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NEUROPSICHIATRIA INFANTILE, Prove d'esame di Neuropsichiatria infantile

riassunto completo di tutto il manuale

Tipologia: Prove d'esame

2020/2021

In vendita dal 01/02/2021

Nicole8P
Nicole8P 🇮🇹

4.3

(30)

31 documenti

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Scarica NEUROPSICHIATRIA INFANTILE e più Prove d'esame in PDF di Neuropsichiatria infantile solo su Docsity! Riassunto Neuropsichiatria infantile Militerni NEUROPSICHIATRIA INFANTILE DOTT. Giuseppe Tola Unità Operativa Complessa di Neuropsichiatria Infantile della Azienda Ospedaliero-Universitaria di Sassari (U,0.C . di NPI AOU Sassari) BREVE STORIA DELLA DISCIPLINA Il termine neuropsichiatria sta a significare: Neurologia: dal greco neuron (nervo) e loghia (studio del). La sua pratica inizia in tempi preistorici ma solo nel XVII secolo assume un carattere accademico e da scienza basata sull’osservazione inizia ad approcciarsi allo studio del Sistema Nervoso. Psichiatria: dal greco psychè (anima) e iatreion (medico) dai quali nel XIX secolo viene tratto il termine Psichiatria. Nella Preistoria, in particolare nel Mesolitico, era frequente la trapanazione del cranio che consisteva nell’osservazione empirica del miglioramento delle condizioni di salute e nella ritualizzazione dell’anima per consentire l’uscita dei demoni (causa di malattie). Nelle Civiltà Mesopotamiche avevano una scarsa considerazione del cervello, considerato meno importante rispetto al cuore, al fegato e ai polmoni; era frequente riportare una lista sumera delle persone disabili e praticare infanticidio e eutanasia nei confronti dei soggetti deboli, ipotonici, distonici, contagiosi. Nell’Antico Egitto erano presenti il Papiro di Ebers che descriveva una persona con neurofibromatosi e il Libro di Amenemope che spiegava come comportarsi davanti a soggetti disabili: non ridere; non prendere in giro; non arrabbiarsi. Nell’Antica Civiltà Ebraica i testi di riferimento erano la Bibbia, il Talmud e il Nuovo Testamento: la prima faceva riferimenti alla lateralizzazione manuale; il secondo spiegava che l’epilessia era considerata come una malattia del corpo ma non di origine cerebrale; nel terzo vengono trattati i versi 9,17,29 (il Vangelo secondo Marco) dove viene descritto un giovane affetto sin da bambino da varie tipi di crisi, che viene portato al cospetto di Gesù e viene guarito dal demone che lo possedeva. Età Greco Romana: Ippocrate sviluppa il concetto di fisiopatologia basata su 4 umori cardinali (teoria umorale): Sangue (cuore) Flegma (cervello) Bile gialla (fegato) Bile nera (milza) Questa spiega che il pensiero è originato dal cervello, le malattie hanno una causa naturale e non divina, vengono descritte le crisi epilettiche e le malattie psichiatriche. Durante l’età ellenistica vengono fatte le prime descrizioni anatomiche basate su sezioni di cadaveri e viene confermato che il pensiero si origina dal cervello; durante l’età romana era presenza Galeno, il quale descrive sette nervi cranici, descrive l’emicrania, il pneuma come principio fondamentale della vita e tre facoltà dell’anima: razionalità (cervello); passionalità (cuore); appetitività (fegato). Durante il Medioevo invece prevaleva la divisione tra mondo terreno e mondo ultraterreno e tra anima e corpo con un disinteresse verso l’osservazione della natura; nella civiltà arabo-persiana si svilupparono molte conoscenze nei campi della chimica, fisica, matematica, astronomia, biologia e medicina; cambia il concetto “adultomorfo” del bambino: si parla di educazione, infanzia abbandonata, orfanotrofi. L’Umanesimo e il Rinascimento sono caratterizzati dalla riscoperta e dalla fioritura dell’anatomia; dalla scoperta di polifarmaci dalle virtù neurologiche come amuleti o pietre In seguito all’ICD viene creato il DSM-5: categoriale che prende in considerazione i disordini mentali. L’approccio categoriale risulta ormai debole per attendibilità e validità perché si limita a individuare le caratteristiche descrittive del disturbo e quindi a stabilire in che categoria si trova, senza però capirne la natura. Questo non è corretto in particolare nei bambini che possono presentare sintomi appartenenti a categorie diverse: si tratta in questo caso di co-morbidità: più sintomi = più diagnosi. L’approccio dimensionale invece riguarda i disturbi mentali intesi come caratteristiche disposte in un continuum con diversi gradi, vanno quindi valutate non in base a una categoria ma di per sé ( per niente, poco, molto ecc). La diagnosi funzionale è più specifica se si vuole conoscere il bambino perché definisce il suo livello di sviluppo in tutte le aree (motricità, linguaggio ecc). Viene vista come un completamento della diagnosi precedente perché permette di leggere i sintomi e darne significato, inoltre il progetto terapeutico che crea non si rivolge solo alla cura del disturbo ma anche a favorire una crescita del soggetto. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha elaborato un sistema di classificazione: ICF-CY che prevede diverse componenti le quali a loro volta riguardano vari domini ( funzioni, strutture, attività…). Gli aspetti negativi rilevati nell’ambito delle funzioni e delle strutture corporee rappresentano menomazioni, mentre quelli rilevati nell’ambito delle attività e della partecipazione rappresentano limitazioni. Capitolo 8 I DISTURBI D’ANSIA L’ansia può considerarsi un’esperienza normale nell’essere umano e si esprime con modalità diverse, infatti se il bambino è piccolo si esprime con manifestazioni che coinvolgono tutto l’organismo; man mano che si forma l’apparato psichico, l’ansia viene vissuta come fenomeno interiore. L’ansia è quello stato emozionale sollecitato da situazioni nuove o pericolose che talvolta può assumere forse esagerate diventando ansia patologica. Si parla invece di ansia normale quando non è collegata a esperienze passate ma è legata a esperienze presenti; non è legata a situazioni immaginarie ma reali; non è diventata un comportamento abituale. Nelle forme patologiche l’ansia si manifesta con sentimenti di inadeguatezza, irritabilità e indecisione spesso legati a nausea, tachicardia e sudorazione. I disturbi d’ansia possono avere nomi differenti in base al motivo che le caratterizza: ansia da separazione, fobie ecc e sono molto frequenti fra i bambini. Le cause si rifanno a tre orientamenti interpretativi: Ipotesi costituzionalista: dà importanza a fattori genetici; è una disposizione caratterizzata dalla labilità dei sistemi di controllo d’ansia e dei processi neurovegetativi; può comportare iperemotività, ipereccitabilità ecc. Ipotesi psicoanalitica: l’ansia e i suoi disturbi vengono racchiusi in un gruppo chiamato nevrosi che trovano la loro spiegazione nelle esperienze relazionali precoci: l’elemento centrale delle nevrosi è il conflitto che si manifesta perché le pulsioni profonde che fanno parte