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Nanook cammina ancora, Sintesi del corso di Storia Del Cinema

Riassunto del libro presente in filmografia d'esame.

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Nanook cammina ancora e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! Nanook cammina ancora Il cinema documentario, storia e teoria Maria Cristina Lasagni 1.La storia Verso il documentario 1.1 Alla ricerca dell'immagine meccanica La possibilità di riproduzione meccanica del reale, apparentemente meno condizionata dalla soggettività umana, è un obbiettivo perseguito da molto tempo. Il principio ottico che è all'origine della macchina fotografica, la camera obscura, era noto fin dall'antichità: si tratta del fenomeno per cui, in una stanza buia, una immagine esterna viene naturalmente proiettata su una parete interna dalla luce che passa in un piccolo foto, praticato sulla parete opposta. In questo modo la scena esterna, capovolta, è visibile all'interno della stanza. Gli artisti in passato hanno usato la camera oscura come strumento per raggiungere una maggiore precisione prospettica nel disegnare ritratti e paesaggi. Questi primi tentativi portano alla messa a punto di camere ottiche portatili, molto più piccole e maneggevoli, nelle quali non era necessario entrare e che vennero ampiamente utilizzate dai pittori. La camera oscura proietta le immagini dall'esterno al proprio interno; la /anterna magica utilizza un principio analogo, la riproduzione per mezzo della luce, ma per svolgere una funzione opposta: proiettare all'esterno immagini che sono poste all'interno dell'apparecchio, con un meccanismo analogo a quello di un proiettore di diapositive. Ma le immagini del reale sono contraddistinte dal movimento e la ricerca di riprodurre il movimento, la cosiddetta persistenza retinica che permette alle immagini impresse nella nostra retina di non scomparire immediatamente; in questo modo il nostro occhio non percepisce lo stacco. 1.2 Fermare la vita: la fotografia In Francia l'inventore Niépce si stava interessando agli studi di fine 1700 di Wegwood, nel 1826 egli pone all'interno di una camera oscura una lastra di metallo coperta da una soluzione sensibile alla luce. Nasce così point de vue d'après nature, la riproduzione del paesaggio che si vedeva dalla sua finestra. È il primo paesaggio riprodotto meccanicamente, fissato dalla luce senza la mano dell'uomo; Niépce chiama questo processo Héliographie, sottolineando l'aspetto di immagine scritta dal sole: è la prima fotografia. Dopo poco nel 1839 Daguerre in Francia, Talbot e Herschel in UK annunciano più o meno contemporaneamente le loro scoperte. Daguerre era pittore e scenografo, usala la camera oscura per catturare le prospettive da dipingere. Aveva sentito della invenzione di Niépce e così, nel 1837, inventa il primo dagherrotipo, una natura morta. Questa tecnica, dalla lunga esposizione, è molto nitida e alla pari delle migliori fotografie attuali. Nel 1939 il governo francese compra questa procedura e li rende gratuiti e pubblici; il successo della fotografia è immediato. I dagherrotipi hanno però un difetto: non possono essere doppiati così Tabot e Herschel risolveranno il problema creando un negativo per produrre infinite copie. La neonata fotografia entusiasma il pubblico e si diffonde molto rapidamente; nei paesi e nelle grandi città la domanda di ritratti è enorme. Tutti vogliono un ritratto, per i motivi più diversi: come oggetto di status symbol, sostituto più economico della tradizione del ritratto dipinto, o invece come ricordo da portare con sé per ridurre il dolore della separazione da lunghi viaggi ecc. Il poeta Baudelaire si scaglia contro l'invenzione della fotografia accusando la “buona società in Francia” di scambiare la riproduzione esatta per l'arte, denuncia una forma di attaccamento al “vero”; ma alla fine anche lui non riesce a resistere e lo conosciamo grazie al ritratto del fotografo Nadar (1863). Alla fotografia si chiede certezza, onestà, il costituirsi come “specchio della realtà”, tanto che, anticipando un dibattito che ancora oggi caratterizza il campo documentaristico, le manipolazioni, le falsificazioni, i trucchi vengono condannati. 1.3 La ricerca dell'immagine in movimento Nei suoi primi anni la tecnica della fotografia si evolve velocemente, con il più significativo passaggio dalle lastre rigide alle pellicole flessibili in nitrocellulosa, intorno al 1880. Una volta inventata la possibilità di riprodurre l'immagine, il passo successivo è di metterla in movimento. Muybridge, famoso fotografo, compie i suoi primi tentativi di fotografare il movimento quando, nel 1872, gli viene chiesto di fotografare il galoppo di un cavallo per risolvere una diatriba su un ipotetico momento di non-contatto con il suolo degli zoccoli. Nel 1877 mette a punto un meccanismo con cui riesce a fotografare il movimento, scomposto in segmenti che l'occhio umano non riesce a percepire; si tratta di dodici apparecchi fotografici allineati uno dopo l'altro lungo una breve pista; così scatta fotografie che mostrano le varie fasi del movimento. Le foto rappresentavano poco più che silhouette, ma con dinamica del movimento fecero il giro del mondo. 2. È cinema 2.1 | primi passi: Lumière, Edison Nel 1895, dalla ricerca di molti inventori in diverse parti del mondo, per la prima volta un pubblico vede fotografie in movimento proiettate su uno schermo: è il cinema. Esiste un'altra versione oltre a quella dei fratelli Lumière, ed è a Berlino il 1% novembre 1895 realizzato da Max Skladanowsky. Nel 1892 costruisce una macchina con cui realizza un piccolo film, il 1 novembre 1895 fa brevettare un proiettore, il bioscopio. Il giorno stesso allestì o no al Wintergarten di Berlino uno spettacolo a pagamento in cui vengono proiettati nove film, per una durata complessiva di 15 minuti, che verrà ripetuto per 30 giorni; la Germania è entusiasta dell'invenzione ed è quasi sicuramente il primo proiettore in Europa. Dall'altra parte del mare Edison si da da fare, con il suo collaboratore Dickson lavorano a due macchine: padre era un ispettore minerario e lui sceglie lo stesso percorso, che lo porta a fare lunghi viaggi in terre lontane. Dai viaggi nel Canada riporta numerose fotografie ritraenti gli Inuit. Sembra che sia stato il suo datore di lavoro a spingerlo a comprare una cinepresa, per riportargli qualche appunto visivo; nasce così un grande documentarista, da una prima macchina da presa a manovella ed un corso di istruzioni di una settimana. Nel 1916 Flaherty ha girato più di 15.000m di pellicola sugli Inuit ma, in un incendio accidentale, perde quasi tutto ma quel poco che rimane lo porta a NY per mostrarlo all'American Geographical Society nata nel 1851. Il suo incontro con Edward S. Curtis gli fa prendere coscienza dei limiti del suo lavoro: manca una narrazione che colleghi le immagini. Ci volle del tempo per trovare dei finanziatori però alla fine nel 1920 e 1921 Flaherty potè ritornare dagli Inuit. Parte con delle attrezzature adatte a sostenere il lungo viaggio e poi passa complessivamente quindici mesi assieme alla famiglia di Nanook, l'Inuit che sarà protagonista del suo film. Instaura una complicità con questi ‘indigeni’ tale che lo aiutano a trasportare, montare e smontare le attrezzature. Nanook of the North racconta la vita quotidiana di Nanook, della sua famiglia e dei compagni di caccia - la costruzione dell'igloo, il risveglio, con la moglie di Nanook che mastica stivali per ammorbidirli... ma il regista non si limita a mostrare sullo schermo momenti di vita quotidiana di popolazioni così lontane: racconta una grande storia universale, quella della lotta alla sopravvivenza del piccolo Nanook contro una natura bellissima e molto dura. Quando finalmente esce nel 1922 sugli schermi americani riscontra successo, non tanto per la qualità, ma perché è un vero racconto esso mostra la fragilità di una vita umana persa tra l'immensità del cielo e quella della terra bianca. Il documentario, inoltre, rivela chiaramente l'intimità della relazione che il regista ha instaurato con i suoi soggetti, empatia, sensibilità, partecipazione talvolta anche ironia. Si tratta di un cinema diverso da quello dei travelogues: è rispettoso verso quello che filma. Egli ha dato impulso a un filone molto importante, quello etnografico. Lo stile di Flaherty ricerca la naturalezza narrativa, il regista si rende “trasparente” attraverso un montaggio poco visibile, mostra il fluire degli eventi. In America il film non viene apprezzato mentre in europa è un successo: sarà che una popolazione appena uscita da una guerra mondiale poteva provare particolare empatia verso la lotta alla sopravvivenza del piccolo Nanook in quell'ambiente così ostile. Il film viene naturalmente anche criticato “documentario romanzato”, frutto di una visione romantica e letteraria del rapporto tra essere umano e natura, altre sono per come venivano girate delle scene “recita della realtà” da soggetti reali; talvolta il regista era costretto a chiedere agli Inuit di ripetere azioni in condizioni climatiche favorevoli alla ripresa, o al fatto che costruirono un igloo a metà per poter riprendere il suo interno; però cambia quando invece gli chiedeva di svolgere attività non più in uso, come una particolare tecnica di caccia. Nel 1924 ottiene un altro finanziamento per un film nelle isole della Polinesia, il contesto non poteva essere più diverso da quello che gli aveva ispirato Nanook; li la natura è paradisiaca e le persone sembrano vivere senza sforzo. Il risultato è Moana (1916) un documentario/lovestory di due giovani abitanti intrecciati con la vita di tutti i giorni. Tuttavia l'onestà dell'approccio non raggiunge la compiutezza narrativa e la suggestione di Nanook, e soprattutto non fa emergere nessun personaggio indimenticabile come era stato il piccolo eschimesi e lotta per la vita. Il film, uscito nel 1926, oggi lo ricordiamo perché John Grierson, recensendolo, usa per la prima volta il termine “documentario”. Il periodo successivo è segnato da una serie di opere interrotte, dalla fiction a documentari sul ruolo delle donne, o collaborazioni con altri registi importanti. Nonostante questo periodo di difficoltà, la vena creativa di Flaherty non è finita: lo ritroveremo in Inghilterra negli anni 30, impegnato organizzare la produzione di un documentario da molti considerato un capolavoro: The Men of Aran 1934. Anche in questo film il tema principale è la lotta dell'uomo contro l'ambiente avverso e pericoloso, contro il mare gelido, da sfidare su barche a remi, contro una natura così avara che ogni anno per seminare e necessario trasportare un po' di terra, pugno dopo pugno, nelle fenditure a riparo delle rocce. Come va fatto con Nanook, cerca persone che diventano i protagonisti del film, e organizza il racconto attraverso le vicende di una famiglia che diventa esemplare, “la“ famiglia: un uomo, una donna, un figlio adolescente e un altro in fasce. Solo che questa volta non si tratta di una famiglia reale, ma di quattro isolani scelti separatamente da regista e messi insieme a rappresentarla. Inoltre Flaherty persuade alcuni pescatori ad effettuare un tipo di pesca che da tempo non veniva più fatta, ma che avrebbe accresciuto molto il pathos della narrazione. In seguito queste scelte verranno attaccate dalla critica: i “puristi accusano Flaherty di non avere realizzato un documentario, di non aver filmato “la realtà preesistente alla cinepresa", “la vita colta sul fatto", poiché aveva ricreato una famiglia-simbolo ed aveva fatto recitare gli isolani. Ancora una volta la discussione verte attorno alla relazione tra documentario e realtà, come l'obiettivo della fedeltà alla verità possa essere inteso in molti modi. Flaherty crea una situazione-simbolo, in qualche modo archetipica della condizione umana, e proprio per questo capace di parlare ancora oggi alle sensibilità contemporanei: la lotta di piccole, coraggiose vite in un contesto duro e faticoso. La narrazione è sobria, e alterna momenti lirici con altri di grande pathos - come la sequenza in cui la piccola e fragile barca dei pescatori lotta nella tempesta contro enormi onde, mette tutto il villaggio segue con ansia alla riva. Un'altra accusa mossa il film fu di non aver approfondito gli aspetti sociali della vita degli isolani, di non aver denunciato in termini più politici le responsabilità della durezza della vita, della povertà; di aver creato un quadro nonostante tutto quasi idilliaco, con uno sguardo nostalgico rivolto al passato. Gli attacchi si intensificano dopo che il documentario vinse la coppa Mussolini come miglior film straniero al festival di Venezia del 1934. Qualche anno dopo, un altro film contribuirà a chiarire la posizione di flirti rispetto alla sua concezione di impegno politico di rapporto con la realtà. The Land 1942, girato in USA, gli viene commissionato dal ministero per la ricottura americano ma non verrà distribuito. La lunga mancia di Grass Va però segnalato un altro film prodotto negli stessi anni molto diverso da quello di cui abbiamo parlato ma altrettanto suggestivo. Si tratta di Grass: A Nation's Battle for Life 1925 di Cooper, Schoedsack e Harrison. Il film racconta della pericolosa migrazione annuale che una grande tribù di allevatori, i Bakhtiari, compie con le greggi e con tutti i loro averi attraverso le terre e le alte montagne dell'attuale Iran, verso i pascoli per gli animali. A differenza di Nanook, qui non c'è un protagonista in primo piano, ma è l'intera tribù di oltre 50.000 persone, guidata da loro capo Haidar Khan ad essere al centro del racconto. Anche questo film, considerato uno dei primi documentari girati con uno sguardo etnografico, racconta la lotta di un'umanità fragile, amichevole e coraggiosa in un ambiente durissimo e ostile. Si tratta di un film appassionante grazie ad alcune scene spettacolari e drammatiche, girate con molta difficoltà. 