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Musei e antropologia - Storia, esperienze, prospettive, Appunti di Antropologia Culturale

La museografia contemporanea, interna all’orizzonte visualista della rappresentazione, si è aperta alle forme digitali di comunicazione e tende a rispondere ai bisogni dei suoi pubblici enfatizzando le seduzioni proprie del racconto multimediale. Il coinvolgimento dei visitatori in programmi collaborativi e co-creativi è un ulteriore segno di come sia cambiata la missione del museo, sempre più orientata all’accessibilità totale e allo sviluppo della cultura.

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 15/03/2022

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Scarica Musei e antropologia - Storia, esperienze, prospettive e più Appunti in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! Vito Lattanzi Musei e antropologia – Storia, esperienze, prospettive Introduzione Uno sguardo antropologico sul museo contemporaneo James Clifford, 1986 Writing Culture  l’autore richiama l’attenzione sui movimenti concettuali che stavano sconvolgendo il presente e le scienze, scuotendone come un terremoto le fondamenta. Si è assistito, negli ultimi due decenni del Novecento, ad una crisi del senso che ha investito in pieno anche i modi della rappresentazione culturale rappresentati dalla disciplina antropologica (comprese etnografia e museografia), poiché non ci si può più installare senza ambiguità all’interno di un mondo culturale delimitato per lanciarsi nell’analisi di altre culture. La deriva del senso è stata seguita a ruota dal naufragio delle ideologie. Per “antropologia museale” (termine introdotto in Italia nel 1991) s’intende l’esercizio dell’antropologia nel museo demoetnoantropologico e lo studio antropologico del museo (e non solo di quello etnografico). William STURTEVANT 1969, periodizzazione del rapporto fra antropologia e musei: 1. 1840 – 1890 Età dei musei  la disciplina si alimenta e si sviluppa all’interno dei musei; 2. 1890 – 1920 Età dei musei e delle università  l’antropologia beneficia del costruttivo rapporto di collaborazione fra queste due istituzioni; 3. Dal 1920 Età delle università  l’antropologia abbandona i musei al loro destino di magazzino di oggetti. All’inizio del XX secolo, CRISI DELL’EVOLUZIONISMO + AFFERMARSI DELLA RICERCA DI CAMPO = declino del movimento museologico dell’antropologia, che non conobbe mai una ripresa. ECCEZIONE: Francia! Vicende del museo d’etnografia del Trocadero (Parigi)  preso in cura da Paul RIVET e rinominato nel 1937 Musée de l’Homme, portarono avanti fino alla WWII il rapporto fra scienza antropologica e musei; il museo e il suo curatore erano centri propulsori di un’etnologia militante, aperta alle avanguardie artistico-letterarie e sensibile alle istanze antirazziste e anticolonialiste. Quando, nell’immediato dopoguerra, il museo entrò in crisi, Lévi-Strauss in persona dichiarò che era terminata la missione dei musei etnografici, in quanto nel mercato della comunicazione interculturale ormai circolavano più persone che oggetti. Alla metà degli anni Settanta il dialogo fra musei e antropologia riprende in contesto nordamericano, con la nascita del Council for Museum Anthropology in seno all’American Anthropological Association (1974), con rinnovata attenzione al dibattito sulla descrizione delle culture attraverso studi su: 1. modalità di rappresentazione dell’alterità; 2. strategie di esposizione; 3. parzialità delle verità etnografiche. E condizionato da: 4. rimpatrio dell’antropologia su temi interni alla nostra stessa cultura, derivato dalla scomparsa dell’esotismo e dei tradizionali campi d’interesse della disciplina. 5. crisi del visualismo della tradizionale rappresentazione etnografica; si è sfatato l’equivoco che aveva permesso di preconizzare la fine dell’antropologia per esaurimento dell’oggetto di studio, malamente identificato con i ‘primitivi’, che si davano per scomparsi con il passaggio all’indipendenza dei paesi coloniali dopo il 1960. In realtà, si è avuta una crisi dell’antropologia quando, esaurita l’euforia del nuovo suscitata dai mutamenti sociali e politici provocati dall’indipendenza dei paesi coloniali, la ricerca sul campo ha incontrato forti ostacoli e talvolta è stata del tutto impedita dall’instabilità politica e dai conflitti armati che hanno devastato molti di questi paesi, un tempo terreno privilegiato di studio antropologico. A tutto questo si è aggiunta la crisi economica che ha investito il mondo intero ma che ha gravato sui paesi in via di sviluppo quasi paralizzandone l’attività, comunque limitando le disponibilità finanziarie della ricerca. Forse l’impedimento alla ricerca sul campo ha dato spazio allo studio teorico e ha alimentato l’applicazione all’a. del decostruzionismo postmoderno con la critica radicale delle acquisizioni di metodo e di dottrina. L’assetto espositivo e la politica culturale dei musei occidentali divennero un fronte aperto per la ricerca, soprattutto quando essi iniziarono ad essere investiti dalle istanze dei popoli nativi, che rivendicavano il diritto alla salvaguardia e alla promozione del proprio patrimonio. Anni Ottanta  cambia il modo di percepire la mediazione antropologica nei rapporti fra museo e diverse categorie di pubblico; il museo è ora spazio di interazione, relazioni sociali e culturali. In questo periodo diverse culture, mutuando l’idea di museo dalla cultura occidentale, iniziarono a replicarlo reinterpretandolo in senso soggettivo. Da semplice istituzione impegnata nella raccolta, conservazione ed esposizione di oggetti, divenne oggetto di indagine antropologica in quanto:  Mezzo di costruzione di “comunità immaginate”;  “Fabbrica d’identità”;  Strumento del nazionalismo;  Oggetto sociale di contrattazione politica e identitaria. raccontare la loro storia di prodotti culturali: PROGETTO INTERPRETATIVO. Negli anni Novanta cambia anche il museo demoetnoantropologico italiano, che insieme al mondo dell’arte intraprende la strada narrativa: il primo bagaglio essenziale per fruire del museo non