dell’ES sono proibite da delle istanze che rappresentano il Super-Io. Ipotesi cognitivo-comportamentale: parte dal presupposto che tutti gli individui tendono ad interpretare tutto ciò che gli succede quotidianamente; è una predisposizione innata per dare un senso agli eventi. Col passare del tempo queste interpretazioni portano ad alcuni convincimenti che possono essere più o meno adeguati alla realtà e al benessere della persona. Da questa interazione dinamica con la realtà nascono tre livelli di consapevolezze: Le convinzioni profonde che sono interpretazioni attraverso cui la persona organizza il suo pensiero; queste portano l’individuo a leggere gli eventi in una determinata maniera. Le convinzioni intermedie come quelle profonde ma meno rigide e rispondono all’esigenza di prendere decisioni in tempi brevi. I pensieri automatici sono idee che riguardano se stessi, gli altri o le relazioni; possono essere espressi con enunciati verbali o immagini per spiegare ciò che prova la persona e sono quelli più facilmente modificabili. Secondo il modello cognitivo, le convinzioni profonde influenzano quelle intermedie che a loro volta influenzano i pensieri automatici, i quali interferiscono sullo stato emotivo della persona. In alcuni casi le convinzioni su se stessi o sugli alti possono essere disfunzionali, cioè distorcere la realtà e generare pensieri automatici negativi che provocano sofferenza. Queste emozioni negative, avendo un carattere invalidante, possono interferire con le capacità della persona di pensare chiaramente alla soluzione del problema. Come già detto, i disturbi d’ansia sono molteplici, troviamo infatti: Il disturbo d’ansia di separazione: sindrome comportamentale legata ad un’ansia eccessiva per la separazione da casa o da coloro a cui il soggetto è attaccato. Questa inizia a presentarsi già verso l’8 mese di vita quando la mamma si allontana e il bambino reagisce col pianto; questo indica anche la sua capacità di discriminare fra le figure di accudimento e di definire quella privilegiata. In alcuni casi quest’ansia non scompare ma anzi persiste condizionando il suo sviluppo e le sue modalità comportamentali. I fattori che possono far ricomparire l’ansia di separazione sono vari, tra cui troviamo la familiarità, i fattori biologici, i fattori temperamentali (timidezza o evitamento di situazioni nuove), i fattori psicodinamici (inadeguatezza delle figure di accudimento, separazioni prolungate) che possono determinare una fragilità emotiva del bambino, i fattori cognitivi, i fattori socio-culturali, i fattori situazionali (lutto, divorzio dei genitori). Da tutto ciò deriva una situazione di malessere che il bambino prova quando si allontana da casa, o per i bambini più piccoli quando dormono in camera da soli. Indipendentemente da allontanamenti reali, questi bambini sono costantemente assaliti da ansie relative al pericolo di smarrirsi e non vedere più i genitori, gravi malattie o morte che possono colpire i genitori. L’ansia si traduce in sintomi somatici come dolori di stomaco, cefalea, nausea, vomiti che compaiono non solo quando avviene la situazione ma anche quando questa è temuta. Nell’ambito dei disturbi d’ansia di separazione viene inserito il Rifiuto ansioso della scuola o fobia scolare: si manifesta in genere fra i 5 e i 10 anni e consiste nella comparsa di sintomi somatici la mattina prima di andare a scuola: cefalea, dolori addominali, sonnolenza o a volte vomiti. In realtà la vera ansia non è rappresentata dalla scuola ma dalla paura di separarsi dai genitori, anche se nei bambini più grandi può derivare da altri motivi come ad esempio episodi di bullismo. Il disturbo d’ansia generalizzato: ansia e preoccupazioni eccessive associate a difficoltà a concentrarsi, tensione muscolare e disturbi del sonno. In realtà l’oggetto d’ansia non è caratterizzato da un elemento o situazione specifica ma è un’esperienza di malessere in generale, infatti ad averla sono quei bambini che hanno paura di tutto (essere lasciati soli, affrontare situazioni nuove..). Spesso le preoccupazioni riguardano la qualità delle loro prestazioni anche quando non devono essere giudicati da altri, perché vivono con l’ansia del giudizio che potrebbero ricevere: questa è chiamata Fobia sociale. Le fobie: possono essere definite come paure ingiustificate di un oggetto o di un evento, il cui contatto provoca reazioni d’angoscia. Nei confronti delle fobie, l’atteggiamento tipico è l’evitamento, il quale, insieme all’ansia anticipatoria fanno si che il bambino appaia eccessivamente timido nei confronti degli altri. La diagnosi si basa fondamentalmente sull’osservazione del soggetto e sul colloquio con i genitori e permette di capire prima di tutto se c’è familiarità per i disturbi d’ansia, in seguito si capiranno le caratteristiche del disturbo, le caratteristiche dell’ambiente significativo ecc.. Bisogna considerare in primo luogo che molto spesso il bambino può presentare paure o ansie come espressione di tratti temperamentali, quindi è importante capire se sono semplici paure o disturbi patologici. In quest’ultimo caso è necessario valutare le caratteristiche del disturbo, le modalità di esordio e di risoluzione, le circostanze che lo accentuano o attenuano. In tutti i casi, la presenza di manifestazioni ansiose comporta la formulazione di un Progetto Terapeutico Integrato che prende in considerazione diversi interventi, in base alle esigenze: Gli interventi farmacologici, in età evolutiva somministrati in maniera limitata; generalmente vengono usati gli ansiolitici se sono adeguati all’entità dell’ansia e all’età del soggetto. Questo è orientato alla cura del sintomo e a garantire una serena crescita psicologica. Gli interventi psicoterapeutici possono essere psicoanalitici se si tratta di conflitti o inadeguatezza di meccanismi di difesa, cercando di condurre il soggetto a rielaborare il materiale inconscio rimosso. Al contrario le psicoterapie cognitivo-comportamentali pongono al centro dell’intervento il comportamento osservabile, con l’intento di modificarlo. Gli interventi psico-educativi sono come terapie di sostegno psicologico del soggetto che prevedono una serie di incontri organizzati in spazi di ascolto e parola dove il soggetto può esprimersi e interagire con l’operatore disponibile. Fattori legati all’espressività del disturbo della postura e del movimento: quest’espressività è differente e riguarda la natura del sistema motorio interessato; l’estensione dei distretti corporei interessati; la severità della compromissione mtoria. Fattori legati alla co-presenza di altri disturbi di natura non motoria (disturbi associati): oltre al disturbo della postura e del movimento, ci sono altri sintomi non motori che si riscontrano molto frequentemente ma non sono presenti in tutti i casi, tra questi troviamo le alterazioni delle funzioni vitali (alimentazione, respirazione..); disabilità