3.2 Dziga Vertov, l'occhio della verità Mentre Nanook Appassiona l'America e l'Europa, in un'altra parte del mondo, nella Russia post rivoluzione, si sta sviluppando una concezione del cinema non di fiction diversa da quella praticata da flirti ma altrettanto importante, tanto che alcuni storici hanno sostenuto che lo spirito del documentario inteso come narrazione sociale (oltre che artistica) Di situazioni reali, sia nato proprio con la Kino-Pravda di Dziga Vertov. L'unione sovietica era un immenso di Eugenio paese in cui persone perlopiù analfabeta e parlavano dozzine di lingue e dialetti diversi.il cinema poteva rilevarsi uno strumento di unificazione, adatto a diffondere nuovi valori culturali, sociali e politici dello Stato che stava nascendo dalle ceneri di un passato così ingombrante come quello degli zar. La discussione su quale tipo di film -fiction documentario- possa meglio assolvere questa funzione vedo: di vista contrapposti. Chi sosteneva la fiction riteneva che avrebbe potuto trasmettere messaggi politici con più efficacia, e piegarsi con più duttilità all'esercizio del suo compito pedagogico e a volte rieducativo. Il capofila di questo pensiero è Ejzenstein. Altri registi, come Mayajovskij, invece sostenevano “l'arte dei fatti”, la forza della realtà, e criticano la fiction come un altro” oppio dei popoli" che avrebbe dovuto essere bandito dall'unione sovietica. Denis Kaufman (1856-1954) conosciuto meglio come Dziga Vertov, È un giovane affascinato dalle avanguardie artistiche del movimento futurista, che condividevano l'orrore per il realismo. In particolare, il giovane Kaufman è attratto dal rifiuto dell'estetica tradizionali, dalla tensione al cambiamento del futurismo, che da Italia e Francia stava dilagando in tutta Europa, questa giovane corrente estetica esalta il ritmo, il rumore delle macchine, la velocità, modernità, l'ingresso del rumore nel mondo della musica, il rifiuto della sintassi in favore di una successione veloce ed onomatopeica di parole... l'obiettivo dichiarato dei Kino-Pravda È quello di cogliere la realtà del momento in cui si sta sviluppando. Non ci sono sceneggiatura: Vertov indica gli obiettivi, forniva istruzioni di massima, ma lasciava ampia libertà e cameramen. Le riprese sono realizzate in fabbriche, scuole, strade, osteria, spesso con cineprese nascoste; alle persone non viene mai chiesto di compiere azioni appositamente per il esplorano i modi non consueti le possibilità di linguaggio cinematografico cercando di emanciparlo dalle consuetudini narrative più note. 4.2 Le sinfonie metropolitane In questo contesto di ricerca artistica cinematografica nascono le cosiddette “sifoni metropolitane”, dal nome dell'opera di Walter Ruttmann: Berlin - Die Sinfonie der Grosstadt (sinfonia di una grande città, 1928). Egli nel 1917 avevo scritto un libro in cui trattava la questione dei rapporti fra cinema e arte, e qualche anno dopo, sotto l'influenza del movimento dadaista, aveva creato alcuni film sperimentali con forme geometriche movimento. Ruttmann collocava la cinematografia nel campo delle arti figurative, e aveva anche inventato un metodo per “animare “i quadri: immagini dipinte sul lastre di vetro venivano deformati con l'aiuto di specchi fotografati uno dopo l'altro. Con questa cultura visiva alle spalle, e avendo certamente conosciuto anche il lavoro di Pier Tom, il regista segue un percorso che dal film astratto lo porta a realizzare la sinfonia. Il documentario è un ritratto della città all'epoca di Weimar, costruito con un montaggio che segue criteri ritmico-musicali, in cui l'aspetto informativo tipico del genere si rivela secondario rispetto lo sforzo creativo di rappresentare non tanto Berlino, quanto i ritmi di una grande città moderna. Il film è infatti un omaggio alla modernità, Strutturalmente si presenta come un'opera articolata in cinque atti, ciascuno con un titolo; una sinfonia di Edmond Meisel suonata da un'orchestra accompagnava, nelle sale cinematografiche più grandi, questa vero e proprio sinfonia visiva, all'interno della quale sono riconosciuti i ritmi e patterns che si ripetono; le persone possono farne parte ma non sono mai protagonista in quanto tali. Il compositore interpretare sequenze come veri e propri temi da tradurre note, di quale elaborò una trascrizione musicali che segna l'andamento di ogni momento del film. Uno dei simboli che nell'opera d'arte futuristi che caratterizzano la modernità è la velocità, Associata ai macchinari industriali dei mezzi di trasporto, le automobili, i treni, gli aerei. Le prime sequenze di Berlino raccontano, attraverso montaggio veloce di immagini a volte quasi astratte, l'ingresso del treno in città, con un alternarsi rapido, grafico, di linee. La città è ancora addormentata adesso e le saracinesche sono ancora abbassate, poi, poco a poco Berlino si sveglia, ed il ritorno alla vita è segnato da una memorabile serie di finestre e saracinesche dei negozi, che si aprono come se fossero occhi della città. Ogni tipo di macchinario riprende vita. Il montaggio è guidato dalle similitudine dei contrasti visivi piuttosto che da logiche narrative, segue la fascinazione di Ruttmann per la forma degli oggetti, per i movimenti, per le ripetizioni di gesti simili. La novità espressiva del film viene accolta in modo contrastante, e suscitò anche critiche e polemiche. Una delle accuse rivolte a Ruttmann fu quella, comune in quell'epoca di forti contrasti ideologici, di aver trascurato una visione sociale, politica, economica di Berlino. Berlin contribuisce in modo importante ad un vero e proprio filone di racconti sulle città, analoghe “sinfonie” in cui si cercava soprattutto di catturare le impressioni, suggestioni, i ritmi. Alberto cavalcanti, autore di origine brasiliana con antenati italiani aveva fatto uscire, l'anno prima del film Berlino, Rien que les Heures (1927). È molto simile al racconto di Ida di una Parigi che si sveglia; a mezzogiorno tutti si fermano per mangiare, e lo sguardo dell'autore si sofferma sulla crudeltà della macellazione, sulla voracità umana, sui rifiuti che si accumulano. Non è un film di Hollywood, ci sta dicendo Cavalcanti, siamo nella vita vera. Sempre in Francia Jean Vigo compone, A 25 anni, un ritratto di Nizza, città in cui è costretto a soggiornare per motivi di salute. A propos de Nice (1930), Con le riprese di Boris Kaufman, fratello collaboratore di Vertov, viene definito da Vigo “punto di vista documentato”. | principi estetici erano quelli della Kino-Pravda, e le riprese venivano effettuate senza che le persone se ne accorgessero. Nella città da ritrarre Vigo si è allontanato dai film sulle metropoli, e sembra non subire il fascino futurista delle macchine o della velocità, piuttosto sembra influenzato dal movimento surrealista. Nel 1930, il secondo congresso del cinema indipendente di Bruxelles, Viggo aveva incontrato due registi Ivens e Storck. II film di quest'ultimo Trains de plaisir è sarcastico, simile a quello di Viggo: i bagnanti ammassati nelle spiagge sono rappresentati in modo più che ironico quasi grottesco. L'altro film di Ivens non aveva portato nessun film al festival anche se ne aveva già girati alcuni. Si segnala il suo successivo che è Pioggia (1929), che questa estetica dello sguardo, della sensazione, raggiunge una forma perfetta. Il film racconta l'impressione di una giornata di pioggia ad Amsterdam. Negli USA, Ancor prima che il termine di “sinfonia metropolitane sinfonie venisse cognato, il tema della città stava traendo alcuni autori. Steelers con Manhattan (1921), inno a NY. E perfino Flaherty rimane affascinato dai grattaceli di NY e produce The 24 dollar Island (1925). Anche in Italia qualche regista cerca di rendere il senso della città attraverso emozioni, sensazioni, tenta di passare dalla descrizione di luoghi all'evocazione di esperienze. Stramilano (1926), di Corrado d'Errico, senza raggiungere i belli dei film citati fino ad ora, ha un impianto narrativo simile a quello di altre sinfonie metropolitane: le prime immagini raccontano inizio della giornata all'alba, con strade vuote nebbia, i primi tram, poi il ritmo cresce con l'avanzare della giornata, il lavoro nelle fabbriche eccetera. 5. Il documentario sociale inglese Tra la fine degli anni 20 l'inizio della seconda guerra mondiale in Inghilterra vengono prodotti oltre 300 documentari. Maggiormente sono lavori accomunati da una concezione condivisa di cosa sia e cosa debba servire un documentario. L'artefice principale di questo movimento è John Grierson (1898-1972), fondatore della principale scuola documentaristica britannica, che a partire da anni 30 influì profondamente sull'industria culturale inglese. 5.1 Grierson, la drammaturgia del quotidiano Nel 1924 Grierson Si reca in USA, dove studia scienze sociali all'Università di Chicago e si specializza negli studi sulla formazione della pubblica opinione psicologia della propaganda. Inoltre viene a conoscenza delle critiche che Walter Lippman, i libri come public opinion, elabora nei confronti delle democrazie, colpito dal suo pessimismo rispetto al fatto che i normali cittadini votanti potessero elaborare un'opinione informata, perché mancavano sia di fonti di informazione che tempo per riflettere. A partire da questa analisi il regista giunge ad individuare nel cinema, ed in particolare nel cinema documentario, un'arma per combattere questo rischio di apatia collettiva. | documentari devono presentare cittadini le tematiche e i soggetti sociali vicini alla vita quotidiana; ma la vita quotidiana deve diventare un soggetto appassionante, in grado di suscitare riflessione motivazione. L'obiettivo del documentarista deve essere quello di “dirigere l'occhio delle persone verso la propria storia, ciò che sta accadendo sotto al naso... Sul dramma della porta accanto". Questo proposito diventa la missione per regista, che giungerà ad affermare “considero il cinema come un pulpito”. Negli Stati Uniti incontra anche Flaherty, e per il suo film Moana conierà il termine “documentary” spesso si riferisce a regista come il padre del documentario nonostante si abbiano un rapporto controverso. Nello stesso tempo però non condivide la passione di Flaherty per i luoghi lontani, esotici o primitivi. Da questo punto di vista Grierson si sente più vicino ai registi sovietici dell'epoca e al loro impegno sociale. Nel 1927 Grierson torna in Inghilterra dove, con il contributo del governo, ottiene finanziamenti per produrre Drifters (1929), l'unico documentario in cui appare come regista. Il film racconta la pesca delle aringhe nei mari del nord, e si rivela completamente diverso da quanto prodotto all'epoca nell'industria cinematografica inglese o americana. La novità consisteva nel fare riprese che non erano quasi per nulla programmate da una sceneggiatura, e non era neppure tanto comune trasferire mezzi di ripresa in una situazione così dura come quella di una piccola barca nel mezzo di una tempesta. Questo film semplifica l'idea di Grierson su documentario, in particolare quella “drammaturgia del quotidiano” che alla base della sua opera; il lavoro di documentarista è scrive Grierson: “un'impresa condotta nel campo dell'indagine sociale”. Questo intento sociale utilizza tutti gli strumenti linguistici del cinema, le drammatizzazioni, i primi piani, montaggio accurato. La narrazione non deve trascurare l'elemento creativo anche quando il soggetto non è suggestivo poetico. 5.2 La Film Unit per la “propaganda della democrazia” Il successo di drifters facilità realizzazione di un grande progetto: fondare un gruppo di documentaristi che lavorino per la “propaganda della democrazia”. Nel 1928 il regista aveva iniziato a lavorare nell'Empire Marketing Board, un'istituzione con il compito di fare aumentare l'impero britannico rafforzando gli scambi ed il senso di appartenenza tra le varie parti. Le prime persone che Grierson ha intorno a sé nel Film Unit sono giovani entusiasti, accomunati da una visione del mondo socialista, che vedono nel documentare la possibilità di “raccontare le persone comuni ed innalzare la dignità del loro lavoro, fornendo un'immagine diversa dallo sguardo capitalista. Bisogna portare i lavoratori sugli naturalistici, igienico-sanitari, pellicole sull'agricoltura, narrazioni di paesi del mondo, opere su temi storico paesaggistici ed altro. Contemporaneamente, mentre in Europa si stava affermando la dittatura nazista e fascista, in molti paesi crescevano movimenti che combattevano contro il diffondersi di queste ideologie, utilizzando come strumento di lotta anche il cinema documentario. 6.1 L'estetica del potere: Leni Riefenstahl Quando Hitler, nel 1933, conquista il potere in Germania, il compito affidato i mezzi di comunicazione il paese è quello di celebrare regime nazista e la gloria del suo dittatore. Nel giro di poco Goebbels riorganizza tutta quella che è la filiera cinematografica tedesca il risultato è il rapido declino dell'attività cinematografica, in particolare quella documentaristica, che fino a pochi anni prima aveva prodotto esempi di grande qualità. Helena Berta Amalia Riefenstahl Nasce a Berlino 1902. È ballerina e attrice prima diventare regista, dedita soprattutto a un genere particolare di film, i “film di montagna”, l'equivalente tedesco dei western americani in termini di epica, avventure, eroi e virtù nazionali. Tra i suoi ammiratori c'è anche Hitler.nelle sue memorie la regista racconta in modo quasi dimesso l’inizio dei rapporti con il Fuhrer. Nasce così, con una offerta difficile da rifiutare per una giovane regista ambiziosa, Sieg des Glauber (La vittoria della Fede, 1933), Un breve filmato finanziato dal partito nazista e, pare, osteggiato con cavalli burocratici da un Goebbels offeso. Il film riscontra un gran successo in Germania, ovviamente, ma non nel resto del mondo. In effetti ci fu ampiamente proiettato all’interno della Germania; si calcola che in sette mesi di vita lo avessero visto più di 20 milioni di persone in praticamente tutte le istituzioni. Pochi mesi dopo il Fuhrer incarica di nuovo la regista di dirigere il film che dovrà celebrare il trionfo del nazismo e documentare la più grande parata mai vista, quella che a Norimberga, l'anno successivo, dal quattro al 10 settembre 1934, dovrà annunciare a tutto il mondo la nascita della grande Germania. E nelle sue memorie la regista afferma di aver cercato di sottrarsi e di non fare il film, sostenendo con Hitler di non essere in grado di realizzarlo perché” non distingueva una SA dalle SS”. Ed infatti il Trionfo della volontà viene girato con mezzi allora straordinari: una troupe di 172 persone, che poi riprese aeree, attrezzature costruito appositamente per permettere inquadrature speciali, con altri punti di legno che sovrastano le