sono le conoscenze disciplinari, ma occhi, mente e cuore aperti. Come anche altri musei, il MEN “Musée d’Ethnographie di Neuchatêl” (Svizzera) porta avanti una museografia provocatoria “di rottura”, tutta protesa a sottrarre l’oggetto dalla sua vetrinificazione. JACQUES HAINARD e il suo gruppo al MEN avviano la mostra Objets prétextes, objets manipulés, che privilegiava l’aspetto semantico dell’oggetto rispetto a quello materiale, e vede come scopo principale del museo quello di restituire la parola al suo contenuto. Ad esempio, viene affrontata la tematica di dove porre il confine fra manufatto da esporre e oggetto d’uso comune (anche i vestiti), fra oggetto e cosa. Ma anche Le musée cannibale [Sous le titre Le musée cannibale, l'équipe du MEN consacre son exposition temporaire au désir de se nourrir des autres qui a présidé à la création et au développement des musées d'ethnographie. Constituées au fil des années par une succession d'acquisitions et de missions de collecte sur le terrain, les collections des musées d'ethnographie témoignent du désir d'incorporer une altérité d'autant plus valorisée qu'elle semble radicale]. Il museo è sempre più antropocentrico e meno artecentrico: umanizzazione degli oggetti esposti, tentativo di leggere le persone dietro alle cose anziché guardare a ciò che è esposto come un oggetto inerte in quanto abbiamo dimenticato che chi li ha fatti ci assomigliava. I – Crisi del visualismo e modi della rappresentazione L’esperienza della verità tra dialogo e interpretazione Racconto di Borges L’etnografo  il discorso antropologico moderno, vedendo minati i suoi presupposti storici di comprensione dell’altro dalla scomparsa dell’esotismo e dei suoi tradizionali campi di interesse, ritorna ai luoghi di origine (“rimpatria”), finendo per interrogarsi sui modi della rappresentazione. Parlare d’altri non esime dal mettere in discussione anzitutto se stessi, svelando le ragioni storiche, sottese al viaggio e alla ricerca etnografica, del rapporto tra noi e gli altri  bisogno di critica. Marcus e Fisher  Antropologia come critica culturale, dedicato al tema della crisi del visualismo in antropologia: crisi della rappresentazione dell’altro + perdita di fiducia nel discorso scientifico e nella pretesa di poter esprimere una verità oggettiva (questo anche a causa della messa in discussione del dualismo cartesiano). Così l’antropologia, abbandonando le spiegazioni teoriche omnicomprensive e la pretesa di oggettività della ricerca sul campo, si trasforma in una conoscenza dialogica e plurale: l’oggetto dell’enunciazione e il soggetto dell’enunciato sono solo due parti in un processo di negoziazione dei punti di vista: non s’instaura un incontro fra la scienza e il suo oggetto, o fra il soggetto e l’oggetto, ma fra due diverse pratiche culturali. In tal modo, attraverso la metodologia dell’interpretazione più che della descrizione, potremo finalmente vedere noi stessi tra gli altri, scoprire che condividiamo la medesima natura di vita umana declinata localmente. Bisogna però abbandonare la pretesa di partire da presupposti neutrali, in quanto si è sempre e comunque compromessi dal dato dell’esistenza, vale a dire da pregiudizi. La retorica visualista della rappresentazione (Stephen Tyler in Writing Culture), dipendente dalla concretezza della parola scritta, non può che rappresentare un fallimento: Clifford nell’introduzione tratta della crisi dell’etnografia classica intesa come rappresentazione dell’epoca coloniale e fondata sulle leggi delle scienze naturali. Writing culture però solleva i problemi del relativismo estremo e dell’autorità etnografica: per avere concezione della realtà, dobbiamo conoscere gli esseri che contiene, i fatti che li riguardano e i processi storici che provocano tali fatti. Vedere in prospettiva 1951 Gombrich Il cavallo a manico di scopa, ovvero le radici della forma artistica  ambiguità del concetto di rappresentazione, in bilico fra “sostituzione” e “mimesi”: quando si parla di immagini, spesso s’intende che l’artista imita la forma esterna dell’oggetto, e che a sua volta chi guarda l’immagine vi riconosca il soggetto per mezzo della forma. All’origine, rappresentare è creare sostituti, i quali incorporano i tratti essenziali dell’oggetto e dunque evocano mimeticamente la realtà con la complicità dello spettatore. L’idea di sostituire l’assenza di realtà con una pratica mimetica è alla base di ogni forma di realismo. Dall’età moderna aumenta la complessità dell’opera: non è più necessario incorporare tutti i tratti essenziali dell’oggetto, poiché la realtà diviene immaginaria e indirizzata, decisa dall’artista; il piano del quadro diventa una finestra sul mondo immaginario creato per noi dall’artista, ed è lo spettatore che si accolla una parte della pesante responsabilità della creazione completando con il suo sguardo l’opera. Fu il barocco a mutare il senso della percezione dalla rappresentazione mimetica alla relatività dello sguardo: fine del dominio della somiglianza, passaggio dal mondo individualistico dell’esperienza alle cose che iniziano ad essere percepite come apparenze (vita umana come illusione perpetua). PROSPETTIVA, ESALTAZIONE DEL RELATIVISMO  gli esercizi di virtuosismo rispondono ad una tattica prospettica di adattamento alla realtà delle apparenze, creando un grado di indeterminatezza su dove finisce il reale e inizia l’illusorio. La metafora visiva del distanziamento (espressa da metafore come “punto di vista”, “prospettiva” etc., che esprimono il nostro atteggiamento nei confronti dell’oggetto di studio, in questo caso delle altre culture) si diffuse con l’avvento della stampa e della prospettiva lineare, ovvero con la presa di distanza critica dal passato. Con il moderno, la rappresentazione si fa dunque prospettiva nel senso di interpretazione della verità. Un dipinto, come anche un fenomeno culturale, non è mai un semplice dato, bensì una rappresentazione costruita da soggetti storici, e per comprenderli occorre prendere le distanze, guardare in prospettiva. Se l’etnografia è una forma di scrittura, serve soffermarsi