intellettiva; disturbi del linguaggio; manifestazioni epilettiche; disturbi psicopatologici. Si possono trovare vari raggruppamenti di sindromi: L’emiplegia congenita: forma di PC in cui il deficit motorio interessa solo un lato ed è in genere di tipo spastico. Questo può essere rappresentato da lesioni cistiche; dilatazione di uno dei ventricoli laterali; dilatazione di entrambi i ventricoli. L’emiplegia è caratterizzata da paresi e spasticità e i primi segni si riscontrano introno ai 3-6 mesi (ritardo delle principali acquisizioni motorie ma deambulazione autonoma normale). Fra i disturbi associati molto frequente è l’epilessia che spesso presuppone la presenza anche della disabilità intellettiva; quest’ultima a volte può portare ad un altro disturbo associato che è il disturbo del linguaggio. La diplegia congenita: forma di PC in cui sono interessati entrambi gli emilati con prevalenza degli arti inferiori; l’interessamento degli arti superiori può essere lieve e comparire solo nelle prime fasi di sviluppo. Vengono individuate due forme di diplegia: Diplegia spastica: in genere associata alla nascita pretermine con ridotte capacità adattive. La lesione più frequente è la leucomalacia periventricolare, legata ad una necrosi bilaterale e può compromettere le funzioni in modo diverso, non raggiunge la deambulazione autonoma oppure raggiunge alcune autonomie motorie. L’interessamento degli arti superiori è molto frequente, andando a diminuire dopo i primi anni di vita. La patologia motoria si sviluppa intorno ai 3-6 mesi con scarso uso degli arti superiori (prensione). Diplegia atassica: ha la stessa distribuzione della forma spastica e anche questa è associata a fattori prenatali, con una frequenza dell’idrocefalo infantile. Lo sviluppo è caratterizzato da una prima fase di ipotonia con un ritardo delle acquisizioni posturali; successivamente viene sostituita dalla spasticità con tremori e oscillazioni nella posizione seduta, eretta e nella deambulazione. Tetraplegia: forma più grave di PC e deriva da cause prenatali, perinatali e postnatali. Sono presenti malformazioni encefaliche o gravi lesioni oppure paralisi dei nervi cranici che vanno a compromettere le funzioni motorie, il linguaggio, l’alimentazione e la respirazione. Un disturbo associato frequente è la disabilità intellettiva. Paralisi cerebrali discinetiche: caratterizzate da una disabilità nell’organizzare ed eseguire in maniera corretta movimenti intenzionali. Queste sono suddivise in forme atetoidi caratterizzate da ipercinesie involontarie e lente che interessano gli arti e la muscolatura facciale, sono movimenti parassiti evidenti durante i movimenti intenzionali o nei tentativi di mantenere una postura; forme distoniche caratterizzate dalla presenza di brusche modificazioni a carico della muscolatura del tronco. La causa delle PC di tipo discinetico è principalmente una sofferenza perinatale; l’epilessia è poco frequente e l’intelligenza normale nella maggior parte dei pazienti. Paralisi cerebrali atassiche: caratterizzate da manifestazioni atassiche dovute a lesioni del sistema cerebellare; i fattori responsabili sono quelli prenatali. Le lesioni possono essere di natura displasica o atrofica. Le prime manifestazioni dell’atassia cerebellare non progressiva sono rappresentate da un’ipotonia diffusa che alla fine del primo anno di vita può essere specificata come ipotonia assiale. Per poter fare la diagnosi è molto importante tenere conto di alcune specifiche età, chiamate appunto età chiave: 1° mese di vita: età del sospetto, i sintomi suggeriscono di fare attenzione al caso ma ancora non danno nessuna certezza clinica. Tra i sintomi ci sono anomalie del pianto, disturbi del sonno, ipereccitabilità ecc. 4° mese di vita: età di orientamento, dove tutti i segni rilevati vanno oltre il sospetto anche se non possono portare ad un giudizio diagnostico. Tra i sintomi ci sono tremori, inadeguato controllo del capo ecc. 9° mese di vita: età della certezza, dove i sintomi indicano un danno anche se ancora non si può stabilire un quadro clinico. 12° mese di vita: età della diagnosi, dove il quadro patologico già confermato in precedenza permette di definire il tipo di PC. 18° mese di vita: età della prognosi, si può esprimere un giudizio sul danno e iniziare a formulare la futura incidenza della patologia sulle capacità adattive. Le paralisi cerebrali essendo condizioni che si modificano nel tempo, hanno bisogno di una continua modificazione del Progetto Terapeutico Personalizzato. Gli interventi presenti nel progetto possono essere suddivisi in: Interventi diretti sul bambino: che comprendono i trattamenti riabilitativi delle abilità motorie, delle abilità comunicativo-linguistiche, delle abilità cognitive e possono essere trattamenti farmacologici, interventi ortopedici oppure interventi chirurgici. Interventi diretti sull’ambiente: che riguardano gli interventi sulla famiglia, ovvero prenderla in carico, farle capire le finalità della riabilitazione e fornire consigli per migliorare le pratiche di accudimento dei bambini; interventi nella scuola tra cui l’arredo delle aule, la didattica e gli aspetti emotivi. Capitolo 16 LE MANIFESTAZIONI PAROSSISTICHE Le manifestazioni parossistiche si dividono in epilettiche e non epilettiche e riguardano episodi critici che possono associarsi o meno a disturbi della coscienza. Le epilessie: le epilessie sono le più frequenti malattie croniche dopo il Ritardo Mentale ed esordiscono nell’infanzia e nell’adolescenza. In età evolutiva sono frequenti crisi occasionali che non rientrano nell’ambito delle epilessie, come le convulsioni febbrili, traumi, intossicazioni da farmaci ecc, che sono caratterizzate da una scarica improvvisa e unica che non è ricorrente. Le epilessie si dividono in: Idiopatiche, su base familiare, genetica. Criptogeniche, si suppone una causa lesionale non dimostrabile con le indagini strumentali. Lesionali, dovute a causa nota, prenatali, perinatali, postnatali. Sono presenti fattori genetici e lesionali che agiscono sul neurone dando origine a due elementi: Ipereccitabilità: tendenza di un neurone a generare scariche ripetute in risposta a una stimolazione che, in condizioni normali, dovrebbe indurre un solo potenziale d’azione. Ipersincronia: capacità di un gruppo di neuroni a generare in maniera sincrona una serie di potenziali d’azione. Diagnosi: Nei confronti di un bambino che ha presentato una crisi, è obbligatorio intraprendere un iter diagnostico per comprenderne la natura. Il primo compito è quello di effettuare un’indagine anamnestica che consente di capire se la crisi rientra nelle manifestazioni non epilettiche o se è un evento vero; in quest’ultimo caso si effettua prima l’anamnesi familiare per accertare la predisposizione, poi l’anamnesi personale per capire se ci sono cause di natura pre-peri o postnatale. Durante la descrizione dell’evento critico viene