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Musei e critica d’arte, Sintesi del corso di Museologia

Riassunto di “Musei e critica d’arte nella Tuscia”

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 18/12/2019

Khaleesi96G
Khaleesi96G 🇮🇹

4.6

(35)

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Scarica Musei e critica d’arte e più Sintesi del corso in PDF di Museologia solo su Docsity! MUSEOLOGIA E STORIA DELL’ARTE NELLA TUSCIA Museologia Il termine Museo deriva dal greco “Mouseion” che indicava il tempio dedicato alle Muse, protettrici delle arti e delle scienze. Ad esse Tolomeo I Soter dedicò il Mouseion fondato ad Alessandria. Il Mouseion era concepito come luogo di ricerca dove i dotti di tutte le branche della scienza potevano studiare e confrontare i loro saperi. Il luogo non comprendeva esposizioni di opere d’arte ma era modellato sull’esempio dell’accademia platonica di Atene. Con l’incendio che distrusse la biblioteca e il Mouseion, fu perduta per sempre gran parte della produzione letteraria e artistica dell’antichità, ma venne persa per lungo tempo anche l’idea stessa del museo come luogo pubblico di elaborazione culturale. Per i romani il termine Mouseion stava ad indicare uno spazio riservato allo studio e alla discussione erudita ma del tutto privato; collocato in un luogo appartato e venivano realizzate nicchie o piccole grotte. Per i romani era quindi uno spazio non aperto al pubblico e privo di opere d’arte. Nel Medioevo, il principale luogo di esposizioni artistiche, era rappresentato dalle chiese, la cui finalità non era certo quella di un museo. Per parlare di museo, bisogna individuare una definizione che viene fornita dall’ICOM (International Council of Museum): Il Museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che acquisisce, conserva effettua ricerche, comunica ed espone le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente, per finalità di studio, istruzione e diletto. Bisogna precisare che l’ICOM è un’associazione internazionale di musei nata nel 1946. Prima di questa data, esisteva in Europa, con sede a Parigi, l’Office des Musèes all’interno della Società delle Nazioni che anch’essa raccoglieva tutti i musei occidentali. La definizione elaborata dall’ICOM riflette ancora impostazione eurocentrica anteguerra. Il primo requisito di un museo è quello di essere aperto al pubblico . Nel 1951 la definizione subisce dei cambiamenti in cui si affacciano criteri di protezione dal degrado. Dieci anni dopo subisce un nuovo cambiamento, non si parla più di protezione ma di conservazione. L’ultima definizione approvata nel 2007, introduce i concetti di testimonianza materiale e immateriale. Un Museo deve essere in primo luogo permanente, con competenze consolidate e non occasionali, deve essere libera da qualsiasi finalità di profitto, deve essere aperto al pubblico, deve esistere un’attività di conservazione. Le modifiche apportate al concetto di museo nel corso di qualche decennio, riflettono il processo di globalizzazione. L’edizione dei Concetti chiave di Museologia (sorta di dizionario etimologico), articola 21 voci le principali problematiche terminologiche e concettuali che hanno attraversato la storia del museo a partire dalla sua nascita del XVIII. La Museologia è riconosciuta come disciplina umanistica. La Museografia è la pratica del museo e in particolare quella espositiva. Nel ripercorrere la storia del termine “esposizione” si riscontra una differenza di significato tra la traduzione inglese e quella francese. Ulteriori problematiche lessicali o interpretative vengono fornite nell’esame del termine “preservation” che riassume l’insieme delle funzioni legate all’entrata di un oggetto in un museo. Preservare significa proteggere una cosa o un gruppo di cose da diversi pericoli. Il concetto di preservazione rappresenta il pilastro fondamentale del museo. All’interno delle attività di preservazione, si collocano anche la conservazione ed il restauro. Per conservazione si intende la messa in opera dei mezzi necessari per garantire lo stato di un oggetto contro tutte le forme di alterazione (conservazione preventiva), queste misure non modificano l’aspetto di un oggetto. Per restauro si intende l’insieme delle azioni direttamente intraprese su un bene culturale, aventi l’obbiettivo di migliorarne l’apprezzamento, la comprensione e la funzione. Queste azioni sono messe in opera solo quando il bene ha perso una parte del suo significato o della sua funzione a causa di deterioramenti. Tutto ciò si fonda sul rispetto dei materiali originali. Spesso queste azioni modificano l’aspetto del bene. Tra conservazione preventiva e restauro viene inoltre inserita anche la conservazione curativa, cioè l’insieme delle azioni direttamente intraprese su un bene culturale avente l’obbiettivo di arrestare un processo di deterioramento o di rinforzo strutturale. Queste azioni vengono messe in atto solo quando l’esistenza del bene è minacciata. Ne modificano l’aspetto. La conservazione sta indicare ogni attività indiretta mentre il restauro ogni attività diretta su un bene. Il direttore dell’istituto centrale del restauro Cesare Brandi; definisce il restauro preventivo come tutela, rimozione di pericoli, assicurazione di condizioni favorevoli. Lineamenti di storia dei musei La nascita del museo è concordemente considerata frutto della cultura illuministica. L’apertura del British Museum di Londra nel 1759 o quella del Louvre di Parigi nel 1793 vengono indicate come date di nascita del museo nel contesto illuministico. In realtà qualche decennio prima, si assiste a Roma all’apertura del Museo Capitolino inaugurato nel 1734 e difficilmente questo tale evento può essere ricondotto all’Età dei Lumi. Le collezioni di oggetti rari, curiosi e stravaganti , che si sviluppano anche in seguito alla conquista dell’America, raggruppavano raccolte eterogenee che assunsero la denominazione di: Camere del tesoro e Camere delle meraviglie. Sono quindi musei caratteristici del 500 e 600. La scoperta dell’America aveva introdotto in Europa una grande quantità di prodotti sconosciuti, facendo quindi nascere in Europa le camere delle meraviglie e del tesoro. Il criterio seguito era quello dell’accumulazione piuttosto che di un ordinamento sistematico. I primordi: studioli e collezioni dal Rinascimento al Seicento La prima menzione del termine museum si deve a Paolo Giovio che dal 1536 al 1543 costruisce a Borgovico sul lago di Como una residenza pensata per ospitare la propria collezione di ritratto di uomini illustri. La residenza doveva presentarsi all’incirca come un rettangolo su due piani , con grande portico sul lago. All’interno si trovavano numerose stanze tra cui la Sala del Museo; rimaneva tuttavia strettamente privato. Tra i più noti studioli di possono citare quelli di Federico di Montefeltro, uno all’interno del Palazzo Ducale di Urbino e l’altro originariamente nel Palazzo Ducale di Gubbio. Lo studiolo urbinate era uno spazio rettangolare ricoperto di tarsie lignee sulle pareti che raffiguravano strumenti scientifici, armi, libri e i medesimi oggetti rari e preziosi custoditi negli scaffali interni chiusi dagli sportelli intarsiato. Al di sopra del rivestimento ligneo erano esposti in due file sovrapposte o ritratto degli uomini illustri del passato e del presente. Il duca Federico fede realizzare un secondo studiolo a Gubbio che oggi tuttavia è visibile al metropolitan Museum di New York. Notevolmente famoso era lo studiolo fatto costruire da Isabella d’Este nel Palazzo Ducale di Mantova, era decorato con cinque tele di moto pittori rinascimentali, oggi al Louvre. Più tardi è lo studiolo che Francesco I de Medici fede costruire a Palazzo Vecchio a Firenze. La volta dipinta con i quattro elementi della natura e al centro la raffigurazione di Prometeo incatenato accoglie i doni della natura per trasformarsi, costituisce il tema dello stanzino. Raccolta di naturalia e artificialia che si diffondono dal 500 al top. La scoperta dell’America aveva condotto in Europa una quantità di prodotti sconosciuti, facendo nascere in ogni città europea camere della meraviglia e del tesoro. Il settecento La data di nascita del museo come luogo deputato all’esposizione di opere d’arte e aperto alla pubblica fruizione va cronologicamente collocata nel 700 e geograficamente collocata a Roma quando nel 1734 venne inaugurato il museo Capitolino. Nel 1733 papa Clemente XII comprò la collezione