sui principi di stilistica: dispositio  organizzazione del discorso nella retorica classica. L’ars naturaliter scribendi venne sostituita, dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili, la quale vanifica il rapporto diretto fra autore e testo, dall’ars artificialiter scribendi. Il decentramento dell’oggetto dell’antropologia (rimpatrio) trasforma il modo di porsi dell’autore nella pratica di osservazione e di descrizione; Wim Wenders  “controscatto” o “contraccolpo del fotografo”, quel che la fotografia dice del fotografo e della sua “disposizione”. La nuova antropologia deve riflettere sui suoi presupposti proprio perché ogni immagine/descrizione riflette la disposizione di colui che l’ha registrata. Concetti di distanziamento/straniamento, secondo cui per poter osservare qualcosa bisogna preventivamente prenderne le distanze, poiché gli atti abituali divengono automatici  lo straniamento antropologico è previsto e intenzionale, connaturato alla disciplina e fondamentale per la stesura del testo. Della rappresentazione museale Anche la museografia è una pratica di scrittura finalizzata alla rappresentazione culturale; il museo è luogo di mediazione di esperienze circoscritte in un determinato campo visivo, e gli oggetti esposti sono segni topografici utili al visitatore per compiere a sua volta un viaggio antropologico su scala ridotta. Sta alla competenza del curatore passare dalla rappresentazione del particolare all’evocazione dell’universale. Ma i parametri di riconoscimento e di messa in valore del patrimonio sono mutati, e il processo di conoscenza non si appoggia più unicamente all’unilaterale visione del curatore, ma deve scaturire da un colloquio. L’antropologia museale insiste sul fatto che gli oggetti museali appartengono sempre a un determinato discorso sulla realtà delle cose, e vanno presentati come il mezzo per pensare la relazione fra chi li espone e il contenuto dell’esposizione; al curatore si deve sempre poter chiedere la ragione dietro alle sue scelte, e si può pretendere trasparenza. Il museo è un’istituzione culturale al servizio della società e del suo sviluppo, ma è anche un riflesso dell’immaginario collettivo di quella società in una data epoca. La missione del museo non può prescindere dalle istanze e dalle aspettative del suo contesto sociale, dunque, e dato che la percezione del museo da parte del pubblico è sempre ed è sempre stata storicamente determinata, oggi il museo non può che essere anche un luogo d’intrattenimento, in grado di competere con altre attività imprenditoriali indirizzate alla cultura e al tempo libero. Del resto, musei e mostre oggi occupano una fetta consistente di mercato, con consumatori in crescita esponenziale. La promozione su scala globale della patrimonio è un apparato ideologico della memoria che implica l’ordinamento del passato secondo processi di selezione/esclusione differenziati e gerarchici, tesi a trasformare la memoria in COSCIENZA COLLETTIVA e IDENTITÁ CIVILE.  Rapporto fra le diverse rappresentazioni identitarie, flussi di comunicazione interculturale e turismo. Due aspetti dell’espansione contemporanea del turismo culturale dipendono dai musei: o Percezione della cultura come rappresentazione di un’identità; o Valore culturale e sentimentale attribuito al patrimonio naturale; All’esplosione del turismo si accompagna il fervore museale: quanti hanno deciso di riordinare i propri archivi ed inventariare i propri beni per produrre una rappresentazione pubblica di sé e legittimare un’identità nazionale si sono affidati al museo. Il museo reificatore di temporalità è la strategia più riconosciuta per collezionare memorie istituzionali: RAPPORTO FRA MUSEO E NAZIONALISMO  il museo può essere utile per “naturalizzare” qualche particolare configurazione dell’autorità politica, e pertanto la sua istituzione è sempre un processo di costruzione simbolica.  Eterogeneità degli usi del passato e diverso uso localistico che del passato stanno facendo svariati gruppi indigeni  la diffusione su scala planetaria tradisce significative reinterpretazioni locali del paradigma museale, che possono aderire o opporsi alle forme e alle funzioni del museo Occidentale. Tema del rimpatrio, che assume le vesti della rivendicazione di un diritto (1988  convegno di Ottawa). Non è necessariamente vero neppure che gli occidentali siano stati i soli ad approssimarsi al concetto di museo  Maori: passaggio da luogo sacro contenente oggetti significativi per la comunità a monumento etnico aperto a visitatori esterni. L’adozione da parte di numerosi gruppi aborigeni australiani del modello museale rivela quanto essi lo considerino strumento utile di politicizzazione e promozione di cultura. Tale modello è però un lascito neo-coloniale, derivante dalle politiche novecentesche di “acculturazione”. Tamusi Qumak (inuit)  Saputik (“barriera” contro il fiume del tempo) Museum. Tali musei “nativi” o “indigeni” (forme “spontanee” di museografia locale, per distinguerle da quelle più strutturate dal punto di vista del servizio pubblico, che offrono una rappresentazione esterna, “scientifica” e distaccata delle culture locali) hanno lo scopo di esporre oggetti patrimoniali sia per l’acculturazione privata del gruppo sia per turisti esterni da cui in maniera crescente dipende lo sviluppo economico dei gruppi in questione. Gli anni in cui Tamusi Qumak fonda il Saputik sono un momento di gran fermento per i musei: sotto spinte locali molteplici si è sviluppato un paradigma istituzionale associato all’idea che il museo ha a che fare con i detriti/tesori di una comunità e deve dunque integrare la nozione di patrimonio con il tessuto territoriale: in Italia ad esempio sorgono musei “spontanei”, spesso per iniziativa privata, in ogni anfratto: autonomo impulso a recuperare la tradizione attraverso interpretazioni personali in contrasto con quelle scientifiche e ufficiali dei musei (come il Museo Ettore Guatelli a Ozzano Taro, dalla spiccata impronta autoriale). Oltre al patrimonio individuale/familiare trasmesso attraverso testamento, ne esiste un