strade dove sfilerà la parata. Il Fuhrer aveva infatti chiesto “un documento visivo artistico”, il che rappresenta una sfida per la regista. Riefenstahl lavora al documentario Per un anno, aiutata anche da Ruttmann; Il film riscuote successo non solo in patria - dove peraltro non poteva esserci molta competizione, visto che il ministero per la propaganda esercitava la 1933 pieno controllo sulla produzione cinematografica e sulla distribuzione - ma viene omaggiato con premi anche alla Biennale di Venezia del 1935 e al Paris film festival del 1937. La sequenza iniziale del film famoso nella storia del cinema. Dopo titoli di testa, appare un cielo ripreso dall'altezza dei banchi di nuvole che lo coprono, le nuvole si aprono, lo sguardo si abbassa, comincia ad apparire Norimberga vista dall'altro, percorsa da truppe in marcia, piccole come giocattoli, come una fila di formiche che si snoda nelle strade della città. L'ombra di un aereo, come quella di un aquila, percorre la città; poi lo sguardo comincia ad abbassarsi, l'aereo atterra sulla pista. Tra le ovazioni del pubblico discende Hitler. Tutto ciò richiama ovviamente l'iconografia divina: quasi una traduzione in immagini di un verso del nuovo testamento. Il resto dei film è diviso in 13 capitoli, ed è caratterizzato da inquadratura curata e con un'alta qualità fotografica, che descrivono la preparazione della parata, gli accampamenti dei partecipanti, poi, in un crescendo, le imponenti, gigantesche parate, esibizione di potenza, le folle festanti che accolgono Hitler tra gli applausi. L'architetto Speer Aveva allestito la scenografia del congresso come la celebrazione di un rito, di un culto che intrecciò la tradizione dei costumi nazionali e nuovi simboli di nazismo-L'Aquila, la svastica. Ovviamente, e non poteva essere altrimenti questo contesto di produzione, non mostra nessun elemento che possa introdurre anche minimamente un segnale di discordanza. Al contrario, la regista contribuisce a creare un evento, aiutata in questo da un indubbio talento, da una ricerca estetica che si esercita nelle riprese nel montaggio, favorito dalla collaborazione con Ruttmann. Il documentario, molto potente, è caratterizzato da pochissimo parlato. | film concedere la parola praticamente solo i discorsi Hitler e gli altri gerarchi, o di alcuni partecipanti che in un rituale bene orchestrato gridano i nomi delle zone del paese da cui provengono, per sottolineare l'adesione della grande Germania. Krakauer riporta, nel suo film Propaganda and the Nazi War Film (1942) che, secondo Riefenstahi, “i preparativi per il Congresso del Partito vennero fatti in concerto con i preparativi per il lavoro della macchina da presa”; il film è comunque un complesso intreccio tra realtà e messa in scena. Fino agli ultimi anni della sua lunga vita, Leni ha sempre sostenuto di aver solo ripreso ciò che stava succedendo in quei giorni; di non aver girato un film di propaganda, di aver semplicemente fatto bene il suo lavoro di regista. Del resto Walter Traut racconta che, a differenza di quanto andava affermando Riefensthal anche nelle sue memorie, non è vero che alla regista fosse stato chiesto di riprendere la manifestazione di Norimberga; era stata lei ad offrirsi per realizzare il Trionfo della volontà. Il 1949 lei affronta un processo dal quale esce assolta; la sentenza dichiara che la regista non si era mai direttamente impegnata nella propaganda del nazismo. È difficile concordare con questa rozza demarcazione tra propaganda e documentario. Secondo la sentenza selfie si è rivelato efficace strumento di propaganda (...) Non può essere ascritto alla volontà dell'artefice. Certamente il suo film non è equiparabile alla propaganda molto più grossolana che circolava in quell'epoca; ma è difficile sostenere, per esempio, che la sequenza iniziale non evoca lo sguardo dall'alto di un Dio, che poi scende sulla terra. Anche il film successivo della regista, Olympia, sulle olimpiadi del 1936, è un incarico di Hitler. Il Fuhrer non provava particolare interesse nei confronti dello sport ma coglieva bene il potenziale di propaganda internazionale che un simile soggetto avrebbe potuto arrecargli. Anche questo che si apre con un'inquadratura dall'alto, e con immagini di nuvole; poi una eroica figura solitaria, un giovane vestito d'antico greco, si trasforma in un atleta del Reich che emerge dalle fiamme con la torcia olimpica in mano. L'estetica nazista è molto presente, ma la regista riprendere anche atleti non ariani, tra i quali l'afroamericano Jesse Owens, vincitore di una medaglia d'oro. La Riefenstahl fu apertamente criticata dalla Anti-Nazi League e da molto mondo del cinema, incitato da regista Fritz Lang e dagli altri cineasti tedeschi espatriati a causa del nazismo. Con la fine del nazismo termina anche la sua carriera cinematografica. Diventa fotografa e nel 1972 fotografa alle olimpiadi a Monaco per conto del Times. Ma una sua mostra ad Amburgo è accolta con proteste e cartelli del tipo “non si commercializza l'estetica nazista”. Le accuse di compromissione con il nazismo, e le sue negazioni, l'accompagnano per tutta la sua lunga vita. Nell'83 e di nuovo al centro di un processo; questa volta è lei ad inventarlo contro la regista tedesca Nina Gladitz, e la accusa di diffamazione. E solo negli ultimi anni della sua vita che, quasi novantenne, la regista riesce a realizzare un altro documentario. Underwater Impressions (1992) riprende la vita sottomarina nell'oceano indiano, dove i pesci ambiente subacquee sono i protagonisti di riprese girate per mezzo di 2000 immersioni. L'anno successivo invece sarà soggetto di un lungo documentario dire Ray Muller, The Wonderful Horrible Life of Leni Riefenstahl, nel quale continua a proclamarsi innocente dall'accusa di aver aderito al nazismo. Muore nel settembre del 2003, a 101 anni. 6.2 Documentaristi impegnati in Europa Negli anni che preparo la seconda guerra mondiale molti documentaristi in Francia, nella Spagna repubblicana, in Belgio, in Olanda, sono animati da un forte impegno politico che sfocerà nell'adesione alle idee socialiste, antinaziste e antifasciste, che in alcuni casi in una dichiarata simpatia verso l'unione sovietica. In Francia, in occasione delle elezioni generali, Jean Renoir lavora ad un film di propaganda elettorale finanziato dal partito comunista francese: La vie est à nous (1936). Il film è composto da scene di scioperi e manifestazioni, interviste, montaggio di immagini di repertorio, il tutto realizzato con attenzione agli aspetti estetici e qualche traccia di ironia. Sempre in Francia, aveva realizzato nel 1928 il film La Coquille et e le Clergyman ritenuto uno dei migliori prodotti della cinematografia surrealista. Qualche anno dopo, nel 1936, il suo i mercanti di cannoni è un film tutt'altro genere: una denuncia dei mercanti di guerra nel solco di un internazionalismo comunista. Anche Luis Bunuel compie il percorso dall'arte verso l'impegno politico; nel 1932 il regista dirige il suo unico documentario di 22 minuti, Las Hurdes (Land without bread) Che arriverai le condizioni incredibilmente misere in cui vivevano gli abitanti di una delle regioni più povere isolate della Spagna. Guardando il film si prova un senso di orrore che nasce anche dalla sensazione che l'autore ritenga la condizione di questi poveri uomini, donne, bambini non destinato a cambiare-certamente non nel breve periodo-perché la società non sarà il rimedio ma la causa stessa della loro condizione. La lotta antifascista del popolo spagnolo coinvolge anche un altro documentarista europeo, Joris Ivens, all'ambiente prodotti dallo sfruttamento controllato delle risorse, disboscamento prova causale cesso di coltivazione eccetera. Ricordiamo anche un altro film, The Fight for Life (1940) che mescola fiction e documentario e usa sia attori che protagonisti reali. Si narra la lotta di un giovane medico che, in un quartiere degradato, combatte contro le malattie e rischi di morte che minacciano le gravidanze nelle situazioni più povere. Lorentz lavorò anche in film non prodotti dalla sua agenzia. Per esempio, regista collaborò al soggetto e ai testi di The City (1939) di Steiner e Dyke, Che raccontava l'importanza storica delle piccole città rurali americane e denuncia valore delle baraccopoli urbane frutto dell'industrializzazione, ed i problemi delle città moderne. Dal punto di vista stilistico questi film utilizza uno stile meno dichiaratamente propagandistico rispetto a quelli usati dalle dittature, ma l'obiettivo di chi li produceva era comunque quello di promuovere la politica del governo. Nel 1940 Lorentz diede le dimissioni, sì ero l'uomo e la variazione e trascorse gli anni della guerra filmando le missioni aeree. 6.5 La guerra vista da vicino: John Huston in USA Il governo americano bisogno di una propaganda capillare per riuscire a mobilitare la nazione contro un nemico come il nazismo, lontano e che apparentemente non costituiva per il paese una minaccia diretta. La macchina da presa diventa allora parte della dotazione di ogni aereo da guerra, e ogni azione bellica, ogni battaglia, ogni sbarco vengono documentati con filmati e fotografie: mai come in questo momento la spettacolarizzazione la propaganda erano state armi indispensabili per la guerra. Registi di fiction famosi come Ford, Stevens, Wyler e Houston dirigono i documentari che lo Office of War Information produce per motivare un notevole sforzo bellico che impegnava i soldati americani in luoghi lontani dalla patria. Frank capra coordina la famosa serie Why we fight; è realizzato con uno stile narrativo che si differenzia dal cinema di propaganda più diffuso in tempo di guerra; il tono non è enfatico ma calmo, argomentativo, coinvolgente; i documentari supervisionati da capra utilizzano spesso anche materiali d'archivio non girati appositamente per la propaganda. In un primo episodio Prelude to war (1942) È curato dallo stesso capra, che assembla filmati di archivio su Mussolini di Claire con scene che invece c'è sono state ricostruite. The Battle of San Pietro era stato commissionato dal Dipartimento di guerra per spiegare ai cittadini americani motivo per cui le loro forze armate stavano procedendo attraverso l'Italia molto più lentamente del previsto, il film successivo Let There Be The Light (1946), venne prodotto dal governo per mandare un messaggio di incoraggiamento ai reduci di guerra: anche le ferite psicologiche dovute ai traumi di guerra potevano essere curate e guarire. Il film non fu disponibile per la visione fino al 1980, date una serie di obiezioni tra le quali il timore che i veterani avrebbero potuto far causa per essere stati filmati, nonostante i consensi scritti e ripresi raccolti. La vicenda di questi film di John Huston rappresenta un contributo utile alle riflessioni sul tema dell'etica, della responsabilità personale dell'autore, e dei rapporti tra autore e committenza. 6.6 L'umanità non si può rimandare al dopoguerra: Humphey Jennings in U.K. Humphrey Jennings ha girato durante la guerra alcuni film che seppure realizzati con un obiettivo patriottico, rivelano uno spessore non riconducibile alla pura propaganda, e sono stati considerati tra i più suggestivi documentari realizzati ai quei tempi in Gran Bretagna. Egli si interessava di arte, poesia, pittura e nel 1936 era tra gli organizzatori della prima mostra surrealista in Gran Bretagna. Successivamente, dopo essersi unito al GPO diventato Crown Film Unit, gira una serie di film dedicati al Regno Unito in guerra: London Can Take It (1940), Listen to Britain (1942), Fires were Started (1943), Diary of Timothy (1945). | suoi documentari sono piuttosto inconsueti: non arringano il popolo, non gridano verità, non incitano, non denigrano un nemico; il tono è pacato anche di fronte ad eventi drammatici, il regista osserva, e offre al pubblico spunti di riflessione ed occasioni per emozionarsi. Jennings è uno sperimentatore del suono, la fotografia è molto bella; rispetto allo stile dell'epoca usa meno la voce fuori campo e molto di più spezzoni di dialoghi colti dal vivo e musica. | documentari di guerra di Jennings sono tutti caratterizzati da questo sguardo dolente, quasi affettuoso, da una sensibilità schiva che non diventa sentimentalismo, e sono in grado di emozionare ancora oggi. 7. La vita in diretta 7.1 Mutamenti tecnologici e di sguardo All'inizio degli anni ‘60 una serie di innovazioni tecnologiche trasforma gli strumenti per registrare suono ed immagini e cambia profondamente le possibilità di fare cinema in generale, e soprattutto di fare documentario. Fino ad allora erano 35mm, le nuove cineprese sono più piccole, più leggere e maneggiabili, e i cineoperatori possono muoversi con un'agilità fino ad allora sconosciuta. Lo zoom, la nuova pellicola e un po' tutte le attrezzature e quindi l'insieme di nuove risorse tecniche produce come risultato la possibilità di filmare in molte più situazioni. Anche le tecnologie di riproduzione del suono offrono notevoli innovazioni, che le portano nella direzione di una maggiore facilità e spontaneità di registrazione. Il cambiamento si produce con l'invenzione e la veloce diffusione del registratore portatile, che finalmente permette ai tecnici di uscire spesso dagli studi e registrare suoni e voci nei luoghi d'origine. Il passo successivo, determinante, possibilità di registrare sincrono suoni ed immagini senza che cinepresa registratore debbono essere collegati con cavi ingombranti, che limitano i movimenti della troupe e li rendono meno agili. Verso la fine degli anni 60 poi, l'invenzione del registratore video portatile rivoluziona la registrazione televisiva, che può realizzare riprese di buona qualità sul campo, senza necessità di lunghi cavi. Inoltre il suo costo, molto inferiore a quello della pellicola, rende possibile uno stile di ripresa di buona qualità sul campo, senza necessità di lunghi cavi. Tutte queste innovazioni tecnologiche producono cambiamenti profondi nelle possibilità del cinema, e si intrecciano con la nuova sensibilità che cresce negli anni 60 verso fenomeni sociali “dal basso”, verso protagonisti non solo noti, verso culture e linguaggi che fino ad allora non ho trovato molto spazio nel cinema. Diventa più facile immergersi nei diversi ambienti sociali, seguire soggetti nei luoghi dove si svolgono loro azioni, e con la registrazione sincronizzata a farsi che i protagonisti esprimono direttamente le proprie idee facendo sentire la propria voce. Diventa anche più facile la registrazione in presa diretta, e questo trasforma le potenzialità espressive del cinema documentario. 