Albani per evitare lo smembramento e l’esportazione di una grande quantità di sculture antiche. La piazza del Campidoglio divenne la sede del primo museo pubblico di antichità. La finalità di documentazione dell’arte antica e di formazione dell’arte presente, risulta l’origine anche della Pinacoteca Capitolina, sorta nel 1749 dall’acquisto di due collezioni private (Pio e Sacchetti) che stavano per essere vendute all’asta, capolavori italiani e stranieri di pittura rinascimentale e barocca. Numerosi musei pubblici furono istituiti a partire dalla metà del 700 in tutta Europa un primo luogo a Londra, dove nel 1753 venne fondato il British Museum, aperto al pubblico anche se l’ingresso sembra essere stato particolarmente limitato e soggetto a pagamento. La nascita Louvre come museo pubblico dovette attendere la Rivoluzione Francese. Il museo inizialmente rappresentato dal barone Von Tieschowitz. A novembre 1943 fu attivo a Roma il Kunstshutz, ufficio sulla protezione del bene artistico sottoposto come in Francia al comando militare, che in Italia tardò ad organizzarsi. Nella convergente volontà di radunare a Roma le opere d’arte, si inserisce l’attività di alcuni funzionari italiani che volendo mantenere intatte l’integrità e la condizione giuridica del patrimonio loro affidato, a girino occultato, nascondendo e indirizzando in maniera diversa le operazioni che i tedeschi credevano di dirigere, prima che i tedeschi giungessero, trasferendo in Vaticano tutto ciò che potevano. Molti ispettori e soprintendente continuarono a proteggere il patrimonio artistico pur nella disperata situazione dell’occupazione nazista. Dopo il gennaio 1944, essendosi aggravato il pericolo dei bombardamenti sulle strade, si dovette rinunciare ai trasporti da regioni lontane: moltissime opere dalle chiede del Lazio furono comunque poste in salvo con viaggi continuati fino a poche settimane prima dell’inizio della grande offensiva alleata. Concludendo questo rapporto si può affermare che in linea generale nessuna opera d’arte dello stato poté essere trafugato dai tedeschi dalle zone dell’Italia centrale, esclusa la Toscana. Musei della ricostruzione Il bilancio per i musei fu pesantissimo, poiché insieme alla popolazione subirono inermi la devastazione della guerra. La museo grafia italiana degli anni 50, quando furono ricostruiti e/o riordina ti i musei per riaprirli al pubblico, è storicamente considerata come il periodo più fecondo e significativo per la creatività delle soluzioni elaborare dagli architetti e i curatori italiani. La metodologia non fu tuttavia uniforme, ma segui sostanzialmente due concezioni diverse: da un lato fu adottato il criterio di recuperare e mantenere l’assetto originario del museo che viene pertanto ricostruito, ripristinando l’allestimento distrutto o danneggiato dalla guerra; dall’altra fu invece colta l’occasione per ripensare alla radice la forma del museo, realizzando una nuova configurazione aggiornata alle pratiche museo grafiche adottate all’estero e alle tendenze artistiche coeve. Esempio significativo della prima tipologia di approccio di la ricostruzione della pinacoteca di Brera, avvenuta sotto Modigliani. Tale filosofia viene seguita anche a Roma dove Zeri ripristina nella Galleria Spada . Una concezione opposta è quella praticata da alcuni architetti come Scarpa. Alla base di tale concezione si trovava il desiderio di liberarsi e superare completamente il ventennio precedente e il gusto ottocentesco, eliminando del tutto gli antichi allestimenti. Gli allestimenti di Scarpa si caratterizzano no per la loro visione radicale e per la loro irreversibilità quando tra le opere, la luce e lo spazio un rapporto definitivo e univoco designato secondo la sua personale valutazione critica. Le opere infatti intrattengono con lo spazio in accordo stabilito dall’architetto. Ma tali soluzioni non risultano del tutto condivise in Italia perché per esempio Giulio Argan afferma che il più moderno e funzionale tra i criteri museo grafici è quello della flessibilità. Gli allestimenti Albini tendono ugualmente a stabilire un rapporto tra l’edificio architettonico e le opere, ma si tratta di un dialogo aperto dove non c’è la prevalenza dello spazio espositivo. Soluzioni museo grafiche aggiornate al dibattito internazionale vengono adottate anche dall’architetto De Felice cui il soprintendente Molajoli affida l’allestimento della Pinacoteca di Capodimonte a Napoli. Molajoli ebbe modo di partecipare a un viaggio di tre mesi negli USA nel corso del quale visitò almeno 50 musei, la cui caratteristica saliente risultava l’eccellente attività didattica. Diverse soluzioni americane come i cartellini appesi a dei fil di ferro vengono adottate nella Pinacoteca di Capodimonte. Il nuovo allestimento di quest’ultimo riscosse numerosi elogi come quello di Lunghi. Anche Argan percepisce l’importanza che il pubblico assume nella museo grafia moderna. La museografia contemporanea La preponderante visone dell’architetto che progetta il museo, disegnando per il visitatore i percorsi quasi accompagnandolo per mano, appare un’interpretazione estrema. Il museo rappresenta che maggiore efficacia tale impostazione è il Museum of Non-Objective Painting. La spettacolarità architettonica impressa al museo dagli architetti contemporanei raggiunge il suo apice con la progettazione realizzata nel 1977 da Renzo Pino e Rogers nel Centre Pompidou che segna una vera svolta. La creazione dell’edificio comporta infatti la riqualificazione di tutta l’area urbana circostante. Gli architetti realizzano un edificio moderno dove tutta la rete impiantistica è evidenziata con colori diversi e posta all’esterno. Svincolandosi da qualsiasi tipologia prefissata di museo, il Centre Pompidou ha aperto la strada a soluzioni museo grafiche sempre più sperimentali. Sono invece pochissimi i nuovi musei realizzati in Italia, prevalenza nettamente la rifunzionalizzazione di vecchi edifici. Uno dei più recenti musei realizzati ex novo è il Maxxi, museo nazionale delle arti dei XXI secolo inaugurato a Roma nel 2010. La struttura in cemento armato chiaro, vetro e acciaio si articola in diverse aree funzionali che accolgono al loro interno due principali entità museali: il Maxxi Arte e il Maxxi Architettura. Musei viterbese A Viterbo è possibile visitare diversi musei, sia locali che nazionali, sia pubblici che privati, mq i più rilevanti sono sostanzialmente due: il Museo Civico appartenete al Comune di Viterbo, 1912 data di apertura (pubblico) e il Museo Colle del Duomo di proprietà della Curia vescovile, 2000 data di apertura (privato). Il Museo Civico è chiuso dal 2005; il Museo Colle del Duomo offre ai visitatori un servizio culturale particolarmente apprezzato. Per quanto concerne il territorio viterbese nel suo insieme si deve ricordare che Viterbo fu l’ultimo comunque italiano a dare attuazione alla legge di soppressione delle congregazioni religiose varata a livello nazionale nel 1866 che prevedeva la cessione al neo nato stato italiano tutti i beni degli enti religiosi soppressi. Viterbo ha avuto una tardiva annessione al Regno d’Italia. Dietro la soppressione delle corporazioni religiose si cela va in sostanza un braccio di ferro tra Stato e Chiesa sulla proprietà degli edifici e dei beni. Venturini proponeva una catalogazione degli oggetti d’arte contenente la descrizione dell’opera, la sua provenienza, lo stato di conservazione e la sua condizione giuridica, al fine di conoscere a chi spetta se la proprietà. La situazione viterbese, dove il cantiere di restauro del Palazzo Papale approvato e diretto sin dal 1897 dall’Ufficio per la Conservazione dei Monumenti del Lazio, vede sempre in origine la presenza di Pinzi che mette a disposizione le proprie conoscenze storiche. Pinzi è molto importante per la storia di Viterbo in quanto ai suoi studi si deve la ricostruzione della storia della città nei secoli, curò il primo riordino della biblioteca procedendo alla catalogazione del materiale libraio esistente e provvedendo a incrementare le nuove accensioni. Nel 1907 la Società per la Conservazione dei Monumenti, che credeva in una soluzione conservativa diversa, riuscì a farsi accogliere il proprio ordinamento da parte della Direzione Generale acquisendo la capacità di orientare e condizionare la direzione dei restauri monumentali a Viterbo. Si trasferì il progetto di ripristino in stile gotico dal singolo edificio alla scala urbana e riconfigurare secondo