altro, comune a gruppi sociali più ampi a cui apparteniamo, materiale e immateriale. Al patrimonio materiale può venire attribuito un significato emblematico, un valore simbolico; proprio del concetto occidentale di patrimonio è però un passaggio da idea culturale di eredità a idea transculturale di bene pubblico, accompagnato in passato da una frenesia collezionistica che nel XIX secolo ha portato all’accumulazione di oggetti provenienti da altre culture. L’APPROPRIAZIONE delle cose degli altri ha alimentato un’idea transculturale di patrimonio che l’UNESCO ha istituzionalizzato dopo la Seconda guerra mondiale, e che ha cristallizzato il sentimento che i grandi monumenti delle grandi civiltà siano ormai parte del nostro patrimonio collettivo, il che va a collidere proprio con il concetto di repatriation: SCONTRO fra PATRIMONIO CULTURALE DELL’UMANITÁ nel suo complesso e DIRITTO delle SINGOLE CULTURE ad AMMINISTRARE le proprie memorie e tradizioni. III – Patrimoni, (eco)musei e sviluppo locale Natura e cultura SUPERAMENTO DELLA DICOTOMIA OPPOSITIVA NATURA/CULTURA. Bruno Latour Non siamo mai stati moderni  incipiente ibridazione fra umano e non umano. Ecomusei  data la fallacia dell’ontologia naturalistica (divisione cultura/natura) cui siamo abituati, emerge una forma di azione patrimoniale finalizzata alla salvaguardia del “paesaggio culturale”. Gli ecomusei sono una cartina di tornasole della resilienza territoriale di fronte ai processi di cambiamento. Si distinguono volontariamente dai musei, dichiarandosi espressione dei mondi locali. L’ecomuseo vuole essere un contesto naturale E culturale, percepito come insieme che si riceve in eredità, di cui ci si appropria, che si conserva e trasmette preservandolo da innovazione e distruzione. Nella concezione propria della nuova museologia, il patrimonio è naturale, culturale, materiale e immateriale, e trova nel museo il suo luogo logico di riconoscimento. Il museo copre l’intero universo e quindi tutto è musealizzabile. Il concetto di ecomuseo nasce nel 1936 da Georges Henri Rivière, con riferimento ai musei scandinavi all’aria aperta o a quelli del folklore. Dal museo tradizionale fondato sul triangolo edificio-collezione-pubblico si passa a quello fondato su territorio-patrimonio- comunità: così, il campo museale tradizionale si apriva al sociale e alla dimensione ambientale e comunitaria, divenendo dinamico e interattivo. Il paesaggio è l’emblema della commistione fra produzione biologica e produzione umana, funziona da memoria collettiva e contribuisce a definire la mentalità di una cultura funzionando da habitat della stessa. Elementi caratterizzanti dell’ecomuseo:  difesa dell’ambiente;  legame con il territorio;  sviluppo sostenibile;  promozione del turismo culturale;  musealizzazione del paesaggio quanto delle attività della comunità che lo abita;  non-essere un contenitore chiuso, ma riferimento al paesaggio come spazio geo- antropico;  coinvolgimento della popolazione nella valorizzazione partecipata del patrimonio e della memoria; Ricapitolando IDENTITÁ LOCALE – PROSPETTIVA ECOLOGICA – PARTECIPAZIONE COMUNITARIA. La spinta non fu data tanto dall’economia, quanto dalla sfera sociale ed etica, per mano delle comunità: la novità rispetto a forme museali precedenti era il fine di SVILUPPO economico, sociale e ambientale locale; oltre ad essere luogo di RECUPERO DELLA MEMORIA e di RICOSTRUZIONE DELL’IDENTITÁ, l’ecomuseo grazie al coinvolgimento della popolazione diviene spazio di riflessione sui problemi e le prospettive di sviluppo e trasformazione del territorio. L’ecomuseo può rivelarsi, in quanto centro d’interpretazione e presidio della salvaguardia del patrimonio, decisivo per la pianificazione territoriale. Mappe di comunità, nate intorno agli anni Ottanta dopo l’esperienza delle parish maps, “mappe di parrocchia” scozzesi, con l’obiettivo di coinvolgere le comunità in un esercizio di autorappresentazione e riconoscimento dei propri valori tipici  genius loci, spirito del luogo. In Italia importanti gli studi di Alberto Mario Cirese; le applicazioni del modello ecomuseale hanno avuto uno sviluppo più tardo rispetto alla diffusione di musei demoetnoantropologici contadini nei primi anni Settanta, determinata soprattutto da movimenti dal basso. Grande varietà di ecomusei esistenti al mondo – denominatore comune è la NON COINCIDENZA dell’ecomuseo con un contenitore chiuso  in Europa i primi bacini di sperimentazione sono stati la Francia, i Paesi Scandinavi e l’Europa Meridionale:  Le Creusot (Thierry Bonnott!), 1971  Ecomuseo Urbano di Torino, 2004 La gestione partecipata del patrimonio Ministero per i beni e le attività culturali (MIBACT) segue con attenzione la valorizzazione del patrimonio culturale di cui si sono presi carico gli ecomusei, poiché la promozione dello sviluppo territoriale è prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (2014), secondo cui il paesaggio va salvaguardato per via delle sue manifestazioni identitarie percepibili. 2015  molti ecomusei italiani si sono ritrovati a Poppi (Arezzo) – ecomuseo del Casentino – per costituire una rete italiana e sollecitare l’emanazione di una legge nazionale sull’argomento. Applicazioni museografiche – tutti condividevano l’idea che la storia del passato più remoto dell’uomo potesse essere meglio compresa attraverso la comparazione dei resti archeologici con i dati provenienti dalle popolazioni di interesse etnologico: così i reperti erano ordinati per stadi tecnologico-culturali evolutivi.  