chiesto ai genitori di descrivere dettagliatamente tutti i sintomi che si sono presentati non trascurando la fase postcritica; inoltre è frequente far descrivere l’accaduto a più testimoni in modo che traspaiano più informazioni e particolari rilevanti. L’esame obbiettivo è fondamentale nell’indagine clinica, riguarda la valutazione dei singoli organi e apparati per riscontrare alterazioni. Inoltre non va trascurata la cronologia dell’evento critico, notare cioè se l’evento si manifesta in veglia o in sonno, prima di addormentarsi o al risveglio ecc. Si valutano vari fattori facilitanti come tv, videogiochi o stress. Una volta completata l’indagine clinica, si passa ad effettuare uno studio elettroencefalografico (EEG) tenendo conto che anomalie epilettiche possono essere presenti in soggetti sani e al contrario con un EEG nella norma può capitare di riscontrare una diagnosi di epilessia. Questo studio inizia con una registrazione di routine in veglia e per i più piccoli durante il sonno, che può già presentare valori diagnostici. Completata questa diagnosi di studio, è necessario capire quale possa essere il tipo di epilessia o sindrome epilettica. Le epilessie si dividono in idiopatiche, criptogeniche e sintomatiche; ma vengono anche suddivise in crisi parziali (o focali) e crisi generalizzate. Classificazione delle crisi. Le crisi parziali si suddividono in: Crisi parziali elementari: senza compromissione di coscienza, possono presentarsi con segni motori, sensoriali, psichici.. possono essere costituite da scosse che interessano una sola parte del corpo come un arto, fenomeni di rotazione degli occhi, del capo, del tronco. Sensazioni di formicolio, visione di lampi, flash o macchie scure. Paura, collera. Crisi parziali complesse: con compromissione dello stato di coscienza e possono essere prima semplici e poi seguite da perdita, oppure prevedono la perdita di coscienza dall’inizio. Crisi secondariamente generalizzate: che sono un’evoluzione delle precedenti. Le crisi generalizzate vengono distinte in convulsive e non convulsive. Sociale, capire le persone e gli eventi. Risulta molto difficile misurare un’entità cosi varia, perciò si usano i reattivi mentali standard, ovvero delle prove eterogenee per rispondere alle varie facce dell’intelligenza. Quelli più diffusi sono i test della serie Wechsler con metodi identici ma diversi in rapporto all’età; le prove superate consentono di definire il Quoziente Intellettivo (QI). Si può parlare di Disabilità Intellettiva quando il QI assume un valore inferiore a 70 che esprime 2 deviazioni standard al di sotto della media. Per poter definire però una diagnosi di DI, oltre alla limitazione dell’intelletto deve essere presente anche una limitazione del comportamento adattivo (tutti quei comportamenti che permettono all’individuo di adattarsi all’ambiente). Tra questi possiamo trovare la comunicazione; la cura di se stessi; le abilità domestiche e sociali; l’autonomia; gestione del tempo libero; le abilità lavorative. Inserire come criterio diagnostico l’esordio entro i 18 anni avviene per due motivi: prima di tutto perché tutte le limitazioni che insorgono in età adulta non possono essere chiamate Disabilità Intellettive ma vanno indicate come Demenze o Disturbi Neurocognitivi e in secondo luogo perché alla DI vengono conferite le caratteristiche proprie dei Disturbi del Neurosviluppo, quindi l’intelligenza sarebbe una funzione che si organizza durante l’età evolutiva. La DI è dovuta a cause molto diverse tra loro che vengono suddivise in Fattori Genetici (alterazioni geniche e aberrazioni cromosomiche) e Fattori Acquisiti (epoca in cui agiscono le noxae patogene: agente patogeno, tossico). La DI può esistere in forme lievi o gravi; le forme lievi vengono accertate di più rispetto alle forme gravi e si tratta di quei casi di ereditarietà, in cui uno dei due genitori o entrambi presentano un QI ai limiti inferiori della norma. Quest’ipotesi nasce dalla possibilità di conferire all’intelligenza un carattere quantitativo, quindi i geni, coinvolti in più coppie, farebbero collocare il bambino in una fascia borderline. Nel definire il quadro clinico vanno tenuti in considerazione alcuni fattori: Il livello di gravità della compromissione: possono essere individuati 4 livelli di gravità che sono lieve, moderato, grave e estremo e vanno definiti tenendo conto di tre ambiti del funzionamento adattivo: Concettuale che riguarda il ragionare, pensare, decidere; Sociale che riguarda comprendere regole che definiscono i rapporti; Pratico che riguarda saper risolvere problemi pratici. L’età in cui viene effettuata la valutazione clinica del soggetto: il quadro clinico di una DI di un soggetto di 8 anni sarà completamente diverso da quello di un soggetto di 28 anni: da piccolo di presentano sintomi come disturbi di apprendimento, difficoltà ad integrarsi nel gruppo ecc mentre da adulto si presenta un linguaggio ristretto, metodi ingenui ecc. Il quadro clinico della DI varia però non solo da soggetto a soggetto, ma anche in uno stesso soggetto in base all’età: 1 anno: ritardo nell’acquisizione delle principali tappe di sviluppo; 2-3 anno: ritardo del linguaggio; 3-4 anno: ritardo nell’acquisizione dei comportamenti interazionali. Le continue situazioni nuove che il bambino deve fronteggiare si pongono come problem solving in cui viene chiesto di mettere in atto strategie risolutive. Il ritardo globale dello sviluppo: può capitare che si presenti una condizione clinica nei primi 5 anni di vita, in cui manca l’acquisizione delle competenze motorio-prassiche, comunicative, linguistiche. Essendo a 5 anni ancora piccolo, non si riesce ad avere una valutazione completa e viene difficile anche utilizzare strumenti di valutazione standardizzati. La natura dell’affezione di base da cui dipende la Disabilità Intellettiva: la DI riguarda una disorganizzazione di quelle funzioni fondamentali per realizzare le competenze intellettive del soggetto. Risulta difficile stabilire la causa, la quale è nota solo in alcuni casi, ad esempio la Sindrome di Down viene collocata nelle sindromi da aberrazione cromosomica, mentre l’ipotiroidismo congenito nelle malattie congenite del metabolismo. In questi casi, la DI costituisce solo un sintomo in una sindrome più complessa. La presenza di eventuali disabilità: il concetto di comorbidità riguarda la situazione in cui due diverse condizioni cliniche si trovano contemporaneamente in uno stesso soggetto. La comorbidità comporta problemi di diagnosi e classificazione, perché spesso un sintomo non è definito a tal punto da poter essere collocato in una determinata condizione. Il funzionamento intellettivo è uno dei fattori più importanti per l’adattamento del soggetto all’ambiente, ma non l’unico; sono fondamentali infatti anche i fattori emozionali come la tolleranza delle frustrazioni, la sicurezza emotiva, il piacere di essere e di