questa idea il centro storico di Viterbo che improvvisamente si copre medievale. Museo Civico di Viterbo Con l’annessione della città al Regno d’Italia la costituzione di un Museo Civico diviene necessaria per farvi confluire tutte le opere provenienti dalle corporazioni religiose soppresse. La scelta del luogo fu a lungo discussa. Nel 1880 Enrico Pani Rosso fece riadattamento tre locali al piano terra del Palazzo Comunale e nel 1881 fu inaugurato con grande fretta il Museo Municipale. In realtà più che un museo, di trattava di una sorta di deposito dice furono accatastati i dipinti. La sistemazione del Museo Municipale continuo a rimanere priva di un ordinamento e fu solo nel 1903 che venne stilato un inventario. L’inaugurazione del Museo Civico avvenne nella chiesa S. Maria della Verità. La soprintendenza delle Gallerie rispondeva negativamente alle richieste provenienti dalla periferia di Viterbo. Giuseppe Signorelli fu il primo direttore del Museo Civico, tentò di espletare le suo funzioni fornendo all’amministrazione comunale le preziose competenze storiche che emergono dalle sue relazioni ricche di suggerimenti e osservazioni. Nonostante i restauri da lui auspicati, viene invita al Podestà un’ennesima relazione negativa sulla situazione del museo. Al fronte delle principali problematiche che caratterizzava no da tempo la raccolta museale Gargana aveva avviato una campagna di acquisto mirati si materiale prevalentemente archeologico e risponde all’appello ministeriale per la protezione degli oggetti d’arte dai pericoli della guerra attivando ai subito: chiedendo al Podestà la disponibilità di due falegnami per approntare le casse da imballaggio al fine di trasferire le opere nei rifugi antiaerei , ma nonostante l’impegno f Gargana, molto viene concesso ma poco realizzato. I bombardamenti lasciarono la città sostanzialmente inerme. Gargana non riuscì a salvate i dipinti di Lorenzo da Viterbo nella cappella Mazzatosta. I rifugi per le opere risultano tre: il Convento dei Cappuccini alla Palanzana, il Capitolo del Duomo e la Prefettura. La Chiesa della Verità, Museo, è rovinatissima. Nel dopoguerra si avvio la ricostruzione del Museo che fu co soffia negli attigui locali della chiesa S. Maria della Verità. Il nuovo allestimento del Museo Civico fu inaugurato il 3 settembre 1955. Complesso fu il recupero degli oggetti depositati presso la Prefettura. Al caotico trasferimento dei beni di proprietà comunale si sarebbe potuto ovviare con una attenta attività di catalogazione che risulta condotta però prevalentemente per la sezione archeologica. L’unica catalogo della sezione storico – artistica del Museo Civico di Viterbo attualmente esistente è quello curato da Italo Faldi che tuttavia non corrisponde più all’allestimento del dopoguerra. Museo Colle del Duomo Il museo nasce nel 2000 per volontà della curia vescovile all’epoca affidata a Chiarinelli che riesce a realizzare un moderno spazio espositivo per la collezione di oggetti sacri appartenenti al Capitolo della Cattedrale. La alle stima no interno e l’ordinamento delle opere esposte è stato curato dall’artista Paternesi sottovalutando le finalità di conservazione, di valorizzazione e didattiche del Museo. Non è stato infatti presidiato un catalogo scientifico delle opere e inizialmente mancavano anche i cartellini con l’identificazione di autori, titoli e dotazioni. Una delle principali caratteristiche della raccolta diocesana è rappresentata dalla grande varietà di oggetti presenti. Al fine di fornire un ausilio, si è avviato un attento studio delle opere presenti nel Museo pensando soprattutto alla necessità di rendere evidente la stretta correlazione esistente tra valorizzazione e conservazione a partire dal dipinto più antico e prezioso della raccolta , la Madonna della Carbonara. Dalle indagini eseguite, risultava indispensabile creare una teca climatizzata. Storia dell’arte. Problemi di metodo Cosa è la storia dell’arte? Quesito antico cui sino state fornite sia sul piano della teoria che su quello della concreta dimostrazione, risposte diverse. Il concetto stesso di arte o di artisticità va ricondotto nello spazio storicamente definito e condiviso che ne tempo ha assunto l’espressione di arti visive -le arti del disegno tramandate dalla tradizione. Un contributo alla problematica in esame rimane l’articolo pubblicato da Argan nella rivista “Storia dell’Arte”, riesce a definire due aspetti diversi e complementari nell’approccio Qi fenomeni artistici: l’analisi della cosa d’arte che presenta un valore in se che l’esperto riconosce da certi segni esterni ma di cui non si può e non si vuole conoscere l’essenza; l’analisi del valore che indaga l’essenza e che analizza la cosa solo nel l’ansia realtà di mezzo con cui si comunica: il primo aspetto produce una conoscenza empirica, il secondo porta alla conoscenza dell’arte nelle proposizioni teoriche che conducono ad una filosofia dell’Arte. Spiegare il fenomeno significa individuare all’interno dello stesso il sistema di relazioni si cui il prodotto e l’insieme di sumo che lo collegano ad altri fenomeni, nella consapevolezza che del campo fenomenico dell’arte e possibile definire confini e contenuti. Recuperare il significato che correntemente viene attribuito al termine arte rimane impossibile. Nel 1929 Venturini rileva alcuni sei limiti del metodo riscontrando come la storia dell’arte diviene una storia delle idee sull’arte. Venturini propone un processo centrato non solo sull’opera ma sullo stato d’animo che questa genera sull’artista Eulalia fruitore. Brandi sostenne sempre la peculiare specificità dell’opera date, rivendicando ad essa l’origine da un processo creativo unico e irripetibile. Di conseguenza anche la percezione e dell’opera talvolta completamente da apparati murari, come nel sito di S. Lucia a Bomarzo. Spesso le pareti di tali insediamenti sono decorate da affreschi. Con la definizione di “scuola romano-cosmatesca” si intende una famiglia di maestri marmorari e architetti interpreti di un originale partito decorativo policromo basato sull’uso di marmi colorati e paste vitree, attivi per varie generazioni. L’attività dei cosmati sul territorio viterbese è documentato da numerose realizzazioni. Il partito organizzativo delle zone absidali del suono di Civita Castellana e di S. Maria di Castello a Tarquinia, testimoniano l’avvenuta formazione di nuove maestranze nei cantieri-scuola cistercensi. Trattare dell’insediamento cistercense sul territorio del Patrimonium obbliga, almeno, alla citazione della presenza dell’ordine dei Cavalieri del Tempio; il legame dei Templari con i Cistercensi è fortissimo, in particolare con S. Bernardo che ne fu uno dei più fieri e convinti sostenitori. La pittura rupestre L’avvio dell’analisi di quanto testimonia la civiltà pittorica della Tuscia viterbese prende le mosse delle poche testimonianze superstiti di pittura parietale, di quell’importante fenomeno insediativo rupestre che caratterizza il territorio. L’analisi di questa peculiare civiltà insediativa, in ragione anche delle rarità dei temi iconografici rappresentati, almeno in Occidente, deve necessariamente iniziare dalla grotta-santuario del Salvatore nei pressi di Vallerano. L’eccezionale monumento, oggi molto malridotto, presentava in origine una ricca decorazione pittorica parietale di cui rimangono pochi resti. La datazione degli affreschi rimane alquanto controversa. Sono, invece, databili a fine XI secolo e gli inizi del successivo gli affreschi che decorano le pareti di Grotta di S. Vivenzio. Un sito particolarmente ricco di insediamenti rupestri è il territorio circostante la città di Sutri, oltre quelli noti di S. Maria del Parto, è documentato quello di S. Fortuna e quello di S. Giovanni a Pollo. Un numero importante di pitture parietali rupestri si riscontra ancora, nonostante le gravi menomazioni e l’ingiuria del tempo, nella basilichetta ipogea di S. Cristina. Sono stati trovati resti di affreschi nella Grotta di S. Leonardo a Castel S. Elia, il piccolo centro rurale sul territorio viterbese che si rivela essere sempre più uno snodo culturale e artistico di primo piano nel Medioevo. La veloce panoramica sulla pittura rupestre viene a concludersi con i due pregevolissimi numero della Grotta di S. Simone a Barbarano Romano e della Madonna del Parto a Sutri. La prima si trova nel cuore della necropoli monumentale etrusca di S. Giuliano. La seconda, forse il monumento rupestre più noto del