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Neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza. Approfondimenti - Guidetti, Sintesi del corso di Neuropsichiatria infantile

Riassunto completo di tutti i capitoli del libro approfondimenti del prof. Guidetti

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 12/06/2020

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Scarica Neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza. Approfondimenti - Guidetti e più Sintesi del corso in PDF di Neuropsichiatria infantile solo su Docsity! ESAME NEUROLOGICO DEL NEONATO Con l’incremento delle MND, minor neurological disfunction, che costituiscono la new morbidity si è fatta sempre più necessaria l’esigenza di un esame neurologico anche per i neonati senza evidente patologia cerebrale e quindi anche per i nati a termine che solitamente vengono sottoposti a meno esami neurologici rispetto a quelli nati pretermine. In questo modo le MND possono essere individuate precocemente con un esame neurologico sistematico consentendo l’instaurazione di un intervento abilitativo già a partire dall’età neonatale. Gli item che prenderemo in considerazione sono: gli stati comportamentali e il loro controllo; la habituation; la postura; l’attività motoria; il tono muscolare; i riflessi arcaici; i riflessi osteotendinei; le funzioni sensopercettive, il diario comportamentale. Gli stati comportamentali sono stati descritti soprattutto da Prechtl e Beintema e rappresentano la prima valutazione da eseguire in quanto tutti gli item da esaminare hanno diversa soglia di elicitazione ed espressioni diverse a seconda dello stato comportamentale in cui si trova il bambino, pertanto per aver risultati standard e riproducibili occorre costantemente tener conto e annotare lo stato comportamentale. La maggior parte delle valutazioni esige la presenza di uno stato di veglia per il cui mantenimento sono utili alcuni accorgimenti che riguardano la distanza dal pasto, la temperatura dell’ambiente, l’illuminazione e l’ordine degli item da valutare. Il neonato può mostrare spontaneamente nel corso dell’esame neurologico gli stati ottimali, ma può verificarsi che al contrario tenda a persistere negli stati non ottimali. In questi casi noi dobbiamo porre in atto delle manovre di risveglio o delle manovre calmanti. Le manovre di risveglio debbono comunque essere dolci e costituite da stimoli vocali o carezze. Le manovre calmanti devono essere messe in atto con una gradualità che deve essere tenuta presente. La necessità di ricorrere più o meno frequentemente a manovre facilitatrici deve essere tenuta presente allorché si deve esprimere il giudizio finale sulle capacità di controllo degli stati. Il controllo degli stati viene definito come ottimo, buono, discreto, insufficiente o cattivo. La Habituation viene giudicata una delle più elementari forme di apprendimento dell’essere umano. La somministrazione di uno stimolo adeguato e la sua ripetizione ad intervalli regolari di tempo determinano nel neonato un decremento delle risposte. Il neonato apprende infatti progressivamente le caratteristiche dello stimolo che perde così l’aspetto della novità e quindi di interesse. Si ritiene che i neonati con una buona habituation abbiano buone capacità di apprendimento e siano quindi più intelligenti di quelli che hanno una cattiva habituation. Questa valutazione va eseguita quando il neonato è tranquillo e possibilmente addormentato. Per lo stimolo luminoso si usa una torcia elettrica. L’habituation è considerata buona se si verifica entro il VI stimolo, ridotta se si verifica tra il VII e il XII stimolo, assente se non si realizza entro il XII stimolo. Per lo stimolo acustico si utilizza un campanello e il giudizio è basato sugli stessi criteri utilizzati per lo stimolo visivo. La postura. Le caratteristiche posturali che possono essere individuate sono quelle spaziali che si riferiscono alla disposizione del corpo nello spazio e quelle temporali che si riferiscono al mantenimento della postura nello spazio. La postura viene abitualmente valutata in: posizione supina, posizione prona e in braccio alla madre. Quando si parla di postura si intende riferirsi alla postura prevalente. La postura in posizione supina è caratterizzata nel neonato dallo schema flessorio: il neonato giace con gli arti superiori e inferiori flessi e con la testa ruotata da un lato. Le alterazioni della postura in supino possono essere distinte in spaziali (distinte in accentuazione più o meno estesa dello schema flessorio; perdita o non acquisizione più o meno estesa dello schema flessorio; sovvertimento più o meno esteso del fisiologico schema flessorio; asimmetrie posturali) e temporali. Le perdite dello schema flessorio sono spesso dovute a noxae (aggressioni, danni) che hanno agito nell’ottavo-nono mese di vita intrauterina e che hanno impedito il normale sviluppo di questo schema o ne hanno determinato la perdita. I sovvertimenti posturali sono caratterizzati da sostituzioni più o meno estese dello schema flessorio con uno estensorio. Possiamo avere posture con iperestensione degli arti superiori e inferiori, del collo e di tutto il corpo. Le asimmetrie posturali possono essere dovute a lesioni periferiche, quali per esempio una paralisi ostetrica o a lesioni centrali. La postura in posizione prona si caratterizza per lo stesso schema flessorio osservato in supino; gli appoggi del corpo sono sui gomiti, metà inferiore del piano anteriore e ginocchia; la testa e periodicamente alzata e/o ruotata per liberare le vie respiratorie. Le alterazioni seguono gli stessi criteri della postura in supino. Le accentuazioni dello schema flessorio danno tipicamente luogo alla postura detta rannicchiata che rende spesso difficile la posizione in prono. Le perdite o non acquisizioni dello schema flessorio sono comunemente riscontrate nei cingoli superiori che determinano la postura a tripode che è mal tollerata dal neonato per la difficoltà a liberare le vie respiratorie. I sovvertimenti posturali più comunemente osservati sono quelli riguardanti l’iperestensione buccale, quella degli arti inferiori e quella dei cingoli superiori. La postura in braccio alla madre ci offre innanzi tutto l’occasione di parlare di alcuni significati della postura e delle sue relazioni con altre importanti funzioni quali l’attenzione, la comunicazione, l’alimentazione. La postura è fortemente connessa con la comunicazione diadica mediante vari meccanismi che sono il dialogo face to face, il dialogo corporeo e il sincronismo posturale. Il dialogo face to face si determina quando la madre ha in braccio il suo bambino ed entra in comunicazione con lui; il corretto controllo posturale del neonato in questi casi consente un incremento dell’attenzione e una collaborazione al mantenimento di una posizione adeguata della testa. Anomalie posturali ostacolano in maniera più o meno grave la comunicazione diadica con pesanti ripercussioni sullo sviluppo relazionale. Esiste anche un dialogo corporeo mediante esperienze tattili e termiche che madre e neonate si scambiano quando i loro corpi sono a contatto. Tra la madre che tiene in braccio il neonato e quest’ultimo occorre che esista anche un buon sincronismo posturale nel senso che ai cambiamenti posturali della madre debbono corrispondere adattamenti del neonato e viceversa. Se questo sincronismo è alterato la quantità e la qualità della comunicazione della diade risulta danneggiata. Altre importanti correlazioni funzionali della postura sono quella con il sincronismo interattivo, l‘attenzione e l’alimentazione. Il sincronismo interattivo è una forma di comunicazione posturale nel senso che quando la madre parla al neonato questi cambia aritmicamente la sua postura dando la percezione di essere un partner attento e rispondente. Tra la postura e l’attenzione gustative del liquido amniotico che cambiano nel corso delle ventiquattro ore in rapporto soprattutto agli alimenti ma anche ai profumi che la madre utilizza. Le percezioni olfattive e gustative fetali costituiscono un legame fondamentale nella relazione feto-madre molto precocemente nel corso della gravidanza. Si ritiene che i suddetti recettori siano in grado di captare cambiamenti che si verificano nel liquido amniotico particolarmente in corso di ipossia e di stress materno. Si ritiene inoltre che alla nascita il colostro e il latte materno possano ricordare nel gusto e nell’odore quello del liquido contribuendo a creare un legame di continuità e riconoscimento tra il neonato e la madre. Gli studi di Humphrey dimostrano che il sistema tattile fetale è funzionante già a partire dalla 7°settimana e mezza e alla 20° settimana tutta la cute e le mucose sono responsivi dal punto di vista tattile. Per quanto rigurda la sensibilità termica già nella prima metà della gestazione il feto reagisce alla pressione e alla temperatura di oggetti posti a contatto con la parete addominale materna e agli stimoli dolorosi. La sensibilità tattile del feto partecipa sensibilmente alla costruzione e consolidazione del legame feto-madre-famiglia. L’aptonomia (scienza del tatto) insegna ai futuri genitori a stabilire un rapporto tattile con il feto, mediante delle carezze e delle amorose espressioni verbali che giungono al feto attraverso la parete addominale e uterina materna. In realtà nella pratica dell’aptonomia entrano in gioco non solo le sensazioni tattili, ma anche il pensiero e la parola in maniera così intimamente correlata che è difficile distinguere l’effetto dell’uno da quello degli altri. Il feto risponde ed è attratto da queste manipolazioni al punto da poter essere guidato a “viaggiare” nell’utero, a spostarsi verso la parte più alta o la parte più bassa. Il sistema vestibolare è deputato alla percezione dei movimenti rotatori della testa, alla posizione della testa nello spazio ed ai suoi spostamenti rettilinei. Questo sistema è funzionante già a partire dalla 16° settimana. Il feto è sottoposto a numerose stimolazioni vestibolari provenienti da: spostamenti del corpo materno, spostamenti fetali spontanei e sequenze motorie fetali che si strutturano con il procedere della maturazione del sistema nervoso fetale. Durante i periodi di riposo della madre il feto esprime la sua motilità spontanea che gli consente di esplorare la parete uterina con le mani e i piedi e di compiere quindi esperienze tattili. In virtù della suddetta relazione tra movimento materno e fetale, lo stile di vita della madre ha forti effetti sullo sviluppo del feto; infatti, se i periodi di attività e riposo della madre sono ben distribuiti nel corso della giornata anche il feto sperimenterà un’armoniosa distribuzione tra attività e riposo con conseguenti effetti positivi sul suo sviluppo. Alcuni dati suggeriscono che risposte agli stimoli uditivi sono evidenziabili già nel feto di 12 settimane, cioè prima del completamento dell’apparato uditivo. Ciò fa ritenere che il sistema nervoso fetale risponda agli stimoli prima della formazione delle cellule sensoriali in virtù di recettori e meccanismi percettivi che non abbiamo ancora individuato e definito. Una funzionalità periferica e centrale dell’apparato uditivo è in realtà presente a partire dalla 24°-25° settimana con caratteristiche comparabili a quelle dell’età adulta. Alla 28° settimana è evocabile il riflesso acustico palpebrale. Se al momento del parto introduciamo un idrofono oppure un minuscolo microfono nella cavità uterina possiamo registrare vari tipi di rumori come un rumore di fondo non specifico, il battito cardiaco materno e i suoni prodotti dai gas che passano nell’apparato digerente della madre. La voce materna è comunque lo stimolo uditivo maggiormente percepito dal feto. E’ noto che le madri conoscono istintivamente le abilità di percezione prosodica dei loro nati ai quali si rivolgono con una particolare forma di linguaggio chiamata “motherese” costituita di frasi molto semplici, ma molto ritmate e cadenziate, ricche cioè di prosodia. Quando un o stimolo uditivo viene percepito dal feto può avvenire che questo risponda con delle attività motorie: se noi continuiamo ad inviare ad intervalli di tempo fisso lo stesso stimolo uditivo possiamo osservare che le risposte motorie del feto tendono a diminuire e in genere non sono più manifestate dopo 5-7 stimolazioni, questo fenomeno di estinzione progressiva delle risposte viene attribuito alla abituazione, un meccanismo che consente al feto di apprendere, memorizzare e progressivamente riconoscere le caratteristiche dello stimolo fino al punto da renderlo non più interessante. Il tempo di abituazione viene ritenuto in stretta relazione con le capacità e in particolare con la velocità di apprendimento che è una misura dell’intelligenza. Varie ricerche hanno documentato che l’assenza o i deficit di situazione possono essere indici di ritardi o anomali dello sviluppo del sistema nervoso quali schizofrenia, depressione, iperattività e danni cerebrali. Tutto ciò apre nuovi orizzonti per una diagnosi precocissimi dei disturbi intellettivi e soprattutto per la tempestività dell’intervento terapeutico. La vista è la sensorialità meno sviluppata del feto che ha scarsa necessità e possibilità di sperimentare sensazioni visive. In ogni caso a partire dalla 7 settimana si ha già la formazione del nervo ottico e delle cellule retiniche. In una breve esposizione sul movimento nella vita prenatale possiamo innanzi tutto fare una distinzione fra attività motoria riflessa e attività motoria spontanea. L’attività motoria riflessa è quella che si manifesta in seguito a uno stimolo apportato dal feto ed è evidenziabile a partire dalla 7° settimana. L’attività motoria spontanea del feto inizia a comparire a partire dalla 7° settimana e mezza e ha una genesi endogena. Movimenti isolati della testa, del tronco, movimenti di stretching e sussulti sono visibili tra 8° e 9° settimana, movimenti respiratori dalla 10°. Il feto può afferrarsi un piede e giocherellare con il cordone ombelicale. Nello sviluppo motorio si evidenzia un’evoluzione dei movimenti da globali a parcellari nel senso che dapprima compaiono movimenti che interessano l’intero copro, successivamente quelli che interessano parti singoli del corpo e poi movimenti di parti in relazione tra di loro. Quando la madre è tranquilla e rilassata è possibile osservare che ogni feto evidenzia ritmi particolari di attività motoria, oltre a mostrare una postura preferenziale e diversi gradi di reattività agli stimoli ambientali. Particolare