partecipare ecc. Molti di questi aspetti dipendono dalle relazioni precoci che il soggetto stabilisce con le figure del suo ambiente significativo, che nelle situazioni di DI sono esposte a rischio. Ad esempio nelle forme gravi, i genitori sviluppano diversi sentimenti emotivi come sensi di colpa, inadeguatezza e depressione e questo influenza la qualità degli atteggiamenti nei confronti del figlio. Nelle forme più lievi invece, non compaiono in genere questi sentimenti ma prevalgono situazioni di disorientamento. Può capitare che la DI si presenti in comorbidità con altre condizioni che appartengono ai Disturbi del Neurosviluppo, tra cui autismo, ADHD, disturbi di sviluppo della coordinazione, disturbi del linguaggio. Nei confronti di un bambino con prestazioni inadeguate rispetto alla norma, l’osservazione neuropsichica permette già di formulare la diagnosi di DI. A riguardo, la presa in carico del bambino deve prevedere indagini strumentali e di laboratorio basate sulle indicazioni che derivano dall’anamnesi e dall’osservazione. L’anamnesi valuta la presenza di consanguineità e l’esistenza di altri casi fra ascendenti; la presenza di situazioni patogene per il sistema nervoso; l’evoluzione generale dello sviluppo; la presenza di problemi particolari come vomito, crisi epilettiche ecc. L’esame ha lo scopo di determinare la presenza di sindromi complesse; anche quando mancano segni e sintomi, la presenza di una patologia può essere indicata da tratti dismorfici. L’esame neurologico oltre che fornire gli elementi utili per formulare la diagnosi specifica, può anche mettere in evidenza segni neurologici lievi che rappresentano una pregressa sofferenza encefalica. L’esame psichico oltre che permettere la diagnosi fornisce informazioni importanti per definire l’etiologia. Non esiste la terapia della DI, infatti questa accompagna il soggetto in tutto il suo ciclo vitale variando nel tempo in base all’età. Nei confronti di un bambino che presenta una DI devono essere utilizzati interventi diversi tra loro, che sono specificati nel Progetto Terapeutico Personalizzato, il quale è articolato in vari interventi per rispondere i bisogni di un singolo bambino, di una determinata età ecc; è dinamico e flessibile nel tempo perché gli obbiettivi possono cambiare. Tra gli interventi abbiamo quelli riabilitativi: - Terapia della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, che è rivolta alle menomazioni che riguardano principalmente le funzioni cognitive di base, le funzioni mentali del movimento e del linguaggio; - Logopedia, che si rivolge alla riorganizzazione delle funzioni linguistiche che risultano compromesse nel soggetto con DI; stimola il linguaggio in tutte le sue forme e risulta importante in associazione alla terapia precedente per facilitare i processi di letto-scrittura e calcolo; - Terapia occupazionale che si occupa di interventi in laboratori appositi ben strutturati, le cui attività e modalità vengono scelte in base al livello cognitivo del soggetto, alla sua età e alle sue capacità adattive generali. Gli interventi psico-educativi: attività volte a facilitare l’apprendimento dei comportamenti adattivi che permettono l’integrazione sociale del soggetto, tra cui le autonomie personali, familiari e di comunità. Le modalità di intervento possono essere direttamente sul soggetto oppure sui genitori. Gli interventi psicoterapeutici: sono interventi di sostegno sia al bambino che alla famiglia e sono utili nelle forme di una compromissione funzionale modesta; sopratutto in adolescenza c’è la necessità di lavorare sull’autostima, sulla sicurezza e sul senso di efficacia. Le terapie farmacologiche: non esiste un farmaco per l’intelligenza ma in passato è stata data importanza a farmaci capaci di attivare le funzioni mentali. La sindrome di Down: denominata anche trisomia 21 o mongolismo, è una sindrome polimalformativa dovuta ad un’aberrazione cromosomica. Quest’ultima è rappresentata dalla presenza di un cromosoma 21 soprannumerario che può ritrovarsi in forma libera. La trisomia libera è più frequente e riguarda una mancata separazione della coppia 21 durante le divisioni meiotiche che conducono alla formazione dei gameti. In seguito a questo errore, uno dei gameti sarà portatore di un numero anomalo di cromosomi per la presenza di un 21 in più. Sono stati individuati alcuni fattori che causano questa sindrome: Età materna: con l’aumentare dell’età della madre aumenta anche la predisposizione ad una nascita con sindrome di down: aumenta nell’ovaio la quantità di oociti che possono essere danneggiati da agenti patogeni. Predisposizione genetica: esiste un gene responsabile della normale disgiunzione cromosomica che nelle famiglie di pazienti affetti da trisomia 21 risulta carente. Fattori ambientali: ogni individuo si trova esposto all’azione di vari agenti patogeni ed è portatore di un certo numero di gameti alterati; vari agenti esterni come virus, possono interferire sulla disgiunzione cromosomica La non disgiunzione del cromosoma 21 è stata attribuita finora quasi esclusivamente al gamete femminile, anche se di recente si tende ad attribuirla a quello paterno. Una condizione particolare è rappresentata dal mosaicismo: si verifica quando la non disgiunzione avviene nello zigote, cioè dopo la fusione dei due gameti. I soggetti con un grado severo di compromissione continuano ad essere chiusi nelle relazioni e passivi alle richieste del contesto; il linguaggio è deficitario. I soggetti con minore gravità presentano un interesse ad avvicinarsi alle relazioni, ma le modalità che utilizzano appaiono bizzarre; il linguaggio è più ricco. Il repertorio di attività e interessi ristretto e ripetitivo: questo riguarda una serie di comportamenti atipici che riguardano l’area non sociale del soggetto, per cui si riferiscono al modo in cui il soggetto si rapporta all’oggetto. Il criterio diagnostico risulta soddisfatto quando compaiono due o più comportamenti: Movimenti, uso degli oggetti o eloquio stereotipati o ripetitivi: l’elemento caratterizzante è la ripetitività che in rapporto all’età e alla gravità può assumere aspetti diversi, come dondolarsi, far rotolare o mettere in fila gli oggetti, ripetere le stesse parole ecc. Insistenza nella sameness: immodificabilità: l’elemento caratterizzante è la rigidità che esprime il bisogno di ripetere sempre determinate attività nello stesso modo, infatti quando cambiano le caratteristiche di un evento, questo produce nel ragazzo forti reazioni emotive che vanno dal disagio al panico. Interessi molto limitati, fissi, che sono anomali per intensità o profondità: ristrettezza degli interessi, come osservare l’acqua che scorre, seguire con un dito le linee ecc. Iper o ipo reattività in risposta a stimoli sensoriali o interessi insoliti verso aspetti sensoriali dell’ambiente: camminare sulle punte, assumere pose bizzarre, leccare, essere attratto da stimoli