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Il Neoclassicismo: Stile, Arte e Filosofia, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

La nascita e lo sviluppo del neoclassicismo, un movimento artistico e intellettuale del settecento. Il neoclassicismo si distingue dal rococò per il suo rigore, la sua ispirazione greco-romana e la sua elevata concezione dell'arte. Le idee di wincklemann, mengs e altri teorici e artisti del primo neoclassicismo, il ruolo della pittura di figura, la ripresa del paganesimo e la nuova importanza data alla pittura di storia. Vengono inoltre discusse le opere di artisti come david, canova e piranesi.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 12/07/2019

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giulia-brocchieri-1 🇮🇹

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Scarica Il Neoclassicismo: Stile, Arte e Filosofia e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! Neoclassicismo – Hugh Honour riassunto Introduzione Il neoclassicismo è lo stile del tardo Settecento dell’illuminismo. Con questa corrente condivide lo spirito di riforma che crede nel progresso scientifico ma guardando sempre alla semplicità e purezza del passato, mettendo la ragione al primo posto. Il nome venne dato in modo dispregiativo nell’Ottocento per indicare uno stile freddo improntato sull’imitazione della scultura greco-romana, al tempo veniva visto come un risorgimento delle arti, un nuovo Rinascimento, un vero stile. Il neoclassicismo maturò rapidamente e rapidamente decedette negli anni dell’impero, considerato il suo apogeo: molti elementi finirono per trasformarsi nell’arte romantica. La storia di questo stile si chiude con la sua appropriazione da parte di fascisti e nazisti che ne fecero uno strumento di propaganda, oscurando il vero movimento con le sue aspirazioni. Capitolo primo – classicismo e neoclassicismo Questo momento dell’Illuminismo si rivolge soprattutto alla costruzione di un mondo nuovo moralmente impegnato, più che al combattere superstizione e dogmi, con personaggi quali Voltaire e Rosseau, che mise in discussione i valori della società civile, affermando che le arti e le scienze avevano corrotto l’umanità. La reazione intellettuale della frivolezza aveva un suo parallelo nell’arte con il rifiuto del rococò, non solo in Francia ma in tutta Europa, diventando generale nel 1770, nonostante si corra il rischio di una ipersemplificazione, che vede contrapporsi l’aristocrazia (rococò) e i ceti borghesi in ascesa (neoclassicismo), grossolana. Nel neoclassicismo risiede un puritano disprezzo di ciò che è mondano, elegante, del virtuosismo, delle seduzioni ed elementi sensuali su cui il rococò si fondava, diffidenza verso elementi pittorici e illusionistici, di mera atmosfera, dei pittori barocchi e rococò, che parevano al servizio del lusso privato e compiaciuto, stile che ha spinto Wincklemann a esortare i pittori a “intingere il loro pennello nell’intelletto”, che ha portato a una più alta elevazione dell’artista nella società, sopra la condizione di artigiano che segue il committente, per rivolgersi invece alla società. Temi e generi sono molto diversi: lezioni morali sulle virtù, esempi stoici di semplicità incorrotta, di nobile sacrificio, patriottismo, ecc., espressi attraverso uno stile antillusionistico, severo, castigato e chiaro, portando al prevalere di contorni fermi e superfici di colore abbastanza piatte, contrapposte alla vivacità e brillare del rococò. Viene privilegiata la veduta frontale come una semplice scatola prospettica, con colori chiari spesso primari, viene ricercata la verità e l’onestà, processo di purificazione e semplificazione che si accompagna in architettura, di simbolica geometria ed essenze platoniche, cercando effetti solenni e rigidi capaci di evocare il mondo arcaico di verità, spogliata da policromia e ornamenti scultorei: questi ideali radicali erano difficilmente condivisi infatti dai committenti privati, rivolgendosi dunque al pubblico o ai posteri. Wincklemann affermava che l’unico modo per divenire grandi era imitare l’antichità, dove “imitare” non voleva dire copiare. Da tempo l’antichità era elemento essenziale dell’educazione colta, in Francia stabilita nel Seicento da Poussin, mentre in Italia aveva resistito più o meno dal Rinascimento in poi, che sollevarono problemi quando si avvertirono i primi fermenti neoclassici. 