interesse ha suscitato lo studio dello sviluppo dei movimenti respiratori fetali. A partire dalla 15° settimana il feto può respirare. Sono state osservate strette correlazioni fra lo sviluppo dei pattern respiratori e quello anatomico dell’apparato respiratorio. Anomalie nelle sequenze dei pattern respiratori sono state riscontrate associate ad alterazioni della struttura del parenchima polmonare. Accenniamo anche allo sviluppo dei movimenti oculari evidenziabili ecograficamente in virtù del fatto che è possibile visualizzare i cristallini. Nel contesto di una semeiotica motoria fetale quantitativa sono rilevanti due condizioni estreme: quelle del feto inattivo e quella del feto iperattivo. Nel comportamento fetale sono individuabili periodi di attività e periodi di inattività o quiete. Nei periodi di attività vi è presenza di attività motoria con incremento della variabilità della frequenza cardiaca; in quelli di quiete vi è assenza di movimenti e diminuzione di frequenza cardiaca. Periodi di attività e quiete si allungano con l’aumentare dell’età gestazionale. Le manifestazioni motorie fetali diventano testimonianze percepibili dell’esistenza di un essere che vive e quindi si muove; esse non solo sono percepite dalla madre ma possono anche essere apprezzate dal padre attraverso la palpazione dell’addome materno e innescare così una relazione a tre. La strutturazione l’organizzazione del sistema nervoso fetale dipende dall’attività sensomotoria del feto; il sistema nervoso è sotto l’influenza di due fondamentali processi: uno innato centrifugo e l’atro acquisito centripeto. Il primo di origine genetica sottende soprattutto la moltiplicazione neuronale e la migrazione che portano elementi dal centro verso la periferia del cervello; il secondo di natura esperenziale, è responsabile della stabilizzazione dei processi di crescita cerebrale, dello sviluppo delle sinapsi e della morte neuronale. In qualsiasi momento della vita intrauterina il processo genetico è plasmabile dall’attività esperenziale. Ma si ritiene che lo sviluppo del sistema nervoso sia influenzato non solo dalla qualità e quantità della sensomotricità fetale, ma anche dalle efferenze affettive e psicologiche materne pur non conoscendo ancora con precisione i siti di azione ed i relativi tempi di sviluppo. Quello che possiamo ritenere per certo è che nel suo sviluppo prenatale il sistema nervoso è guidato da un programma genetico che comunque lascia spazio a una certa plasticità che è sottesa dalla qualità e quantità delle stimolazioni afferenti. In definitiva le eccezionali competenze del feto ed il particolare stato recettivo della donna in gravidanza consentono l’instaurarsi di una vera e propria relazione duale che sottende un attaccamento emotivo con notevoli influenze bioaffettive reciproche. SEQUELE DELLA NASCITA PRETERMINE Le nascite pretermine costituiscono un importante fattore di rischio per lo sviluppo neurologico e cognitivo del bambino. Negli ultimi due decenni l’incidenza della nascita pretermine è rimasta pressoché invariata, ma lo sviluppo della terapia intensiva neonatale ha aumentato sensibilmente la sopravvivenza dei neonati pretermine di età gestazionale e peso sempre più bassi. Tutto ciò ha determinato un incremento della patologia dello sviluppo neurocomportamentale. Problematiche nello sviluppo del linguaggio, nell’integrazione visuomotoria, nella memoria e attenzione, nel comportamento e apprendimento costituiscono quella che oggi viene chiamata la nuova morbilità della prematurità. 5.1 – INTELLIGENZA. In verità i deficit cognitivi significativi sono correlati con i deficit motori. In genere sono individuabili due tipi di paralisi cerebrali: una disabilitante e una non disabilitante, priva di importanti avvenimenti perinatali e di probabile origine prenatale. Le paralisi cerebrali disabilitanti hanno in genere un QI più basso di quello riscontrato nelle paralisi non disabilitante. Va sottolineato che la patologia sottocorticale si associa significativamente a deficit dello sviluppo intellettivo. A parziale spiegazione di questa evenienza è stato invocato l’interessamento dei subplate neurons che sono generati nella matrice germinativa e che migrano verso la primitiva zona marginale prima della generazione e migrazione dei neuroni della corteccia. Questi neuroni della sottoplacca esibiscono subito una differenziazione morfologica e un’ampia varietà di recettori per i neurotrasmettitori, neuropeptidi e fattori di accrescimento. I neuroni della sottoplacca ricevono impulsi sinaptici diagnosi precoce e dall’altro a definire un intervento farmacologico. Le psicosi nel bambino e nell’adolescente sono un gruppo eterogeneo di disturbi in cui la schizofrenia a esordio precoce rappresenta la principale condizione patologica. In generale le psicosi sono caratterizzate da importanti anomalie del processo del pensiero, da disturbi della percezione e da disturbi del comportamento di diverso tipo. Si osserva la perdita di contatto con la realtà oggettiva associata alla scarsa critica da parte del soggetto rispetto alle sue convinzioni che caratterizzano il processo patologico definito psicotico. La compromissione della capacità di insight rappresenta una delle principali differenze nei confronti dei disturbi di tipo nevrotico in cui è presente la consapevolezza nonché l’egodistonicità. Nell’ambito delle psicosi spesso la partecipazione emotiva è scarsa. Le psicosi possono insorgere nel bambino in età scolare e nell’adolescenza. La precedente definizione di psicosi in età infantile si riferiva in realtà a quelli che oggi sono i disturbi dello spettro autistico e per questo non è più in uso. CLASSIFICAZIONE. Le psicosi dell’età evolutiva sono presenti come un continuum perché si utilizzano il livello, il numero e la durata dei segni e dei sintomi per distinguere le varie forme di dist psicotici. Si distinguono quindi schizofrenia, psicosi schizoaffettive e atipiche, psicosi secondarie. -SCHIZOFRENIA. E’ la patologia psichiatrica di maggior rilievo in quanto comprende le manifestazioni più gravi delle psicosi: il delirio, le allucinazioni, i disordini del pensiero, le alterazioni della motricità e della postura. L’insorgenza avviene solitamente in età adulta: si parla di schizofrenia ad esordio precoce prima dei 18 anni, e di schizofrenia ad esordio molto precoce prima dei 13. La prevalenza è di <1/10.000 con maggiore frequenza nei maschi. La schizofrenia e le sindromi correlate sono definite psicosi funzionali in quanto non sono riconoscibili alterazioni anatomiche maggiori a carico del sistema nervoso: tuttora i meccanismi neurobiologici e neurochimici non sono chiariti. Diversi fattori sono stati presi in considerazione nello studio dell’eziologia del disturbo, tra i quali ricordiamo i fattori genetici e i fattori di rischio psicosociali tra cui le modalità di interazione familiare (doppio legame). Le caratteristiche cliniche della schizofrenia sono complesse e possono essere divise in sintomi positivi e negativi. I SINTOMI POSITIVI sono rappresentati dai deliri, dalle allucinazioni e dai disturbi formali del pensiero; I SINTOMI NEGATIVI sono invece caratterizzati da appiattimento affettivo, apatia, i disturbi della volizione e i disturbi della motricità di tipo catatonico. Nelle forme ad esordio precoce sono più frequenti i sintomi negativi ad eccezione della catatonia. Il delirio costituisce un sintomo cardinale ed è inteso come espressione di idee e argomenti non condivisibili e inadeguati al contesto sociale e relazionale. Il delirio è definito primario quando ha origine all’interno delle comuni esperienze di vita, è invece definito secondario quando insorge nel contesto di allucinazioni che alterano la percezione della realtà. (ex. Delirio paranoideo). L’appiattimento affettivo si riferisce all’assenza di partecipazione emotiva e di empatia nell’interazione sociale. I disturbi del movimento sono rappresentati dalle posture catatoniche. I disturbi formali del pensiero si esprimono attraverso il rallentamento dei nessi logici, l’incoerenza nell’esposizione e nell’organizzazione delle idee, la frammentazione e l’impoverimento del processo ideativo. Sono inoltre da segnalare alcuni disturbi associati come i disturbi dell’umore, sia depressivi che maniacali. Inoltre sono spesso evidenti comportamenti bizzarri e inappropriati. L’esordio in età evolutiva è particolarmente insidioso e molto raramente si assiste all’esordio acuto che si può invece osservare in età adulta; sono poi stati descritti antecedenti significativi come alcuni disturbi dello sviluppo tra i quali il ritardo del linguaggio e le alterazioni dell’organizzazione prassica. DIAGNOSI. La schizofrenia si manifesta con maggiore frequenza nel giovane adulto, ma può evidenziarsi con tutti i suoi sintomi anche nel bambino e nell’adolescente. Anche in queste forme precoci è importante una diagnosi precoce per ridurre il rischio di cronicità. Generalmente assistiamo in una prima fase ad una povertà di sintomi di chiara matrice psicotica, ad una sorta di prologo della manifestazione conclamata della malattia con i relativi sintomi base. Il prodromo è il periodo che intercorre tra le valutazioni dell’esordio del cambiamento nell’individuo e l’esordio della psicosi. In questa fase possono comparire una riduzione dell’attenzione e della concentrazione, anergia, modificazioni del tono dell’umore e sintomi d’ansia, disturbi del sonno, isolamento sociale, sospettosità, scarsa autostima e facile irritabilità. Per quanto riguarda la diagnosi possono sorgere difficoltà in quanto la presenza del delirio e delle allucinazioni è di difficile verifica nel bambino e anche nell’adolescente. La fase diagnostica può quindi prolungarsi anche in considerazione della frequente presentazione insidiosa e poco definita di questi sintomi. La diagnosi differenziale va con l’abuso di sostanze e l’epilessia dove sono presenti allucinazioni, ma solo di tipo visivo e non uditive. Nelle fasi iniziali dei disturbi devono essere considerate e adeguatamente studiate anche le psicosi organiche. L’autismo solo raramente ha un’evoluzione verso la schizofrenia. L’età d’esordio del disturbo autistico, entro 3 anni, è uno degli aspetti utili per la diagnosi differenziale con la schizofrenia ad esordio molto precoce, che ha come limite inferiore di età i 7- 8 anni. Nelle forme di schizofrenia del bambino e dell’adolescente è descritta una stabilità nel tempo della malattia che permane anche in età adulta con diversi gradi di gravità, tuttavia l’evoluzione è diversificata e non è da considerarsi invariabilmente sfavorevole. E’ infatti riportata anche la possibilità di remissione della sintomatologia e/o di miglioramento significativo. PSICOSI SCHIZOAFFETTIVE E ATIPICHE. In età evolutiva può essere presente un’associazione tra i disturbi dell’umore e i sintomi della schizofrenia: questi disturbi sono chiamati psicosi schizoaffettive. Questi disturbi misti vengono caratterizzati in relazione alle componenti sintomatiche prevalenti; nelle prime fasi è spesso difficile raggiungere un corretto inquadramento diagnostico e si delineano quadri clinici eterogenei con disturbi affettivi sintomi psicotici. PSICOSI SECONDARIE. Le psicosi organiche sono da considerarsi espressione sintomatica di una malattia conosciuta, ma anche in questo caso la fisiopatologia rimane scarsamente definita, le manifestazioni cliniche possono rendersi evidenti nell’ambito di condizioni patologiche di diverso tipo e il riconoscimento della causa non è sempre immediato, ma è teoricamente definibile attraverso una scrupolosa indagine descrittiva. Gli stati deliranti si osservano nelle situazioni cliniche caratterizzate da deliro con disturbi dello stato di coscienza. L’evoluzione procede contestualmente all’attenuarsi della causa scatenante. I disturbi della coscienza con obnubilamento, disorientamento spazio-temporale ed allucinazioni visive possono far seguito all’abuso di sostanze. I sintomi psicotici di tipo schizoaffettivo possono presentarsi durante malattie del sistema nervoso e/o intossicazioni anche senza compromissione dello stato generale. Le crisi epilettiche non convulsive rappresentano una potenziale causa di disturbi della coscienza, stati deliranti e anomalie del comportamento; quando le crisi sono continue o subentranti, senza apparente componente clinica, possono determinare disturbi del comportamento con irrequietezza, agitazione psicomotoria, aggressività, associati a incoerenza ideativa e confusione. Fra le psicosi organiche la demenza si caratterizza per definizione per la comparsa di un deterioramento neuropsichico in bambini e ragazzi con uno sviluppo precedentemente normale. Le cause sono molteplici: malattie infettive, malattie neurometaboliche e malattie neurodegenerative. Dal punto di vista clinico la perdita delle acquisizioni di sviluppo recenti rappresenta la situazione più comune che orienta verso questa condizione patologica. INTERVENTI TERAPEUTICI NELLA SCHIZOFRENIA. Diverse ricerche hanno dimostrato che i pazienti affetti da malattia schizofrenica ricevono il primo aiuto significativo in ritardo e che tutto ciò comporta anche una possibile guarigione più tardiva e incompleta. Le storie dei giovani schizofrenici sono estremamente soggettive per cui è di primaria importanza fornire un ascolto attento e partecipe quale prima risposta ai bisogni del paziente. I fattori che possono amplificare il ritardo nel prendersi cura della malattia sono ascrivibili anche alla famiglia e al vissuto stigmatizzante. Uno dei compiti prioritari dei servizi psichiatrici pubblici, perciò è quello di sostenere i famigliari e i pazienti nella loro capacità richiedere aiuto riducendo l’impatto stigmatizzante della malattia, dando vita ad una rete di contatti e di risposte che possano essere controllati nel tempo e condivisi con i vari operatori. Dopo l’invio si apre la fase decisiva dell’aggancio alla cura o presa in carico. L’esperienza e i dati della letteratura ci indicano che rispondere ai bisogni dei pazienti nel contesto sociale e territoriale di riferimento migliora l’esito di intervento e dei risultati, favorendo la possibilità di seguire nel tempo il percorso di cura e l’accettazione da parte della famiglia. Una presa in carico efficace si caratterizza per alcuni fattori che ne rinforzano la portata, tra cui l’accessibilità geografica dei servizi territoriali, la necessità di offrire progetti di cura individualizzati e la continuità assistenziale offerta dalla stessa èquipe