7.2 Cine Vérité e direct cinema Nelle diverse parti del mondo il cinema che sfrutta le nuove tecnologie per immergersi più possibile la realtà produce correnti filmiche che hanno molti punti di contatto ma anche alcune caratteristiche distinte; i loro nomi sono cine verité in Francia, direct cinema in America e Canada, free cinema nel Regno Unito. Qualche anno dopo un Bill Nichols userà anche la definizione di observational cinema. | principali poli di sviluppo che promossero questa effervescenza creativa furono il Comité du Film Ethnographique a Parigi, il gruppo Leacock-Drew negli USA, /’Office National du film (ONF) in Canada. Tra Direct cinema e cine vérité ci sono molti punti in comune, e anche molte differenze. Entrambi condividono la ricerca della realtà nella sua immediatezza e spontaneità; entrambi rifiutano il cinema “patinato” e non considerano come errori immagini imperfette. La diversità tra le due correnti riguarda soprattutto il ruolo che il film-maker gioca nel momento in cui riprende la realtà, la relazione che stabilisce con i soggetti del film con la situazione, se e quanto può o deve intervenire direttamente per modificarla. Il direct cinema americano, nato da Robert Drew, un fotogiornalista di time-life, dichiara di voler riprendere gli eventi del momento in cui si realizzano, senza (evidenti) interventi del regista che possano modificarli. Una delle differenze chiave tra il direct cinema e il documentario descrittivo che lo precede, è proprio il rifiuto di girare scene predisposte per la ripresa. Questo sguardo “diretto” accentuato dal fatto che il dire il cinema propone il pubblico film senza nessun commento fuori campo che guidi l'interpretazione dei fatti e suggerisco il senso da attribuire alle immagini. Un altro elemento induceva nello spettatore la sensazione di star spiando la vita degli altri: il montaggio aveva spesso un ritmo dilatato, non escludeva a priori sequenza in cui sembrava non accadere nulla di significativo da un punto di vista narrativo, scene in cui le persone semplicemente continuano a fare le cose che stavano facendo, loro “vita normale”... È proprio questo tipo di montaggio che ammette tempi dilatati ad offrire allo spettatore la sensazione di essere presente mentre l'azione si stanno svolgendo, sta guardando eventi che si sarebbero svolte nello stesso modo anche senza la presenza della cinepresa. In Francia il movimento chiamato cine vérité ha in Jean Rouch, un antropologo, ed Edgard Morin, sociologo, gli esponenti più prestigiosi. Secondo questo tipo di cinema non ha senso pretendere che il regista cerchi di diventare “invisibile” per non modificare la realtà; al contrario, bisogna sfruttare proprio la capacità della d'ordine, picchiarono violentemente alcune persone che cercavano di salire sul palco o non seguivano le istruzioni, finendo per uccidere un uomo. Il film venne criticato, in qualche modo complice dell'omicidio non avendo intervenuto in alcun modo se non filmando. “Gimme Shelter è come il circo romano, con una differenza: il pubblico e le vittime non sono distinguibili”. Il loro film successivo “Grey Gardens" (1975) riprende la vita di madre e figlia, Edith e Edie, rispettivamente zia e cugina di Jaceugeline Kennedy. Le due protagoniste appartengono all'alta società americana, ma cadute in povertà. Vivevano in condizioni deplorevoli e quando la notizia trapelò fu uno scandalo. | registi riprendono la loro vita senza nessuna retorica sentimentale. Come in altri film dei Maysles anche questo documentario fa emergere un lato oscuro, un sogno americano (quello della famiglia felice) alla rovescia, una caduta; però è anche il racconto della forza, di come vivere con creatività anche in una situazione estrema. Frederick Wiseman, dentro le istituzioni Con questo regista lo sguardo che il direct cinema all'inizio aveva rivolto soprattutto verso situazioni eccezionali o personaggi importanti si dirige invece verso persone comuni, luoghi che possono far parte della vita di molti cittadini. Spiega la sua poetica: la scelta di narrare le istituzioni, l’intrico di relazioni, sentimenti, conflitti, potere e sottomissione che vi albergano. L'idea da cui parte il regista è che se una istituzione è finanziata con fondi pubblici, i cittadini hanno il diritto di vedere cosa succede al suo interno; la documentazione diventa un diritto costituzionale. Il primo film è quello che gli creerà i problemi legali più seri. Titicut Follies (1967) denuncia le condizioni di cui vivevano i pazienti ricoverati a Bridgewater, un manicomio criminale statale del Massachusetts. Vinse diversi premi ma ne fu proibita la distribuzione dallo stato del Massachusetts, ne fu persino ordinata la distruzione di tutte le copie, più tardi solo nel 1969 venne permessa la proiezione ma solo per medici o addetti ai lavori. Era la prima volta nella storia americana che un film veniva bandito per motivi che non fossero di ordine morale o sicurezza nazionale. A partire dagli anni ‘70 alcuni film sono dedicati a contesti che non sono vere e proprie istituzioni, piuttosto luoghi in cui le regole vengono dettate non da leggi o regolamenti ma dalla cultura condivisa. Wiseman ha concentrato la sua attenzione sulla struttura, il funzionamento e le dinamiche delle principali istituzioni americane, mostrandone la complessità e le contraddizioni e mettendo costantemente al centro lo studio delle relazioni umane, sociali e ambientali. Per narrare queste realtà il regista è apparentemente fedele ai principi del direct cinema, all'estetica observational che prescrive che siano le situazioni stesse a rivelarsi, senza interventi apparenti da parte del regista, senza interviste, commenti fuori campo, musica. Il suo cinema ha le caratteristiche di un'indagine sociologica: mostrando il funzionamento delle istituzioni, i suoi film sono una implicita rivelazione della complessità dei meccanismi che vi albergano. È stato anche definito un cinema etnografico, che indaga non luoghi e modi di vivere storici, ma la cultura in cui lo stesso filmmaker è immerso. L'interesse principale di Wiseman non è l'estetica, il regista è mosso piuttosto dal rigore, da una presa di coscienza etica nei confronti della realtà. | suoi documentari costruiscono una sottile e potente critica ai luoghi comuni, agli stereotipi, e diventano un invito a ricercare la complessità, le contraddizioni insite nella realtà. È un modo di lavorare simile a quello di Vertov: gli accadimenti sono reali, mai recitati, e neppure ripetuti a favore della macchina da presa, ma il momento in cui si costruisce l'estetica e la narrazione è quello del montaggio. Il montaggio non segue sempre il reale svolgersi degli eventi; spesso le sequenze vengono accostate per analogia o contrasto, e questi avvicinamenti possono produrre effetti diversi, commento, ironia, denuncia ecc. 7.4 La cinepresa per provocare la realtà: il cine vérité di Rouch e Morin Sostenuti dall'antropologo-cineasta Rouch e dal sociologo Morin i documentaristi del cine vérité elaborano una concezione originale del rapporto tra soggetto e cinepresa, convinti che una situazione o una persona, quando vengono filmati, rivelino aspetti prima non palesi. La cinepresa diventa lo strumento per far emergere i lati nascosti o meno evidenti delle situazioni, l'atto di filmare un modo per esplorare gli aspetti reconditi, e questo processo può avvenire anche attraverso interventi diretti del regista nelle realtà che sta raccontando. Dal 1949 in poi Rouch non fa che ottenere riconoscimenti per i suoi lavori etnografici. Era lo sguardo nuovo che scuoteva sia il campo antropologico che quello cinematografico. La realtà che il cine vérité insegue è la verità di una situazione, di un incontro che nascono precisamente dal fatto che è presente una cinepresa. La relazione con i soggetti del film, la volontà di coinvolgerli nel processo di creazione del film, l'attenzione ai loro commenti pentire guardano le riprese diventerà un tratto caratteristico di molti lavori di Rouch. Uno dei primi film e dei più noti, Les Maîtres Fous (1955) viene girato in collaborazione con tre suoi amici africani, ci viene mostrato un rituale di possessione. Le immagini diventano via via più intense, fino alla scena del sacrificio di un cane che viene ucciso e mangiato. Il documentario suscita qualche adesione, scandalo, critiche. Apprezzato dai surrealisti, viene criticato dalle comunità nere, che accusano Rouch di aver realizzato il film con uno sguardo colonialista, sia per le immagini, che riproposte a Parigi, fuori contesto, suggeriscono un'idea di primitivismo e ferocia. Nel suo film successivo Moi, un Noir (1958), Rouch cambia radicalmente lo stile del commento. Il film ha come protagonisti alcuni giovani emigranti nigeriani che vivono in uno slum di Abidjan, in Costa d'Avorio. Il film racconta i loro sogni ad occhi aperti, le delusioni, i contrasti con la modernità. Molti momenti sfiorano la fiction, perchè il regista aveva chiesto agli attori sociali di recitare la loro vita davanti alla cinepresa. Quando i protagonisti rivedono il girato in sala di montaggio, i commenti spontanei vengono registrati, assieme alle divagazioni ecc. Era la prima volta che in un film un africano parlava della sua vita, dei suoi sogni. Qualche anno dopo Rouch esce con Chronique d'un été (1961) che è considerato il punto di svolta del cine vérité; invece di visitare una cultura lontana e cercare di registrarne i costumi locali in modo scientifico, insieme a Morin, investigano la “strana tribù che viveva a Parigi”. Rouch continua a girare film in Africa ed EU fino al 2004, quando morì in un incidente automobilistico in Niger, mentre di notte viaggiava verso la capitale. La sua pratica di mettere in discussione il paradigma dell'obiettività e di esplorare invece la relazione che si instaura tra osservatore ed osservato è diventata una lezione centrale nell'antropologia e nel film documentario. La cinepresa per provocare la memoria: Le Chagrin et la Pitié di Marcel Ophuls Vogliamo ricordare questo film del 1969, noto esempio del cine vérité, in cui la macchina da presa ha funzionato come “agente provocatore della realtà”. Il lungo documentario, diviso in due parti, tratta del periodo in cui la Francia cadde sotto l'occupazione del regime nazista, e indaga il tema scottante delle reazioni della popolazione, del collaborazionismo e delle sue motivazioni. Ciò che emerge dal film è la mancanza di reazione del popolo francese, come siano state poche le persone che si ribellarono agli invasori nazisti, per paura, ma a volte anche perché pensavano che infondo quanto stava succedendo fosse il male minore. Uscì nel 1971 ma sollevò un ondata di discussioni, finì bandito per dieci anni, e la sua controversa vicenda testimonia la carica di provocazione che il cine vérité può far detonare, quando la cinepresa non si ferma alla superficie della realtà ma va alla ricerca degli aspetti più complessi e meno noti. Minamata. Cine vérité per lottare in Giappone Il regista Noriaki Tsuchimoto ha realizzato una serie di documentari (Minamata) tra i quali il più noto è Minamata, The Victims and Theory World (1971). Le donne, in Giappone, da anni a quella parte davano alla luce bambini deformi, le persone si indebolivano. Alla fine si scoprì che una fabbrica rilasciava in acqua mercurio che entrava in catena alimentare attraverso il pesce. Durante questo lavoro le vittime cominciano a rendersi conto di non essere sole, a viversi come gruppo. Si organizzano, e individuano una strategia per farsi ascoltare dalla società che aveva provocato il disastro ecologico. Sono cominciati gli anni ‘70, e in molte parti del mondo la cinepresa - e più frequentemente la telecamera- si stanno trasformando in armi usate in diverse forme di lotta. 8. Anni ‘70: la cinepresa (e il video) in mano al popolo Negli anni ‘70 in alcuni paesi, l'ampliamento dei contesti di proiezione: i filmati vengono usati nelle università, nelle assemblee di lavoratori, in biblioteche, scuole, a volte in strada; molto raramente nelle sale cinematografiche. Inoltre, come vedremo in seguito, negli anni ‘70 in alcuni paesi, in particolare in Canada e USA, i documentari troveranno sostegno e spazio anche nelle televisioni via cavo. A volte questi film che esprimono le frange più innovatrici in USA, continuo a lavorare dopo la morte del fondatore, diretta della moglie e collaboratrice, Judit Hampton. Marlon Riggs si è formato nel clima culturale di cui abbiamo parlato ed ha esplorato molti aspetti della vita dei neri americani. La notorietà, assieme alle polemiche, giunse a Riggs con un documentario trasmesso dalla televisione pubblica americana: Tongues United (1989), Un film che loro presenza sia come regista che come attivista per i diritti dei Gay, e che Rick ha voluto girare come sua eredità, il suo “ultimo dono per la comunità”. L'obiettivo del film è di trasmettere l'immagine di una identità nera e gay autentica, positivo, e di denunciare la cultura di massa americana, che, sostiene, rappresenta gli omosessuali neri come caricature comico-tragiche, con effetti devastanti sull'autostima dei gay neri. 8.3 Cinema, sostantivo femminile Fino agli anni 70 il ruolo delle donne nel cinema documentario è stato scarso, e comunque molto nascosto; non poche donne, però, hanno lavorato dietro le quinte. Quindi tranne casi molto rari, le donne nel cinema hanno partecipato a film non realizzati direttamente da loro. A partire dagli anni 60 qualcosa comincia a cambiare, insieme ai movimenti per i diritti civili, alle lotte contro il razzismo e l'apartheid, era iniziata le lotte dei movimenti di emancipazione, quelli di liberazione sessuale e femministi, preceduti da alcuni testi che fondavano teoricamente le azioni. Nel 949 Simone de Beauvoir pubblica in Francia Le Deuxième Sexe (Il secondo sesso), Un saggio fondamentale che apre la strada la discussione sulla condizione femminile, mentre fa il punto sulle conoscenze biologiche, storiche, antropologiche e psicoanalitiche sulla donna. Qualche anno dopo Betty Friedan pubblica negli USA The Femmine Mystique (la mistica della femminilità, 