territorio, si trova nei pressi dell’antico anfiteatro che fiancheggia la via Cassia, interamente scavata nel tufo, ha lo spazio interno scandito da una lunga serie di pilastri a risparmio che dividono lo spazio in tre navate. La Chiesa fa parte di un vero e proprio agglomerato rupestre caratterizzato da un gran numero di vani distribuiti su due livelli in gran parte inaccessibili. La pittura monumentale e mobile Anche per la pittura monumentale valgono le stesse condizioni in relazione ai dipinti rupestri, l’analisi di quanto rimane si poggia su docenti iconici spesso di eccezionale Valenza qualitativa e storica ma destinata a basarsi su una realtà falcidiata dalla scomparsa di gran parte di quanto realizzato. Si presentano in uno stato di buona leggibilità le testimonianze più alte della pittura romanica dell’antico Patrimonium: le pitture che ancora resistono sulle pareti della Chiesa di S. Elia a Castel S. Elia, datati al 1125 nonostante i gravi danni arrecati dal sisma del 1971, i cicli dipinti nelle chiese di S. Pietro e S. Maria Maggiore a Tuscania. Le decorazioni pittoriche di S. Pietro, al pari di quelle di Castel S. Elia, rappresentano un tassello importante per la ricostruzione della pittura romana dall’XI al XII secolo. L’ascendenza culturale sembra evidenziarsi anche nel complesso impaginato della scena. Si coglie nelle disiecta membra della pittura romanica sul territorio viterbese, sporadici lacerti che riemergono afflitti e merletti dai muri degli edifici antichi che ancora si conservano ad onta di radicali trasformazioni e pesanti superfetazioni e parlano dialetti formali diversi. Inediti frammenti come quello presente a Tuscania sui muri della Chiesa di S. Paolo. Le opere denotano di essere profondamente compartecipi degli stilemi propri della cultura pittorica romana, nutrita delle stilizzazioni linearistiche bizantine; d’altronde è un fatto che l’assoggettamento agli inizi del XIII secolo del Patrimonium alla più totale sovranità del pontefice ebbe esplicite ripercussioni anche nella produzione artistica. Quello stesso XIII secolo che rappresenta il secolo d’oro per Viterbo, la città diviene per alcuni decenni sede stabile della Corte pontificia. Una spiccata adesione alla koinè culturale romana di riscontra anche nelle decorazioni pittoriche delle chiese di S. Carlo è di S. Andrea. Nella prima è emersa nella lunetta di una porta laterale una Deesis romana, un tralcio vegetale con foglie vitinee bianche e rosse definite da un elegante disegno. Le immagini della cripta di S. Andrea richiamano puntualmente sul piano stilistico- formale i modi riscontrati nella Grotta di S. Vivenzio. La storiografia specialistica anche per l’ambiente viterbese riconosce nell’ambito della elaborazione delle coordinate culturali sottese alla produzione pittorica del XIII secolo forti ascendenze di matrice umbra, a testimonianza della complessità della realtà viterbese in questo periodo. In realtà occorre sottolineare che tali tipi di correlazioni stilistiche fanno riferimento a spiccare influenze provenienti dal grande cantiere di Assisi che era comunque un cantiere pontificio romano in terra umbra. Pochi frammenti sono ancora leggibili nella Chiesa di S. Francesco a Vetralla: nella cripta compare una immagine di Cristo circondato dai tetramorfi e una serie di elementi decorativi incentrati sul tema di intrecci floreali e dischi con Fioroni al centro. Il panorama della pittura romanica sulle terre del Patrimonium è meglio definito dalla possibilità di analizzare con maggiore attenzione una serie di pitture già conosciute ma solo di recente restaurate, Anche per la pittura monumentale valgono le stesse condizioni in relazione ai dipinti rupestri, l’analisi di quanto rimane si poggia su docenti iconici spesso di eccezionale Valenza qualitativa e storica ma destinata a basarsi su una realtà falcidiata dalla scomparsa di gran parte di quanto realizzato. Si presentano in uno stato di buona leggibilità le testimonianze più alte della pittura romanica dell’antico Patrimonium: le pitture che ancora resistono sulle pareti della Chiesa di S. Elia a Castel S. Elia, datati al 1125 nonostante i gravi danni arrecati dal sisma del 1971, i cicli dipinti nelle chiese di S. Pietro e S. Maria Maggiore a Tuscania. Le decorazioni pittoriche di S. Pietro, al pari di quelle di Castel S. Elia, rappresentano un tassello importante per la ricostruzione della pittura romana dall’XI al XII secolo. L’ascendenza culturale sembra evidenziarsi anche nel complesso impaginato della scena. Si coglie nelle disiecta membra della pittura romanica sul territorio viterbese, sporadici lacerti che riemergono afflitti e merletti dai muri degli edifici antichi che ancora si conservano ad onta di radicali trasformazioni e pesanti superfetazioni e parlano dialetti formali diversi. Inediti frammenti come quello presente a Tuscania sui muri della Chiesa di S. Paolo. Le opere denotano di essere profondamente compartecipi degli stilemi propri della cultura pittorica romana, nutrita delle stilizzazioni linearistiche bizantine; d’altronde è un fatto che l’assoggettamento agli inizi del XIII secolo del Patrimonium alla più totale sovranità del pontefice ebbe esplicite ripercussioni anche nella produzione artistica. Quello stesso XIII secolo che rappresenta il secolo d’oro per Viterbo, la città diviene per alcuni decenni sede stabile della Corte pontificia. Una spiccata adesione alla koinè culturale romana di riscontra anche nelle decorazioni pittoriche delle chiese di S. Carlo è di S. Andrea. Nella prima è emersa nella lunetta di una porta laterale una Deesis romana, un tralcio vegetale con foglie vitinee bianche e rosse definite da un elegante disegno. Le immagini della cripta di S. Andrea richiamano puntualmente sul piano stilistico- formale i modi riscontrati nella Grotta di S. Vivenzio. La storiografia specialistica anche per l’ambiente viterbese riconosce nell’ambito della elaborazione delle coordinate culturali sottese alla produzione pittorica del XIII secolo forti ascendenze di matrice umbra, a testimonianza della complessità della realtà viterbese in questo periodo. In realtà occorre sottolineare che tali tipi di correlazioni stilistiche fanno riferimento a spiccare influenze provenienti dal grande cantiere di Assisi che era comunque un cantiere pontificio romano in terra umbra. Pochi frammenti sono ancora leggibili nella Chiesa di S. Francesco a Vetralla: nella cripta compare una immagine di Cristo circondato dai tetramorfi e una serie di elementi decorativi incentrati sul tema di intrecci floreali e dischi con Fioroni al centro. Il panorama della pittura romanica sulle terre del Patrimonium è meglio definito dalla possibilità di analizzare con maggiore attenzione una serie di pitture già conosciute ma solo di recente restaurate, Il panorama della pittura romanica sulle terre del Patrimonium è meglio definito dalla possibilità di analizzare con maggiore attenzione una serie di pitture già conosciute ma solo di recente restaurate, la più chiara leggibilità permette di apprezzare maggiormente le pitture che ancora si conservano nell’abside della Chiesa della Madonna della Pieve a Vallerano; nell’oratorio del Sacro Cuore, all’interno della cattedrale di Civitacastellana; e nella Chiesa di S. Biagio a Nepi. Le stesse stigmate culturali di matrice romano-bizantina, preminenti nella pittura rami di Viterbo e del territorio di sua pertinenza, informano anche l’esiguo numero di pitture su tavola giunte fino a noi. Le notizie relative alla produzione di dipinti su tavola e ai pittori di Viterbo e sul suo territorio sono estremamente fare e decisamente datate. Tutte le poche tavole giunte fino a noi si pongono all’attenzione, anche per la qualità formale e stilistica nonché per le peculiari implicazioni iconologiche che sottendono complesse connessioni dogmatiche, sia in quelle con le rappresentazioni del Salvatore, sia nelle tavole con raffigurazioni mariane. Le tavole con la raffigurazione del Salvatore documentano anche per questa area a Nord di Roma la sentita profondità di un culto ad alto coefficiente di teatralità. Anche le tavole con la rappresentazione della Vergine non sembrano essere limitate a mere funzioni iconiche ma rispondono a complessi principi dottrinari e funzionali, esse recuperarono i modelli delle veneratissime icone romane. L’epilogo del secolo VIII vede la città di Viterbo avviarsi verso una fase di grave recessione politica, economica