curante; la capacità del servizio di ridurre al minimo l’impatto traumatico del ricorso al ricovero obbligatorio. Per quanto concerne lo schema di trattamento della schizofrenia in età evolutiva secondo i moderni criteri di trattamento si articola in cinque fasi: la terapia farmacologica dei sintomi acuti; la terapia farmacologica diretta alla prevenzione delle recidive; l’intervento psicoterapeutico individuale con il paziente; l’intervento con la famiglia; il programma riabilitativo. La terapia farmacologica deve essere fatta con antipsicotici atipici o neurolettici, stabilizzatori dell’umore, antidepressivi, ansiolitici. E’ importante segnalare che nel caso in cui si lavori con il paziente e con la sua famiglia per costruire un percorso di cura condiviso, la terapia farmacologica specifica diventa più facilmente accettata e più efficace a dosaggi più bassi. Nella fase acuta è consigliabile avviare una relazione terapeutica prevalentemente di sostegno al contrario non è consigliabile una terapia individuale di carattere interpretativo. Qualora si riesca ad ottenere la remissione dei sintomi acuti è utile avviare l’intervento psicoterapico con lo scopo di affrontare insieme al paziente la ricostruzione dell’episodio psicotico: è una fase psicoeducativa in cui è importante che il ragazzo divenga consapevole delle problematiche cliniche, delle modalità con cui appaiono e di come è possibile contrastarle mediante terapie. L’ intervento terapeutico si svolge quindi a un livello crescente di individuale distintivo di percepire, sentire, pensare, gestire le difficoltà e comportarsi. DIAGNOSI. Nella psicologia moderna lo studio della personalità ha assunto un notevole rilievo e si è dotato di metodi che consentano di fondare le conoscenze su un piano empirico. Lo studio della personalità ha oggi lo scopo di indagare delle caratteristiche psicologiche che rendono un essere umano unico, soffermandosi in modo specifico su quei tratti comuni a tutti gli esseri umani sulla base dei quali è possibile evidenziare l’esistenza di differenze individuali. Lo studio della personalità normale e patologica è venuto a costituire uno dei settori d’interesse trasversale alle diverse discipline che contribuiscono alla psicopatologia. A seconda dell’approccio teorico e dell’interesse clinico dei diversi studiosi sono stati presi in considerazione aspetti molto diversi di questa area psicopatologica. La diversa importazione alla base degli studi sui disturbi di personalità (DP) non ha facilitato una netta delimitazione di questa area clinica. CLASSIFICAZIONE. L’istituzione dell’Asse II nel DSM-IV come asse dedicato ai disturbi di personalità è motivata dalla necessità di diagnosticare delle condizioni psicopatologiche che si differenziano per alcune caratteristiche generali dai disturbi dell’Asse I. In particolare queste condizioni comprendono modalità di comportamento profondamente radicate e durature che si manifestano come risposta costante a una vasta gamma di situazioni personali e sociali. Questo modello patologico si manifesta in due o più aree: cognitività, affettività, funzionamento interpersonale, controllo degli impulsi. Tali modalità comportamentali tendono a essere stabili e ad estendersi a molteplici sfere di comportamento e funzionamento psicologico. Il DSM ammonisce rispetto alla diagnosi di DP in età evolutiva ad eccezione del disturbo antisociale di personalità, che non può essere,quindi, diagnosticata nei bambini. La diagnosi di DP dovrebbe essere fatta nei bambini e negli adolescenti solamente quando le caratteristiche sono persistenti e quando i tratti disadattavi sono stabili. Il DSM-5 divide i DP in tre gruppi chiamati cluster. Il cluster A: eccentrico a sottolineare la peculiarità e bizzarria dei processi di pensiero e relazione interpersonale (paranoide, schizoide, schizotipico). Il cluster B detto drammatico: a testimoniare l’intensità e l’instabilità delle manifestazioni emotive (borderline, antisociale, istrionico, narcisistico). Il cluster C detto ansioso: per la caratteristica di inibizione e preoccupazione che fa da sfondo alle relative condizioni (evitante, ossessivo, dipendente). La diagnosi di DP in età evolutiva costituisce da sempre un tema controverso rispetto al quale tutt’oggi non esiste un orientamento univoco e condiviso. Da un lato la patologia di personalità viene considerata il prodotto di vicende evolutive che hanno origine già dalla prima infanzia. Dall’altro lato molti autori hanno posto l’accento sulla plasticità della personalità nelle fasi che precedono l’età adulta, volendo considerare i fenomeni dell’adattamento patologico in queste fasi solo come esiti non conclusivi dello sviluppo. Quest’ultima considerazione ha condotto a una certa riluttanza rispetto alla possibilità di diagnosticare i DP in età evolutiva. Tale cautela ha indotto gli autori dell’Asse II a non considerare la diagnosi di DP prima dei 20 anni di età. Nell’ambito del modello della psicopatologia dello sviluppo le condotte normali e patologiche vengono concepite come il prodotto di un processo di crescita sequenziale in cui in ciascuno stadio la nuova forma di adattamento è dipendente dalla fase che l’ha preceduta. In quest’ottica non è concepibile studiare la patologia di personalità senza considerare i suoi precursori organizzazionali e i percorsi evolutivi che in qualche modo l’hanno determinata. L’atteggiamento generale che voleva una sospensione del giudizio diagnostico negli anni precedenti l’età adulta sembra superato. Anche il concetto di “crisi adolescenziale” viene ridimensionato, cioè viene considerato adesso non più come un elemento intrinseco dello sviluppo ma come un esito patologico. Le vicende precoci prendono via via sempre più importanza nel determinare i processi di organizzazione della personalità e tale impatto ha conseguenze non così modificabili. La necessità di approfondire lo studio sui DP in adolescenza deriva anche da numerose ricerche empiriche svolte in ambiti disciplinari diversi: gli studi di psicologia della personalità, l’epidemiologia psichiatrica, la psicopatologia dello sviluppo. Per quanto riguarda gli studi sulla personalità si evidenzia una sostanziale stabilità dei tratti di personalità dall’infanzia all’età adulta, attraverso l’adolescenza. Gli studi di epidemiologia psichiatrica sembrano rafforzare l’orientamento a sostegno dell’applicabilità delle diagnosi di disturbo di personalità anche in età evolutiva. Da un punto di vista metodologico la valutazione della patologia di personalità in età evolutiva deve districarsi rispetto ai seguenti problemi: Se nel corso dello sviluppo sia possibile identificare le stesse manifestazioni cliniche che caratterizzano i DP in età adulta; Se nel corso dello sviluppo sia possibile identificare delle manifestazioni dell’adattamento che possano rappresentare dei precursori organizzazionali dei DP dell’età adulta; Se nel corso dello sviluppo sia possibile identificare dei problemi globali dell’adattamento; Distinguere le manifestazioni normalmente patologiche tipiche delle diverse fasi evolutive dalle manifestazioni più stabilmente radicate in un’organizzazione patologica della personalità. La valutazione della personalità in età evolutiva dovrebbe quindi sempre considerare sia la dimensione diacronica che quella sincronica. Nella prima si valuta l’impatto attuale che l’organizzazione della personalità ha per il benessere dell’individuo e sulla rete di relazioni significative. Nella seconda si valutano gli effetti organizzazionali che l’evoluzione attuale della personalità può avere sullo sviluppo successivo. Il problema della diagnosi in età evolutiva è quello di identificare criteri evolutivi specifici capaci di riflettere i cambiamenti dello sviluppo e produrre una psicopatologia della personalità e dei DP più precisa. EPIDEMIOLOGIA. Pochissima attenzione è stata data allo sviluppo dei DP in adolescenza e nell’infanzia, ma qualora si ricerchi un disturbo di personalità nel bambino o nell’adolescente la prevalenza può essere considerevole. Sempre più spesso vengono descritti pattern di personalità durevoli che sono già evidenti a partire dalla fine dell’età prescolare; questi pattern comprendono aggressività e attaccamento insicuro che evolvono in comportamenti persistenti dei bambini e in caratteristiche correlate ai successivi disturbi come depressione, uso di droghe e comportamento antisociale. Nel complesso le ricerche sull’età evolutiva sembrano indicare: La prevalenza di DP paragonabile a quella dell’età adulta anche nella fascia di età 9-19 anni In adolescenza la distribuzione di DP sembra essere sovrapponibile a quella dell’età adulta Esiste una stabilità solo relativa nei DP tra adolescenza e età adulta La diagnosi di un disturbo di personalità in adolescenza correla con la psicopatologia in età successive Il problema essenziale della diagnosi di DP in età evolutiva sembra essere quello della stabilità della diagnosi e non tanto della possibilità di identificare in fasi più precoci i segni caratteristici che contraddistinguono i DP in età adulta. EZIOLOGIA. Trattandosi di un costrutto complesso la maggior parte degli autori è orientata a considerare la personalità e la sua patologia come frutto dello sviluppo di un intreccio di fattori secondo quello che è definito il modello biopsicosociale. Gli studi di genetica del comportamento indicano che circa il 50% dello sviluppo delle principali dimensioni della personalità sarebbe sotto il controllo dei geni. Gli autori offrono modelli diversi del percorso attraverso cui i geni eserciterebbero la loro influenza sulla patologia di personalità. Un primo modello fa riferimento al costrutto di temperamento e prevede almeno due modalità attraverso cui tale aspetto può influenzare lo sviluppo di tratti patologici: la prima prevede una corrispondenza fra i diversi tratti temperamentali e lo sfondo emotivo tipico di alcuni DP, la seconda invece prevede che il temperamento influisca soprattutto orientando il tipo di relazione che l’individuo sviluppa con il proprio ambiente sociale. La prima modalità, quella diretta, non ha dimostrato attraverso i dati empirici l’effettiva continuità tra gli aspetti del temperamento e i successivi tratti patologici di personalità. Si preferisce infatti associarla al secondo modello di tipo interazionista, che prevede altri fattori che possono intervenire, specificatamente di natura ambientale. Nello specifico è dimostrato che bambini con caratteristiche temperamentali peculiari (<<bambini difficili>>) avrebbero una maggiore probabilità di ricevere risposte negative dall’ambiente sociale (genitori, insegnanti) arrivando in questo modo a creare delle rappresentazioni del proprio mondo interpersonale improntate sulla negatività e sulla sfiducia. In questo modo si potrebbe instaurare un circolo vizioso e risposte effettivamente negative da parte dell’ambiente circostante. Questo modello si è recentemente arricchito di contributi derivanti dalla neuropsicologia. Un secondo importante modello dell’influenza genetica sulla patologia di personalità si fonda su ipotesi neurobiologiche il cui assunto è che le alterazioni neurotrasmettitoriali geneticamente determinate influiscano selettivamente sullo sviluppo di diversi tratti patologici della personalità. Vengono individuati tre principali sistemi neurotrasmettitoriali del cervello: le vie dopaminergiche che sarebbero responsabili della tendenza ricercare emozioni positive e all’avvicinamento allo stimolo. Una elevata reattività di questi circuiti potrebbe determinare l’eccessiva ricerca di gratificazioni immediate dall’ambiente esterno tipica del disturbo narcisistico della personalità; circuiti serotoninergici che avrebbero un ruolo nel mediare l’aspetto generale della reattività emotiva. L’elevata attivazione di questi circuiti corrisponderebbe ad una bassa soglia di reattività agli stimoli e a uno stato di elevata impulsività, tratto che è comune a diversi DP circuiti noradrenergici che interesserebbero le risposte emotive negative di ansia, depressione, rabbia, ostilità e sensibilità allo stress. Una elevata attivazione di questi circuiti sarebbe responsabile della labilità emotiva e dei sentimenti disforici che caratterizzano il tretto di personalità del nevroticismo e della instabilità emotiva. Nel corso degli ultimi anni è stato possibile dare una connotazione più precisa a tale relazione; circa il 60-80% di pazienti con disturbo borderline di personalità ha alle spalle una storia di eventi traumatici, come anche il disturbo antisociale e quello istrionico. Le difficoltà riguardano il determinare in che senso un evento possa definirsi traumatico e quale sia l’impatto di tale evento sulle strategie di adattamento del soggetto. Rispetto al problema della definizione dell’evento traumatico oggi si fa riferimento a una concezione funzionale di trauma compulsivo l’accento degli approcci psicodinamici è sul conflitto soggiacente che dà origine al tratto del disturbo. Il lavoro dovrebbe integrare il lavoro individuale con il bambino, il lavoro con la famiglia e spesso con l’ambiente scolastico. Il discorso inerente al trattamento dei disturbi del cluster B è più complesso e non può essere limitato all’intervento individuale. Spesso il breakdown evolutivo attraverso cui tale ordine di disturbi si manifesta in adolescenza può richiedere un ricovero o interventi istituzionali di varia natura (nel caso di condotte antisociali marcate anche arresto). Questi interventi possono costituire il terreno per compiere una valutazione accurata della natura della patologia della personalità del paziente e per formulare interventi specifici. Un’importanza particolare per questa categoria di DP riveste la valutazione delle risorse dell’ambiente familiare e di come la famiglia riesce a sviluppare un contenimento emotivo dei continui passaggi all’atto che questi pazienti dimostrano di frequente. Se il comportamento dell’ambiente familiare non fa altro che esacerbare le dinamiche relazionali patologiche del paziente è opportuno pensare ad un intervento come il ricovero o collocazione in strutture residenziale. DISTURBO BIPOLARE Il disturbo bipolare si caratterizza per comportamenti maniacali e depressivi che incidono sul funzionamento complessivo del paziente e sulla sua percezione/cognizione della realtà che lo circonda. La categoria dei disturbi dell’umore comprende due contrapposte dimensioni psicopatologiche: la depressione e i disturbi maniacali. In età adulta quest’ultimi