30 anni dopo la morte di Luigi XIV, in Francia, venne ristabilita la gerarchia spezzata dal rococò, e venne data di nuovo importanza a scene di genere, alla natura morta, al ritratto e al paesaggio, quindi tornò il primato della pittura di storia, che fruttava di più agli artisti in termini di denaro. Nelle accademie inoltre gli studi di Livio, Tacito, ecc. permettevano agli allievi di assorbire il culto morale degli antichi. In Germania e in Italia, il rifiuto del rococò fu in parte una reazione contro il gusto francese. Nonostante diverse circostanze del rigetto rococò, si andò a delineare un carattere internazionale omogeneo: l’artista neoclassico si voleva rivolgere a tutti gli uomini di tutti i tempi. Inoltre l’appetito per le teorie artistiche assicurarono al movimento una rapida diffusione in tutta Europa. Roma era la Mecca dei “dilettanti” di tutti i paesi, ed era tappa fondamentale per l’educazione di un gentiluomo inglese o un principe tedesco, che spesso venivano poi ritratti da Pompeo Batoni. Le opere d’arte qui eseguite erano mostrate ad un pubblico internazionale. Esemplare a riguardo è il Parnaso di Anton Raphael Mengs eseguito nel 1761 per la villa romana del cardinale Albani. Wincklemann, bibliotecario di quest’ultimo e amico di Mengs (da lui considerato “il maggior artista del suo tempo”), si ritrova qui, con le sue idee, con molti teorici e artisti del primo neoclassicismo: perseguendo la “nobile semplicità e la calma grandezza”, Mengs evitò gli accorgimenti coloristici e illusionistici dei pittori dei soffitti barocchi: tuttavia il quadro, che fa parte della prima fase(negativa, antirococò) del neoclassicismo, non cerca di ricreare un sogno di perfezione classica attraverso una sintesi di scultura antica, per questi aspetti costruttivi toccherà aspettare Canova e David, con opere anch’esse destinate a Roma. Le varie tendenze (temi nobili e istruttivi, temi cristiani con tono laico, moralità storica e austera, radicale purificazione e semplicità) culminarono con capolavori come Il giuramento degli Orazi di David, il monumento funebre a Clemente XIV di Canova e le barrieres di Ledoux, create tra il 1783 e il 1789, alla vigilia della Rivoluzione francese ma senza implicazioni specificatamente politiche, dato il pubblico plauso che le due opere ottennero. David cominciò la sua carriera all’ombra rococò del parente Boucher, grazie al quale entrò nello studio di Vien, si formò all’Accademia francese per poi nel 1775 passare a Roma, mentre a Napoli ebbe un incontro con un allievo di Wincklemann, che lo portò verso l’antichità. Il risultato fu il Belisario che riceve l’elemosina, aneddoto storico a cui viene assegnato un significato universale, un lamento sulla caducità della gloria umana, la desolazione della vecchiaia e una meditazione sull’eroismo morale nelle avversità. La dignità del messaggio si riflette nella sobrietà dei gesti, dei colori, dell’interpretazione, opera che però è ancora legata al revival Luigi XIV. Col Giuramento degli Orazi raggiunge la maturità e la padronanza di uno stile nuovo, connubio perfetto di forma e contenuto, non più una lamentazione consolatoria, ma esaltazione di virtù civiche e patriottismo. Sembra che si sia rivolto a Livio per un racconto vero storicamente e moralmente. David scelse un momento ricordato da nessuno degli storici, momento di cristallizzazione delle virtù romane nella forma più bella e pura, isolando la vicenda e svelandone il significato, la nobiltà dello stoicismo romano con la solennità del giuramento che universalizza la dimensione morale, intendendo quindi l’opera come una lezione per tutti gli uomini di tutte le epoche, esaltando un mondo eroico di passioni semplici e verità rigorose. Il coraggio maschile è messo a confronto con la rassegnazione femminile; i muscoli tesi dei tre Orazi e la figura eretta del