1799 fondazione Société des observateurs de l’Homme;  1819 – 1869 evoluzionismo trova la sua prima importante applicazione nei musei di Copenaghen (Jurgen Thomsen e Asmussen Worsae);  1843 i membri della neonata Ethnological Society di Londra mutuano le teorie di Worsae; Henry Christy, fra i soci di spicco, si recò subito dopo l’Esposizione Universale di Londra del 1851 al museo scandinavo ed avviò una raccolta di oggetti etnografici che presto confluì nel British Museum. Poi generale Pitt Rivers;  PRIMA METÁ OTTOCENTO: due i luoghi di dibattito della cultura evoluzionista, e ambedue a MILANO: Museo di Storia Naturale (Tito VIGNOLI) e “Il Politecnico” di Carlo Cattaneo; o Giuseppe Vincenzo Giglioli, professore di Antropologia a Pisa dal 1860, fu il primo a progettare (la sua morte prematura gli impedì poi di realizzarlo) nel 1862 un museo antropologico ed etnologico nazionale. o Paolo Mantegazza:  1869  Cattedra di Antropologia a Firenze;  Fondazione di un Museo di Antropologia e di Etnologia con lo scopo di rappresentare l’evoluzione delle varietà razziali/psichiche dell’umanità;  1870  fonda la Società italiana di antropologia ed etnologia;  1871  fonda l’Archivio di antropologia ed etnologia;  Importanza degli “oggetti metamorfici”, che “riunivano elementi del mondo selvaggio e dei popoli civili”; o Luigi Pigorini dopo aver visitato il museo preistorico etnografico di Copenaghen fonda nel 1875 il Museo Nazionale di Preistoria ed Etnografia, attorno ad un nucleo di oggetti etnografici della collezione di Athanasius Kircher (1651); a Thomsen e Worsae deve la convinzione che la storia del nostro passato remoto può essere meglio compresa attraverso la comparazione dei resti archeologici con i dati forniti dalle popolazioni di interesse etnologico, testimonianza vivente dei modi di vivere dei primitivi. Laddove la ricerca archeologica lamentava un deficit di documentazione e testimonianze, la ricerca etnografica poteva colmare le eventuali lacune. o Giuseppe Pitrè incaricato di eseguire per l’Esposizione nazionale italiana di Palermo una mostra etnografica, nel 1891 gettò le basi del Museo etnografico siciliano a lui intitolato.  Nel clima di generale entusiasmo per il progresso e la modernizzazione le grandi esposizioni industriali alimentarono mostre con oggetti appartenenti alla cultura popolare: svolsero un ruolo pionieristico anche in questo campo i Paesi Scandinavi con i loro “musei all’aperto”  STOCCOLMA, Arthur HAZELIUS. Inizio del Novecento: i tempi erano maturi perché in Italia prendesse corpo una raccolta nazionale di materiali demologici tipici delle culture tradizionali italiane. Iniziativa su vasta scala, questa, promossa dalla collaborazione fra LAMBERTO LORIA e ALDOBRANDINO MOCHI (allievo di Paolo Mantegazza e suo aiutante nell’allestimento del Museo di antropologia di Firenze), i quali ritenevano che la cultura popolare andasse salvaguardata dall’incipiente modernizzazione (tanto gli oggetti quanto i canti e le poesie);  1906  Mochi, che aveva egli stesso raccolto un certo numero di oggetti demologici, li pone come nucleo del Museo di etnografia Italiana di Firenze;  1910  Loria fonda la Società di Etnografia Italiana;  1911  Loria cura una mostra etnografica per l’Esposizione internazionale di Roma (cinquantenario dell’Unità d’Italia), e al termine di essa arricchisce il patrimonio demologico italiano;  1923  nascita ufficiale di un Museo demologico italiano;  1956  Roma apre definitivamente i battenti al Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari; Secondo dopoguerra: viene abbandonata la concezione artistico-letteraria del folklore e la ricerca si concentra piuttosto sugli usi e costumi e sui fenomeni cerimoniali e rituali (anche grazie alle pubblicazioni di Antonio Gramsci su cultura egemonica e culture subalterne) con Raffaele Pettazzoni, Ernesto de Martino e Giuseppe Cocchiara. Questioni di lessico: scenari e definizioni del museo etnologico DIFFERENZA FRA ANTROPOLOGIA, ETNOLOGIA, ETNOGRAFIA: quasi tutti i musei che conservano oggi oggetti extra-europei sono designati dal termine “etnografico”. L’aggettivo “etnologico”, infatti, venne presto abbandonato per le contaminazioni, le implicazioni e le collusioni che la disciplina aveva con l’ambiente degli antropologi fisici, prevalentemente composto da medici e studiosi di scienze naturali. Questo avvicinamento fra etnologia e antropologia fisica avvenne nonostante gli sforzi fatti per distinguere le due branche (portati avanti ad esempio da:  Aldobrandino Mochi al Congresso di etnografia italiana del 1911: o antropologia  studio somatico dell’uomo; o etnologia/etnografia  quanto ha rapporto alla cultura umana;  1788  il termine “etnologia” è inventato da un professore di Teologia di Losanna, Alexandre César Chavannes;  Giovenale Vegezzi Ruscalla fu il primo, a metà Ottocento, a distinguere fra etnologia (scienza delle nazioni e dei caratteri fisico-morali dei popoli) e antropologia, branca della zoologia; l’etnografia sarebbe stata il contributo descrittivo alla conoscenza dei popoli di un Paese;  Paolo Mantegazza: o Antropologia  scienza naturale, all’interno della quale si diramavano:  Etnologia  studio delle razze umane;  Etnografia  studio dei popoli e delle loro culture; La maggior parte degli studiosi dell’epoca era dunque convinta che etnografia ed etnologia contribuissero a definire in maniera più ampia lo statuto dell’antropologia intesa come storia naturale dell’uomo: ECCEZIONE  Bartolomeo Malfatti (medesima posizione di Aldobrandino Mochi). Dal Congresso del 1911 emerse la separazione netta fra etnografia (scienza storico- sociale) e antropologia (scienza naturale), ma venne lasciato nell’indeterminatezza il termine “etnologia”, fino a quando non intervennero:  Raffaele Pettazzoni  il primo a ricevere la Cattedra in Etnologia nel 1937 a Roma e a fondare nel 1938 (Roma) l’Istituto di Etnologia Italiana; antagonismo con la scuola di padre Wihlelm Schmidt, che aveva introdotto in Italia un’etnologia di stampo confessionale, mentre Pettazzoni spingeva per la sua promozione al di fuori degli ambienti ecclesiastici. Anche Pettazzoni, in risposta all’ambizione, nel 1947, di uniformare il lessico disciplinare, disse la sua: l’antropologia era una scienza naturale, l’etnologia una disciplina storica; egli distingueva anche fra etnologia ed etnografia, perché l’etnologia era lo studio delle culture umane dal punto di vista comparativo, mentre l’etnografia era lo studio di una cultura nei dettagli, dunque si limitava alla descrizione e all’interpretazione di fatti locali.  