1964) Tenendo un grande successo. | movimenti delle donne trovano nel cinema documentario è uno strumento per la denuncia di condizioni considerate in accettabili, un mezzo di analisi storica, di ricerca e approfondimento di un'identità in profonda evoluzione. In Canada un'istituzione governativa inizia a finanziare le produzione di film realizzati e registi. Lo Studio D venne creato nel 1964 dal National film Board per produrre documentari realizzati da registe che introducessero uno sguardo di genere nella trattazione di temi sociali. Per parecchi anni allo Studio D lavorarono solo tre donne, con pochi fondi e risorse; nonostante ciò riuscì a produrre più di 125 film, tre dei quali vinsero premi internazionali, prima di chiudere nel 1996. Lo Studio D ha dato possibilità di formazione e di produzione a molte donne che hanno toccato argomenti spesso delicati e tabù come gli abusi sessuali, le relazioni lesbiche, la pornografia, l'aborto. Per questa sua sensibilità verso temi sociali è diventato un modello internazionale per gli studi di produzione di donne. Ricordiamo Not a Love Story: a film about Pornography (1981) di Bonnie Sherr Klein. Il documentario racconta la conversione di una stripper, che diventa un'attivista contro la pornografia e violenza sessuale. Suscitò accese discussioni tra chi lo riteneva troppo esplicito e chi troppo semplicistico. Women make movies (WMM), un'altra istituzione cinematografica legata all'affermarsi dei movimenti femministi, nasce a New York nel 1972. L'obiettivo dichiarato era quello di “combattere la sotto-rappresentazione e la rappresentazione distorta delle donne nell'industria dei media. È una organizzazione non-profit multiculturale, multirazziale, che facilita la produzione, promozione, distribuzione e proiezione di film indipendenti di donne con uno speciale interesse per il lavoro delle donne di colore”. Un'altra istituzione cinematografica fondata nei primi anni ‘70 che ancora oggi continua a lavorare è la New Day Films. Questa cooperativa di distribuzione, gestita completamente da film-maker, era nata originariamente in ambito femminista, e si è poi ampliata ad altri campi d'intervento sociale. In Italia ancora prima dell'onda ribelle del ‘68 Liliana Cavani gira uno dei primi documentari storici “dalla parte delle donne”. Le donne nella Resistenza (1965) venne realizzato, scriveva allora la regista “per rivolgermi alle donne che dopo la guerra si ritirarono di nuovo all'ombra dei tradizionali lavori domestici”, “rimesse al loro posto”. Ma è soprattutto negli anni ‘70 che si moltiplicano i documentari legati al movimento femminista, realizzati spesso in VHS, con pochi mezzi, e proiettati nei luoghi della politica, nelle assemblee, nelle riunioni. Loredana Rotondo, programmista regista in Rai, aveva già realizzato una serie di documentari per la serie Riprendiamoci la vita, con temi che andando dallo sfruttamento sul lavoro alla maternità: per la prima volta le telecamere erano entrate in una sala parto. Nell'autunno 1979 Processo per stupro, uno dei più sconvolgenti documentari prodotti in Italia sulla relazione tra i sessi, fu visto in televisione da nove milioni di spettatori; quelle immagini “abbattono tabù giuridici, visivi e di costume giornalistico”. Il film mostra cosa avviene in un'aula di tribunale quando una ragazza di 18 anni denuncia i suoi abusori. Il film destò grande emozione nel pubblico; il giorno dopo la messa in onda, nella prima pagine del “Corriere della sera” si leggeva: “adesso gli italiani hanno capito che cos'è uno stupro [...] abbiamo toccato con mano, non volevamo credere ai nostri occhi e alle nostre orecchie”. 2. Breve viaggio in Italia Gli anni ‘50 e ‘60 sono un periodo importante perchè costituisce un momento fondamentale del cinema documentario italiano come lo conosciamo oggi. Questi documentaristi hanno rivolto lo sguardo verso luoghi e persone dimenticate dalla cultura dell'epoca, hanno inquadrato corpi e volti segnati da povertà e fatica, ma anche da un'intensità oggi rara da incontrare. Prima di parlare di loro racconteremo brevemente il contesto che li precede, fortemente segnato dall'Istituto LUCE, creato dal regime fascista per scopi educativi e soprattutto di propaganda. 1.L'istituto LUCE Con la sua creazione a metà degli anni ‘20, il cinema documentario aveva assolto funzioni pedagogiche e poi, mano a mano che il fascismo si affermava, sempre più propaganda. L'unione Cinematografica Educativa venne creato da Mussolini nel 1924 con l'obiettivo di: “diffondere la cultura popolare e della istruzione generale per mezzo delle visioni cinematografiche, messe in commercio alle minime condizioni di vendita possibile, e distribuire a scopo di beneficenza, e propaganda nazionale e patriottica.” | primi titoli comprendevano alcuni filmati educativi, ed Aethiopia, un resoconto del viaggio in Africa orientale. Ben presto va accentuandosi la sua funzione politica, dal 1927, l'istituto produce assieme ai cortometraggi educativi e propagandistici, il Cinegiornale Luce. Nel 1926 una legge aveva garantito al LUCE il monopolio dell'informazione proiettata nelle sale cinematografiche stabilendo l'obbligo di programmare il suo Cinegiornale prima del film. Dove non esistono sale arrivano i camioncini del cinema mobile. Il regime attribuisce grande importanza alla funzione di propaganda, alla costruzione di una cultura di massa cui partecipavano gli eventi dal vivo, i programmi radiofonici dell'EIAR, i cinegiornali: è proprio in questi che il fascismo mette in scena la sua narrazione epica. Vengono prodotti anche film non governativi come Stramilano (1928) lo stile usato per assemblare questo ritratto impressionistico e con accenni futuristi di Milano ricorda quello delle “sinfonie metropolitane” rese famose da Ruttmann. Città descritta nell'arco di una giornata, soffermandosi sull'impresa tessile. Corrado D'Errico dirigerà poi Rivista LUCE (1934-35) una raccolta di servizi cinematografici voluta da Mussolini per esaltare lo spirito moderno del fascismo. In questi anni la casa di produzione Cines affianca l’Istituto LUCE nella realizzazione di brevi documentari per le sale cinematografiche. Il ventre della città (1933), sul mattatoio e i mercati generali di Roma, realizzata dal pittore Di Cocco. La cinepresa sovente sembra riprendere di nascosto, le inquadrature e i punti di vista sono spesso strani e spiazzanti, sangue degli animali e macchine di produzione raccontano il lavoro. Dettaglio importante è la voce fuoricampo assente. Nel ‘33 il LUCE riorganizza la produzione di cinegiornali e di documentari. La diffusione di questi film è affidata soprattutto ai Cine Guf, sezione cinematografica dei Gruppi Universitari Fascisti fondata lo stesso anno. Non sempre le posizioni di questi giovani produttori sono in linea con quelle importa dal partito, ma nel 1935 la produzione dei Cine Guf viene premiata nei Littorali della Cultura dell'Arte, che in quell'anno aprono una sezione cinema. Sempre nel 1935 il LUCE entra direttamente nella produzione cinematografica, dando vita all'Ente Nazionale Industrie Cinematografiche, ENIC. Nel 1941, grazie forse anche alla presenza sul mercato dell'INCOM (Industria Corto Metraggi) diretta da Ferroni, viene promulgata una legge che riconosce la possibilità che il 30% della produzione di documentari venga realizzato da case produttrici diverse dalla LUCE. Prodotti da LUCE, INCOM e alcune altre produzioni private, fra il 1938 e il 1943 in Italia vengono realizzati molti “film del reale”. L'audio ambiente non viene quasi mai usato e ancora meno il suono in presa diretta: le immagini, quasi sempre mute, vengono commentate dalla voce fuori campo e dalla musica. Ciò che manca all'audio viene compensato dall'immagine, molto ricercata, speso estetizzante, preziosa. Va ricordato che però non tutti i documentari venivano appiattiti alle esigenze di glorificazione del fascismo; nonostante le pressioni della rivista Difesa della razza, non venne mai girato un documentario che traducesse in immagini le teorie della supremazia ariana. Nei documentari dell'epoca non trovava quasi “tarantolate” pugliesi. Negli anni ‘50 de Martino compie una serie di missioni etnografiche nel Sud, raccogliendo materiali sulle manifestazioni magico- religiose, che erano ancora molto radicate. Egli riconosce il contributo che il cinema può dare alla sua ricerca. Più in generale le sue ricerche e i suoi soggetti ispirarono diversi film, ed il suo sguardo sul Sud influenzò un piccolo gruppi di cineasti che rimasero affascinati dalla sua concezione delle culture meridionali. Per de Martino le credenze magico- sincretiche svolgevano un ruolo importante nella vita delle fasce più abbandonato della popolazione. 3.3 Gianfranco Mingozzi, l'invenzione del reale Nella sua lunga carriera da regista si è confrontato con diversi linguaggi: documentario, fiction, biografie, ad anche televisione e teatro; appena uscito dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, nel 1960, collaborava con Fellini come assistente regista, prima ne La dolce vita poi in Otto e mezzo, D'altra parte per Mingozzi il cinema era una dimensione familiare, era letteralmente la sua casa. Uno dei primi documentari di Mingozzi, La Taranta (1962), nasce proprio dal lavoro che de Martino stava compiendo nella provincia di Lecce sul fenomeno delle crisi “guarite” con il ballo e la musica, e che porterà al libro La terra del rimorso. Il film ci immerge nella musica ossessiva per mezzo della quale una tara tata usciva dal suo stato isterico ballando per ore e ore, con un ritmo crescente, fino allo sfinimento. L'anno dopo Mingozzi gira un altro breve film, dove traccia un ritratto dell'infanzia palermitana, e di nuovo si avvale del commento di un poeta, questa volta Ignazio Butitta. Li mali mestieri (1963, 10°). Poi il suo interesse antropologico si sposta all'estero: Note su una minoranza (1964, 60') è dedicato alla comunità italiana in Canada. Qualche anno dopo Mingozzi torna a girare nel Sud Italia, e realizza uno dei suoi documentari più profondi e più duri: Con il cuore fermo: Sicilia (1965) che vince il Leone d'oro per il documentario alla Mostra del Cinema di Venezia. Inizialmente si trattava di un progetto sviluppato insieme a Zavattini: avrebbero dovuto girare un documentario in Sicilia per il quale avevano già previsto il titolo: La violenza. Ma il film risultava scomodo, pugno allo stomaco per chi non voleva che si parlasse di mafia; dopo il passo indietro del produttore, un gruppo di amici finanziò il film ma non era più possibile utilizzare il girato e nasce così il progetto che è arrivato ai giorni nostri. Il film è diviso in tre parti: la terra, la zolfara, la mafia. Anche in questo film si riproduce quel fruttuoso intreccio tra cinema e letteratura che caratterizza spesso questo periodo del documentario italiano: è uno scrittore siciliano, Leonardo Sciascia, a scrivere il commento. Il film analizza con profondità e poesia i mali antichi della Sicilia. L'inizio affronta il tema dell'emigrazione, narra la povertà dei contadini e la fuga verso il continente che sembra l'unica salvezza. Nella parte centrale la cinepresa scende nelle miniere di zolfo. Per la prima volta i minatori di zolfo vengono ripresi con uno sguardo rispettoso, in quegli anni le immagini si fecero sentire dato il boom economico, ricordavano l'altra faccia dell'Italia che sembra un altro mondo. Le ultime sequenze contrappongono i palazzi del potere a Palermo, luogo degli interessi e degli intrighi, con le riprese di bimbi incuriositi dalla mdp. | film successivi solo molto diversi: Michelangelo Antonioni - Storia di un autore (1966); Corpi (1969) e Per un copro assente (1968). Poi una pausa dal documentario per dedicarsi alla fiction ma l'interesse per l'antropologia e il Sud rimane: nel 1977 gira per la RAI Sud e magia, del tono meno poetico e più didascalico rispetto a quello che caratterizzava La taranta. Dopo anni torna sui luoghi di quest'ultimo e gira Sulla terra del rimorso (1982) ed è il tentativo di reicontrare i vecchi protagonisti come il violinista Stifani, capo dell'equipe musicale-terapeutica, ed anche la tarantata di Maria di Nardò. Nel 1982 il regista torna anche ad un'altra sua passione, il ritratto, con una serie di film dedicati al cinema. 3.4 Cecilia Mangini, passione e poesia Anche lei è una dei registri che subito o il fascino delle ricerche di de Martino. Intellettuale di grande passione politica, fotografa, regista, ha diretto oltre quaranta documentari. Il suo cortometraggio Stendalì - suonano ancora (1960) venne girato a Martano, un paese nella Grecìa salentina in provincia di Lecce; il testo fuori campo è di Pasolini. Il bellissimo piccolo film racconta il cordoglio rituale per la morte di un giovane che viene pianto dalle prefiche con canti e preghiere in lingua grida, la versione tramandata dal greco parlata in provincia di Lecce fino a qualche decennio fa. L'autrice riconosce il debito verso il lavoro di de Martino Morte e pianto rituale del mondo antico, che rivolgeva lo sguardo ad un'Italia da sempre ai margini della storia ufficiale. Stendalì non è stato l'unico lavoro in collaborazione con Pasolini: il suo primo documentario, un film che esplora le periferie cittadine: con Ignoti alla città Mangini va a conoscere e filmare quei ragazzi di vita raccontati da Pasolini, quelli delle borgate. Il film ottiene una denuncia per “istigazione a delinquere”, e vietato ai minori, ma ottenne un notevole successo a Venezia. Anche la canta delle marane racconta le imprese di un gruppo di giovanissimi ragazzi della periferie, tra furti, aggressioni e pestaggi, commentate dai testi di Pasolini. Allarmi siam fascisti! (1962), realizzato insieme a Dal Fra e a Micciché, è un film diverso, che abbandona l'indagine antropologica per quella storica. Il documentario è composto interamente con filmati di archivio, e copre un arco di tempo che va dall'inizio del Novecento fino al 1960. Il fascismo è indagato a partire dalle sue origini, dall'appoggio del capitalismo agrario e industriale fino alle sua successiva ramificazione nei paesi europei; e il film denuncia le tracce che ha lasciato nella cultura e nella politica italiana anche dopo la fine della guerra. Seguiranno lavori come Tommaso (1965) 18enne che ambisce ad un posto in fabbrica, non ha più nulla dei protagonisti di Ignoti alla città. Torna poi a confrontarsi con Pasolini, questa volta dopo la sua morte, con Comizi d'amore 80 (1984). Il suo ultimo lavoro è del 2013, ambientato tra gli operai dell’'Ilva di Taranto. 