padre trovano un contrappeso nei morbidi panneggi e nei gesti compassionevoli delle donne. La lucidità della composizione viene rafforzata dalla luce di primo mattino, dalla purezza elementare del colore e dalla semplicità dell’ambiente con gli archi a tutto sesto, la cui accuratezza archeologica è considerata una condizione fondamentale per la rappresentazione dei soggetti dei primi tempi romani. L’impaginazione spaziale come scatola prospettica fa pensare a una derivazione dai bassorilievi romani. La forza del dipinto sta soprattutto nel principio compositivo di dissociazione o isolamento, derivato dalla teoria accademica del maestro Dandrè-Bardon nel suo trattato di pittura del 1765, in base al quale i gruppi di figure dovevano essere contrapposti l’uno all’altro, e questa contrapposizione doveva essere accentuata dall’espressioni, dottrina spinta da David all’estreme conseguenze, aiutandosi con la scultura antica, composizioni su un solo piano del Perugino, o addirittura ai raggruppamenti monumentali e la chiarezza compositiva di Giotto. Canova, educato nella Venezia rococò, non mostrò tendenze ribelli fino al 1780, quando si recò a Roma, dedicandosi poi alla creazione di un nuovo stile, rivoluzionario nella severità e idealisticamente puro, di cui Teseo e il Minotauro morto fu il risultato, in un momento di calma dopo la vittoria, con un realismo tipicamente veneziano. Nello stesso periodo infatti, a Roma prevaleva ancora uno stile tardobarocco, e Canova venne chiamato per due monumenti papali. Il suo Monumento a Clemente XIV, che pure rispettava certe convenzioni per i monumenti papali in San Pietro (Bernini), rifiuta i panneggi tumultuosi e i marmi policromi, l’ornamentazione ricca e l’illusionismo, come se volesse purificare il monumento barocco alla Bernini servendosi di Wincklemann per la “nobile semplicità e calma grandiosità”. Affinità più significative di quelle estetiche con il Giuramento degli Orazi derivano dai simili propositi: oltre alle simili caratteristiche, c’è insistenza sull’orizzontalità, con figure frontali ed elementi giustapposti. La visione dell’antichità Il mutamento stilistico della seconda metà del ‘700 è spesso attribuito a una migliore comprensione dell’antichità, e alla scoperta di Ercolano nel 1738 e di Pompei del 1748. Tuttavia, queste scoperte hanno catalizzato il movimento ma non ne sono la forza motrice, come nell’Illuminismo, e i filosofi trovarono i germi di una concezione areligiosa che omaggiava l’antico. Variarono gli atteggiamenti verso il paganesimo, condannato dai cristiani, recuperato poi come legame con la Roma imperiale all’inizio, e poi, dal 700, ebbero idealizzazione della natura nell’arte come processo razionale di selezione risale all’antichità stessa, e la “natura nobile” è diversa da quella “comune” semplicemente per un più alto grado di purezza. La distinzione neoclassica tra la “copia” e l’”imitazione” discende dalla loro concezione idealistica dell’arte classica: copiare la natura portava a prodotti meschini come la pittura di genere e quella di natura morta olandese, l’imitazione invece impegnava le più elevate facoltà dell’artista e le sue capacità inventive, un perpetuo esercizio dello spirito, e l’artista considera le ragioni per cui le opere sono state fatte, facendone un imitatore e non un plagiario. L’architetto neoclassico voleva progettare nello spirito degli antichi ed era pronto a inventare nuovi ordini per nuovi tipi di edifici, e si pensava che gli ideali platonici di forma architettonica partecipassero alle leggi naturali, e anche nelle arti decorative si ritrova la distinzione tra l’imitazione e la copia. Imitando le antiche opere greche o romane, si consideravano i restauratori del vero stile, concentrandosi sulla forma più che sul modo di trattare la materia, e più sulla linea che sul colore, senza bisogno di accenti mistici propri dei neoplatonici rinascimentali, e derivava dal fatto che l’arte dovesse rivolgersi all’intelletto come alle percezioni dei sensi, preferendo l’elemento concettuale rispetto a quello puramente visivo. Il disegno a puro contorno si pensava fosse stato il