Ernesto de Martino  Giuseppe Cocchiara Oggi: DEMO-ETNO-ANTROPOLOGIA  Demologia  studio del folklore, delle tradizioni popolari e delle classi subalterne interne alle civiltà europee colte e industrializzate;  Etnologia  studio delle società extraeuropee a prevalente tradizione orale;  Antropologia culturale  studio della variabilità culturale nei diversi contesti sociali (anche occidentali e urbani). Etnologia in mostra fra scienza ed arte Nel XIX secolo, l’occasione della festa (effimero = dispositivo espositivo della modernità) risiedeva nelle Esposizioni Universali, dove le ricostruzioni effimere degli architetti e degli ingegneri, dedicate a specifici settori del progresso, svolgevano la funzione di attrazione straordinaria per il pubblico.  1851 Esposizione Universale di Londra  Crystal Palace di Hyde Park, che prima di andare distrutto a causa di un incendio ospitò l’antenato del Victoria and percepiti come agorà, fori e luoghi di incontro. CLÉMENTINE DELISS curatrice del WELTKULTUREN MUSEUM a Francoforte  mettendo in guardia da quei musei che vengono riorganizzati per ospitare musei delle culture del mondo, poiché l’alterità vi viene messa in scena collocando gli oggetti in set teatrali che ricordano le estetiche da grande magazzino e dove si dispensano spiegazioni etniciste o informate di concetti antropologici antiquati, propone un’impronta post- etnografica invitando artisti, designer, architetti contemporanei favorendo l’incontro tra i due mondi dell’arte contemporanea e dell’etnologia: mostra temporanea Object Atlas – Fieldwork in the Museum: for Object Atlas, seven artists were invited over the course of 2011. Employing a contemporary approach to fieldwork and with a pronounced sensibility towards visual and material culture, each artist selected an assemblage of objects from the collection of over 67,000 artefacts. Working in close dialogue with the Weltkulturen Museum’s research curators, image archivists and librarians, the guest artists lived and worked in the newly established Weltkulturen Labor with its apartments, studios, seminar rooms, laboratory, and image bank. This unusual form of domestic fieldwork has resulted in an experimental set of new artworks, produced on site and directly related to the ethnographic collections of the museum. Oggi, gli oggetti etnografici minano alle fondamenta lo statuto dei musei che li accolgono, reclamando il diritto ad una diversa collocazione: non più nelle vetrine di un museo classico, ma in un laboratorio di sperimentazione, in un luogo dove ci sia spazio per il dialogo, la manipolazione del metodo collaborativo. L’accento è ormai posto sullo spettacolo delle diversità e sulle relazioni umane che danno senso agli oggetti. È divenuta imbarazzante e difficilmente difendibile la concezione di un “museo degli altri” fondato sull’ethnos e carico di tradizione primitivista, incentrata sull’esotico ed evoluzionista, anche se declinata nella forma postmoderna di museo delle art premiers: semplicemente perché non esiste un Altro come insieme significativo se non in reazione a noi stessi. Il museo di antropologia oggi ha proprio il compito di assumere come problematica la relazione con l’altro: non può più pretendere di “spiegare” altre culture, ma solo di indagare i processi di costruzione dell’alterità nel passato e oggi, divenendo un forum aperto alla didattica delle differenze e al dialogo interculturale, tenendo conto come punto di partenza irrinunciabile anche della relazione tra diversi pubblici, che vedono il museo come luogo di aggregazione ed espressione in cui prendere coscienza del proprio passato e in cui riconoscere le proprie appartenenze identitarie. V – Il museo collaborativo Patrimonio, intercultura e didattica delle differenze 1992, istituiti ufficialmente i progetti educativi del museo Luigi Pigorini  venne subito tematizzato in modo critico il comparativismo di stampo ottocentesco che aveva contribuito alla genesi del museo, coì la comprensione dell’alterità venne subito riferita alla relativizzazione delle nostre categorie occidentali; fu inaugurata una serie di attività di laboratorio allo scopo di assumere il pubblico (prevalentemente scolastico) come comunità di riferimento da coinvolgere in pratiche di osservazione partecipata e intensiva delle raccolte e di favorire la fruizione delle collezioni in modo da costruire una narrazione comparativa e contestualizzante per distinguere, e non omologare, i due fronti (preistorico ed etnologico) del museo.  Culture dell’abitare  Anni di realizzazione: 1993 – 1995. Il tema dell’abitare in culture lontane nello spazio e nel tempo è stato usato come pretesto per un esercizio comparativo fatto di associazioni e di smentite, teso a scardinare il paradigma evoluzionistico dell’unilaterale e progressiva storia dell’umanità; il tutto rapportato alla dimensione abitativa del mondo urbano contemporaneo, punto di partenza e di arrivo di ogni viaggio antropologico e storico. L’esercizio critico era svolto accostando contesti abitativi diversi allo scopo di evidenziare le differenze, anziché le analogie. Contenuti didattici: Confrontare oggetti ma anche modelli apparentemente analoghi, che il ragazzo sperimenta come portatori di specifiche valenze culturali, crea nella mente l’idea di una rete di culture e usanze che si sono succedute, che hanno convissuto, nel presente come nel passato, e sulle quali si fonda la complessità (sia tecnologica che culturale) del mondo attuale. Obiettivi e finalità: Ricomporre in un discorso unitario le discipline rappresentate nel museo. Riferire i diversi contesti culturali alla realtà contemporanea. Fare interagire il passato e il presente attraverso la comparazione. Costruire relazioni differenziali tra alterità sia storiche sia geografiche. Aprire orizzonti transculturali.  1996  progetto sulle dinamiche culturali in contesti di immigrazione e stimolare una riflessione sul tema del viaggio antropologico visto come momento privilegiato di comprensione dell’alterità.  