e demografica. Il sogno della Viterbo Civitas pontificium regredisce velocemente, esso si era rivelato una gloria relativamente effimera, il trasferimento della Corte pontificia ad Avignone, segnò un brusco ridimensionamento di ogni ulteriore aspirazione (realtà nuova basata su una economia prevalentemente agricola). Viterbo e il territorio rimasero alla mercé delle ambizioni di potenti famiglie locali. La presenza pontificia sul territorio si faceva sentire, ormai, solo attraverso la protervia e l’avidità di corrotti rettori che amministravano in nome del Papa e con l’intervento militare del cardinale Egidio Albornoz. Questi per stabilire nuovamente il pieno controllo pontificio sul Patrimonium, deve seguire alla conquista manu militari la fondazione di Palazzi fortificati dove aveva sede il Castellano che governava per conto del Papa. L’azione del cardinale si rivelò non molto duratura nel tempo: lo scorcio del Trecento e l’intero secolo successivo furono caratterizzato da un clima di particolare instabilità con tumuli contro il governo pontificio e continui scontri. Il nuovo equilibrio socio-politico ed economico ebbe una sua conseguente ripercussione anche nell’attività artistica, la vacanza della Corte pontificia con la conseguente dispersione delle maestranze legate all’ambiente romano, comporta una presenza più assidua di maestri estranei a tali ambienti artistici. Nel trecento tracce della presenza di maestri toscani si riscontrano in gran parte di monumenti domestici e con frequenza molti dei loro nomi ricorrono nei documenti ancora conservati negli archivi che attestano una loro cospicua attività sul territorio. L’approfondimento critico sulla evoluzione della pittura a Viterbo nel XIV secolo si basa, come d’altronde, per le testimonianze dei secoli precedenti, sulla scarna sopravvivenza di pochi brani superstiti. Del grande maestro viterbese (Matteo Giovannetti di origine senese) abbiamo notizie frammentarie e molto incerte fino al momento del suo trasferimento in Francia. Nulla si conosce della sua formazione e delle opere eventualmente realizzate nella città di origine. La critica specialistica è concorde nel collocare il suo percorso formativo sull’asse umbro-senese. È invece discorde sulla possibilità di rintracciare due opere giovanili nel viterbese. Non è possibile identificare a Viterbo alcuna opera autografa di Giovannetti. Documenti pittorici trecenteschi fanno sporadicamente capolino suo muro degli edifici viterbesi, sempre caratterizzati da i a penosa frammentarietà. Un forzato richiamo a Giovannetti esiste per un frammento nella Chiesa di S. Francesco sopravvissuto ai disastri della guerra: sul lato sinistro dell’abside è rimasta una Madonna in trono affiancata da santi di cui rimane ben leggibile il solo Giovanni Battista. Anche altre chiese cittadine presentano modeste testimonianze trecentesche, frammentarie e spesso in precario stato di conservazione. Pochi elementi di consapevolezza in più comportano le poche cose che ancora rimangono in alcune chiese cittadine: nella Chiesa di S. Maria della Verità, parte del complesso servita che è divenuto sede del Museo Civico di Viterbo, la sovrapposizione degli altari rinascimentali aveva obliterato alla vista le antiche cappelle realizzate nello spessore dei muri perimetrali, una di queste, in seguito ai lavori di restauro resisi necessari per risarcire i danni dei bombardamenti del 1944, è stata parzialmente riportata alla luce rivelando sul montante sinistro la frammentaria figura di S. Michele Arcangelo. Il Trecento viterbese annovera tra i pochi resti rimasti anche la decorazione del nartece della Chiesa di S. Andrea. L’analisi critica della pittura del Trecento di Viterbo evidenzia tutta la sua difficoltà per la penuria di testi pittorici che non permette la creazione di un corpus sufficientemente ampio e articolato in grado di condurre alla definizione di linee di sviluppo ben definite o alla individuazione di scuole o botteghe cittadine. Viene inoltre citato per la sua di Piero e Melozzo. A partire dallo scorcio del secolo l’aspetto preminente della cultura figurativa viterbese è da identificarsi, con le innovazioni umbro-rimane di impronta peruginesca e pinturicchiesca spesso mediate per il tramite della scuola di Antoniazzo, cui finora non è stato sicuramente dato l’adeguato riconoscimento. Caratteristica è la figura di Antonio del massaro detto il Pastura. Una personalità artistica che ha goduto di una precoce fortuna critica ma che ancora solleva non poche perplessità a fronte dell’estrema disomogeneità qualitativa tra le varie attribuzioni che concorrono a comporre il suo catalogo. L’attività del maestro viterbese è segnata da poche opere supportate da certezza documentaria. Il maestro viterbese viene ad essere espressione di un milieu culturale fecondato di apporto antoniazzeschi e di quelli e di quelli, più evidenti, di Perugino e Pinturicchio, cui non rimangono estranei, però, anche se alquanto sfuggenti, contributi stilistico di maestri di diversa provenienza e formazione. Continua a riproporsi sui muri di numerose chiese del territorio viterbese e delle aree limitrofe il problema storico della produzione artistica di Antonio e della sua bottega. Proprio alla luce delle peculiarità stilistico-formali che vanno definendosi nelle opere certe del Pastura ed in quelle che ragionevolmente possono essere ascritte al suo pennello, diviene logico espungere del suo catalogo alcune opere contrassegnate e più sottile e raffinato disegno e grazie peruginesche. La Madonna del gonfalone di S. Clemente e quella di Tuscania, ormai tradizionalmente legati al nome del pastura, hanno portato ad un notevole incremento del catalogo di quest’Ultimo, rivelatosi alla luce delle ultime analisi alquanto falsato. Di stretta pertinenza al milieu peruginesca e affini ai modi delle opere certe del pastura sono anche alcuni affreschi che ancora si conservano in varie chiese distribuite sul territorio. L’episodio più cospicuo è sicuramente da individuare nel ciclo, recentemente restaurato, che orna la prima cappella a sinistra della chiesa cattedrale di S. Lorenzo a Viterbo. La rilettura critica del vasto ed eterogeneo catalogo del pastura, alla luce anche di un più meditata analisi delle fonti, permette di determinare con diverse certezze gli sviluppi della pittura nel viterbese tra la fine del 400 e gli inizi del 500. Giovan Francesco d’ Avanzarano e il corso del Truffetta, i cui percorsi formativi, alla luce delle attuali conoscenze documentarie, sono analoghi e paralleli a quello del Pastura. La prima menzione biografica di d’avanzarano risale al 1475, dove è citato quale erede nel testamento della madre. Segue poi la prima documentazione di una sua opera di pittura prima di divenire il Fantastico. Una delle opere più elevate: la Madonna dei raccomandati, del Museo diocesano di Orte. Sull’approfondimento del percorso di formazione del Fantastico, ha avuto le due tappe fondamentali sui palchi del cantiere del Duomo di Orvieto nel 1490 e nel suo soggiorno a Città di Castello nel 1494 per le perdite pitture nel Palazzo comunale. Molto più recentemente nuovi numeri hanno arricchito il catalogo del Fantastico contribuendo a gettare nuova luce sulla sua personalità. Nel solco della rivisitazione critica della figura dell’opera del Fantastico è da approfondire la paternità del maestro viterbese degli affreschi nella tribuna di S. Francesco a Bolsena, sicuramente individuabile nelle figure di apostoli incorniciate dalle eleganti arcature che definiscono la complessa architettura dipinta. Al pari del Fantastico si dimostra meritevole di una riqualificazione critica anche Monaldo Trofi. La corrente letteratura critica tratta con eccessiva sufficienza l’opera del maestro corso con l’eccezione di un breve, quanto incisivo, accenno di Strinati che lo vede in possesso di una formazione alta e complessa, originale interprete dell’opera del primo Raffaelo. La scarsa considerazione critica è in parte dovuta anche alle poche notizie documentarie che rendono sfuggente il profilo biografico di Monaldo; i primi documenti sull’attività a Viterbo furono pubblicati da Pinzi, mentre il primo serio tentativo di definizione del suo percorso stilistico si deve a faldi. Relativamente più recenti sono la breve biografia pubblicata sul Catalogo della nostra sul 400 viterbese che nulla aggiunge a quanto pubblicato da Pinzi ma è arricchita e tre pregevoli schede critiche sulle opere