sonori o luminosi ecc. Il disturbo autistico può essere associato a situazioni in comorbidità: La disabilità intellettiva che insieme all’autismo produce problemi riguardanti la socievolezza, la partecipazione, lo scambio ecc; Le epilessie che insieme all’autismo vengono considerati fenomeni di un danno encefalico. Tutti i soggetti con una diagnosi di autismo formulata entro i primi 3 anni di vita, generalmente presentano un miglioramento; questo riguarda i soggetti che partono da forme lievi, mentre per quelli che partono da forme severe risulta più complicato. Le cause dell’autismo risultano ancora oggi sconosciute però si può dire che l’autismo non è una malattia ma è un insieme di comportamenti atipici che presentandosi in maniera continua e con caratteristiche simili in più persone, può essere considerato una patologia. La diagnosi si basa su comportamenti osservabili e misurabili perché ogni comportamento viene sollecitato da un qualcosa che ne determina anche l’espressività. Il comportamento osservabile può essere chiamato fenotipo comportamentale, mentre per capire la causa, bisogna cercare ciò che sta sotto questo fenotipo. Risulta che il comportamento per nascere abbia bisogno di funzioni non visibili che lo determinano e formano cosi l’endofenotipo funzionale, ovvero quel qualcosa che sta sotto il comportamento e che lo produce. L’endofenotipo funzionale riguarda alcune funzioni, tra cui: Deficit della motivazione sociale: l’essere umano nasce predisposto per interagire con l’altro e capire fin da piccolo che gesti o che atteggiamenti compie, attraverso la fissazione, l’imitazione, l’inseguimento visivo ecc. Questo non vale per il bambino affetto da autismo perché presenta un disinteresse per gli stimoli sociali e per le azioni che compiono gli altri. Deficit della cognizione sociale: i soggetti autistici sarebbero incapaci a risolvere compiti di falsa credenza, i quali prevedono che il soggetto abbia sviluppato la capacità di assumere la prospettiva dell’altro e di prevederne il comportamento; devono cioè aver creato una Teoria della Mente. Deficit della coerenza centrale: riguarda la presenza di uno stile cognitivo in base al quale il soggetto autistico tende a soffermarsi sull’analisi percettiva dei particolari e presenta un’incapacità a giungere ad un’analisi globale dell’evento; in alcune situazioni questo non lasciarsi distrarre dall’insieme può portare vantaggio. Deficit delle funzioni esecutive: abilità importanti per l’organizzazione e la pianificazione di comportamenti per risolvere i problemi, tra cui attivare un’area di lavoro, formulare un piano d’azione, inibire risposte impulsive ecc. Il disturbo può portare una difficoltà sulle strategie di problem solving e nell’adattamento nei confronti di modifiche ambientali. Diagnosi: Il processo diagnostico è costituito da: Anamnesi familiare che consente di capire la presenza in famiglia di altri soggetti autistici o con altri disturbi neuropsichiatrici; la consanguineità dei genitori. L’esame clinico generale che mette in evidenza alcuni segni importanti come dismorfismi, malformazioni ecc; quest’esame non è finalizzato a formulare la diagnosi del disturbo autistico ma a raccogliere dati per formulare ipotesi e individuare obbiettivi terapeutici. L’esame neurologico che prende in considerazione i nervi cranici, il tono, la forza e il trofismo muscolare, la sensibilità ecc. Anche in questo caso non è finalizzato a creare una diagnosi ma a valutare lo stato neurologico del soggetto. L’esame psicologico che è caratterizzato dall’osservazione e dal colloquio. Terapia: Non esiste la terapia dell’autismo ma esistono degli interventi terapeutici che rispondono ai bisogni specifici del bambino. Sono di vari tipi. Terapie farmacologiche: incidono sui disturbi comportamentali, in particolare agitazione e aggressività. Interventi riabilitativi: per recuperare le varie menomazioni e insegnargli a prendere coscienza di sé, dell’altro e delle regole. Interventi psico-educativi: favoriscono l’adattamento del soggetto all’ambiente e la creazione di comportamenti aderenti alle esigenze del contesto. Il conseguimento degli obbiettivi coinvolge i genitori con i quali si definiscono veri e propri programmi educativi da mettere in atto nei diversi contesti. Sindromi particolari: Il Disturbo di Rett: interessa il sesso femminile ed è costituito da un’iniziale sviluppo normale con una comparsa successiva di un arresto dello sviluppo psicomotorio dai 6 ai 18 mesi, per arrivare ad un peggioramento. Questo è costituito da comportamenti come portarsi le mani alla bocca, batterle, attribuire alle mani posture bizzarre; crisi di apnea o iperventilazione e irregolarità del ritmo sonno-veglia. Intorno ai 4 anni recupera l’interazione sociale ma si accentua il ritardo mentale. Il Disturbo di Asperger: è caratterizzato da una compromissione dell’interazione e della comunicazione sociale e comporta uno scarso interesse emotivo dell’altro. È costituito da un livello intellettivo normale e un linguaggio ben strutturato solo con anomalie qualitative, maldestrezza motoria, incapacità a comprendere le regole e rispetto al disturbo autistico presenta una minore compromissione dell’interazione e delle attività. Capitolo 20 IL DISTURBO DDAI/ADHD Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività è una sindrome comportamentale caratterizzata da impulsività e incapacità a mantenere l’attenzione. Come per tutti gli altri disturbi del neurosviluppo, anche per questo le cause rimangono sconosciute anche se si è parlato dell’importanza dei fattori genetici. Inizialmente si pensava che questa sindrome derivasse da alterazioni organiche dell’encefalo ma poi si è ipotizzata l’esistenza di un danno cerebrale minimo; ovvero era presente una lesione encefalica che non essendo di grandi dimensioni, si esprimeva con sintomi minori. Proprio perché questa lesione era minima, si preferì sostituire il termine di danno con quello di Disfunzione che si caratterizzava per un’attività motoria vivace e caotica. Questo disturbo quindi presenta dei comportamenti atipici per frequenza e intensità e questo interferisce con le normali attività del soggetto; questi comportamenti sono: Iperattività: livelli di attività motoria molto elevati; incapacità di stare fermo, agitazione continua muovendo mani, piedi e capo; si dedica a giochi o attività che prevedono il movimento e non riesce a fare giochi tranquilli. Impulsività: incapacità di riflettere e eventualmente modificare le risposte comportamentali tenendo conto del contesto; non pensa prima di agire o rispondere; non riesce ad aspettare il proprio turno nelle attività. Disattenzione: non riesce a mantenere l’attenzione su un determinato compito senza distrarsi; nei compiti commette errori di distrazione ed è sempre sbadato. Il DDAI inizia a manifestarsi nei primi anni di vita anche se in epoca prescolare è difficile distinguere