rappresentano una dimensione clinica invalidante per gli alti tassi di morbilità e di mortalità. Le caratteristiche della mania sono clinicamente rappresentabili come opposte a quelle della depressione: innalzamento del tono dell’umore, fuga di idee, iperattività motoria e grandiosità. I sintomi secondari, come l’irritabilità, la rabbia, l’insonnia e l’agitazione, sono condivisi in entrambe le dimensioni. Sebbene nella sua forma lieve la mania può rappresentare una risposta parafisiologica necessaria a raggiungere il successo e a superare gli ostacoli, l’assommarsi di episodi anche di moderata ipomaniacalità rappresenta uno specifico rischio distruttivo per la vita del paziente. Per convenzione tutti i pazienti con sintomatologia maniacale, in tutte le sue varianti, sono classificati all’interno del disturbo bipolare (DB). Disturbo dell’umore: nella mania i disturbi dell’umore appaiono, almeno in parte, con fenomenologia clinica opposta a quella osservabile nella depressione. Si possono osservare: elevazione del tono dell’umore e labilità affettiva e irritabilità. Accelerazione psicomotoria: rappresenta un importante indice clinico della mania e si caratterizza per aumento o sovrabbondanza d’energie, rapidità e iperattività motoria, logorrea. Si possono osservare: fuga delle idee, comportamenti impulsivi. Disturbi vegetativi: tendono ad avere una presenza accentuata durante gli episodi acuti. Si possono riscontrare: iposonnia, diminuzione dell’appetito, ipersessualità. Distorsioni cognitive: il pensiero maniacale è caratterizzato da iperottimismo ed espansività. Si osservano: grandiosità, perdita di insight (auto giudizio sulla propria condizione patologica) e delirio. NOSOGRAFIA. Sia il DSM-IV che l’ICD-10 inseriscono i disturbi maniacali e i disturbi depressivi nella categoria dei disturbi dell’umore. Nel DSM 5 invece sono presenti due capitoli: dist bipolare e dist correlati; dist depressivi. Possiamo parlare di: -Disturbo Bipolare I: il cui sintomo cardine è rappresentato dalla maniacalità che deve essere presente o passato da poco al momento della valutazione psichiatrica e deve essere accompagnato da almeno un episodio o da una serie di precedenti episodi con disturbo dell’umore (dist.depressivo maggiore o stati misti). Tipicamente l’esordio è in età adolescenziale è più raro l’esordio in preadolescenza o infanzia). Inoltre si devono riscontrare una durata dei sintomi di almeno una settimana, un umore euforico o irritabile, almeno tre dei classici sintomi e segni della mania. -Disturbo ciclotimico: rappresenta un disturbo bipolare attenuato con esordio prima dei 21 anni di età. E’ caratterizzato dall’alternarsi di cicli numerosi, ma brevi a sintomatologia depressiva e ipomaniacale. Il corso è continuo o intermittente con rari periodi di umore normale. Il cambiamento dell’umore nella ciclotimia è stato definito come endoreattivo, cioè che l’iperreattività endogena sembra determinante nello scatenamento degli episodi affettivi e comportamentali. -Disturbo bipolare II: i cui sintomo principale è rappresentato dagli episodi ipomaniacali. L’ipomania può essere descritta come una variante soft della mania, in cui i singoli sentimenti maniacali si manifestano senza la tipica gravità e la pervasiva disabilità che contraddistinguono gli episodi maniacali. Tipicamente può essere descritto come un periodo di felicità protratto: il paziente appare ilare, giocoso, socievole e l’ipersessualità, la logorrea si accompagnano a diminuita necessità di sonno. Nell’ipomania i sintomi di distraibilità e la sintomatologia psicotica sono assenti e l’insight viene generalmente mantenuto. Gli episodi ipomaniacali sono di breve durata e contraddistinguono la fine di un episodio depressivo maggiore. MANIACALITA’ IN ETA’ EVOLUTIVA. Kraepelin fu il primo a documentare l’esistenza del disturbo maniaco-depressivo in età pediatrica. Negli anni successi la visione prevalente dei clinici e dei ricercatori fu che l’esordio della patologia maniacale in età pediatrica fosse un evento raro. Negli ultimi vent’anni però vi è stato un crescente interesse verso l’esordio precoce dei disturbi maniacali che ha dato vita a molte pubblicazioni e discussioni cliniche. La visione corrente è che in età pediatrica sia possibile diagnosticare un DB con caratteristiche molto simili, ma non identiche a quelle per il DB dell’adulto. Una delle difficoltà nella corretta diagnosi del DB in età evolutiva potrebbe risiedere nelle specificità dell’età correlata alla presentazione del disturbo, negli antecedenti psicopatologici e nell’alto tasso di patologia psichiatriche in comorbidità. Molti sintomi principali della mania, come la grandiosità, i comportamenti impulsivi l’iperattività motoria la fuga delle idee, rappresentno condizioni mentali fisiologiche nei bambini. In questo senso anche se la condizione maniacale atipica nel bambino ricorda quella della malattia bipolare dell’adulto è fondamentale considerare e interpretare i comportamenti definendoli in funzione dell’età e dello sviluppo cognitivo del bambino. Diverso il discorso quando parliamo del DB in età adolescenziale che rappresenta la norma e la fenomenologia clinica in questa età rimane stabile e sovrapponibile a quella dell’età adulta. La fenomenologia clinica dei disturbi maniacali in età prepuberale è considerata atipica rispetto alla forma che il disturbo assume in età adulta. Nei bambini l’umore maniacale si contraddistingue per i sintomi affettivi (irritabilità più che euforia), per il pattern temporale, per la comorbidità e per la bassa risposta ai trattamenti e la prognosi negativa. L’irritabilità osservata nei bambini con DB è stata descritta come severa, persistemte e spesso violenta. Frequentemente evolve in vere e proprie tempeste emotive nelle quali i capricci appaiono estremi e si associa ad aggressività fisica e verbali. I fattori scatenanti sono rappresentati da eventi stressanti anche di minimo impatto. Quando il bambino viene descritto nei momenti liberi dalle crisi il quadro che emerge è dominato da impulsività, cui si accompagnano comportamenti buffoneschi e facilità al riso anche incongruo. In altri momenti emerge un quadro umorale caratterizzato da apatia, sentimenti depressivi e tristezza. In termini di frequenza le crisi e i sintomi umorali dei bambini con DB appaiono tipicamente in rapidi cicli. Nei DB in età adulta la rapida ciclicità delle crisi è intesa come la comparsa di almeno 4 crisi in un anno della durata di qualche giorno. La rapida ciclicità nell’età infantile, invece, si caratterizza per crisi a sintomatologia maniacale della durata di poche ore che si possono ripetere fino a 365 crisi in un anno. Questa rapidità dei cicli così continua rende difficile il riconoscimento dell’umore di fondo del bambino. COMORBIDITA’ ED EZIOLOGIA. La presenza di alti tassi di psicopatologia in comorbidità rappresenta un ulteriore fattore di atipicità e di difficoltà diagnostica del DB in età prepuberale. Le categorie psicopatologiche che sono descritte in comorbidità sono il DDAI, il DOP (oppositivo provocatorio), il DC (disturbo della condotta) e i disturbi ansiosi, dist da abuso di sostanze e dist pervasivi dello sviluppo. In realtà questi disturbi rappresentano gli antecedenti o fattori di rischio specifici che anticipano l’esordio della patologia maniacale. Pochi sono gli studi longitudinali sul decorso naturale del DB ad esordio precoce. I dati sembrano suggerire che il DB ad esordio precoce rappresenti una variante del DB più resistente ai trattamenti, ad andamento cronico e invalidante, a maggior rischio suicidario, con maggior rischio di espressione della dimensione psicotica associata e con maggior rischio di esposizione a eventi di vita negativi. L’irritabilità e disforia, alti tassi di comorbidità, esordio precoce e cronicità degli episodi, scarsa resistenza ai trattamenti e prognosi negativa rappresentano fattori sintomatologici distintivi di una variante di mania chiamata <<mania disforica>> o <<stati misti>>. Studi recenti hanno rilevato che i fattori genetici sono coinvolti come fattori causali in circa il 60% dei pazienti adulti con DB. Quale sia la modalità di ereditarietà non è chiaro, ma è probabile che la maggioranza dei DB coinvolga meccanismi genetici complessi che interagiscono con fattori ambientali. EPIDEMIOLOGIA E DIAGNOSI. Gli studi epidemiologici sul DB in età evolutiva mostrano una prevalenza del disturbo che varia tra lo 0,8 e l’1,6%. Il rapporto maschi/femmine è di circa 1,5:1. Non esistono dati certi sulla prevalenza e sulle sequele a distanza del disturbo maniacale in età pediatrica. Come già detto la diagnosi di DB in età evolutiva segue gli stessi criteri nosografici e clinici usati per la diagnosi in età adulta. Tuttavia, nei bambini appare indispensabile interpretare i segni e i sintomi in funzione dell’età di sviluppo. L’uso di strumenti semistrutturati tarati a questo scopo come la Washington University K-SADS rappresentano strumenti utili se non indispensabili per una corretta interpretazione del sintomo e del quadro clinico. Una delle più complicate sfide analizzare anche la pervasività per la definizione diagnostica e clinica dell’ADHD. Per formulare una diagnosi di ADHD l’impulsività, l’iperattività e l’inattenzione devono essere presenti in maniera così diffusa e comprendente vari contesti della vita del bambino da non permettergli un sano e pieno sviluppo psicosociale. Alla luce di questo si può definire la patologia ADHD come una patologia a spettro in cui i singoli sintomi assumono rilevanza psicopatologica solo quando coincidono con altri fattori rappresentati da pervasività e frequenza di singoli aspetti comportamentali e cognitivi. CARATTERISTICHE CLINICHE. Il nucleo psicopatologico centrale dell’ADHD è rappresentato da un’eccessiva attività motoria, da inattenzione e da impulsività. I bambini con ADHD mostrano una costante, incongrua e finalistica attività motoria che riescono ad inibire con notevole difficoltà. Lo stato di tensione e irrequietezza motoria si evidenzia anche quando il bambino è occupato in altre attività, con movimenti automatici delle mani e dei piedi. La difficoltà a seguire le istruzioni e le regole si accompagna all’estrema disattenzione. A scuola si evidenziano errori classici di distrazione, scarsa organizzazione, dimenticanze, disordine. Questi bambini a scuola appaiono lenti, sbadati, ipercinetici, continuamente attratti da stimoli esterni, anche banali. E’ proprio nei compiti che richiedono uno sforzo cognitivo che questi bambini mostrano più frequentemente eccessiva attività motoria. Anche nel gioco hanno difficoltà ad organizzarsi e spesso nei giochi di gruppo, tendono ad estraniarsi o a non capire le regole e le mansioni condivise. Inoltre hanno incapacità a mantenere amicizie durature e grandi difficoltà nel pensiero anticipatorio o nel considerare le conseguenze delle proprie azioni, cosa questa che può determinare una facilità a mettersi in situazioni pericolose, per cui non è raro che nella storia clinica di questi bambini vi siano pregresse fratture o traumi a volte anche gravi. Chiaramente non tutti i bambini colpiti da ADHD presentano le stesse caratteristiche, alcuni sono particolarmente iperattivi e impulsivi ma sufficientemente attenti, altri possono essere distratti ma ipoattivi, in ogni caso l’espressione e la gravità del sintomo dipendono anche dal contesto, dall’età e dal tipo di sviluppo. Nei bambini in età prescolare l’iperattività appare il sintomo più evidente e disabilitante, in età scolare i sintomi attentivi appaiono più salienti, mentre in adolescenza la componente motoria mostra una minore pervasività, ma permangono i sintomi di disattenzione e di impulsività. COMORBIDITÀ. Molti bambini con diagnosi di ADHD presentano almeno un’altra patologia psichiatrica associata, infatti una sindrome pura di ADHD rappresenta un caso molto raro, mentre la co-occorrenza con altre patologie psichiatriche concorre in circa il 50% dei casi. Si possono riscontrare: disturbo oppositivo provocatorio tra il 20 e l’80% dei casi; disturbi dell’umore tra il 20 e il 40% dei casi; disturbi ansiosi nel 50% dei casi; disturbi del linguaggio e disturbi dell’apprendimento: dal 15 al 40% di bambini con ADHD presenta anche un disturbo dell’apprendimento e il 75% un disturbo del linguaggio. Con minore frequenza possono riscontrarsi anche altri tipi di disturbi come tic, sindrome di Tourette e dist dell’evacuazione. Un discorso a parte merita la sovrapposizione dell’ADHD con i sintomi maniacali, in quanto questi bambini possono mostrare una disregolazione emozionale tipica del disturbo maniacale. Anche la comorbidità comunque si modifica con lo sviluppo e ad ogni età corrisponde una maggiore frequenza di determinate diagnosi in associazione. Un così alto tasso (50%) di comorbidità nell’ADHD, ha suscitato molte controversie e sono state proposte varie ipotesi per spiegare tale fenomeno. Esse sono: Errore diagnostico: gran parte dei sintomi dell’ADHD sono aspecifici e condivisi da molte patologie; Vulnerabilità: l’ADHD potrebbe essere una condizione di rischio per altre patologie, in questo senso l’ADHD rappresenta una condizione primaria cui nel tempo si associano condizioni secondarie, cioù originate a causa della patologia primaria; Disfunzionalità: l’ADHD e la patologia associata potrebbero condividere la stessa origine disfunzionali che produce distinte conseguenze cliniche Fenotipi: ci sarebbero diversi sottogruppi di ADHD che condividono meccanismi fisiopatologici di base ma che si esprimono in diverse forme cliniche. DECORSO CLINICO. Originariamente l’ADHD veniva considerato una patologia transitoria, destinata a risolversi in età adolescenziale. Attualmente invece è considerata una patologia life span, cioè che tende a coprire, sotto diverse forme sintomatologiche, tutto l’arco della vita di un individuo e con un nucleo psicopatologico centrale che tende a rimanere costante nel tempo. Il deficit attentivo può essere presente già in età prescolare, così come alcuni disturbi della regolazione. A questa età è però difficile essere sicuri della pervasività dei sintomi del bambini e per questo motivi si tende a formulare una diagnosi provvisoria. Di solito è in età scolare o immediatamente prima, che il quadro sintomatologico dell’ADHD emerge con maggiore chiarezza, il disturbo poi persiste in adolescenza e in età adulta, età in cui c’è un rischio di 5 volte superiore ai coetanei, di sviluppare un disturbo da abuso di sostanze, disturbi di personalità