Gli oggetti e la comunicazione simbolica: Maschere, Divinità, Antenati – Riti, Rappresentazioni, Visioni  Anni realizzazione: 1999 – 2000. Il progetto ha proposto la lettura critica e l’analisi riflessiva di una particolare categoria di reperti museali: gli oggetti rituali. Ciò al fine di favorire negli alunni, attraverso la comparazione di contesti culturali differenti, la comprensione dei significati simbolici connessi ai rituali della nascita, ai rituali funebri e al culto degli antenati. Contenuti didattici: Rituali della nascita: dall’indistinto biologico all’identità culturale. Rituali funebri e culto degli antenati. L’identità molteplice: travestimenti e disvelamenti. La maschera come soglia dell’identità e la sua funzione di ponte tra sé e altro-da-sé nella performance mitico-rituale. Obiettivi e finalità: Il percorso logico-tematico del progetto si è basato su una prospettiva tesa a valorizzare soprattutto la dimensione immateriale del patrimonio conservato nel museo. I dati, gli oggetti e le rappresentazioni museali costituiscono un significativo pretesto per lo svolgimento di percorsi didattici che privilegiano, attraverso lo studio di testi orali e scritti (narrativa, poesia, miti, icone, ecc.), l’analisi storico culturale da cui provengono i reperti. RAPPORTO FRA MUSEI E TERRITORIO  Francesco Remotti propone il ritorno dei musei al terreno, auspicabile per: 1. Ripercorrere la storia delle collezioni; 2. Acquisire consapevolezza dello scarto esistente fra la complessità dei contesti e le semplificazioni operate dalle esposizioni; 3. Recuperare il senso del museo come memoria del terreno scomparso; La ricchezza del terreno da cui provengono gli oggetti è spesso occultata dal museo, che negli allestimenti costruisce discorsi astratti dal contesto  SOTTRAZIONE DEL CONTESTO propria dei musei di etnologia, a cui fanno da contraltare i musei locali e gli ecomusei, che realizzano, includendo la popolazione nei progetti di promozione dello sviluppo, una comunione fra museo e territorio. Il museo Pigorini appartiene alla categoria di musei separati dal territorio (“museo di se stesso”, ovvero luogo che incarna la forma ottocentesca di esposizione delle conoscenze), e deve allora elaborare una forma di RAPPRESENTAZIONE DELL’ASSENZA del necessario ritorno al terreno. Esposizioni temporanee ed attività educative hanno dunque il fine di assegnare al deposito del museo la funzione di terreno (il “prima”), e alla comunità del pubblico la funzione di territorio (il “dopo” del museo) inteso come spazio della fruizione sociale. Interpretando in questa maniera terreno e territorio, possiamo evitare gli effetti disarmanti della censura del terreno, che associa all’immobilità reale della struttura museale quella immaginata delle strutture sociali dei paesi e continenti di provenienza. Nei grandi musei nazionali lo statuto dell’oggetto etnografico resta problematico, ed eleggere il territorio del museo con i suoi fruitori pluriculturali a terreno di ricerca e zona di contatto è il primo passo per trasformarlo in luogo di espressione dei processi di produzione culturale contemporanei (1989  Portland Museum of Art; meeting fra curatori e anziani Tlingit; James Clifford). 2005, Pigorini Tracce. Raccolte etnografiche dal Marocco  museo trasformato in zona di contatto: Pigorini aveva cercato di collezionare oggetti che documentassero la vita culturale di un Marocco tradizionale, mentre i suoi interlocutori sul terreno gli avevano inviato prodotti buono da pensare in funzione del suo ruolo pubblico e dei processi identitari che alimenta, e la stessa impronta occidentale si presta, all’interno di questo processo che assegna al museo popolarità e ne moltiplica le forme, ad essere variamente interpretata: i nuovi musei non sono la cultura che congela la vita, ma la cultura che sta nella vita. Non è più il gusto antiquariale per gli ultimi oggetti autentici a definire lo statuto del museo etnografico, ma la capacità di documentare la contemporaneità ibrida e caleidoscopica Molte delle criticità del museo tradizionale possono essere risolte allargando l’accesso, la partecipazione e la rappresentazione nelle istituzioni preposte alla salvaguardia dei patrimoni, abbattendo le barriere e coinvolgendo nelle politiche istituzionali pubblici sempre più differenziati in forme di progettazione condivisa, mettendo da parte le narrazioni egemoniche per diffondere narrative alternative e plurali. Il museo etnografico originario rispondeva alla necessità d’informazione dei visitatori sulla storia culturale dei differenti gruppi etnici, fungendo da centro di ricerca della loro cultura materiale: oggi le aspettative sono mutate, ed ecco perché si assiste sempre più spesso alla ristrutturazione degli edifici esistenti e alla riorganizzazione delle esposizioni: il Tervuren è divenuto Musée de l’Afrique Centrale, il Musée de l’Homme e il Musée Nationale des Arts d’Afrique et d’Oceanie sono confluiti nel musée du Quai Branly etc. RISTRUTTURAZIONE, RIORGANIZZAZIONE, COSTRUZIONE DI NUOVI EDIFICI e INVESTIMENTO SULLE MOSTRE TEMPORANEE mentre vengono ridotti gli spazi delle permanenti rispondono all’esigenza di rinnovamento della missione culturale e sociale del museo. Culture della diaspora al museo Il problema delle relazioni tra culture, dominato dalla sempre più diffusa “paura dei barbari”, va inscritto nell’attuale fase migratoria, definibile come “era delle diaspore”, che favorisce residenze plurime e intense attività di viaggio, con annessa nostalgia per la terra d’origine: si tratta di una condizione di tensione e sospensione fra il dove si era e il dove si è, caratterizzata da contaminazione, fluidità, lacerazione. Per trovare la chiave di lettura adatta all’attuale condizione di commistione postcoloniale, l’etnologia ha dovuto decostruire il concetto stesso di cultura, non più necessariamente definita da un confine geopolitico: si tratta di comunità di frontiera. Rimasti a lungo ai margini di un processo di rinnovamento che ha interessato più i musei americani e quelli locali (ecomusei e musei delle tradizioni popolari), i musei europei hanno avviato un confronto reciproco  Il progetto READ-ME, come il RIME (Réseau International des Musées d’Ethnographie), nasce proprio dalla volontà