i bambini con la sindrome dai bambini particolarmente vivaci. Con l’inizio della scuola primaria si possono notare maggiormente i vari sintomi e capire quanto sono gravi, se sono associati ad altri disturbi, oppure che tipo di misure terapeutiche usare per quel soggetto. Il disturbo tende a persistere anche nell’età adulta, anche se l’iperattività si riduce, mentre la disattenzione e l’impulsività restano uguali. Per formulare la diagnosi non vengono utilizzati strumenti di laboratorio o indagini strumentali, proprio per questo è molto importante l’osservazione, fin dal primo incontro, tenendo in considerazione vari aspetti del disturbo: - irruente entrando nella stanza - caotico per come investe lo spazio - frenetico nei confronti dell’oggetto - superficiale alle proposte dell’esaminatore - discontinuo nei compiti - inadeguato per l’attenzione Oltre l’osservazione in una situazione libera, è importante studiare il soggetto anche in ambienti in cui lo spazio, gli oggetti e le prove sono ben strutturati e standardizzati; inoltre è presentare gli stessi sintomi; invece i fattori ambientali dimostrano che ambienti carenti o inadeguati influiscono sulle modalità comportamentali del bambino. Il Deficit della condotta è caratterizzato da alcune anomalie cognitive: - Deficit dell’empatia e del rimorso: scarsa capacità di comprendere ciò che provano gli altri e cogliere le sofferenze e questo porta il soggetto a non evitare comportamenti che provocano sofferenza. Oltre l’empatia è assente anche il rimorso e quindi il sentimento di malessere nel provocare la sofferenza altrui. A ciò si unisce una scarsa motivazione ai comportamenti di cooperazione e solidarietà (comportamento prosociale). - Aumentata sensibilità nei confronti della minaccia: questo permette di percepire una situazione di pericolo e mettere in atto comportamenti difensivi; se il pericolo è lontano si limita a monitorarlo, se si avvicina allora il soggetto fugge. - Atipie del senso morale: i soggetti con DC pensano che chi fa un danno nei loro confronti lo faccia con intenzione ostile piuttosto che neutrale; gli adolescenti antisociali sono meno propensi a mettere in atto comportamenti prosociali pensando di ottenere meno successo; i ragazzi con DC non riconoscono l’autorità come legittima e giusta ma viene percepita come arbitraria, trascurante, inadeguata. La diagnosi del DC si basa su tre fonti: osservazione diretta e colloquio con il soggetto; colloquio con i genitori; documentazione da parte di genitori e insegnanti. Questo permette di valutare quali comportamenti mette in atto, con che durata, frequenza e intensità, le caratteristiche dell’ambiente, presenza di altri tipi di disturbi tra cui: DDAI, apprendimento, linguaggio, epilessie. Il progetto terapeutico prevede degli interventi in base all’età, alle caratteristiche del disturbo e dell’ambiente. Interventi farmacologici: solo quando sono presenti altre condizioni patologiche in comorbidità. Interventi riabilitativi: quando il DC si associa con disturbi del neurosviluppo come disturbi della comunicazione, dell’apprendimento e di sviluppo della coordinazione. Interventi psico-educativi: spazi in cui il soggetto può esprimersi e confrontarsi con modelli di riferimento; coinvolgimento dei genitori che vanno informati e sostenuti. Interventi psicoterapeutici: percorsi basati sui bisogni del soggetto, i più frequenti sono le psicoterapie ad orientamento cognitivo-comportamentale. Il disturbo oppositivo-provocatorio: (DOP) è caratterizzato da comportamenti di sfida nei confronti delle figure dell’ambiente significativo. L’ICD-10 include il DOP all’interno dei disturbi della condotta e lo considera un sottotipo, una forma minore. Il DSM-5 invece lo considera separato dai disturbi della condotta anche se lo inserisce nella stessa meta-categoria dei disturbi da comportamento dirompente. DC: problemi legati alla regolazione del comportamento. DOP: problemi legati alla regolazione delle emozioni. Quest’ultimo compare in età prescolare e si esprime con tre tipi di comportamenti disfunzionali: Umore collerico e/o irritabile: bassa tolleranza nei confronti delle frustrazioni, va in collera per motivi banali, le richieste dell’ambiente vengono percepite come frustranti; permalosità. Comportamento polemico e/o provocatorio: vuole sempre avere l’ultima parola, fa difficoltà ad accettare le regole perché pensa prima ai suoi bisogni; litiga spesso con l’autorità o con i pari e cerca di proposito la lite; attua comportamenti inadeguati per provocare rabbia. Tendenza alla vendicatività: ricorre spesso alla vendetta per torti reali o presunti, non riesce ad elaborare la rabbia. Essendo un disturbo che ha comportamenti spesso molto diffusi tra la popolazione, diventa molto difficile capire quando un soggetto è affetto da questo disturbo; è importante anche considerare l’atteggiamento delle figure dell’ambiente significativo. La diagnosi deve basarsi sul fatto che i comportamenti devono ritrovarsi in tutti i contesti di vita del soggetto, in quanto trattandosi di atteggiamenti tipici nei cofronti di genitori o coetanei ben conosciuti, possono non comparire durante l’osservazione clinica. Il Disturbo oppositivo-provocatorio deve prevedere tre interventi: Interventi riabilitativi: vengono privilegiati quelli che rispondono ad alcuni obbiettivi come educazione alle emozioni, condivisione e comportamento cooperativo, modulazione di stati emotivi. Interventi psico-educativi: favorire la crescita psicologica del soggetto e facilitare comportamenti adeguati al contesto; è importante il coinvolgimento delle figure significative tra cui genitori e insegnanti. Interventi psicoterapeutici: il tipo di psicoterapia deve essere scelto dalla valutazione di diversi fattori tra cui età del soggetto, caratteristiche personali, tipologia parentale ecc. Capitolo 24 I DISTURBI DELLA COMUNICAZIONE La comunicazione può essere definita come lo scambio di messaggi fra due o più persone e per avvenire è fondamentale che l’emittente e il ricevente utilizzino lo stesso sistema di codici. I codici che devono essere posseduti sono: Il linguaggio verbale; il linguaggio non verbale (segni, gesti, postura); l’uso e la comprensione di elementi contestuali che integrano il messaggio. Il DSM-5 ha inserito i Disturbi della comunicazione all’interno dei Disturbi del Neurosviluppo e li ha considerati come deficit dell’eloquio (produzione di suoni che comprende articolazione, fluenza e voce), del linguaggio (forma, funzione e utilizzo di un sistema di simboli) e della comunicazione (comportamenti verbali e non verbali che influenzano il comportamento e le idee di altri individui). All’interno dei Disturbi della comunicazione rientrano i seguenti disturbi: Disturbo fonetico-fonologico: difficoltà che riguarda la produzione dei suoni del linguaggio che interferisce con la comunicazione verbale dei messaggi e rende l’eloquio poco