più antico mezzo di rappresentazione pittorica, e lo stile lineare era considerato anche il più puro e il più naturale, infatti il colore, superfluo, venne a essere considerato ingannevole. Nelle scuole di nudo, i modelli erano abitualmente fatti posare negli atteggiamenti delle statue antiche, le cui pose erano talmente impresse nelle menti degli artisti al punto che arrivavano a pensare nel linguaggio classico. Wincklemann non fu l’unico a osservare come gli antichi modificarono certi particolari anatomici, appiattendo l’addome, semplificando i muscoli ed omettendo le vene, trovando però come fossero riusciti a trovare la forma perfetta di ogni parte del corpo. Per rendere il nudo l’artista neoclassico lo purificava dalle accentuazioni erotiche, esaltandone l’innocenza, la semplicità, l’essenziale purezza, senza mancare di fraintendimenti, realizzando corpi né naturalistici né naturali, visto contro uno sfondo di eternità. Anche nell’architettura, la più astratta delle arti figurative, si è spinta verso un primitivismo rigoroso, fatta di forme geometriche pure (piramidale, sferiche, cubiche), e questa architettura razionale con la sua chiarezza struttiva potrebbe sembrare un’anticipazione del concetto moderno “forma che segue la funzione”: purgare l’architettura dai capricci del Rococò è stata una delle ambizioni della prima generazione di architetti neoclassici. Roma è tappa intermedia per chi vuole tornare alla purezza architettonica, cioè la Grecia, ma l’ordine dorico riscoperto per come era (e non per come si pensava che fosse) sembrava essere considerato il prodotto di un popolo incorrotto che viveva vicino alla natura: primitivo, spoglio di ornamenti, virile, integro. Gli architetti non avrebbero mai raggiunto questa assoluta semplicità e geometrica purezza nemmeno sulla carta, benché molti di loro vi si siano avvicinati, e non pensavano che fosse in nessun modo necessario ricorrere all’aiuto di pittori e/o scultori, compiacendosi di esasperare il contrasto tra la forma pure dell’edificio e l’organica casualità del paesaggio circostante, accentuano i contrasti tra le varie masse, respingono le composizioni barocche, i volumi interni si esprimono anche all’esterno, le forme semplici di cerchio e quadrato sono quelle preferiti. Gli architetti insistono sulla purezza, semplicità e chiarezza volumetrica dell’edificio, i pittori sul disegno. La proporzione, la convenienza e l’ornamento possono prendere forma solo attraverso l’applicazione della matematica e delle norme razionali. Ma in un’epoca non economicamente propizia a vasti disegni architettonici, commissioni pubbliche monumentali erano rare. La sensibilità e il sublime Il culto della sensibilità potrebbe apparire incompatibile con gli ideali razionali neoclassici, in realtà la capacità di un’opera d’arte di toccare il cuore e istruire moralmente fu facilmente ammessa da coloro che credevano che l’uomo compassionevole è anche il migliore, e se l’arte utilizzava un linguaggio “del cuore”, allora doveva essere universale, dato che lo è anche la sensibilità. Quale che fosse il periodo storico da cui il soggetto era desunto, esso era trattato dal punto di vista stilistico più o meno allo stesso modo, il pittore cerca di fare appello al senso morale attraverso il sentimento, e il tema generico diventa più importante del soggetto specifico. Spinti da questo interesse, gli artisti considerano in modo nuovo i soggetti dipinti in precedenza (il Belisario di David), ma forse il tema più significativo è quello della Carità Umana, trattato già da innumerevoli pittori barocchi e rococò a volte come allegoria della gioventù e della vecchiaia, a volte come esercizio pittorico. Cercano di iniettare una dose di “verità comune” nella gonfia retorica della pittura di storia: l’artista deve smuovere qualcosa nell’animo umano, e per farlo deve essere anche filosofo. Questo interesse per l’efficacia emotiva è al centro delle polemiche sulla nozione estetica più confusa: il sublime, meno presente negli oggetti e più invece nelle emozioni che essi suscitavano, si tratta di una caratteristica soggettiva, a differenza della