e altri disturbi psichiatrici. I problemi scolastici ed educativi permangono e i bambini con ADHD tendono a raggiungere, con l’età, una più bassa scolarizzazione e un peggior impiego lavorativo. La prognosi è generalmente peggiore per il sottotipo iperattivo - impulsivo, soprattutto quando è presente in comorbidità un disturbo della condotta o un disturbo di apprendimento. Una prognosi sfavorevole è naturalmente modulata anche dai tipi di esperienze che il bambino vivrà nel suo ambiente; possiamo dire che più saranno le esperienze negative cui verrà esposto, più alto sarà il rischio di una prognosi sfavorevole. EZIOLOGIA. L’ADHD può essere considerato una patologia a eziologia multifattoriale complessa in cui giocano un ruolo non lineare un gruppo eterogeneo di condizioni biologiche, neuropsicologiche e ambientali. La ricerca negli ultimi 20 anni ha portato all’individuazione di alcune evidenze che supportano la base biologica dell’ADHD. Le prove più consistenti provengono dalla ricerca genetica, dalle metodiche di neuroimmagine e dalla comprensione dei meccanismi neurochimici. L’ADHD tende a ricorrere in diversi membri di una stessa famiglia e costituisce uno dei disturbi con più elevata ereditarietà. I fratelli di bambini con ADHD mostrano un rischio di essere affetti anch’essi dalla stessa patologia tra le cinque e le sette volte superiore rispetto ai fratelli di bambini non affetti e nei figli di un genitore con ADHD, il rischio di sviluppare la malattia è del 50%. Nei gemelli omozigoti c’è un rischio dell’80% mentre in quelli eterozigoti del 32%. Gli studi hanno confermato che la componente biologica del disturbo è significativamente più determinante rispetto alla componente ambientale. Le ricerche di genetica molecolare si sono concentrate nello studio di un gruppo di geni legati al trasporto e alla ricaptazione delle catecolamine. I dati attuali confermano che non vi è un singolo gene alla base dell’ADHD, ma un gruppo di geni che potrebbero modulare l’espressione di un certo numero di fenotipi e pattern comportamentali, alcuni riscontrabili in pazienti con ADHD. Come altri disturbi psichiatrici è verosimile che più fattori genetici determinino la predisposizione per il disturbo, mentre l’attivazione di tale predisposizione sia modulata anche da fattori ambientali. L’attuale costrutto neurobiologico dell’ADHD è supportato dai dati forniti dalle ricerche con metodiche di neuroimmagine che hanno permesso di indicare quali regioni del cervello potrebbero essere disfunzionanti nell’ADHD. Nel 1996 alcuni lavori, usando la RMN, hanno rilevato che il totale del volume cerebrale e in particolare della corteccia frontale e prefrontale destra, nuclei della base e cervelletto, apparivano sensibilmente ridotti di volume in bambini con ADHD. L’impiego della PET e della SPECT ha permesso di comprendere meglio il funzionamento del sistema dopaminergico e l’idea di fondo è che, una disregolazione del funzionamento delle catecolamine in determinate aree del cervello e del cervelletto, possa essere in varia misura coinvolta nei meccanismi patologici alla base dell’ADHD. Il meccanismo neurochimico alla base dell’ADHD coinvolge in prima istanza le catecolamine. Studi di neuroimmagine hanno rivelato alterazioni strutturali in quelle zone del cervello più ricche di neuroni dopaminergici e noradrenergici (cioè la corteccia frontale e prefrontale nuclei della base e cervelletto). In queste regioni la dopamina viene secreta per modulare e inibire l’attività di altri neuroni che sono coinvolti nelle emozioni e nel movimento. Un altro dato in favore dell’ipotesi dopaminergica arriva dalla farmacologia, infatti il trattamento farmacologico dell’ADHD si incentra sull’uso di farmaci stimolanti che a basse dosi sono in grado di ridurre l’iperattività motoria e che agiscono primariamente bloccando il trasportatore di dopamina e in generale aumentando la quantità di dopamina disponibile per la trasmissione del segnale. Questi dati sono in linea con i risultati provenienti dalla ricerca genetica secondo i quali nei bambini con ADHD sono spesso frequenti delle varianti genetiche che funzionano in modo difettoso producendo come risultato una minore disponibilità di dopamina tra i neuroni dopaminergici delle regioni del cervello deputate alla regolazione del movimento e delle funzioni cognitive superiori quali l’attenzione e la regolazione affettiva. Numerosi fattori ambientali sono stati messi in relazione con la genesi dell’ADHD, come prematurità, abuso di fumo e alcol durante la gravidanza, presenza di psicopatologia familiare, basso livello economico, eventi di vita negativi, traumi cranici ed altro. Le ricerche finora effettuate non hanno però portato a risultati significativi in questo campo. La maggior parte dei dati provenienti dalle ricerche effettuate suggerisce che il cuore della sindrome risiede in un deficit delle funzioni cognitive superiori dato da un cattivo funzionamento del metabolismo delle catecolamine e dalla ridotta disponibilità di dopamina nelle aree della corteccia prefrontale e delle strutture corticali. Queste sono le regioni più ricche di neuroni dopaminergici e noradrenergici il cui metabolismo e funzionamento risultano alterati in molti bambini e adulti con ADHD. La corteccia prefrontale e i nuclei della base sono implicati nell’organizzazione delle funzioni esecutive che sono delle strutture cognitive complesse che hanno come nucleo centrale la capacità, che si acquista durante lo sviluppo, di autocontrollo e di inibizione o Insonnie nel primo anno di vita. Più il bambino è piccolo e più è facile che si svegli diverse volte durante la notte e questo succede perché fisiologicamente i bambini hanno un maggior numero di cicli di sonno e di transizione tra le diverse fasi del sonno. Questo può essere un fatto normale durante i primi 6 mesi di vita del bambino; uno dei fattori più importanti per sapere se un bambino con risvegli notturni stia organizzando un’insonnia è la sua incapacità di riaddormentarsi autonomamente senza l’intervento dei genitori. Ci sono alcuni bambini che quando si svegliano non chiamano e sono detti self-soothers cioè autoconsolatori e altri invece che chiamano e sono detti signalers cioè segnalatori; solitamente intorno all’anno di età il 60-70% dei bambini è perfettamente in grado di autoconsolarsi e riaddormentarsi da soli. Fra le 2 tipologie sopraccitate la differenza non si trova nell’organizzazione del sonno, ma nel modo in cui i genitori gestiscono l’addormentamento. -Disturbo del sonno per associazione: si verifica quando l’addormentamento è impossibile se non in presenza di certi oggetti o circostanze; questo disturbo è frequente sotto il primo anno di età e scompare verso i 3-4 anni. I bambini si addormentano a determinate condizioni (presenza dei genitori, biberon, ecc.) e hanno risvegli normali, ma sono incapaci di riaddormentarsi da soli se non vengono ripristinate le condizioni iniziali dell’addormentamento. L’approccio terapeutico prevede l’eliminazione graduale delle associazioni errate con metodiche comportamentali. -Sindrome da eccessiva ingestione notturna di fluidi: si caratterizza per la presenza di risvegli multipli (tutte le notti, minimo 3 a notte) con incapacità a riaddormentarsi senza bere almeno 350 ml di liquidi (latte, camomilla, ecc.). Esclusa una patologia sottostante, la terapia consiste nel seguire alcune regole di condizionamento per rimuovere gradualmente l’associazione alimentazione/sonno. -Coliche dei primi 3 mesi: i bambini che presentano tale disturbo tendono ad avere un sonno diurno estremamente irregolare e breve. Il 90% dei bambini di 9 mesi con alta frequenza di risvegli notturni ha sofferto di coliche. -Insonnia da allergia alimentare: è un disturbo di inizio e mantenimento del sonno determinato da una risposta allergica ad un alimento (di solito latte vaccino); l’insonnia è temporalmente associata all’introduzione di un particolare cibo o bevanda. Insonnie da un anno all’età scolare. -Disturbo da inadeguata definizione del limite: si caratterizza per la difficoltà da parte dei genitori di stabilire regole al momento dell’addormentamento e di farle rispettare con conseguente rifiuto del bambino di andare a dormire ad un determinato orario e di rimanerci tutta la notte. E’ importante fare una valutazione psicodiagnostica dell’intera famiglia e analizzare le modalità del rapporto genitore-bambino, quindi la terapia consiste nell’utilizzo di diverse tecniche comportamentali come il rinforzo positivo. -Insonnia da cause psicologiche e paure all’addormentamento: un fallimento o un’alterata acquisizione della capacità del bambino di gestire l’area transizionale del passaggio veglia-sonno può determinare le paure all’addormentamento così come le reazioni ad un evento traumatico transitorio. Insonnie in adolescenza. L’insonnia in adolescenza è di solito legata alla cattiva igiene del sonno rappresentata da orario di addormentamento dopo le 23, orario di risveglio dopo le 8, sonnellini diurni, schemi irregolari di sonno, assunzione di sostanze eccitanti. La cattiva igiene del sonno contrasta con il fisiologico aumento della sonnolenza legato allo sviluppo puberale. La terapia consiste nel modificare le abitudini errate con un programma comportamentale. TERAPIA DELL’INSONNIA. L’approccio iniziale all’insonnia del bambino deve prevedere l’applicazione di principi di igiene del sonno e di tecniche comportamentali; nei casi particolarmente resistenti si può ricorrere ad interventi farmacologici senza attendere che il disturbo si cronicizzi. Le sostanze farmacologiche più usate sono: Derivati antistaminici: la sostanza più utilizzata è la niaprazina utile per ridurre la latenza del sonno e i risvegli, va utilizzata nelle fasi acute e viene associata ad una terapia comportamentale; Benzodiazepine: utilizzate molto raramente nel bambino, se ne consiglia l’uso solo della tarda età scolare o dall’adolescenza; Antidepressivi triciclici: l’imipramina prima dell’addormentamento ha mostrato una discreta efficacia. Vengono poco usati in età evolutiva a causa dei loro effetti collaterali e possono essere usati in adolescenza solo se il disturbo del sonno nasconde una depressione nascente; Imidazopiridine: sono ipnoinduttori non benzodiazepinici con minori effetti collaterali. Il farmaco più usato è lo zolpidem e va somministrato in basse dosi sopra i 12 anni; Melatonina: si è dimostrata efficace nella regolazione del ritmo sonno-veglia in bambini con patologie neurologiche ed ha ridotti o nessuno effetto collaterale. PARASONNIE. Sono un gruppo eterogeneo (circa 20) di disturbi del sonno che si verificano episodicamente durante la notte senza alterare la struttura del sonno e la cui eziologia è sconosciuta. Il disturbo è correlato con l’età e tende a scomparire spontaneamente nella pubertà. Le manifestazioni delle parasonnie possono essere individuate semplicemente su base clinica per cui è molto importante la descrizione accurata dell’episodio. Per la diagnosi differenziale con altri disturbi può essere utile l’impiego dell’EEG in sonno e della polisonnografia. -Disturbi dell’arousal. Sono così definiti perché il processo che si trova alla base di questi disturbi è un risveglio incompleto. Si caratterizza per comportamenti diversi a cui si associano dispercezione e mancata responsività ambientale, alta soglia al risveglio e vari livelli di attivazione autonomia, con confusione, disorientamento e amnesia retrograda. Di solito si verifica un solo evento per notte nella prima parte della stessa. Ci sono alcuni fattori che incidono su dette manifestazioni come febbre, deprivazione di sonno, farmaci, apnee ostruttive, ecc. I principali disturbi dell’aurosal sono: sonnambulismo, terrori notturni, risvegli confusionali. La diagnosi differenziale va posta con altre manifestazioni parossistiche in sonno, in particolare con le crisi epilettiche notturne e con gli incubi. Anche se la categoria è eterogenea ci sono terapie comuni: Se gli episodi hanno una frequenza inferiore a 1 settimana senza rischio di incidenti: tranquillizzare i genitori sulla benignità del disturbo; dare consigli su come organizzare la casa in maniera sicura; mantenere una regolarità del ritmo sonno-veglia evitando la deprivazione di sonno; non svegliare il bambino; adottare tecniche di rilassamento all’addormentamento; praticare risvegli programmati. Se gli episodi sono più di 1 a settimana con rischio di incidenti: si rende necessario un approccio farmacologico con farmaci che agiscono su 2 principi: la riduzione della quantità di sonno ad onde lente e l’effetto soppressore del sonno REM. -Altre parasonnie. Movimenti ritmici del sonno: movimenti stereotipati e ripetitivi che interessano prevalentemente la testa e il collo o l’intero corpo, ricorrono ad intervalli regolari e durano in media da 1 a 15 minuti o persistono tutta la notte. L’esordio è tra i 6 e i 9 mesi e scompaiono intorno ai 2 anni; in bambini con ritardo mentale o autismo possono persistere. La terapia è di tipo comportamentale, l’approccio farmacologico è a base di Benzodiazepine date in maniera intermittente. Mioclonie ipniche: manifestazione tipiche della transizione veglia/prima fase NREM, consistono in improvvise clonie brevi, isolate o in sequenze aritmiche che interessano gli arti inferiori o più raramente le braccia, il capo o l’intero corpo. A volte si associano ad allucinazioni sensoriali e sono molto frequenti in età evolutiva ma non necessitano di trattamento. Crampi notturni: dolore o tensione muscolare a livello degli arti può svegliare il bambino e provocare un disturbo di inizio e mantenimento del sonno e quindi sonnolenza diurna. Più comuni in età evolutiva; massaggio e calore sulla zona coinvolta aiutano a calmare il dolore. Paralisi del sonno: periodo di impossibilità a compiere movimenti volontari, compare all’inizio del sonno e/o dopo il risveglio. Il bambino è cosciente, vigile, ma si sente paralizzato. Solitamente gli attacchi durano pochi minuti e terminano spontaneamente. Esordiscono in adolescenza ma possono comparire anche nell’infanzia. Enuresi notturna: disturbo caratterizzato da una o più minzioni involontarie in un mese, durante il sonno, in bambini di età superiore ai 5 anni, in assenza di altre patologie. Gli episodi avvengono in tutte le fasi del sonno e in qualsiasi momento della notte. Si divide in primaria (il bambino non ha lunghi periodi di continenza) e secondaria (il disturbo si ripresenta dopo almeno 6 mesi di continenza); quest’ultima è