maggiori finora conosciute. Sempre nel piccolo centro maremmano, si conservano ulteriori numeri anche di rilievo del maestro corso. Una corposa pubblicazione monografica edita nel 1985, pur con qualche indulgenza campanilistica, arricchisce notevolmente la conoscenza di Monaldo sia nella sua attività a Tarquinia, sia in quella viterbese. Il suo catalogo deve con certezza essere ancora arricchito con l’inserimento della pala, raffigurante la Vergine in trono col bambino tra i santi Quirico, Giovanni Battista e Pietro, realizzata nei primi anni del 500 per la Chiesa di S. Francesco di Viterbo. Ad un maestro viterbese attivo nei primi decenni del 500 ma ancia profondamente intriso della cultura dominante fin dagli anni 80 del secolo precedente si devo o alcuni affreschi in chiede viterbesi e dell’immediato circondario. Le situazioni più interessanti sono certamente da individuare nelle due cappelle superstiti della figura Chiesa di S. Maria delle Fortezze. Il maestro principale arrivo nelle pitture di queste due cappelle denota alcune interessanti aperture in direzione delle più importanti novità che erano andate producendosi nei primi decenni del 500 e Roma, emerge una sicura conoscenza dei lavori di Michelangelo nella Cappella Sistina. In questa sede per la prima volta si avanza l’ipotesi che questo maestro possa essere identificato con Giovan Francesco D’ Avanzarano. Domenico Velandi, maestro scoperto da Faldi che ha anche costituito un cospicuo catalogo Intorno Al suo unico autografo, la Madonna in trono con Bambino, in collezione privata a Cracovia. La cifra stilistica emerge dalla sintesi della cultura laurenziana e di quella di Antoniazzo è, a detta di Faldi, espressa nei suoi esiti più alti da Velandi. La presenza e l’attività sul territorio viterbese di pittori profondamente diversi tra loro per caratura, provenienza ed esperienze formative è decisamente di notevole incidenza. La panoramica dei maestri viterbesi attivi tra 400 a 500 non può ritenersi completamente senza citazione di Costantino di Jacopo zelli, autore di una modesta Deposizione realizzata per l’altare dei Muratori nella Chiesa cittadina di S. Maria della Verità, dove la palese influenza dell’opera di Sebastiano del Piombo si disperde in una faticosa dimensione esornativa e cromatica. La conoscenza delle attività di Costantino rimangono ancora limitate alla sua nota partecipazione all’arbitrato sindacale per gli affreschi del Pastura nel Duomo di Tarquinia. Maestri forestieri nel viterbese Gli importi esterni a Viterbo e nel suo distretto territoriale caratterizzano la quasi totalità della produzione di qualità. Lo scorcio del XIV secolo e i primi decenni del successivo sono caratterizzati da una sicura presenza di maestri senesi che lasciano profonde tracce nei caratteri della pittura locale. Tra i grandi senesi di cui sono presenti opere sul territorio viterbese sono da citare Sano di Pietro e Matteo di Giovanni. Matteo benché nativo di Borgo s. Sepolcro è assolutamente da considerare un prodotto di cultura senese per il suo alunnato presso Domenico di Bartolo e le sue affinità stilistiche con il Vecchietta. Martino di Bartolomeo, seguace di Taddeo di Bartolo. Gli apporti forestieri al patrimonio artistico viterbese si ampliarono notevolmente nella seconda metà del secolo: stupendo il numero del Salvator mundi tra i santi Giovanni Evangelista, Leonardo di Pietro martire e Giovanni Battista della Chiesa di S. Lorenzo a Viterbo, la più alta espressione del 400 a Viterbo, al centro di una annosa quanto appassionante querelle attribuiva. Il Salvator Mundi della cattedrale, opera di straordinaria levatura, era destinata a rimanere nell’ambito del panorama artistico viterbese un episodio eccezionale quanto isolato; in rapporto a questo capolavoro la critica specialistica ha a lungo indugiato circa la sua paternità tra i maestri nordici Liberale da Verona e Girolamo da Cremona. I peculiari caratteri stilistici, i palesi prestiti mantegneschi che importano l’opera, portano in maniera definitiva a ritenere quest’Ultimo autore della tavola. L’episodio più importante nella vicende artistiche viterbesi legato all’intervento di un grande artista forestiero, si ha però, nel 1453 quando le clarisse di S. Rosa incaricano il maestro fiorentino Benozzo di Lese di decorare con scene della vita della Santa la loro Chiesa. I dieci grandi riquadri che componevano il ciclo narrativo rappresentano un riferimento imprescindibile per diverse generazioni di pittori sia a Viterbo che nei territori del Patrimonio, sono andati distrutti nel 1632 per la costruzione della nuova Chiesa ministeriale. Le novità toscane introdotte da Benozzo ebbero una notevole eco tra i maestri contemporanei, vivificando un ambiente decisamente stanco e ripetitivo. La conferma della complessità delle vicende della pittura viterbese in questa fase di passaggio alla seconda metà del secolo si ha nell’analisi di una pregevolissima pittura murale ancora visibile sui muri della diruta Chiesa di S. Maria in Forcassi a Vetralla: il dipinto di compone di due riquadri con la crocifissione e la Madonna in trono col bambino definito da una cornice a finta modanatura marmorea con fregio a traccia (anonimo maestro). Un episodio decisamente ed indubitabilmente riferibile al magistero di Benozzo è rappresentato dagli affreschi che urbano gli oratori dell’Isola Bisentina sul lato di Bolsena. Un’opera molto interessante sia per il discreto stato di conservazione sia per il tema profano e di esaltazione encomiastica della famiglia è la decorazione commessa dai Caetani di Pisa per il loro Palazzo gentilizio. Lo stile di queste pitture è concettualmente molto affine ai modi di Benozzo, certamente fortemente intriso di umori fiorentini. Tra le opere stilisticamente riferibili alle ascendenze formali e culturali antoniazzesche sono da inserire anche nuovi numeri identificati in diverse chiese sul territorio. Il più cospicuo è senz’altro da individuare nella decorazione absidsle della piccola chiesa rurale intitolata alll’Ave Maria ubicata nelle campagne vetrallesi. Una qualità sempre sostenuta, riferibile a maestranze diverse ma espressione della medesima cultura, si riscontra nei frammentari affreschi emersi dai restauri della Chiesa di s. Nicola a Blera. Alla koinè stilistica antoniazzesca sono d riferire anche la decorazione ad affresco nell’abside della Chiesa primitiva di S. Maria assunta a Barbarano Romano. In rapporto agli importanti processi di irradiazione della pittura antoniazzesca e degli antoniazzeschi nell’area del Viterbese non può essere trascurato un fenomeno in gran parte parallelo e Tano importante quanto ancora pienamente da definire , quale influenza del maestro amerino Pienamente di Manfredo, riscontrabile in varie opere cronologicamente riferibili all’Ultimo decennio del 400 e si primi anni del secolo seguente. Il pittore può essere considerato un forestiero. Un aspetto interessante evidenziato dalle nuove scoperte documentarie è quello di ritrovarsi Piermatteo come un chierico avviato alla carriera ecclesiastica. Una sigla stilistica che sembra contemperarsi con la cultura pittorica dell’amerino pare riscontrati nella pressoché inedita decorazione della cappella dell’annunciazione nella Chiesa di S. Agostino a Gallese. Numerosi collaboratori nella bottega di Piermatteo ne diffondono lo stile affascinante e conservatore (Madonna col bambino tra gli Angeli e cherubini nella Chiesa di s. Maria della neve a Castiglione in Teverina. Una figura di discreto interesse nel panorama artistico del Patrimonio è di sicuro da identificare nel pregevolissimo maestro Fiorenzo, autore degli affreschi della Chiesa rupestre di S. Lucia a Bomarzo. Tra i protagonisti della pittura locale di recente riportati alla ribalta della storia sono da citare i maestri romani Giovanni Paolo Falente e Giovanni Antonio e Cola. In particolare quest’Ultimo, profondamente influenzato da Pinturicchio, ha goduto di un suo pieno riconoscimento grazie ad un consistente numero di atti che ne documentano una cospicua attività professionale. Dall'Umbria proveniva Giovanni de Sparapane da Norcia, titolare di una fiorentissima bottega nella sua città, arriva per oltre un secolo con diverse generazioni di maestri. La notevole fatica artistica della città nursina pur non assurgendo ad alte vette qualitative propone un repertorio di raffinate scenografiche gotico-cortesi di squisita capacità narrativa e coloristica. Il loro