di sperimentare sul piano pratico questa nuova realtà, e di incrementare l’accessibilità delle comunità della diaspora alle istituzioni cittadine. Museo capofila: MRAC Musée Royal de l’Afrique Centrale di TERVUREN (Belgio), il cui comitato era nato, includendo le comunità africane belghe, immigrate e il personale del museo, per rinnovare il museo fondato da Leopoldo II del Belgio nel 1897, con la mostra permanente Congo: le temps colonial. Le associazioni della diaspora oscillano tra atteggiamenti contrastanti di rifiuto dell’idea di museo così come è stata forgiata dalla storia culturale occidentale/insopportabile decontestualizzazione degli oggetti in vetrina e di cauto riconoscimento delle sue potenzialità/attrazione verso i manufatti provenienti dai loro mondi d’origine, per la loro capacità di riconnettere il vissuto della diaspora alla memoria identitaria/lavoro possibile sulle seconde generazioni. Le associazioni della diaspora, se accolte nel museo, possono fungere da agenti ATTIVI del processo di valorizzazione, poiché, una volta legittimate dal rapporto collaborativo instauratosi con l’istituzione museale, possono trasferire sul terreno del confronto democratico le loro istanze ed esprimere la propria opinione sulle politiche di valorizzazione. Il museo antropologico può essere forum e arena strategica di contrattazione, conflitto, dialogo e democrazia: il pubblico può essere spinto a uscire definitivamente dalla rappresentazione della cultura come universo sostanziale e concluso, e a percepirla come processo di costruzione multivocale e dinamico, renderlo da fruitore passivo a cittadinanza attiva al centro della moderna democrazia. In Italia, anche fra gli addetti ai lavori, è piuttosto scarsa la consapevolezza di questi cambiamenti introdotti dal postmoderno nel sistema dei beni culturali. VI – Il museo dei mondi possibili Il museo dei mondi possibili READ-ME  Réseau Européen des Associations de Diasporas & Musées d’Ethnographie: 2010 (museo capofila: MRAC di Tervuren, in collaborazione con anche Pigorini, quai Branly e altri)  [S]oggetti migranti: dietro le cose le persone. Convinzione che gli immigrati di prima e seconda generazione avrebbero potuto trovare nel museo una possibilità di espressione e di autorappresentazione culturale se il museo fosse riuscito a proporsi come luogo di aggregazione. Progetto: interrogare gli oggetti come testimoni, veicolo di appartenenza e affettività, dispositivi mnemonici di narrazione e ambasciatori di una nuova possibilità di dialogo, insomma come SOGGETTI e non più solo OGGETTI  bisogna far parlare le cose, non solo le persone, ed avere la capacità di ascoltarle. È il legame fra le cose e le persone, del resto, a dare peso al concetto di patrimonio culturale. Anche gli oggetti sono migranti, viaggiano e viaggiando cambiano di status, di funzione, incorporano le diverse storie umane e culturali con cui entrano in contatto. L’alienazione provocata dalla raccolta indebita in ambito coloniale ha sottratto gli oggetti dal loro terreno, assegnandoli a una generica umanità e privandoli della soggettività necessaria a dar loro un senso socio-culturale. All’interno del progetto READ-ME, i curatori hanno presentato quegli oggetti spogliati dell’individualità come impronte di forme di vita, non più relitti inanimati, integrandoli in un percorso a più voci articolato in tre sezioni tematiche:  Antenati  Migrazioni  Frontiere dell’accoglienza Due fasi: 1. Riflessione sul rapporto museo – oggetti migranti – diaspore  destrutturazione dell’idea di museo come non-luogo, terra straniera, area di distacco oggettivo; conciliazione della prima vita degli oggetti con la seconda vita, quella museale, per poi immaginare una possibile terza vita, in cui il gruppo di lavoro “adottava” alcuni di quegli oggetti, per incoraggiare una reazione emotiva: l’oggetto adottato, simbolo della condizione di migrazione, è divenuto il protagonista della narrazione (applicazione del terzo principio della museografia di Pietro Clemente al setting delle diaspore con l’obiettivo di costruire narrazioni anche personali). 2. Progettazione dell’esposizione: come si è arrivati, e a partire da quali antenati e quali presupposti metodologici, a questo risultato? a. Metodo storico-comparativo soppianta, all’inizio del secolo, l’evoluzionismo etnologico  negli anni in cui Pettazzoni lavorò al Collegio Romano, a inizio Novecento, dedicò attenzione ad alcuni oggetti etnografici del Museo kircheriano (una raccolta pubblica di antichità e curiosità fondata nel 1651 dal padre gesuita Athanasius Kircher nel Collegio Romano), e attraverso la loro interpretazione come testimonianze di storie con specifici significati culturali contribuì ad affrancare dall’evoluzionismo gli studi sulla cultura materiale. Olifanti e saliere, che confrontò con altri oggetti omologhi conservati altrove rilevando un’esigenza di contestualizzazione indispensabile: vi individuò un metissage di fondo, adattati ai gusti e alle esigenze della committenza occidentale  PASSAGGIO dall’enfasi formale al piano dei significati culturali; anche saggio sul rombo australiano, poi ripreso in un importante studio sui misteri, che accostava manufatti simili nell’aspetto e per tipologia formale, ma utilizzati per funzioni completamente diverse (metodo del CONFRONTO DIFFERENZIALE). b. Emersione del tema delle differenze e della loro rappresentazione  spazio espositivo “Oceania” al Museo Pigorini, malanggan (grande festa annuale dedicata al culto degli antenati): differenziazione interna delle varie maschere ed importanza del valore effimero dei manufatti e del loro nesso con il concetto di tradizione immateriale. Essi non sono fatti per durare, ma nel contesto contingente del rito rendono visibili i valori simbolici che in quel momento legano la comunità al mondo degli antenati. Inoltre, ogni opera guadagna un significato specifico nel momento della sua realizzazione, che si compie utilizzando la tradizione come repertorio formale e tematico, ma affidando ampio spazio alla
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