Verga e ne coglie frutti amari. Nel romanzo di Levi, non soltanto l’ingresso in Lucania è affine all’ingresso di Dante 6 all’Inferno; per il Mezzogiorno non c’è occasione di riscatto, né nel ritorno a uno stato di natura felice né nella fuga verso le industrie del Nord. Anche in una geografia votata al capitalismo, i contadini meridionali non smetteranno di sentirsi estranei alla Storia, inadatti al cambiamento antropologico, ultimi rappresentanti di un mondo ancestrale incompiuto. La condanna della città quale teatro dell’ennesima sconfitta dei poveri è smentita dal fatto che i figli ottengono dall’emigrazione al Nord il riscatto che i padri invano attendevano dalle fortune della terra. Ai toni nostalgici della retorica contadina si oppone una letteratura che scardina il volto di un Meridione isolato e rassegnato. Nel 1960, Vittorini esorta gli scrittori a preferire ai dialetti meridionali il linguaggio, di formazione recente, degli emigrati meridionali al Nord. È alla ricerca del dizionario più efficace per raccontare l’avventura della modernità a un’Italia che continua a sentirsene estromessa; invita ad abbandonare lo sguardo incantato dell’arcadia per abbracciare il progresso. L’immagine di un Mezzogiorno architetturale, favoloso e felice – che emerge dalle Città del mondo (1969) – è rifiutata da tutti i narratori che preferiscono continuare a rappresentare il Meridione come dolore, illegalità, morte, teatro di una questione meridionale ancora irrisolta e sempre uguale a se stessa. La proposta di raccontare il Meridione attraverso le commistioni antropologiche e linguistiche sperimentate a Milano è priva di successo perché troppo in controtendenza. Se il viaggio di Cristo si ferma a Eboli, nega agli artigiani il diritto di esistere tra le pagine della letteratura e annichilisce ogni ambizione di progresso. Non resta che muoversi in direzione della rivolta, verso il paradiso politico narrato da Raffaele Nigro, che crea le fondamenta di un dibattito letterario capace di proseguire oltre Eboli, dalla non-storia di Levi al territorio della post-storia. Se si intende ridefinire le coordinate per raccontare il Mezzogiorno con un vocabolario nuovo, è essenziale verificare fino a che latitudini si sia estesa la questione meridionale e considerare che l’entroterra appenninico non è più muto come lo era un tempo. Se gli scrittori sono disposti a rinunciare all’esigenza di denuncia e al disincanto, il Mezzogiorno può riacquistare la propria identità al confine tra un oriente inquieto e un occidente sconfitto. IV. Alla ricerca del tempo lungo 4.1. Tutto è all’inizio L’incipit di un’opera dà anticipazione delle virtù del buon libro – linguaggio, tema, tono, suggestione – e gli attribuisce un’identità. L’esordio che meglio obbedisce a questo principio è l’incipit dell’Odissea, in cui Omero non si limita a esporre la materia del racconto: dispone gli argomenti in modo da svelare la struttura e il cuore del poema e descrive il carattere del protagonista, astuto ed errabondo. Odisseo erra sia perché viaggia sia perché approfitta dei viaggi per conoscere la mente degli uomini e, così facendo, può sbagliare. L’incipit è pienamente moderno per due ragioni:  Omero anticipa l’intera vicenda del poema, rovescia le intenzioni del racconto – così come ne rovescia la historia – e contravviene alle norme tradizionali della narrazione per invitare il lettore a concentrarsi, più che sul finale, sull’itinerario da percorrere per raggiungerlo;  In controtendenza rispetto ai criteri dell’epica, chiede alla dea di raccontare “qualcosa” della vicenda di Ulisse: allude così alla parzialità e all’incompletezza del racconto, che si presenta come condensato di un’esperienza, succo di un discorso più lungo, noto alla dea ma precluso ai mortali. L’espressione tradotta in italiano con “qualcosa” (ton amothen) significa anche “da qualunque parte”, in riferimento alla segmentazione di un plot narrativo incompleto, alla frammentarietà e al caos narrativo con cui l’autore riferisce le informazioni ricevute dalla dea. Omero scombina sia l’ordine logico-temporale sia il percorso del bildungsroman: non sono i padri a istruire i figli perché non si smarriscano, ma i figli a diventare responsabili dei padri e mettersi sulle loro tracce. 4.2. Hic et nunc L’Odissea sconfessa il paradigma per cui il conflitto generazionale è segnale della modernità novecentesca e i figli, per diventare adulti, devono uccidere i padri. Telemaco dimostra il contrario, va alla ricerca del padre e lo trova nel racconto dei poeti. La parola ha un potere fondativo e, come il viaggio, è occasione per fondare la propria identità e attribuire un nome ai luoghi. In Breviario Mediterraneo (1991), Predrag Matvejevič ipotizza che i poeti per primi abbiano descritto luoghi inesistenti che i geografi sono stati poi costretti a disegnare. Narrare è come inventare il mondo: i poemi classici definiscono i confini di un mondo che già esiste ma deve essere raccontato per essere percepito come reale; alla letteratura spetta il compito di raccontare qualcosa che non esiste o non è visibile e, nel momento in cui viene raccontato, comincia a essere 7
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