solitamente associata a fattori organici o psicologici. La prevalenza del disturbo varia con l’età ed è più frequente nel sesso maschile. Il trattamento consta di una terapia comportamentale e/o farmacologica con diesmopressina o imipramina. DISTURBI DEL RITMO CIRCADIANO- La funzione del ritmo circadiano è quella di fornire una precisa regolazione temporale del comportamento e dei processi fisiologici per un adattamento ambientale. In condizioni normali il nostro ritmo è strutturato in: una fase di attività dalle 5 alle 8 del mattino; una fase di riduzione di attività con diminuzione delle performance fisiche tra le 11 e le 14; una nuova fase di elevata vigilanza tra le 17 e le 20; una fase di estrema riduzione della vigilanza e dell’attività tra le 23 e le 5 del mattino. Il ritmo luce-buio è l’elemento fondamentale per regolare il ritmo sonno-veglia sulle 24 ore. Esistono delle differenze individuali che determinano le cosiddette tipologie circadiane del gufo e dell’allodola: le allodole vanno a dormire presto e si svegliano presto e sono più attivi la mattina, i gufi vanno a dormire tardi e si svegliano tardi e sono più attivi la sera. Spesso la comprensione della tipologia circadiana è utile per evitare disturbi del sonno. I disordini del ritmo sonno-veglia sono inseriti nel gruppo diagnostico delle dissonie e nei bambini sono rappresentati dalle seguenti tipologie: Sindrome da fase di sonno anticipata: si verifica in bambini molto piccoli e tende a scomparire con la crescita. Si caratterizza per la presenza di una fase di sonno che inizia e adulti tra i 20 e i 60 anni con un rapporto uomo-donna di 3:1. Il DSM-IV-TR la definisce come “un disturbo cronico fittizio con segni e sintomi fisici predominanti che deve essere distino dall’ipocondria, da manifestazioni iatrogene, dalla non compliance o da artifici di laboratorio 1I criteri che definiscono un DF sono: A. la produzione intenzionale di segni o sintomi fisici o psichici: invenzione di lamentele soggettive; falsificazione di segni obiettivi; condizioni autoprocurate; amplificazione di condizioni mediche preesistenti; qualche combinazione o variante di queste. B) La motivazione di tali comportamenti è quella di assumere il ruolo di malato. C) Sono assenti incentivi esterni come vantaggi economici. La Sindrome di Münchausen «by proxy» o per procura (MSBP), è invece una grave forma di ipercuria per cui il bambino è sottoposto a continui e inutili accertamenti clinici e cure inopportune per la convinzione errata e delirante del genitore che il proprio figlio sia malato. Nel DSM-IV-TR tale sindrome è indicata come disturbo fittizio per procura i cui criteri diagnostici sono: produzione intenzionale o simulazione di segni o sintomi fisici o psichici in un’altra persona che è affidata alle cure del soggetto; la motivazione per il comportamento del soggetto responsabile è quella di assumere per interposta persona il ruolo di malato; sono assenti incentivi esterni per il comportamento; il comportamento non risulta meglio attribuibile a qualche altro disturbo mentale. Nel DSM 5 i criteri diagnostici sono rimasti immutati ma questo dist è classificato nella categoria dei sintomi somatici e dist correlati, con la denominazione di dist fittizio imposto agli altri. In base a tali criteri il perpetratore (di solito la madre) dovrebbe essere diagnosticato come portatore di disturbo fittizio non altrimenti specificato. Si tratta di una forma di abuso molto grave, sia perché presuppone una condizione psicopatologica di tipo delirante centrata sul corpo, sia perché espone il bambino che ne è vittima ad un danneggiamento fisico e psicologico. Le sue ripercussioni hanno una doppia valenza: da un lato il bambino tende a stabilire legami di attaccamento insicuri con la possibilità di sviluppare, in futuro, ipocondrie, psicosi o altre psicopatologia; dall’altro la stessa sindrome garantisce lo “status quo” di un sistema familiare dove i conflitti rimangono irrisolti grazie alle malattie fittizie del bambino. Non esiste un corpus di ricerca consolidato, mancano tecniche adeguate e riconosciute per l’identificazione dei casi e per una precisa diagnosi, scarsi sono gli studi di incidenza e prevalenza del disturbo e, i pochi esistenti, sottolineano che si tratta di un disturbo la cui diffusione è probabilmente sottostimata, anche perché sono solo i casi più gravi quelli che arrivano ad essere individuati. La mortalità è stimata intorno al 6-10% con punte del 33% nei casi in cui sono perpetrati avvelenamento e soffocamento. Nel 76% dei casi la madre è ritenuta l’unica responsabile mentre il padre assume un ruolo passivo. CARATTERISTICHE CLINICHE. Le vittime possono essere sia bambini molto piccoli, sia in età scolastica e adolescenti. La MSBP può presentarsi con problemi medici appartenenti a una gamma molto vasta, da quelli dermatologici a quelli cardiovascolari, neurologici, respiratori, allergici, gastrointestinali etc., ma che non hanno un senso né in termini di caratteristiche cliniche, né di decorso. Nell’80% dei casi la madre ospedalizza il figlio ed è in questa situazione che può essere più facile individuare il disturbo. C’è comunque da sottolineare il fatto che solitamente il genitore abusante ha conoscenze mediche dettagliate o fa parte addirittura del personale paramedico, e questo può fuorviare medici o infermieri sulla veridicità di quanto afferma. Nel momento in cui il bambino viene ospedalizzato si può utilizzare la tecnica della videosorveglianza ed individuare quindi il disturbo, anche se ci sono molti problemi deontologici e di privacy a riguardo. Il genitore spesso alterna una facciata premurosa e preoccupata di fronte a chi si prende cura del bambino, per assumere poi un atteggiamento distaccato e indifferente quando è solo col bambino. La MSBP può essere perpretata non solo attraverso la contraffazione di una patologia ma anche attraverso l’omissione della terapia per una malattia esistente con lo scopo di peggiorarla. Infatti in alcuni casi il bambino inizia con una patologia clinica acuta che dovrebbe scomparire con le cure ma che inspiegabilmente continua. La MSBP può quindi anche comprendere la deliberata omissione di medicine o cure per un bambino che è veramente malato. Diventa dunque importante valutare l’intenzione della madre e differenziare l’omissione deliberata di cure da una situazione di incuria. LA DIAGNOSI DIFFERENZIALE. Non sempre la falsificazione di una patologia pediatrica rientra nella Sindrome di Münchausen «by proxy» pertanto in questi casi bisogna attuare una corretta diagnosi differenziale. Ad esempio nei casi in cui il bambino presenta dei sintomi fittizi indotti dalla madre, ma la frequenza degli episodi d’abuso è bassa e il confronto con il medico spesso la induce a comunicare i suoi problemi quali ansia e depressione e ad accettare un sostegno psicoterapeutico ci si trova davanti all’ Help seeker. Una variante della MSBP è il medical shopping per procura, si tratta di bambini che hanno sofferto di una grave malattia nei primi anni di vita e da allora vengono continuamente sottoposti a controlli medici anche per disturbi di minima entità; questi genitori tendono a voler sostituire la figura del medico in quanto spesso ritengono la diagnosi o il trattamento non corretto. In questo caso il disturbo materno è di tipo nevrotico-ipocondriaco. Con l’espressione chemical abuse si indica invece l’anomala e aberrante somministrazione di sostanze chimiche o farmacologiche al bambino per determinare la sintomatologia e ottenere il ricovero ospedaliero. Tale forma di abuso va sospettata quando i sintomi non sono spiegabili sulla base di consuete analisi di laboratorio e soprattutto se si accentuano ogni volta che la madre ha un contatto con il bambino. Vi è poi la sindrome da indennizzo per procura quando il bambino assume dei sintomi riferiti dai genitori in situazioni in cui è previsto un indennizzo economico. Il quadro clinico segue spesso un trauma cranico e si presenta con sintomi che variano a seconda delle conoscenze mediche della famiglia. La motivazione, totalmente inconscia, è quella del risarcimento e la sindrome si risolve, con la totale e improvvisa guarigione, una volta ottenuto il risarcimento. Solitamente la vittima è un bambino piccolo e il responsabile la madre; l’intenzione non è nuocere al figlio ma un estremo bisogno di protezione e attenzione per sé. Chi abusa (solitamente la madre) ha avuto generalmente esperienze simili durante l’infanzia, ha grande dimestichezza con la medicina, appare accudente e coinvolta nella cura del figlio a differenza dell’altro genitore (il padre) che raramente ha comportamenti di abuso, ma piuttosto si dimostra passivo e indifferente. Questa passività di solito è la risposta al fatto che non riesce a fermare l’abuso da parte della madre. La sindrome di Münchausen per procura è una manifestazione di un sistema familiare patologico in cui troviamo un ossessivo invischiamento che si esprime con una ipercuria, un amore patologico della madre nei confronti del figlio. E’ chiaramente necessaria la collaborazione di tutto il sistema familiare e tutti i membri utilizzano questo tipo di abuso per mantenere la stabilità familiare e negare i conflitti. Solitamente i genitori hanno bassi livelli di autostima, grosse difficoltà nei rapporti interpersonali e una forte diffidenza nei confronti delle novità. Queste madri hanno un Io fragile e combattono la sensazione interna di vuoto assumendo il ruolo di madri devote e pronte a sacrificarsi per i figli colpiti da una malattia grave. Questa condizione è fortemente gratificante per la madre, al punto da essere ricercata in maniera inconscia. Il rapporto sarà molto simbiotico anche se colpisce nelle madri l’assenza di partecipazione emotiva per le sofferenze del figlio a causa delle numerose procedure cui viene sottoposto e, quando pensano di non essere osservate, si mostrano insensibili nei confronti dei loro bambini. Utilizzando la teoria dell’attaccamento di Bowlby, questo tipo di relazione madre bambino può portare ad uno stile di attaccamento disorganizzato-disorientato. Il bambino si trova davanti ad un paradosso: la persona che lo dovrebbe accudire è la stessa che lo maltratta. A lungo andare nel bambino si innesca la paura di essere abbandonato o rifiutato e la malattia diventa quasi una sorta di protezione perché gli garantisce la vicinanza e le cure del genitore; in altri casi, soprattutto nei bambini sotto i 7 anni, la malattia può essere vista come una sorta di punizione per qualcosa di cattivo che hanno compiuto e per questo si adeguano alle richieste patologiche della madre. Il bambino con la MSBP arriva a perdere la capacità di percepire correttamente le sensazioni che arrivano dal corpo, fino a non essere più in grado di distinguere se i suoi sintomi sono reali, immaginati da lui o indotti da altri, strutturando un Sé indifferenziato e fragile e il rischio più grave è che in adolescenza questo bambino possa continuare a percepire il suo corpo come malato evolvendo verso strutture psicotiche in cui è centrale il delirio dismorfofobico e ipocondriaco. Le conseguenze psicologiche che il bambino può presentare possono essere: difficoltà scolastiche e di apprendimento poiché è spesso assente per motivi di salute; assenza di interazioni sociali poiché trascorre gran parte del tempo in ospedale; patologie psichiatriche come ansia o depressione; falso sé: il bambino assume comportamenti, convinzioni e modalità di eloquio appartenenti alla figura adulta con cui è in rapporto. A volte lo sbocco di questo drammatico percorso è anche la morte ad opera dell’abusante o anche a causa di complicazioni insorte per curare la patologia indotta. DIAGNOSI E TRATTAMENTO. La Sindrome di Münchausen per procura fa parte degli abusi verso l’infanzia ma, essendo un disturbo difficile da individuare, risulta difficile la sua collocazione in una categoria diagnostica e in una nosografia precisa in quanto questa è una diagnosi pediatrica e non psichiatrica. Non c’è nessun esame psichiatrico o psicologico, nessuna tecnica di intervista che può escluderla, solitamente per il responsabile si pone la diagnosi per disturbo fittizio per procura mentre per la vittima la diagnosi è di maltrattamento fisico. E’ comunque fondamentale studiare bene la storia clinica, consultare il medico di famiglia o altre fonti, la storia personale, familiare e sociale e verificare se i sintomi del bambino scompaiono quando la madre è lontana da lui, verificare se il genitore possiede conoscenze mediche e se ha un comportamento molto controllato rispetto alla gravità della situazione del figlio. Per una diagnosi più certa è necessario l’allontanamento del minore dal sospetto colpevole. La presa in carico del bambino è attuabile attraverso due percorsi: la tutela e la terapia medica e psicologica. Il trattamento medico ha come obiettivo la cura delle lesioni e delle eventuali patologie conseguenti all’abuso, la terapia psicologica è rivolta sia al bambino che alla famiglia. Bisogna comunque tener rispetto alla trasgressione di norme sociali e al benessere delle vittime; le distorsioni cognitive possono riflettere una distorta valutazione delle implicazioni della condotta pedofila. COMORBIDITA’ E TRATTAMENTO. Il problema della comorbidità è molto importante in quanto condizioni psichiatriche sottovalutate possono contribuire agli insuccessi terapeutici. Le associazioni più frequenti sono con il disturbo dell’umore, d’ansia, da uso di sostanze, con altre parafilie e con i disturbi di personalità principalmente paranoie, narcisistico, antisociale e ossessivo - compulsivo. La possibilità di trattamento comprende sia interventi psicoterapici che però incontrano molte difficoltà legate alla scarsa motivazione dei pazienti che sviluppano molto frequentemente una soluzione erotica ai propri problemi e sono raramente interessati a rinunciare ad essa, sia interventi farmacologici utilizzando sia farmaci che agiscono a livello ormonale (abbassando il livello di testosterone), sia farmaci inibitori della ricaptazione della serotonina. DISTURBI DELL’IDENTITA’ DI GENERE La diagnosi di Disforia di Genere nell’infanzia si riferisce ad un disturbo che si manifesta generalmente tra i 2 e i 4 anni, età in cui il bambino impara a classificare se stesso e gli altri attraverso la propria identità sessuale. Il primo psicoanalista che si è occupato del disturbo è Stoller che aveva definito l’identità di genere come l’immagine che un individuo ha di se stesso riguardo