3.5 Luigi di Gianni, filosofo regista Laureato in filosofia e con un diploma in regia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, è un singolare regista che ha girato oltre sessanta documentari, anche alcune fiction televisive, cortometraggi di finzione sperimentali... | suoi film indagano in particolare l'intreccio tra il cattolicesimo ed i riti pagani nel Sud Italia, la fatica del lavoro, la vulnerabilità dell'uomo schiacciato dai poteri, da forse sociali e naturali: le persone dei film di Di Gianni sembrano sempre in balia della vita, di qualcosa di più grande. Gran parte del suo lavoro è contraddistinto dall'attenzione verso gli ultimi. | suoi brevi film antropologici invece, parlano dalla durezza del lavoro e della vita contadina, portano alla luce i rituali magico-religiosi, quelle culture poco note che animavano il Sud Italia e che secondo la concezione di de Martino possono essere lette anche come fenomeni di sopravvivenza culturale. Il primo documentario è Magia Lucana, realizzato nel 1958, con la consulenza scientifica di de Martino. Tratta della sopravvivenza di antiche forme magico- rituali in Basilicata, e vinse a Venezia. In queste ricostruzioni i protagonisti reali degli eventi ripetono per la cinepresa situazioni e gesti che sono soliti compiere, mettendo in scena una specie di “recita della realtà”. Nascita e morte in meridione (1959), girato in Puglia, a San Cataldo, ripercorre le fasi della vita dalla culla alla bara, e mostra gli uomini che vivono insieme agli animali in un paese poverissimo e senza strade. Il fatto è che il regista non intende svolgere un lavoro di documentazione antropologica, con il rigore scientifico che comporta, ma vuole narrare storie, vicende emblematiche, esemplari. Gira anche documentari di ispirazione più sociale, con argomenti che vanno dalle soubrette di un avanspettacolo di infimo ordine a Roma (Ragazze dell'avanspettacolo, 1962) alla tragedia del Vajont (La tragedia del Vajont, 1963). Tutti i film di Luigi Di Gianni sono, almeno in parte, “documentari costruiti”, che raccontano, a partire da una traccia narrativa, vicende che hanno come sfondo la durezza di vita difficili da immaginare oggi. Nella sua estetica i commenti, e quando è il caso le denuncia, nascono in chi guarda dall'evidenza delle immagini, invece di essere imposte dalla voce fuori campo. La spiccata personalità dell'autore, che si è nutrito di filosofia, cinema e letteratura mitteleuropea, lo porta a ritenere che il documentario non debba essere schiavo di regole stilistiche, di impedimenti: è una espressione artistica, e come tale deve essere libera di creare con gli strumenti che ritiene necessari, anche con le ricostruzioni e la “recita” da parte dei protagonisti reali. Alla base di una estetica che non crede nel realismo e cerca invece di forzare le atmosfere, alla base della scelta di ritrarre spesso persone fuori dalla norma - maghi, esorcisti, possedute - ci sono convinzioni che possiamo definire filosofiche, cioè che la realtà soggiacente si lasci fugacemente intravedere solo attraverso i casi limite, e poi che la soggettività dell'osservatore è in ogni caso inestricabile dalla realtà osservata. Queste condizioni fanno sì che il regista rifiuti come ingenua ogni pretesa di oggettività del documentario. Nel 1978 il regista riesce a rendere omaggio al suo amatissimo Kafka, e dirige per la RAI uno sceneggiato tratto da Il processo. 3.6 Pier Paolo Pasolini. Comizi per amore Bill Nichols propone una specie di scala per misurare la differenza di potere che esiste tra film-maker e i soggetti che rappresenta; questa scala riguarda l'accesso ai mezzi di comunicazione che hanno le persone rappresentate. Attraverso alcuni semplici domande (es. i soggetti dispongono di mezzi per autorappresentarsi?), più sono negative le risposte, più il film-maker dovrà rispettare una serie di obblighi morali, a partire dall'attenzione a non fornire false rappresentazioni, e a non sfruttare i suoi soggetti. Generalmente i soggetti che sono collocati più in basso nella scala sociale, e che dipendono molto dal film-maker perché la loro storia sia raccontata, sono anche quelli che possiedono meno mezzi per difendersi nel caso in cui vengano rappresentati in modo non adeguato; sono quelli più vulnerabili rispetto agli abusi, ma anche senza arrivare ad un vero e proprio abuso, sono i più indifesi rispetto alle conseguenze che il film può provocare loro. Fino a che punto il documentarista, per arricchire la forza narrativa del suo film, può correre il rischio di mettere in pericolo, o di esporre eccessivamente i suoi soggetti? È lecito che un film come Ghost of Abu Graib (2007), sugli abusi che nel 2004 furono perpetrati nella prigione di Abu Ghraib contro i prigionieri, mostri immagini che possono imbarazzare e umiliare i soggetti più indifesi del film? Pensiamo anche quanto è facile che immagini comuni nella cultura d'origine diventino più problematiche quando sono mostrate in una cultura diversa. Prendiamo ad esempio Titicut Follies di Wiseman, sappiamo che il governo non permise di proiettare in pubblico il primo documentario suo, girato in un manicomio giudiziario denunciando le condizioni disumane; la ragione adotta per la censura, però, era che il regista non aveva raccolto preventivamente tutti i permessi per le riprese da parte dei soggetti filmati. Solo nel 1991 il film venne proiettato pubblicamente. Ma un ex detenuto, nel frattempo rimesso completamente, dovette subire l'umiliazione di vedere il film mostrato nella sua scuola, e di rendersi conto che i suoi compagni di studio lo avevano riconosciuto nelle scene in cui lui, giovane condannato, confessava di aver molestato sessualmente una ragazzina. Questo episodio ci serve per introdurre un altro aspetto del tema dell'etica: la questione del consenso informato all'uso della propria immagine da parte dei soggetti che verranno ripresi. Calvin Pryluck è stato uno dei primi critici ad occuparsi di etica del documentario, e già nel 1976 un suo articolo indaga il problema dell'informed consent e del rispetto della privacy cercando di approfondirne le diverse sfumature. Come esempio prende: un paziente anziano ricoverato in ospedale, ha paura di avere il cancro; in un momento di imbarazzo durante la visita medica gli viene chiesto se si poteva fare qualche ripresa. Questo dimostra come spesso una scelta non viene fatta in un momento di piena consapevolezza ma anzi in situazioni di difficoltà. Il regista sfrutta il momento a suo favore e inoltre la troupe già presente è un ulteriore elemento di pressione psicologica che i soggetti più deboli non riescono a gestire, il tutto con una domanda “sottilmente coercitiva”: Do you ha e and objections?. Il diritto alla privacy riguarda i diritti dell'individuo, include il diritto di essere liberi dalla pressione psicologica, dalla lesione della propria dignità, dall'umiliazione. Si apre spesso un conflitto tra diverse aree di diritto che sembrano in contrasto: il diritto alla tutela della propria immagine da parte dei soggetti, il pubblico diritto alla conoscenza dei fatti ed il “diritto ad esprimersi”, la libertà creativa del regista. Il problema del limite etico riguarda anche altri campi, come quello della diffusione degli stereotipi. Es. un documentario che utilizza immagini e situazioni reali, ma per esigenze narrative le estrapola da una riflessione più completa, e così facendo corre il rischio di rafforzare alcuni stereotipi: la pericolosità dei pazienti psichiatrici. Lo stesso Rouch, pure essendo professionalmente un antropologo, venne accusato dalla comunità africana a Parigi di fornire una immagine poco contestualizzata; così nel film successivo rese un protagonista narratore così da iniziare un percorso di “antropologia partecipata”, ma anche di un cinema basato sulla relazione con il soggetto. | registi hanno spesso cercato modi per tentare di colmare il dislivello di potere tra chi filma e chi è filmato, e questo modalità spesso si fondano su una relazione con i soggetti, i quali possono esercitare alcuni gradi di controllo sulla propria immagine. Briski e Kauffman con il loro documentario Born Into Brothels raccontano la vita quotidiana di un gruppo di bambini nati in quartiere a luci rosse di Calcutta e di come raccontano la loro vita attraverso la fotografia, guidati dalla stessa autrice. La vita di alcuni bambini era cambiata, in meglio, in quanto avevano potuto guadagnare denaro dall'esperienza. In questo esempio i soggetti non sono completamente passivi ma partecipano alla costruzione del racconto che li riguarda, e la film-maker cerca di fornire a questi giovanissimi indiani qualche strumento per difendersi. Nonostante questa impostazione partecipativa il film non fu esente da critiche. Una organizzazione di prostitute indiane lo aveva accusato di gettare cattiva luce sui genitori e anche di produrre stereotipi razzisti. Il rispetto verso i soggetti del film si verifica anche quando il regista non dichiara il reale obiettivo, e i protagonisti sono indotti a pensare di partecipare ad un tipo di attività quando i fini sono diversi. Un caso clamoroso è Obedience (1965) nel quale il regista Milgram recluta volontari per un test “scientifico”. Ai soggetti era stato comunicato che l'esperimento testava le capacità di apprendimento di una persona quando veniva sollecitata da scariche elettriche sempre più forti. In realtà offerto dell'esperimento erano gli stessi volontari che somministravano le scariche: si intendeva indagare fino a che punto arriva la disponibilità ad obbedire agli ordini anche quando la “cavia umana” sembrava soffrire e rischiare la vita. Non sarebbe potuto succedere se i soggetti fossero stati informati del reale intento, allo stesso tempo però è evidente che i protagonisti non esercitavano alcun controllo sulla loro immagine pur avendo dato il permesso. Secondo Pryluck sono tre le principali condizioni che stabiliscono quando un consenso è realmente valido: 1.Se ottenuto in circostanze prive di inganni, pressioni e coercizioni; 2.Se dato a seguito di una reale conoscenza del progetto, delle conseguenze e delle relative implicazioni; 3.Se dato da una persona ritenuta in grado di intendere e volere. La ricerca di espressioni o azioni spontanee comporta purtroppo la necessità di riprendere persone inconsapevoli per non compromettere la freschezza delle immagini. La questione del controllo della propria immagine è diventata più importante da quando le attrezzature di ripreso sono diventate più piccole, leggere, tanto da poter venire dimenticate dai soggetti se le riprese durano a lungo. Era quello che teorizzava Wiseman e altri registi del direct cinema, che ottenevano i consensi alle riprese, e poi “si facevano dimenticare” passando molto tempo nei luoghi e con le persone. Quando Wiseman in Hospital, mostra una sequenza di due minuti con un uomo che vomita, sta infrangendo una convenzione non detta. Questa mancanza di tatto gli permette di sfuggire le ovvietà ma riapre la questione della privacy e dei limiti del potere della cinepresa. Qui ci vogliamo soffermare soprattutto sulla parte della ricerca che riguarda la tutela dei soggetti, i film-maker hanno descritto la loro relazione con i soggetti del film come una relazione sbilanciata rispetto al potere, che impone al regista di “proteggere le persone più vulnerabili". Questa protezione non è esente da conflitti e ambivalenze con l'aspetto artistico e creativo. L'attenzione al soggetto riguarda molte fasi della realizzazione del film, e può tradursi in un approccio collaborativo. Alcuni registi lasciavano scegliere ai soggetti quali momenti utilizzare e quali meno. Questa percezione di una relazione con il soggetto come caratterizzata da empatia, caricata dalla responsabilità di raccontare la sua storia è, secondo alcuni intervistati, una delle differenze tra il lavoro di documentarista e quello di reporter. La decisione di far partecipare i soggetti alle scelte contrasta con le liberatorie che i soggetti hanno firmato, e che lasciano totale libertà editoriale e di usa della loro immagine. Un'altra questione molto discussa riguarda la liceità o meno di pagare i soggetti filmati. Alcuni registi dichiarano nella ricerca che se i soggetti sono molto poveri, loro non si sentono a disagio nel pagare il tempo che questi spendono per le riprese. 1.2 il film-maker verso il pubblico Un'altra relazione importante è quella con il pubblico che guarderà il documentario. Nel caso di un film documentario l'atteggiamento richiesto al pubblico è basato su un contratto di fiducia con l'autore. Lo spettatore “si fida”, accetta di delegare all'autore l'onere della ricerca e della verifica; da questo “patto” deriva che lo spettatore tenderà ad attribuire a quanto vedrà un valore di “verità”. Il patto che il documentarista stringe con il suo pubblico comporta una serie di impegni a cui l'autore deve fare riferimento. Ovviamente qualsiasi forma di manipolazione dei soggetti e del girato non rispetta il pubblico. Meno facile è riconoscere le forme più sottili come dubbi sul modo in cui sono stati realizzati i film: sono filmati autentici? Corrispondono a ciò che mostrano? | tempi e i luoghi sono diversi? È una questione che riguarda, per esempio, l'utilizzo responsabile del materiale d'archivio. Secondo Nichols un documentario etico rispetta l'intelligenza di chi lo guarda, “onora la ragione” nel modo più completo possibile, anche con indicazioni precise, si parla della “onestà di fondo” del regista. Un'altra questione è il rapporto tra il documentario e la realtà che racconta: sarebbe successo comunque? Es. Il trionfo della volontà (1935) Reinfenstahl. documentario. Ad esempio in Chronique d'une été di Rouch L'obiettivo non era tanto quello di far sentire le persone proprio agio, quasi dimenticate di essere in un film, perché si “aprissero “si rivelassero onestamente la cinepresa. Piuttosto, è precisamente alla frattura provocata dalla presenza della cinepresa che le persone reagiranno, si sentiranno a disagio, Mentiranno, reciteranno; ma non sono proprio queste manifestazioni di una parte loro personalità che viene considerata da regista come una rivelazione molto più profonda di quanto nessuna cinepresa nascosta, nessuna Candid camera possa rivelare. Può sembrare facile affermare questa è una menzogna rispetto a ciò che racconta un film documentario, tanto che si può giungere a con contenziosi legali. Ma la definizione della sentenza che richiama il “documentario di creazione“ ricorda come non sia così immediato definire cosa sia la verità documentario, all'interno di un film, quando la realtà subito tanti processi di manipolazione; partire dalle scelte operate inizialmente dall'autore fino alla manipolazione per eccellenza, quella del montaggio. Questo processo finale, che porta a tagliare alcune sequenze a favore di altri, scartando l'idea di una “abilità pre esistente” a favore di quella ricostruita, fa sì che è un film-maker giunga a definire il montaggio “luogo della menzogna”. 