bellezza, che era assoluta. Il termine in genere significava un’emozione di profonda reverenza, prossima al terrore, ispirata dai fenomeni naturali, e il concetto di sublime andò presto unito a quello di genio, intendendo le regole come fondamento sopra il quale il genio di erge, e il culto della sensibilità fu controbilanciato da uno storico rispetto dell’autocontrollo. Nella morte ognuno incontra il sublime, e l’artista è sempre in cerca di un tema universale, eroico o elegiaco, potendolo trovare nella nobiltà e tranquillità dell’eroe morente. Il modo in cui l’artista neoclassico tratta la scena della morte differisce per molti aspetti da quello dei suoi predecessori: innanzitutto, gli aspetti erotici sono aboliti, la figura del morto (o della morta) viene rappresentata in pacato riposo, opposto appunto all’erotismo dei pittori barocchi (per contro, la scena d’amore neoclassica è spesso una sintesi di amore- morte), come se la morte fosse sorella del sonno, e l’idea attraversava i cristiani non meno degli scettici, basti pensare alla Tomba a Clemente XIII di Canova, soprattutto nella figura dell’angelo della Morte, realizzazione perfetta dell’ideale di Wincklemann, aspirazione alla perfetta pace dell’eternità. Infatti la sintesi di bellezza e morte sta nel cuore della tradizione classica che si esprime nel sentimento elegiaco. In genere però i pittori mettono in contrasto la calma della morte con l’agitazione della vita (Andromaca che piange Ettore, di David, o Morte di Socrate). Per influenza dell’illuminismo il concetto della vita eterna in un altro mondo veniva cedendo a quello dell’immortalità sulla terra, il giorno del giudizio cristiano appariva meno reale di quello della storia, in una sorta di processo di laicizzazione, perciò nei quadri neoclassici l’attenzione si sposta dalle gioie della beatitudine eterna all’ammirazione per il dolore di chi sopravvive, perciò l’eroe prende il posto del santo nell’iconografia della morte. Le figure che circondano l’eroe morto o morente hanno duplice funzione: a volte occupano la posizione centrale, evidenziando il dramma passionale sulle reazioni. Nella Morte di Marat di David non ci sono figure sussidiare, la nuda morte domina la scena: si tratta di un tributo, una Pietà laica, che non richiama la figura di Cristo ma degli antichi eroi classici e filosofi morenti, e il pittore cita i pochi particolari necessari a rievocare l’evento storico, raffigurando la solitudine assoluta e totale conclusione della morte, che non continua in altro mondo, e il quadro diventa esempio della concezione illuministica dell’immortalità. Questi dipinti sono laici, ma anche i monumenti funebri eretti nelle chiese riportano lo stesso atteggiamento verso la morte. L’ideale canoviano della tomba funebre si esprime pienamente nella Tomba a Maria Cristina, concepita semplice e con simboli comprensibili, con la ripresa della piramide (forma più antica di monumento sepolcrale) e diversi piani di significato, tra cui uno potrebbe vedere, a sinistra, le tre età dell’uomo che si dirigono dentro la porta, ponendo l’eterno il problema di cosa c’è al di là di essa. Non è un necrologio, né un epitaffio, ma un’elegia, che con allusioni classiche diventa un lamento, emotivamente toccante ma stoico, sulla morte dell’umanità intera. Il paesaggio classico del parco spingeva l’immaginazione indietro all’antichità, al mondo incorrotto di pastori che suonavano il flauto e di malinconici poeti che vivevano in seno alla natura. Questo è ben rappresentato dalla grotta che contiene la statua della ninfa Amaltea, come un sacrario delle ninfe protettrici d’Arcadia, e i paesaggi sono colmi di rimandi storici e letterari. Ci riportano in quei paesi la natura non è selvaggia ma lussureggiante e ogni pianta raggiunge la sua più alta perfezione, dove grazie e tranquillità regnano sovrane. Per il pittore di paesaggio questi artisti seicenteschi sono stati sostanzialmente ciò che gli scultori antichi sono stati per il pittore di figura: guide per raggiungere l’ideale, con il tono elegiaco della poesia classica.
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