l’appartenenza ad uno dei due sessi. Definiva il concetto di core gender identity come fondamentale e inalterabile senso di appartenenza ad un genere che diviene stabile all’età di circa 3 anni, che tende a rimanere immutato per l’intera vita e che non può essere modificato da influenze sociali o dall’evidenza dei propri caratteri sessuali. Gli studi di Stoller, inizialmente contestati, hanno dato però il via insieme a quelli di altri autori ad una serie di ricerche sullo sviluppo normale e patologico dell’acquisizione di genere del bambino. Negli ultimi anni si è data molta attenzione all’uso della terminologia relativa al sesso e al genere e l’uso originario del termine “ruolo di genere” è stato scomposto in diverse espressioni. Si parla quindi di ruolo di genere per definire i comportamenti, gli atteggiamenti e i tratti di personalità che una data società definisce come più appropriati al ruolo maschile e al ruolo femminile. Si parla di identità di genere per descrivere un complesso sistema di credenze riguardo a se stessi, cioè il senso della propria mascolinità o femminilità. Si parla di orientamento sessuale per definire la risposta degli individui agli stimoli sessuali. La dimensione più importante dell’orientamento sessuale è quella relativa al sesso del proprio partner ed è proprio sulla base di essa che si definisce detto orientamento come eterosessuale, bisessuale e omosessuale. Si parla di disforia di genere quando c’è un’infelicità e un’insoddisfazione di fondo rispetto al proprio stato biologico di maschio e di femmina che può essere così grande da richiedere fin dall’adolescenza una riassegnazione chirurgica o ormonale del sesso. EPIDEMIOLOGIA. Le difficoltà a reperire dati sulla prevalenza del disturbo nei bambini sono imputabili a diversi fattori, infatti solitamente i dati vengono rilevati su quei soggetti che si rivolgono a cliniche specialistiche per la riassegnazione chirurgica o ormonale del sesso ma, dal momento che non tutti gli affetti da DIG lo fanno, non esistono dati certi sull’incidenza del disturbo nella popolazione adulta. Inoltre la stima della prevalenza del DIG derivante dai dati di adulti transessuali conferma la rarità di questa patologia nell’infanzia ma non supporta l’ipotesi che essa persista necessariamente in età adulta. DIAGNOSI. Il disturbo di identità di genere nell’infanzia compare per la prima volta nel DSM-III e nel IV, mentre nel 5 viene trasformato in disforia di genere. La diagnosi di DIG è centrata sulla contemporanea presenza di due ordini di criteri che si riferiscono a due diversi aspetti del disturbo: una marcata incongruenza tra il genere esperito/espresso e il genere assegnato; la sofferenza e la compromissione provocata da tale condizione in ambito sociale, lavorativo, ecc. Inoltre il DSM 5 ha una sezione diagnostica per bambini <6 anni, una per gli adolescenti e una per gli adulti: ciò che differenzia i bambini dagli adulti è il travestirsi utilizzando abbigliamento del sesso opposto, nel gioco di finzione interpretare personaggi di sesso opposto, prediligere giochi usati da bambini dell’altro sesso, rifiutare la propria anatomia sessuale e desiderare le caratteristiche del sessuali del genere esperito. L’ICD-10 al contrario mantiene la distinzione nell’ambito dei disturbi dell’identità sessuale, di tre disturbi separati: transessualismo, travestitismo a doppio ruolo, disturbi dell’identità sessuale nell’infanzia. La classificazione diagnostica 0-3 illustra gli stessi criteri del DSM che sono accompagnati da una descrizione dei comportamenti e degli atteggiamenti osservati nei bambini molto piccoli che presentano il disturbo. La diagnosi si basa quindi su caratteristiche cliniche facilmente osservabili legate ad una forte identificazione con il sesso opposto. I bambini che presentano questo disturbo vivono un profondo senso di disagio, ansia e inadeguatezza connessi al proprio genere, a cui si associa un forte desiderio di appartenere al sesso opposto. Questi bambini nei giochi di fantasia impersonano esclusivamente ruoli del sesso opposto, sono attratti dalle attività e dai comportamenti tipici dell’altro sesso e dichiarano frequentemente di appartenere al sesso opposto o di chiamarsi con un nome dell’altro sesso. DIAGNOSI DIFFERENZIALE. E’ importante distinguere il DIG da variazioni ritenute nella norma infatti i bambini di 2-3 anni frequentemente si vestono o comportano come quelli del sesso opposto, solo se questo diventa un interesse costante viene considerato atipico. Bisogna differenziarlo da altre manifestazioni che hanno caratteristiche simili quali il desiderio di appartenere ad entrambi i sessi (tra i 2 e i 3 anni si può manifestare la difficoltà di abbandonare l’illusione di poter essere sia maschi che femmine), la non conformità al proprio genere sessuale (questo può essere la dimostrazione di un maggior grado di flessibilità comportamentale e mentale), le bambine maschiaccio (bambine che spesso si comportano come maschi ma che non sono dispiaciute di essere femmine) e le disfunzioni sessuali organiche (che possono condurre ad una confusione sul genere sessuale ma raramente conducono al DIG). COMORBIDITA’. Il DSM 5 riporta in concomitanza con il DIG i dist d’ansia e fobie specifiche; dist di personalità, dist dell’adattamento e depressione. I dist di personalità più frequenti sono il narcisistico, il paranoico e l’evitante Sono inoltre risultati frequenti disturbi comportamentali sia nei bambini che nelle bambine che presentano DIG, i maschi poi presentano una predominanza di difficoltà emozionali. Negli adolescenti vengono descritti una particolare tendenza alla depressione e un rischio consistente di ideazione suicidaria e tentativi di suicidio. EZIOLOGIA. Le ricerche sulle possibili cause biologiche si sono finora basate sulla teoria dell’esposizione ormonale prenatale ma ancora non hanno dato nessun risultato conclusivo, mentre per ciò che attiene le cause psicologiche, particolare risalto è stato dato alla relazione madre-bambino ed al periodo di separazione - individuazione esposto dalla Mahler e valutato attraverso la strange situation. Attraverso questa procedura si è analizzata soprattutto la sottofase del riavvicinamento e si è arrivati a dimostrare che il 60% dei bambini con DIG presentano anche un disturbo d’ansia di separazione e nel 70% dei casi è stato individuato un attaccamento insicuro e disorganizzato. Attraverso altri studi clinici si è rilevato che la sinergia tra eventi stressanti nella vita familiare precedenti all’insorgenza di DIG e la predisposizione costituzionale e temperamentale ricorre con discreta frequenza. Inoltre, sono stati sottolineati il mancato scoraggiamento e la tolleranza da parte dei genitori dei comportamenti crossgender come effetti non secondari nel mantenimento della sintomatologia. Fattori transgenerazionali complessi, che si esprimono in rapporti non risolti dei genitori con i propri genitori, o la presenza di lutti, sembrano poter concorrere all’insorgenza e al mantenimento del DIG. Attraverso i dati disponibili in letteratura si è riusciti a dimostrare che un contesto familiare disturbato è una esperienza traumatica cumulativa molto frequente tra pazienti con DIG. La difficoltà di separazione per cui il bambino metterebbe in atto un’identificazione imitativa confondendo “l’essere come la mamma” con ”essere la mamma”, viene messa in relazione con un attaccamento di tipo insicuro e disorganizzato che questi bambini sviluppano. La scelta del sintomo sembra assumere una funzione sia di sopravvivenza del legame bambino-madre sia di nutrimento per la stessa madre. Da quanto risulta dagli studi disponibili di follow up non sono tuttora del tutto definite l’evoluzione a lungo termine e la prognosi, e in particolare mancano i dati relativi alle bambine. Se è vero che gli adulti e adolescenti che presentano un DIG riferiscono comportamenti cross gender nell’infanzia, è anche vero che il disturbo persiste in adolescenza e in età adulta solo in una minoranza dei casi e che l’intervento terapeutico può alterare la storia naturale del DIG. TRATTAMENTO. Il trattamento ideale è una terapia individuale per il bambino e una cumulativa con i genitori. Poiché una caratteristica del DIG in infanzia è il sostegno del sintomo da parte dei genitori bisogna sostenerli nel riconoscere la loro funzione di modelli d’identificazione per il bambino, il quale è continuamente condizionato da ciò che loro gli propongono nel contesto dell’attività ludica. Ciò si può ottenere non puntando sulla repressione di tutti i comportamenti cross gender ma con un’ attenzione al contesto e all’obiettivo di portare il bambino alla realtà. E’ molto importante curare un DIG soprattutto per le psicopatologie che possono essere associate. Tutt’altro lavoro bisogna svolgere con gli adolescenti, poiché quest’ultimi arrivano alla consultazione supporto sociale e familiare ecc. possono avere un valore predittivo rispetto allo sviluppo successivo del PTSD. A livello clinico emerge quindi l’importanza di una precoce individuazione dei fattori di rischio sia protettivi determinanti ai fini prognostici rispetto agli effetti a breve, medio e lungo termine dell’esperienza traumatica. ASPETTI NEUROBIOLOGICI DEL PTSD. Un primo ambito di problemi si pone nella valutazione dell’influenza dei fattori genetici nello sviluppo del PTSD il quale assume un ruolo inferiore rispetto all’evidente peso dei fattori ambientali. Negli studi effettuati comunque è stato riscontrato che almeno il 30% dei sintomi del PTSD potrebbe essere legato a fattori genetici. Altri studi mirati alle conseguenze neurobiologiche del trauma hanno dimostrato come l’evento traumatico possa produrre alterazioni non solo a livello fisiologico, riguardanti la regolazione del sistema neuroendocrino e immunologico, ma anche vere e proprie modificazioni a livello anatomico. Per quanto riguarda il versante delle disregolazioni del sistema nervoso centrale, il riferimento più ricorrente è quello dell’asse ipotalamoipofisi-surrene (HPA), notoriamente interessato alle risposte allo stress. Alcuni autori enfatizzano l’impatto neurobiologico di un evento traumatico, notando come in una situazione di stress acuto aumenti l’attivazione del sistema noradrenergico, che ricopre un ruolo importante in un gran numero di comportamenti correlati al PTSD come ad es. la regolazione dello stato di arousal, vigilanza, irritabilità, locomozione, attenzione, sonno e risposta d’allarme. E’ stato inoltre notato che il cervello in fase di sviluppo è particolarmente sensibile allo stress, specialmente quando questo è imprevisto e incontrollabile. Alcuni autori ritengono che i bambini esposti a traumi precoci possano subire delle alterazioni neurobiologiche, in grado di renderli poi più vulnerabili all’esposizione a stressors psicosociali. Per quanto riguarda le modificazioni a livello anatomico alcuni autori hanno dimostrato che i bambini maltrattati avevano volumi intracranici e cerebrali più piccoli. Questi bambini presentavano anche ideazioni suicidarie, depressione e frequenza accresciuta di sintomi dissociativi. COMORBIDITA’. Il PTSD è un disturbo che spesso può coesistere con altri disturbi nella stessa persona. Nei bambini più piccoli può associarsi prevalentemente con l’ADHD, con il disturbo dell’attaccamento, borderline di personalità e d’ansia di separazione. Nei bambini più grandi e negli adolescenti può associarsi maggiormente con disturbo oppositivo provocatorio, della condotta, depressivo maggiore, distimico, da somatizzazione, da uso di sostanze, alimentare, schizofrenia e altri disturbi psicotici, disturbi dissociativi, della sfera sessuale e d’ansia. DIAGNOSI DIFFERENZIALE. Non tutte le reazioni che si manifestano in bambini e adolescenti esposti ad un evento stressante estremo devono essere necessariamente considerate patologiche né tanto meno riconducibili al PTSD. Ciò è vero soprattutto per i primi giorni o settimane successive all’evento traumatico, quando compaiono una serie di sintomi descritti come disturbo acuto da stress (DAS) che però si risolvono entro un mese. Il DAS è stato inserito nel DSM come un precursore del PTSD, per identificare cioè i soggetti che potrebbero essere a rischio di sviluppare un disturbo post traumatico da stress, ma ciò non accade necessariamente e inoltre non ci sono studi supportivi all’ipotesi che il DAS possa diventare un PTSD nei bambini. Il disturbo dell’adattamento invece, si differenzia dal PTSD sia per il modesto livello di gravità dell’evento stressante, sia per una presenza di sintomi che non soddisfano pienamente i criteri del disturbo post traumatico da stress ma che interferiscono, in qualche modo, col funzionamento quotidiano del bambino. Nel caso in cui i sintomi di evitamento, intorpidimento e aumento dell’arousal siano presenti prima dell’esposizione ad un evento stressante, non può essere effettuata una diagnosi di PTSD ma di disturbo dell’umore o d’ansia. Il DOC (disturbo ossessivo compulsivo) invece se ne distingue per la presenza di pensieri intrusivi ricorrenti, vissuti come inappropriati e non correlati all’esperienza traumatica. Di rado il DOC può svilupparsi all’interno del disturbo post traumatico da stress. La depressione può talvolta distinguersi dal PTSD per la natura autopunitiva dei pensieri del bambino e per un’anedonia più pervasiva. Infine la schizofrenia e i disturbi psicotici si differenziano dal PTSD per la pervasività dei sintomi psicotici, per un comportamento bizzarro e per un alterato senso di realtà. VALUTAZIONE. La valutazione diagnostica del PTSD ai fini di stabilire un adeguato trattamento deve raggiungere 5 obiettivi principali: stabilire l’esposizione ad un evento traumatico, stabilire la reazione negativa a detto evento, identificare i sintomi che soddisfano i criteri diagnostici del DSM, valutare la durata appropriata dei sintomi, stabilire la presenza di angoscia o l’entità del danno necessari per la diagnosi. Per un corretto riconoscimento del disturbo l’iter valutativo deve avvalersi di numerose tecniche diagnostiche: colloqui con i genitori per raccogliere info anamnestiche precedenti al trauma e le loro reazioni rispetto al cambiamento del figlio; colloqui con il bambino/adolescente mirati ad incoraggiare l’espressione dei propri sentimenti, attraverso l’utilizzo del racconto, del disegno e del gioco interviste strutturate e semistrutturate, questionari self- report;eventuale raccolta di informazioni da altre fonti vicine al bambino. La diagnosi