stereotipato lessico risente delle influenze dell’opera di Benozzo a Montefalco. Probabilmente è un maestro forestiero anche il misterioso Magister Peregrinus autore del monumentale polittico sull’altar maggiore della Chiesa di S. Maria del Riposo a Tuscania. Un verbale del consiglio comunale del marzo 1517 documenta l’allogagione dell’opera a Magister peregrinus. Il misterioso maestro Pellegrino si dimostra un pregevolissimo artefice in possesso di una complessa cultura figurativa dove sono perfettamente individuabili i suoi debiti nei confronti della pittura umbro-romana; le eleganti figure delle tavole presentano evidenti caratteri antoniazzeschi, mentre le immagini delle lunette al sommo della tavola e la Vergine riflettono richiami peruginesche. Tra i maestri forestieri attivi sul territorio un ruolo peculiare è da assegnare ai membri della famiglia Torresani, originari di Verona e particolarmente attivi nella vasta area che comprende parte del territorio viterbese, l’Umbria meridionale ed il reatino. Conclusioni La pittura del 400 e del 500 a Viterbo e nel viterbese è stata fino ad oggi considerata complessivamente ben conosciuta. Una rilettura analitica delle fonti pubblicate, il rinvenimento di nuovo documenti e l’arricchimento del Patrimonio figurativo conosciuto ha evidenziato la parzialità di tale conoscenza che se da un lato ha comportato la sopravvalutazione di alcune figure (tipo Pastura), per altri versi aveva sottostimato varie personalità artistiche. Le strutture sociali che vanno maturandosi nelle città del XV secolo, improntate sulle complesse eccitanti innovazioni del pensiero umanistico-rinascimentale, sono segnate dalla compresenza di sistemi non ancora completamente affrancati dalla più arcaica organizzazione feudale. A rendere ulteriormente più depressa la realtà figurativa complessiva delle terre del Patrimonio e nel suo capoluogo, contribuiva anche la situazione interna a Roma. Nella prima metà del 400 a Roma non sembra esistere una valida tradizione pittorica locale. Le esigenze d’arte della Corte pontificia sono soddisfatte da numerosi artisti di fama provenienti da fuori. A quanto è dato conoscere rimane estraneo a immagine dei concetti morali è una costante raccomandazione suggerita dai trattati quattrocenteschi. L’innovativo lessico decorativo alimentato dal pensiero accademico-umanista si distende non esclusivamente nella decorazione pittorica parietale ma anche negli elementi di supporto alla decorazione quali i pavimenti, le porte le porte i soffitti. Nel Palazzo viterbese si ha uno studio delle figure esportate dalle sue pareti. I 14 questi recuperati rappresentano altrettante figure femminili allegoriche con i loro attributi, la cui identità è precisata dalla presenza delle relative iscrizioni con il nome, rese in eleganti caratteri capitali maiuscoli. Alle allegorie delle virtù, le tre teologali: fede, speranza è carità; e le cardinali delle quali delle canoniche quattro: prudenza, fortezza, giustizia, temperanza, sono rappresentate le sole prudenza, giustizia e temperanza, portando ad ipotizzare come manchi dal complesso della decorazione recuperata almeno un riquadro con la fortezza, sono aggiunte anche le allegorie delle virtù morali che definiscono un complesso dottrinario funzionale alla esaltazione della grandezza e dei valori morali del casato Spreca; il raffinato intellettualismo sotteso alla rappresentazione del ciclo rimanda la sua progettazione ad un dotto umanista vicino alla famiglia. Sul piano formale i dipinti presentano tutti lo stesso schema compositivo: una finta cornice dipinta che definisce due specchiature rettangolari con fondale blu e Rosso vivo, le due specchiature fiancheggiano uno spazio centinato e tutto sesto dove sono allocate le diverse figure allegoriche assise sui troni. Le due figure di autorità e onestà sono invece affiancate da de specchiature più strette dove i motivi sono accampati su un compatto fondale monocromo blu scuro. Alcune delle allegorie sono creazioni originali mai rappresentate prima nell’arte che vanno ad arricchire la documentazione della complessità ideologica e culturale dell’umanesimo tardo-quattrocentesco. Le 14 figure prese in esame denotano una unitarietà progettuale e di realizzazione incontrovertibile anche se si colgono alcune modeste differenze formali che potrebbero essere imputata anche agli interventi di stacco e restauro delle pitture, alcune però, delle più leggibili nella scrittura pittorica originale non solo denunciano la spiccata vicinanza stilistica ai modi caratteristici diffusi dagli esponenti della bottega del Balletta, decisamente alla piermatteo sono i caratteri delicati del volto della scrittura insistita. Fiorenzo, il maestro proposto quale artefice di alcune delle immagini di più spiccata eleganza è da ipotizzare come coordinatore della realizzazione dell’intero ciclo. Un episodio di pittura antoniazzesca: gli affreschi della Chiesa di S. Nicola a Blera e altri fatti d’arte. Blera è attualmente un modesto centro rurale erede di una storia che affonda le radici nell’antichità etrusca. L’inizio della fase discendente della sua storia è da individuare nei feroci saccheggi e nelle distruzioni perpetrate prima dei Longobardi e alcuni secolo dopo dalle truppe imperiali di Federico II, nonché in una progressiva perdita di importanza strategica anche in seguito alla decadenza della Via Clodia. Tra queste vestigia un ruolo importante di testimonianza è rivestito dalla antica Chiesa di S. Maria Assunta, l’antica cattedrale, e dalla più modesta Chiesa di S. Nicola che ospita le pitture murali oggetto dello studio. La Chiesa di S. Nicola ha una storia decisamente travagliata, è certo che dopo il 1870 essa perse La sua funzione religiosa e viene inserita tra i beni del demanio comunale ed ebbe i più diversi e animali tipi di utilizzazione; dopo la seconda guerra mondiale subì la trasformazione in sala cinematografica, il “Cinema Italia”. La nuova funzione ludica della Chiesa è durata fino agli inizi degli anni 80, destinato poi a diventare Museo Civico. Della ricca decorazione che interessava l’intera peste di fondo della chiesta si sono recuperati in seguito al restauro, alcuni ampi frammenti delle raffinate cornici e grottesche in policromia su fondo giallo oro che circoscrivevano la scena principale nell’abside centrale: la Madonna in trono col bambino tra due santi vescovi, collocata sotto una importante tenda a padiglione tenuta aperta da una coppia di Angeli. Il problema della definizione della committenza rimane molto complesso. Il precario stato di conservazione che ha portato alla scomparsa di vaste aree della superficie dipinta e ad un forte deterioramento cromatico della pelle di quanto rimane, non inficia una accettabile leggibilità che permette non solo di verificare un discreto livello qualitativo ma anche di poter collegare questo episodio ad altri cospicui cicli di pittura murali. Il maestro attivo a Blera sembra distinguersi dalla pletora dei numerosi lavoratori ed imitatori di Antoniazzo attivi a Roma per collocarsi in un più alti e decoroso ruolo di diligente esecutore di forme e modelli direttamente derivati dal repertorio antoniazzesco che riporta a confronti stilistici con i modi pittorici del figlio nonché stretto collaboratore e continuatore di Antoniazzo, Marcantonio. Nella parete destra del transetto della Chiesa di S. Maria della verità di Viterbo compare una scena di un Santo vescovo da identificare; il Santo è di fronte ad un sarcofago vuoto posto sotto una imponente tende a padiglione tenuta aperta da due Angeli. Il tema trattato nell’abside destra della Chiesa blerana mostra il bambino raffigurato con i segni delle stimmate nelle mani, nei piedi e nel costato, una iconografia rarissima. L’arte, al contrario, aveva creato e molto diffuso il tema del Bambino Gesù portacroce con gli strumenti del martirio. Ai due episodi di Blera e Viterbo sono da affiancare per esplicite affinità stilistiche anche altri notevoli numeri, pressoché inediti e meritevoli di essere adeguatamente studiati sia per la qualità artistica, sia per l’importanza storica. La Madonna in trono col bambino dipinta nella Cappella degli eugubini della ciesa di S. Giovanni a Tuscania. Questa immagine è la palmare riproduzione della Madonna in trono colo bambino dipinta nell’abside blerana. Altra notevole testimonianza di questa importante bottega è rappresentata dall’annunziazione e la gloria di S. Giovanni Battista