3. Come classifica i film documentari Principalmente, i documentari vengono classificati adottando due criteri: osservando i loro contenuti, oppure privilegiando il modo di narrare, il loro approccio stilistico. Nel primo caso si identificano i documentari naturalistici, quelli a tematica sociale, i documentari etnografici, storici e così via. Nel secondo caso si analizzano le modalità secondo cui i film sono stati realizzati, quali elementi espressivi hanno in comune. Le grandi scuole stilistiche, anche singoli registi infatti influenzano l'espressione artistica di colleghi contemporanei o anche molto lontani negli anni, è possibile rintracciare questa influenza del modo di concepire girare un documentario. Si può dunque sostenere che un documentario segue lo stile del direct cinema, del cine veritè o della scuola sociale inglese; si dirà che alcuni documentari sono ispirati al “genere” sinfonie metropolitane, evocando il film di Ruttmann e degli altri registi che, nel decennio del 1920-30, hanno cercato di raccontare il ritmo della città. Oppure si fa riferimento ai singoli autori contraddistinti da uno stile narrativo originale; recentemente, sono apparsi numerosi documentari “sullo stile” di quelli di Michael Moore, in questo riconoscimento si allude non tanto ai contenuti espressi dal film, quanto piuttosto alle modalità di confezione: per esempio al forte protagonismo del regista, che appare spesso in campo, le sue esplicite prese di posizioni, la verità di contributi visivi, che mescola ai filmati realizzati da regista spezzoni televisivi, foto di famiglia, eccetera. 3.1 La classificazione di Bill Nichols, secondo lo stile narrativo Nichols individua sei modalità di rappresentazione, che svolgono in qualche modo la funzione di sotto generi del genere documentario: sono le modalità ‘poetica, «descrittivo, «partecipativa, *osservative, «riflessivo, «rappresentativa (poetic, expository, participatory, observational, performative, reflexive). L'ordine con cui vengono presentate queste modalità corrisponde solo a grandi linee alla successione cronologica con cui questi stili sono comparsi nella storia del documentario, perché in realtà si tratta di una sequenza non lineare, non perfetta, e spesso diversi modi di narrare che sono stati presenti contemporaneamente.questa successione non implica che una modalità renda unita e sostituisca la precedente; piuttosto, questi stili di narrazione rimangono oggi tutti a disposizione di chi voglio girare un documentario. Inoltre, all’interno dello stesso film possono convivere in modalità diverse: per esempio un documentario di tipo partecipativo povere parti che appartengono alla modalità osservativa. Le caratteristiche di ciascuna modalità possono essere in tese come una dominante all'interno di un dato film, ne costituiscono la struttura generale, ma non determinano ogni aspetto della sua organizzazione. 1.Poetica A differenza della maggior parte dei documentari, quello poetico non vuole raccontare storie articolate, non intende dimostrare, spiegare, persuader è; predilige invece la logica dell'impressione e del punto di vista personale, soggettivo. L'obiettivo principale quello di coinvolgere lo spettatore da un punto di vista estetico o emotivo, evocare suggestioni, suscitare emozioni. Ciò non vuol dire che è un film del genere non possa avere anche una connotazione sociale, o cercare di aumentare il livello di consapevolezza di chi lo guarda; questo risultato sarà creato costruendo il film non tanto su argomentazioni, quanto sulla potenza evocativa dell'immagine, dei suoni. La sua seconda caratteristica deriva dalla prima, e dalla rilevanza che gli elementi stilistici assumono, giungendo ad essere il principio organizzatore del film. Questa modalità non rispetta le convenzioni narrative; anzi, gli elementi del mondo reale vengono considerati materiali grezzi da manipolare, usare ed anche modificare. | primi documentari poetici degli anni 20 hanno molto in comune con le avanguardie artistiche dell'epoca. Spezzare il tempo e lo spazio in prospettive multiple, negare la possibilità di un racconto coerente, affidarsi alle sensazioni soggettive sembrò alle avanguardie artistiche la strada adeguata per narrare la contemporaneità. Alcuni di questi film poetici possono arrivare a mettere in crisi la definizione di cinema documentario come “cinema del reale”, dato che la creatività e l'immaginazione dell'artista giocano un ruolo preminente, il legame con la realtà o assottigliarsi molto. Un esempio è Ballet Mechanique (1923), Léger. Il film non ha trama, è composto da una serie di immagini: personaggi, oggetti, ombre, luci, forme geometriche con movimenti e rotazioni che frastornano chi guarda. Un altro esempio è Pioggia (1929) Ivens, una giornata di pioggia ad Amsterdam, che però non vuole istruire sulla formazione della pioggia, l'autore vuole condividere le emozioni visive di un temporale estivo in città. Spesso il registro poetico non caratterizza per intero il documentario ma ne denota solo una parte. Nel 1996 Lido Blakstad per la BBC, raccoglie suoni, immagini e interviste dei cittadini inglesi che nella calda estate del 1995 affollano una piscina pubblica. Riprese subacquee, luce, interviste che richiamano in cine veritè facendo emergere aspetti nascosti. A volte la modalità poetica è servita anche per trattare contenuti con una forte caratterizzazione sociale o politica. Danube Exodus (1999) segue il viaggio sul Danubio di una nave che trasporta ebrei dall'Ungheria fino al Mar Rosso per poi raggiungere la Palestina. Attualmente, più che come uno stile un unico la modalità poetica con nota spesso alcuni momenti all'interno dei documentari caratterizzati da stili diversi, per esempio, quando si vuole rendere più traente, un documentario descrittivo, ora forse un'argomentazione utilizzando anche l'emozione suscitata nello spettatore. Ad esempio Grierson considerava la poesia uno degli strumenti utili per veicolare i contenuti della sua “propaganda della democrazia". Un film prodotto dal GPO Night Mail, 1936, è un esempio di questa pratica, ha come protagonista il treno postale che lega l'Inghilterra alla Scozia ma nonostante il soggetto, non si tratta di pura informazione. 2) Descrittiva Questa è così nota gli spettatori che viene spesso identificata dai meno esperti come “il” modo del documentario. Si tratta infatti di uno stile molto usato in cui documentari che più facilmente vengono trasmessi in televisione: film sugli animali, o su fenomeni scientifici e naturalistici. L'obiettivo di questo genere di documentari è di descrivere e quasi sempre anche di spiegare una realtà, un fenomeno, una vicenda. Questi film si rivolgono direttamente allo spettatore, originariamente con i cartelli, nei film muti come un Nanook di Flaherty, o Drifters di Grierson, mentre oggi a guidare e la voce fuori campo. Questa voce di cui non vediamo mai la fonte, fuoricampo e “neutra”, impostata, colta, fino a pochi anni fa quasi sempre maschile, che tutto sarà e spiega, viene definita nel letteratura anglosassone Voice of God. Il commento non è attribuibile ad un soggetto preciso, visibile, e quindi anche contestabile, ma piuttosto si configura come “la “spiegazione, super partes ed onnisciente. La Voice of God intende esprimere un parere soggettivo, ma si propone come un commento oggettivo e le immagini fungono spesso solo da conferma questa organizzazione di senso. La diffusione di questo stile ha avuto nel passato anche motivazioni tecniche: abbiamo ricordato che a partire dagli anni 30 e fino agli anni 60 le tecnologie di registrazione erano molto ingombranti e non permettevano di registrare il suono in presenza diretta e sincronizzata; ciò rendeva complicato registrare audio ed interviste al di fuori dello studio, mentre era più semplice girare in esterno le immagini ed incidere il commento in studio. Diventa problematico il caso in cui questo stile venga usato i documentari di carattere sociale, storico o politico, perché il commento letto dalla voce fuori campo non dichiara la soggettività di chi lo ha scritto, non relativizza i valori che lo sostengono, piuttosto, si propone come oggettivo, con l'immagine a prova di quanto viene 4) Partecipativa Questa affonda le radici nei film antropologici; la sua caratteristica è di non nascondere la presenza del regista, della troupe, e l'alterazione che queste presenze provocano nella situazione filmata. La modalità partecipativa può essere descritta attraverso una corrente: quella della cine vérité di Rouch e Morin. Il cine vérité dunque utilizza l'intervista, e più in generale usa la relazione che si instaura tra il soggetto e la cinepresa. Di più: il cine vérité teorizza che la cinepresa può produrre un'alchimia in grado di far emergere segmenti di realtà - ricordi, pensieri, desideri - che senza quello stimolo non sarebbero forse emersi. Il regista di un documentario partecipativo si immerge dichiaratamente nella situazione che intende narrare. E mentre il regista di un film realizzato secondo lo stile osservativo vuole restituire l’idea della situazione così come lui l'ha vista, ma senza comunicare direttamente quali sono le emozioni che ha provato, il regista di un film partecipativo al contrario non nasconde la relazione che si è stabilita con i soggetti del suo film, e anche i gradi di alterazione che la presenza della cinepresa può aver provocato. La partecipazione del regista si realizza in diversi modi e con differenti gradi di intensità. In Massud, L'Afghan (1998) Christophe De Ponfilly non finge nessuna distanza o obiettività. AI contrario, esprime la sua ammirazione per il soggetto, non tace la loro amicizia, nel commento dice “amo il popolo afgano”. In altri casi il coinvolgimento è più blando come in Grey Gardens, in alcuni casi è evidente le protagoniste parlino con il regista dietro la mdp. Il lavoro di regista di documentario partecipativo ha molti punti in comune con quello di un antropologo che vive a stretto contatto con il popolo che intende indagare. Rouch antropologo, Morin sociologo, hanno prodotto Chronique d'un été, avevano convinto una donna, Marceline Loridan, a raccontare la sua esperienza di ebrea deportata in un campo di concentramento tedesco durante la Seconda Guerra mondiale. Emergono emozioni ed esperienze molto intense, ma ciò avviene solo perchè gli autori avevano progettato la scena, chiedendole di ricordare il passato e dotandola di un registratore. Tutto ciò, vero, non si sarebbe verificato senza la mdp. Negli ultimi anni alcuni film partecipativi vedono il regista in scena e così in primo piano da diventare uno dei protagonisti. L'autore interviene negli eventi che narra, li provoca, esprime emozioni; anche la testimonianza personale del regista può assumere un ruolo importante nel film e diventare fondamentale nella struttura della narrazione. Es. Michael Moore o Morgan Spurlock, ma già nel 1974 Orson Wells appariva prepotentemente in scena per F is for Fake, che, anticipando i film di Moore, mescola in modo creativo ed originale generi diversi, note autobiografiche, spezzoni tv, interviste... Il documentario partecipativo è stato utilizzato quando il tema coinvolgeva direttamente il regista; diventa molto efficace quando si trattano temi sociali e si vuole evitare l'anonimità di altri stili (per esempio della voce fuori campo), per privilegiare invece l'incontro tra regista e protagonistipuò però anche essere raccontato attraverso le parole di chi questa esperienza l’ha vissuta, non nascondendo l'interazione che si sviluppa tra il regista e i protagonisti delle vicende che vengono narrate. Il livello di empatia che queste due modalità sono in grado di sviluppare è molto diverso: la prima modalità è più adatta a fornire informazioni, meno a creare uno stato di partecipazione dello spettatore; nel secondo caso comunica anche agli spettatori. 5) Riflessiva Il documentario riflessivo tende, in parte o in modo principale, proprio a questo: a mettere in crisi ogni definizione troppo immediata, superficiale, del rapporto tra il film e la realtà che sta rappresentando; e a rendere cosciente lo spettatore sulla nascente magia del cinema, per invitarlo a non abbandonarsi troppo fiduciosamente ad essa; è stata usata da Bunuel in Las Hurdes per giocare con i luoghi comuni e le rappresentazioni stereotipate della povertà. Questo tipo di documentario è nato come reazione alle affermazioni più radicali dello stile osservativo, quando sosteneva un modo di filmare la realtà come se la cinepresa non fosse stata presente. Contro questa “ideologia della trasparenza” il documentario riflessivo può anche occuparsi di tematiche sociali, o storiche, ma mentre lo fa tratta anche del modo in cui queste realtà vengono raccontate. L'obiettivo primario infatti non è solo quello di raccontare una storia, fornire informazioni su una situazione, farci conoscere un mondo. Questi film intendono rendere lo spettatore più attento e consapevole rispetto ai meccanismi di manipolazione presenti in ogni narrazione della realtà, vogliono insegnargli a guardare in modo disincantato le rappresentazioni del mondo. Da tale punto di vista, questo modo di girare un film è il contrario del realismo, che invece sembra non voler problematizzare il tema della rappresentazione della realtà. Vive il suo massimo sviluppo negli anni ‘70 e ‘80 in Gran Bretagna, USA, e Canada. Abbiamo già citato Chronique d'un été in cui Morin e Rouch interagiscono sullo schermo con i protagonisti del film, come esempio di documentario che nasce dalla relazione tra autori e soggetto; è anche un esempio di cinema riflessivo, per la ricerca di uno stile e di un modo d interpellare lo spettatore diverso, che, per esempio, esplicita molti passaggi del processo di costruzione del film. Nei documentari riflessivi possiamo trovare l'ironia, la de costruzione dei codici e degli stili più comuni, e anche frammenti di altri generi, come film d'animazione, o fiction, danza, musica. Proprio perchè rifiuta la convenzione secondo cui ciò che si sta vedendo è ciò che sarebbe accaduto anche senza la cinepresa, nel documentario riflessivo compaiono immagini che il direct cinema avrebbe considerato errori. Si interrompe l'illusione di osservare dal buco della serratura persone che stanno vivendo la loro vita, si interrompe l'immissione dello spettatore nella narrazione. The thin blu Line (1987) Morris, è un esempio di come lo stile riflessivo si interroghi non solo sui sistemi di valori e i punti di vista dei soggetti che sono di fronte alla cinepresa e che vengono ripresi, ma indaga i valori di chi sta dall'altra parte, dietro alla cinepresa. 