di PTSD in età prescolare presenta notevoli difficoltà e richiede un approccio specifico, a tal proposito alcuni autori (Zeanah) hanno elaborato un’intervista a fumetti. Al momento l’intervista strutturata più ampiamente usata per tutte le età è il PTSD-RI (post traumatic stress disorder reaction index) che si compone di 20 item. Di questa intervista ne è stata creata una versione per bambini più piccoli che sembra fornisca un buon indice di correlazione con il livello di gravità del PTSD. TRATTAMENTO. Una volta effettuata la diagnosi del disturbo ed eventualmente identificate le condizioni di comorbidità psichiatrica, è importante prevenire la possibilità di un consolidamento dei sintomi attraverso un intervento mirato sia sul piano psicosociale che farmacologico. I trattamenti psicosociali più diffusi sono gli interventi psicoeducativi, le terapie psicoanalitiche e psicodinamiche, la terapia familiare e di gruppo e la terapia cognitivo-comportamentale. Nelle situazioni che caratterizzano la fase acuta del disturbo si attuano interventi precoci (come il debriefing psicologico e gli interventi sulla crisi) che sono mirati a prevenire l’insorgenza di un disturbo vero e proprio. Il de briefing viene svolto in gruppo o individualmente, promuovendo processi emozionali attraverso la normalizzazione dei sintomi. L’approccio maggiormente utilizzato è quello cognitivo – comportamentale che ha come obiettivi: ricostruzione dell’episodio traumatico (discutendone direttamente); tecniche di gestione dell’ansia (ad es. il rilassamento muscolare); correzione dei pensieri distorti legati al trauma (senso di colpa) per far fronte ai ricordi spiacevoli e poter continuare a condurre una vita salutare e produttiva. Gli interventi psicoeducativi in età evolutiva sono incentrati sulla razionalizzazione della natura dell’evento e delle reazioni traumatiche da parte dei bambini e sulla consapevolezza delle proprie risorse utili a proteggerli in futuro. Le psicoterapie di gruppo e individuali a orientamento dinamico hanno l’obiettivo di aiutare a esplorare e risolvere i conflitti interni, riattivando meccanismi di difesa adattivi e permettendo così l’elaborazione del trauma. Anche il trattamento farmacologico può essere utilizzato in età evolutiva nel caso ci sia un elevato stato di agitazione, un’aggressività distruttive per sé e per gli altri e una grave depressione. E’ stato dimostrato che la remissione totale del disturbo può avvenire attraverso un lavoro terapeutico strutturato nel tempo, che comprende trattamenti psicologici da solo o accompagnati da terapia farmacologica. Shapiro ha elaborato L’EMDR che è una tecnica di Desensibilizzazione e Rielaborazione, attraverso il movimento degli occhi, dell’esperienza traumatica. L’EMDR, mobilitando l’elaborazione rapida del materiale cognitivo ed emotivo, crea le condizioni in cui le associazioni si sviluppano ad un livello di arousal basso, tale da aiutare il paziente a sentire il ricordo di esperienze traumatiche in modo nuovo e meno disturbante. Attraverso l’utilizzo di un protocollo strutturato, il T. guida il p. nella descrizione dell’evento o dell’aspetto disfunzionale, aiutandolo a scegliere gli elementi disturbanti importanti. Viene chiesto al p. quali pensieri e convinzioni ha e viene aiutato nell’elaborazione mediante movimenti guidati degli occhi, o altre stimolazioni bilaterali degli emisferi cerebrali; L’obiettivo è l’elaborazione rapida delle informazioni relative all’esperienza negativa da parte del p., fino ad una certa “risoluzione adattiva”; DISTURBO DELL’ADATTAMENTO I disturbi dell’adattamento nel bambino si traducono in varie forme di disagio come risposta ad eventi relativamente stressanti; si tratta di disturbi transitori che compaiono entro 3 mesi dall’evento e che hanno una durata massima di 6 mesi. Per evento stressante la maggior parte degli autori intende tutte quelle situazioni in cui si riscontra una marcata discrepanza tra le domande poste ad un organismo e la capacità di quest’ultimo di rispondere. L’adattamento psichico è quella capacità dell’uomo di far fronte agli eventi stressanti in maniera adeguata, attraverso l’utilizzo di comportamenti adeguati all’età e alle norme sociali, senza attivare meccanismi di difesa nevrotici o immaturi per tal fine. Si parla di disturbo dell’adattamento quando si verifica una reazione di disadattamento, ovvero si manifesta un comportamento inadeguato per l’età cronologica, che si presenti entro tre mesi dall’esordio di un fattore stressante. Il peso di questi fattori stressanti dipende dalla personalità del soggetto quindi non si può parlare di una oggettività dell’evento che porta ad un disturbo adattivo. CLASSIFICAZIONE. Questa categoria diagnostica è utile in tutte quelle situazioni, frequenti in età evolutiva, in cui ad un evento di vita segue un vissuto di sofferenza psicologica nel bambino. La diagnosi di disturbo dell’adattamento viene effettuata in base ai criteri del DSM 5: A) lo sviluppo di sintomi emotivi o comportamentali in risposta a uno o più fattori stressanti che si manifesta entro 3 mesi dall’insorgenza dello stressor; B) Questi sintomi o comportamenti sono significativi come evidenziato da uno o più criteri: marcato disagio che va al di là di quanto prevedibile in base all’esposizione all’evento stressante e compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo - etc.; C) L’anomalia correlata allo stress non soddisfa i criteri per un altro dist mentale e non rappresenta un aggravamento; D) I sintomi non corrispondono a lutto normale; E) Una volta che il fattore stressante è superato i sintomi non persistono per più di 6 mesi. comportamenti disadattivi come bullismo, violenza, abbandono degli studi, isolamento e ritiro sociale. Le difficoltà che l’individuo mostra nel contesto scolastico possono costituire l’espressione di un malessere sottostante e una richiesta di aiuto non verbalizzata. Quando si parla di disadattamento scolastico si fa riferimento ad una condizione di disagio legata all’incapacità di entrare in un rapporto di scambio dinamico con l’istituzione. FATTORI DI RISCHIO. Il disadattamento scolastico si può manifestare con comportamenti inadeguati rispetto all’attività didattica e al contesto relazionale. E’ importante sottolineare al riguardo il ruolo di specifici fattori di rischio che possono riferirsi alla sfera individuale, come eventuali deficit cognitivi o difficoltà nella regolazione degli impulsi o nella gestione degli eventi frustranti, oppure essere collegati all’ambiente familiare e sociale di provenienza. Uno dei fattori di rischio familiare potrebbe essere il modo in cui i genitori vedono il contesto scolastico: se essi hanno delle aspettative troppo positive e quindi danno un’eccessiva valorizzazione alla scuola, questo può indurre ad aspettative elevate sul rendimento scolastico dei figli che possono creare in questi ultimi grosse frustrazioni. Al contrario se i genitori hanno aspettative negative, queste possono portare ad una svalutazione della scuola incidendo anche sul futuro inserimento dei figli nel contesto lavorativo. Altri fattori di rischio a livello sociale, possono far riferimento al gruppo dei pari, alle relazioni tra allievi e docenti e all’organizzazione generale dell’istituzione scolastica. Alcune difficoltà possono essere collegate con la qualità della relazione e della comunicazione tra docente e alunno. Se l’insegnante assume atteggiamenti svalutanti nei confronti dei suoi allievi, questi possono interferire negativamente sul livello di autostima degli stessi, se invece l’insegnante è troppo esigente può indurre nell’allievo elevati livelli di ansia e senso di frustrazione. Tutto questo influisce naturalmente sul rendimento e sull’inserimento scolastico. MANIFESTAZIONI DI DISAGIO NELLA SCUOLA. Durante il percorso formativo, le possibili manifestazioni del disagio scolastico possono presentarsi a diversi livelli. A carico dell’alunno ci sono infatti difficoltà di apprendimento, deficit di età cognitiva, apatia, difficoltà relazionali ed emozionali, rifiuto scolastico-formativo, dispersione e abbandono, devianza. A carico dell’insegnante il disagio deriva dalla distanza tra il reale e l’ideale e da fattori di contesto come relazioni interpersonali, le condizioni di lavoro, l’organizzazione scolastico; a carico della famiglia esso consegue al disagio del figlio che può portare la famiglia ad allontanarsi dalla scuola. RIFIUTO SCOLASTICO. Il comportamento di rifiuto scolare raggruppa atteggiamenti che il bambino/ragazzo può adottare nei confronti della scuola, che possono andare dall’assenteismo alla frequentazione della scuola in modo più o meno regolare ma vissuta con forte disagio. Le cause sono distinte in: rifiuto della scuola per evitare luoghi o cose che generano ansia o paura; per evitare situazioni sociali e/o valutative che generano ansia o paura; per attirare l’attenzione dei genitori; per ricerca di gratificazioni extrascolastiche. Il rifiuto scolastico presenta livelli di incidenza più elevati nelle età del cambio scuola (5/6 anni, 10/11 e 13/14) quando la novità si ripresenta portando nuove aspettative. DISPERSIONE SCOLASTICA. Quando si parla di dispersione scolastica si fa riferimento all’uscita anticipata dal sistema scolastico - formativo relativa sia ad un’inadempienza dell’obbligo di studio, sia all’interruzione della frequenza senza aver conseguito il titolo di formazione previsto. Una definizione più ampia del termine include nel fenomeno anche le ripetenze, i ritardi e i trasferimenti in altri istituti, con o senza perdita di anni scolastici. Abbandono scolastico e drop-out sono termini simili per descrivere l’uscita dello studente dal sistema scolastico, ma mentre per drop-out si intende l’insieme dei ragazzi a rischio di dispersione scolastica, con abbandono scolastico si intende la rottura definitiva del patto tra il ragazzo e l’istituzione scolastica che si verifica in risposta ad una condizione esistenziale e psicologica di disadattamento e insuccesso scolastico. Le variabili che contribuiscono a definire il profilo dei soggetti a rischio di abbandono sono: il genere (interessa maggiormente i maschi); la famiglia di origine; l’età (le uscite corrispondono alle tappe iniziali dei diversi cicli scolastici); l’irregolarità scolastica; motivazioni soggettive; precocità dell’abbandono; marginalità sociale. PROGNOSI. Il disadattamento scolastico riveste un significato prognostico differente a seconda del momento evolutivo in cui si manifesta. Le condizioni di disagio e di disadattamento possono ripresentarsi nel passaggio tra i diversi ordini e gradi di scuola, rischiando di tradursi, con il tempo, in quadri psicopatologici maggiormente definiti. Ad esempio il ragazzo che vuole confermare il proprio valore personale potrà farlo attraverso un rifiuto di aderire alle regole imposte e manifestando un’opposizione nei confronti della scuola e delle sue richieste di impegno intellettivo. Il rischio in questo caso è quello di un’evoluzione verso comportamenti sempre più trasgressivi e socialmente inadeguati che vengono etichettati dal contesto sociale come “devianza”. All’opposto soggetti con un comportamento caratterizzato da disinteresse per la scuola, isolamento e ritiro sociale, frequentemente associato ad inibizione intellettiva e scarsa autostima, risulterebbero più a rischio per disturbi della sfera affettiva. PREVENZIONE. Il disagio in ambito scolastico va considerato come un processo in cui i fattori di rischio interferiscono sui compiti evolutivi che il soggetto è chiamato a far fronte. I possibili esiti negativi possono però essere attenuati dall’azione di fattori di prevenzione, detti anche indici di competenza che possono esercitare una funzione protettiva degli squilibri psichici e comportamentali di un soggetto. Le linee comuni ricorrenti nei fattori protettivi sono 4: Autostima, livello di considerazione personale e fiducia nell’efficacia delle proprie azioni; Autocontrollo, capacità di controllare i propri impulsi e di rimandare il soddisfacimento dei propri bisogni; Aspettative ottimistiche, atteggiamento indirizzato al successo, disposizione a porsi e a perseguire scopi, fiducia nel futuro; Capacità di interazione sociale, ricerca di interazioni soddisfacenti e possibilità di mantenere relazioni positive, mostrando capacità di adattamento e flessibilità; Oltre a questi fattori protettivi che rivestono l’area delle competenze individuali, ne esistono altri che fanno riferimento al contesto relazionale: - Coesione interna della famiglia; Presenza di adulti significativi oltre ai genitori. La scuola rientra tra i fattori di prevenzione perché può dare al soggetto in età evolutiva la possibilità di migliorare le sue potenzialità e competenze. Nell’interazione con il gruppo classe il soggetto può arricchire le sue capacità d’interazione sociale, l’insegnante può rappresentare una figura di riferimento adulta e le richieste della scuola a livello di rendimento possono consolidare la stima di sé e il senso di autoefficacia personale. Oltre a ciò la scuola ha messo a punto delle aree di intervento specifiche relative alla promozione del successo formativo, alla prevenzione del disagio e alla riduzione della dispersione scolastica. Accanto a queste aree l’OMS ha individuato delle life skills ossia delle abilità che consentono di affrontare efficacemente le richieste e le sfide della vita quotidiana, che sono: problem solving, pensiero critico e creativo, comunicazione efficace, empatia, gestione delle emozioni e dello stress, efficacia personale e efficacia collettiva. Queste life skills dovrebbero essere potenziate dai docenti. Oltre alle life-skills, una delle strategie privilegiate da utilizzare in ambito scolastico, è la peer education che è un approccio educativo che, attraverso un training specifico, mira a formare dei giovani in grado di affinare competenze comunicative e relazionali che li rendano capaci di attivare risorse positive all’interno del gruppo dei pari. I giovani peer education sono in genere dei ragazzi che possiedono delle abilità specifiche sul piano relazionale (es. leader del gruppo) e che si pongono come facilitatori delle relazioni all’interno del gruppo classe. Un ruolo importante è svolto dai peer education nei progetti di accoglienza; essi possono porsi, infatti, come figure di riferimento per i soggetti più giovani, soprattutto nelle fasi di passaggio da un ciclo di studi all’altro.
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