nella Chiesa di S. Amando a vitorchiano. Conosciuta anche con l’intitolazione alla Trinità, si impone all’attenzione per le dimensioni e la raffinatezza dell’apparato scenografico: una monumentale architettura dipinta classica è composta da una zoccolatura marmorea con specchiature di Marmi colorati compresi tra cornici moda te di Marmi bianco. L’imponente strutturazione scenografica è completata da un attivo quadrato definito da una cornice ornata da un motivo ad intreccio, identica a quella messa in opera nel transetto di S. Maria della verità. Voci dalla nebbia: opere d’arte invisibili ma non scomparse Il recente riconoscimento della eccezionale personalità artistica del maestro umbro Pier Matteo Lauro da Amelia rende doveroso portare alla conoscenza due episodi artistici di rilevatissima portata. La Chiesa, ormai ridotta a ridere, di S. Lorenzo nel territorio di Graffignano e la Chiesa rupestre di S. Lucia nel distretto amministrativo del comune di Bomarzo. La prima conservava eccezionali documenti ecografico ed artistici. La piccola chiesta attualmente ridotta quasi allo stato ridere, si compone di una sola aula absidata con presbiterio rialzato e tre gradini e copertura cm capitale a vista gravemente compromessa da una situazione di crollo. La decorazione dell’abside è definita da una raffinatissima cornice architettonica dipinta in grisaille di puro gusto La decorazione dell’abside è definita da una raffinatissima cornice architettonica dipinta in grisaille di puro gusto antiquariale che include anche la finestra ogivale unica fonte di luce nel vano ecclesiale oltre alla porta di accesso e al sovrastante ovulo ai lati della finestra sono dipinte le figure dei Santi Antonio Abate a destra e Leonardo a sinistra. L’autore del Cristo di Graffignano era ad evidenza lo stesso autore dell’analogo tema, rappresentato sul pilastro sinistro del Duomo di Orvieto. Una unica mano che dovrebbe riconoscersi in quella di Pier Matteo d’Amelia che dopo una secolare sfortuna critica che lo aveva ridotto ad un mero nome senza opere ha conosciuto successivamente una eccezionale rivalutazione. Oltre al pregevole quanto sfortunato ciclo della piccola chiesa di S. Leonardo in questa sede, sulle orme di Pier Matteo, viene presentato un ulteriore episodio artistico: gli affreschi della Chiesa rupestre di S. Lucia a Bomsrzo. Una struttura in muratura articolata in due ambienti e ormai ridotta a rudere. L’episodio artistico che interessa in questa sede è quello dipinto al sommo e sul lato sinistro dell’accesso. Qui compaiono due nicchie scavate nella roccia viva dove sono dipinte le immagini dei Santi Lucia e Bernardino da Siena, le due figure sono ritornate alla luce in seguito alla distruzione di una edicola in muratura ad esse sovrapposta dove era dipinta una modesta Assunzione della Vergine e santi databile al XVII secolo. Il pesante atto vandalico si è verificato in un anno imprecisabile compreso tra il 1979 e il 1985. Le si figure dei Santi erano circoscritte da una cornice composita formata da una fascia di fuori a stampino nero su fondo bianco e da bande policromia verdi, giallo ocra e Rosso scuro divise da sottili fili bianchi. Un riquadro soprastante Los nicchia che accoglieva l’immagine di S. Lucia: le aureola dei Santi Lucia e Bernardino a Bomarzo sono assolutamente uguali a quelle che contornarono le feste della Madonna in trono col bambino , e. Giovanni Battista, offerente e Cristo eucaristico dipinto in un cappella della Chiesa viterbese di S. Maria Nova. Prolegomeni per una localizzazione a Tuscania di Perin del Vaga Nella piena consapevolezza che individuare la mano di un maestro alle due prime armi e alle dipendenze di un vecchio mestiere di cui sfuggono le coordinate stilistico-formali, è già molto ardua e no si può però non provare a proporre una serie di considerazioni e di letture critiche. L’analisi più puntuale della Madonna tuscanese evidenzia come l’incipiente toscanismo sia il frutto di una stretta adesione ai modelli proposti nei primi decenni del 500 da Pietro Perugino; la struttura scenografica riprende semplificandola quella resa tradizionale dal Perugino. Anche il paesaggio è punteggiato da elementi d diretta derivazione peruginesca. Alla luce di tutto questo come collegare la personalità di Perino a questa pittura murale? Giova ripetersi: non esiste possibilità alcuna di una adesione per confronti stilistici della Madonna tuscanese all’opera di Perino, in relazione al fatto che non esistono due opere databili agli anni del suo arrivo a Tuscania, sarebbe sufficiente però riuscire a dimostrare la presenza di Perino sulla scena della Chiesa di S. Maria del Riposo a Tuscania per avere un importante risultato della duplice valenza: per un verso di avrebbe la collocazione di Perino in un luogo e momento preciso con una fondamentale integrazione storica alla importante testimonianza di vasari che comporterebbe una più consapevole conoscenza sui primi passi nell’arte del giovane maestro fiorentino; per altri versi si avrebbero gli elementi per fare giustizia sulla pessima fortuna critica del suo primo capobottega, il Vaga “pittor fiorentino”, forse non così sprovvisto di doti artistiche e disegnatore come icasticamente affermato dal Vasari. La chiesa di rifabbricata dalle fondamenta nell’anni 1495 su un sito già occupato da un più antico complesso conventuale. I lavori subirono forse una breve interruzione. Un intervento decorativo collocabile negli anni 1515-16 sarebbe estremamente precoce anche se non impossibile. Però, al netto di questa osservazione gli elementi per collocare Perino sulla scena operativa della costruenda Chiesa s. Maria del Riposo ci sono, di conseguenza si avrebbe anche la prima attestazione storica della attività della bottega del Vaga a Tuscania. L’ambientale fiorentino fecondato dal verbo michelangiolesco che predicava le sue teorie della forma è la naturale fonte di approvvigionamento di motivi e modelli stilistici che ritroviamo anche nella Madonna tuscanese. Se l’ipotesi di lavoro presenta in queste poche note di rivela corretta, si ottiene un primo tentativo di affrancamento di una figura negletta e misconosciuta quale il Vaga “pittor fiorentino”. La pala di Pacifica Antonini nella Chiesa della Trinità a Viterbo La fondazione del complesso agostiniano della Trinità nasce intorno al 1256 grazie agli Agostiniani dell’eremo Monterazzano. L’interno a Croce è articolato in tre navate, sullo snodo tra navata e transetto si eleva una cupola; archi traversi suddividono le navate laterali in tre cappelle per lato. Nella seconda cappella a sinistra, una emblematica pala lignea, oggetto del presente lavoro, con la rappresentazione di Gesù che consegna le chiavi a Pietro, Paolo e i ritratti dei committenti, Egidio da Viterbo e la sorella Pacifica. Una tradizione locale senza alcun supporto utile per una verifica di riscontro attribuisce l’opera ad un fantomatico pittore di Roma, Ippolito Romano. Le circostanze storiche della commissione dell’opera sono ben conosciute: la grande pala lignea venne fatta realizzare da Pacifica Antonini per corrispondere a preziose disposizioni del fratello Egidio che la aveva lasciata erede ed esecutrice testamentaria dei suoi beni e delle sue volontà. Opera datata 1537 che risponde ad un fortissimo attardamento stilistico. I moduli fortemente attardato dalla pala riprendono modelli organizzativi dello spazio propri della conquista classicistica della metà del 400, con forti richiami ai modi caratteristici del Perugino. La disposizione della figura nella tavola mette in scena una recita dagli spiccati contorni teatrali, Cristo in atto di consegnare le chiavi a Pietro e la figura di S. Paolo sono collocati su un palcoscenico minuziosamente strutturato con le ali laterali che avanzano verso lo spettatore rispetto al corpo centrale, le figure dei due committenti sono invece poste sul pavimento, in ginocchio a mano giunte rigorosamente di profilo. Postille a Giovan Francesco D’Avanzarano In un articolo relativamente recente chi scrive ha avuto modo di approfondire la conoscenza del viterbese D’Avanzarano, un maestro che sicuramente merita una attenzione decisamente superiore a quanto finita riservatagli. Parimenti ad una più solida conoscenza del percorso di vita e professione del Fantastico, grazie alla nuova acquisizioni documentarie si è avuta anche una più consona collocazione nel quadro storico dello
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