6) Rappresentativa Questi film si contraddistinguono per uno stile che sottolinea il punto di vista del regista e l'aspetto soggettivo. L'obiettivo di questo stile è infatti non solo di descrivere una situazione, o raccontare una vicenda in modo lineare, ma di coinvolgere lo spettatore negli aspetti emozionali dell'esperienza del regista. A questo scopo nello stesso documentario possono coesistere elementi molto differenti: letture di poesie, sequenze ricostruite, o sceneggiate e recitate, flashback, fermo immagine ed effetti... questo tipo di documentario non finge nessuna “imparzialità” rispetto ai contenuti del film. AI contrario, le tracce autobiografiche possono essere molto evidenti, e allora costituiscono una guida per lo spettatore per interpretare la realtà che si sta raccontando: lo stato emotivo del regista raggiunge lo spettatore, e lo coinvolge. Nichols afferma che la modalità rappresentativa pone questioni che riguardano i meccanismi della conoscenza, domande come: quali elementi, oltre all'informazione sui fatti, partecipano alla nostra comprensione del mondo? Questa modalità fa dunque riferimento ad una concezione di conoscenza che non passa solo per la razionalità, ma avviene attraverso l'esperienza individuale, il coinvolgimento, e che fa sì che la decodifica di ciascuna immagine, di ciascuna parola, produca significati diversi per ogni persona, a seconda di quali esperienze personali evochi. Sottolinea la complessità dei nostri meccanismi di conoscenza e sottolinea anche la dimensione personale soggettiva di questi meccanismi. Analizzando film girati secondo questo stile, appare evidente che molto spesso la modalità rappresentativa coesiste all'interno dello stesso documentario con altri modi, come lo stile partecipativo e a volte anche quello descrittivo. Possiamo trovare un esempio di questo coinvolgimento emotivo nel film di Vertov Tre canti su Lenin (1934). Il film cerca di raccontare in modo emozionante il senso di smarrimento per aver perso la guida e il “padre”, il grande lutto del popolo russo - e del regista stesso - per la morte di Lenin. Nel 1955 Resnais gira Nuit et brouillard un documentario di 31 min su Auschwitz, lo fa con uno sguardo che risente della vicinanza temporale, delle mostruosità che deve raccontare, della ferita ancora bruciante. Il film usa uno stile che apparentemente si potrebbe definire come descrittivo: immagini commentate da una voce fuori campo. Però il commento è l'opposto di quello di uno speaker anonimo, è di fatti un sopravvissuto a parlare, commento profondamente coinvolgente che interroga lo spettatore su una impossibile ragione per quanto è successo. Nessuno è innocente se non è vittima. Lo stile rappresentativo è stato ampiamente utilizzato in film che trattano temi legati alle soggettività, sia private che sociali in lotta, e alle identità: sessuali, di genere, razziali. Si tratta di racconti dall'interno di una situazione che narrano, e quindi partecipi degli stati emotivi dei protagonisti. Un esempio è Self-Health (1974) Light, se non si fosse trattato di un film militante il tema della salute e della conoscenza del proprio corpo sarebbe stato affrontato con altri stili, soprattutto quello più usato quando si tratta di temi scientifici, lo stile descrittivo con la classica presenza di esperti e voce dello speaker fuori campo. Il film dunque si configura come la volontà di ristabilire uno sguardo femminile che ha come punto di partenza una conoscenza diretta dei propri corpi. La chiave narrativa sta nelle dell'osservatore; il risultato fu che la fotografia e la ripresa divennero mezzi rispettati dalla ricerca antropologica. Questo rinnovato interesse per lo strumento filmico portò alcuni istituti di ricerca ad organizzare corsi per insegnare agli antropologi le tecniche corrette per realizzare un filmato utile e con delle regole, ad esempio in Germania, il film doveva essere realizzato non da un semplice cameraman, ma da persone che avessero fatto un training in campo antropologico, e con un supervisore; gli eventi filmati dovevano essere autentici; non si doveva riprendere con inquadrature troppo cinematografiche o con movimenti di camera non naturali; e anche il montaggio aveva regole precise. | film che rispettavano questi canoni entravano a far parte dell'archivio nazionale di film antropologici nato nel 1952. Nel 1948 Leroi-Gourhan, in un articolo intitolato Esiste il film etnologico? Suddivide i film a cui si applica il termine etnologico in tre tipologie: il film di ricerca scientifica, i film “esotici” di viaggio, e i film che erano prodotti non con un obiettivo scientifico, ma che acquisivano un valore antropologico nel momento in cui venivano esportati. La storia del documentario racconta di film che hanno avuto anche una forte componente narrativa, e spesso questo ha suscitato discussioni che riguardavano la loro correttezza. L'esempio più famoso è Nanook of the North (1922) Flaherty si focalizzava sui “tradizionali” modi di vita degli Inuit, ma “nascondeva” i segni della modernità, fino al punti di organizzare scene di pesca e caccia eseguite con metodi tradizionali, nonostante non fosserò più frequenti. Nel 1948 al Museé de l'Homme di Parigi nascono i primi corsi di cinema in funzione etnografica, e nel 1953, sempre al museo, nasce il Comité du Film ethnographique; Rouch ha sempre sostenuto che il film etnografico sia nato in Francia, e da li si sia diffuso in EU e nel mondo. Secondo l'antropologo Jean-Paul i film di Rouch nascono dalla tensione di tre poli: il documentario etnografico più tradizionalmente descrittivo; un polo più interpretativo, ermeneutico ed i suoi film più sperimentali, precursori della Nouvelle Vague e dei dibattiti degli anni ‘80 sull’'antropologia riflessiva. All'inizio degli anni ‘70 del 900 due studiosi, Worth e Adair, si chiesero cosa sarebbe successo se ad una popolazione che non aveva dimestichezza con il cinema fosse stato insegnato ad usarlo. Nasce così Navajos Film Themselves. Oggi nei documentari a vocazione antropologica coesistono approcci differenti; anche i contenuti presentano un ventaglio molto ampio di argomenti. «Il documentario naturalistico Quella dei documentari naturalistici è la tipologia di film che tutti, immediatamente, identificano come “il” documentario; descrive animali, flora, e più in generale soggetti che fanno parte della natura: i filmati della BBC, Planet Earth, Discovery Channel ecc. La televisione ha contribuito in modo decisivo alla grande popolarità dei documentari naturalistici. Per Attenborough sostiene che per la loro durata ottimale, i documentari naturalistici trovano nella televisione il veicolo più adatto. Lo stile di realizzazione più frequente è quello descrittivo: belle immagini accompagnate da una narrazione che fornisce informazioni e funziona come guida per collegare ad interpretare quanto si sta vedendo. È possibile però individuare anche diverse tipologie; in primis documentari a vocazione scientifica e invece quelli che privilegiano le modalità più spettacolari e romanzate. Nonostante vengano generalmente considerati “film per bambini” negli ultimi anni hanno una grande notorietà anche per il successo de La marcia dei pinguini (2005, Jacquet). Negli ultimi anni si sono diffusi documentari dove uomini, spesso vestiti come Indiana Johnes, vanno a caccia di animali esotici e pericolosi. Recentemente Chris Palmer, un produttore di documentari americano, ha scritto un libro: Shooting in the Wild: An Isider's Account to Making Movies in the Animal Kingdon. Mette a nudo i difetti di una produzione focalizzata sulla spettacolarità delle immagini che si possono ottenere, sensazionalismo, i “trucchi” di animali incontrati sul percorso e catturati a mani nude, così non è ovviamente, sono tutte scene organizzate con animali imprigionati. Questo ci riconduce al tema dell'etica di chi filma rispetto al pubblico, ed anche l'autore si è detto preoccupato per il tradimento di queste pratiche. Un'altra questione che nasce dall'uso di immagini di animali allevati invece che selvatici, è che queste contribuiscono a diffondere una falsa idea della natura. Gli animali che vediamo sono allevati, e quindi molto diversi dai loro simili selvatici. 4. Alla fine, cos'è un documentario? Bill Nichols stesso ha difficoltà a definire cosa sia il documentario: “non è più facilmente definibile di amore o cultura”. Una delle prime documentazioni è stata proposta da Rotha. Nel 1935 il suo Documentary Film tratta il documentario come un genere filmico specifico, innanzitutto differenziandolo rispetto ai film di fiction. Rotha sostiene infatti che il documentario costituisce una modalità filmica molto specifica, che ha obiettivi e fini diversi dagli altri film non-fiction. Il documentario, invece usa gli strumenti e il linguaggio cinematografici per interpretare temi sociali, e Rotha individua in questa vocazione la possibilità di porre un limite al dilagare del cinema commerciale hollywoodiano; lui lo considera come un impegnato antidoto alla frivolezza di Hollywood, a partire dal diverso atteggiamento che i due generi richiedono al pubblico. Il documentario richiede una attenzione molto diversa di quella dedicata alla fiction. 4.1 Qualche nome, per iniziare Il termine “documentario” diventa comune nel corso degli anni ‘30, ed è opinione corrente che sia stato Grierson, nel 1926, a trasformare quell'aggettivo usandolo per la prima volta come sostantivo in un articolo del New York Sun dedicato al secondo film di Flaherty, Moana. Quello che caratterizza la definizione di Grierson è il tentativo di circoscrivere il nuovo genere e di indicame le caratteristiche. Per lui il documentario è un “trattamento creativo della realtà”, in una dichiarazione che associa sinteticamente l'intenzione artistica autorità le, e l'aspetto di documentazione, il legame con il reale. Ricordiamo il termine “cine-occhio”, nato quasi contemporaneamente alla definizione di Grierson; ricordiamo anche che Vertov chiamava così un tipo di cinema senza attori e senza sceneggiatura. Altre espressioni accentuano il legame del documentario con la vita: Documento vita viene coniata da Moussinac nel 1928. Leacock negli anni ‘60 lo chiamava Living camera. Cinema del vissuto di Perrault. Altre definizioni le abbiamo già incontrate come Kino-Pravda, Cine Vérité, e direct cinema che è stato utilizzato anche per evitare i problemi connessi al termine verità. Un'altra definizione di documentario è stata adottata da un importante festival, il Cinéma du Réel, fondato nel 1978 da Arnold e Rouch per promuovere la diffusione del documentario etnografico, antropologico e sociologico. 4.2 Discussioni in aula Cosa significa affermare che il documentario non è fiction? Su quali criteri si basa la differenza? Spesso la prima risposta degli studenti riguarda i contenuti dei filmati; o meglio, il loro legame con la realtà: “il documentario tratta la realtà, di fatti realmente avvenuti, la fiction inventa, racconta cose che non esistono”. Ma spesso nella fiction e nel documentario si mescolano realtà e finzione. Del resto, fino dai primi passi della sua storia il cinema di fiction ha narrato biografia di personaggi reali. In queste discussioni in aula emerge sempre un altro criterio che dovrebbe servire a differenziare il documentario dalla fiction, e riguarda le funzioni svolte dai due generi: il documentario dovrebbe fornire informazioni, “insegnare”, “educare” o informare lo spettatore, e più in generale svolgere una funzione di testimonianza della realtà, mentre il cinema di fiction avrebbe l'obiettivo opposto: intrattenere, far evadere dalla realtà. Neppure la funzione sociale è esclusiva del documentario, e comunque forniscono tutti delle informazioni. Possiamo dire che tutti i film, compresi quelli di fiction, svolgono anche una funzione documentaria, specularmente possiamo affermare che esiste una componente di fiction, di “messa in scena”. “Il cinema documentario non deve essere recitato e non deve avere attori", affermazione facile da mettere in discussione, tanti sono i documentari storici che utilizzano attori per avere immagini di personaggi antichi, i docudrama. In generale, i documentari non trattano di tematiche particolari, non adottano un set fisso di regole narrative o tecniche. Cosa li distingue allora? Una rappresentazione viene giudicata per il tipo di piacere che può offrire; per il valore degli spunti di conoscenza, le prospettive che suggerisce. Chiediamo più ad una interpretazione che ad una riproduzione. 4.3 Il modo in cui guardiamo Ci sono autori e studiosi che ritengono non sia utile e nemmeno possibile avere una distinzione netta tra i due macrogeneri della fiction e del documentario. Di solito a favore della distinguibilità ci sono due argomentazioni: La prima è che entrambi i film sono comunque il prodotto di una manipolazione da parte dell'autore. Nella fiction questo processo risulta evidente: il film è frutto dell'inventiva e dell'immaginazione di qualcuno, che poi qualcun'altra realizza ecc; però come abbiamo già detto un processo di “trattamento” della realtà avviene anche nel documentario, quando il regista compie una serie di
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