comprensibile. Il deficit riguarda una scarsa padronanza della componente fonologica del linguaggio. Disturbo del linguaggio: il linguaggio è una funzione complessa che si realizza nel tempo attraverso la maturazione di alcune strutture, ad esempio quelle fono-articolatori come labbra, lingua, diaframma ecc; l’apparato senso-percettivo che riguarda vie visive e uditive; strutture encefaliche specifiche. Sulla base di queste strutture si organizza la funzione linguistica che presenta una serie di regole che il soggetto deve acquisire progressivamente. Coinvolgendo molte strutture può capitare che il Disturbo del linguaggio derivi da un quadro sindromico più complesso, e in questo caso viene chiamato disturbo del linguaggio secondario: es. sindrome di Down; mentre quando non deriva da nessun’altra malattia o patologia, viene chiamato disturbo del linguaggio primario. Le cause del disturbo non sono conosciute ma si fa riferimento in genere a fattori ambientali o genetici. La capacità di parlare e comprendere deriva sia dalle strutture di base elencate precedentemente, sia da delle competenze che sono: Il riconoscimento e la gestione dei suoni, verbali e non verbali (competenza fonologica); Il riconoscimento e la gestione delle parole e delle regole, per formare frasi complesse (competenza morfo-sintattica); L’attribuzione del significato delle parole e delle frasi, estendere il suo vocabolario (competenza semantica). All’organizzazione del linguaggio partecipano alcune strutture encefaliche specifiche, fra cui l’area di Wernicke (centro verbo-acustico) e l’area di Broca (centro verbo-motore). La prima è fondamentale per capire il senso di quello che si ascolta, in quanto soggetti con una lesione in quell’area, pur sapendo che l’altro sta parlando, non riescono a capire ciò che sta dicendo. La seconda è importante per esprimere verbalmente un pensiero, in quanto soggetti con una lesione in quell’area, pur non avendo nessuna paralisi della muscolatura, non riuscivano ad esprimersi. È stata dimostrata l’importanza di queste due aree specifiche, anche se gli studi dimostrano che per l’organizzazione del linguaggio, l’encefalo lavora in tutta la sua globalità: per riconoscere i significati delle parole, non si deve solo decifrare il messaggio, ma si deve accedere anche al proprio patrimonio di conoscenze che riguarda sia un bagaglio nozionistico, sia un bagaglio di esperienze interpersonali. L’esordio del Disturbo del linguaggio coincide con l’epoca di insorgenza del linguaggio, infatti il bambino presenta un ritardo nelle tappe previste dallo sviluppo, ovvero un ritardo nello sviluppo delle prime parole; nella capacità di associare più parole in una frase; nella capacità di organizzare frasi complesse; nella capacità di sostenere una conversazione. Questo può avere varie forme: Forme lievi: si risolvono in età prescolare o all’ingresso nella scuola e vengono considerate un ritardo semplice; ha un vocabolario ridotto e anche quando lo arricchisce non riesce ad associare le parole. La componente fonologica del linguaggio è ridotta e comporta errori di omissione e sostituzione dei fonemi. Tutto ciò si attenua verso i 5 anni e tende a scomparire. Forme di media gravità: riguardano tutto ciò che è presente nella forma lieve ma l’unica cosa che le differenzia è la durata; sono presenti deficit che riguardano le competenze principali del linguaggio e, oltre al parlato, le difficoltà si riscontrano anche nello scritto. Forme gravi: proseguono fino all’età adulta, eloquio poco comprensibile. La diagnosi deve prima di tutto stabilire le caratteristiche del disturbo; successivamente deve valutare la presenza di patologie associate che potrebbero conferire al linguaggio un Il quadro clinico inizia ad essere evidente con l’inizio della scuola primaria e pian piano specificarsi. Compromissione della lettura: inizia appunto con la scuola primaria e quando si tratta di una forma lieve, può essere compensata durate i primi anni di scuola e compararire solo quando i compiti richiedono capacità maggiori di quelle possedute. Quando un soggetto legge male, può avere problemi che riguardano l’accuratezza, la velocità o la comprensione del testo. - Deficit dell’accuratezza: riguarda gli errori che un soggetto fa nella lettura ad alta voce (sostituzione di fonemi, omissione o aggiunta di sillabe, inversione di lettere o sillabe, mancata osservanza di accenti o punteggiatura). Questi riguardano più che altro problemi di transcodifica fonema-grafema, mentre la parola “dislessia” viene utilizzata quando è compromessa specificatamente l’accuratezza della lettura, per problemi di decodifica del segno grafico e di traduzione del grafema. - Deficit della rapidità: riguarda il tempo che il soggetto impiega a leggere; legge male quando impiega troppo tempo per leggere una parola o una frase; segue con il dito la lettura; fa lunghe pause, ha un ritmo discontinuo. I motivi del rallentamento possono spesso essere associati all’accuratezza, ovvero al fatto che può non capire subito ciò che c’è scritto e presta troppo tempo per la comprensione. - Deficit della comprensione: riguardano l’incapacità da parte del soggetto di comprendere ciò che legge. Questo deficit compromette quella che è la finalità della lettura, ovvero acquisire informazioni, notizie. Quando questo non è associato agli altri due deficit della lettura (accuratezza e rapidità) viene rilevato tardi, intorno agli 8-9 anni, quando gli si chiede di spiegare ciò che ha letto. Compromissione della scrittura: anche questo viene rilevato agli inizi della scuola; il bambino inizialmente deve tradurre il fonema nel suo segno grafico corrispondente, il grafema; apprende quindi gli aspetti ortografici della scrittura e le sue regole e nel frattempo automatizza i movimenti necessari per scrivere. Un bambino può scrivere male per problemi che riguardano la grafia, l’ortografia o la composizione del testo. - Disgrafia: deficit che riguarda l’acquisizione di quelle abilità che consentono di scrivere sul foglio ciò che si elabora mentalmente. Il deficit riguarda la fluidità e il controllo del tratto e si manifesta con: eccessiva o scarsa velocità nello scrivere; alterazioni della fluidità del tratto; illeggibilità delle lettere; impugnatura scorretta ecc. Anche se questo può migliorare, rimane nella scrittura uno stile che la renderà sempre quasi illeggibile. - Disortografia: deficit che riguarda difficoltà di transcodifica fonema-grafema e padroneggiamento delle regole. Il soggetto presenta: inversioni di grafemi nelle parole; omissioni; confusione tra grafemi simili; errori di accenti, punteggiatura. - Composizione del testo: questa difficoltà viene riconosciuta intorno agli 8-9 anni. Inizialmente compare brevità del testo, povertà del vocabolario, errori grammaticali e di punteggiatura; successivamente si sviluppano problemi più importanti che riguardano l’organizzazione delle idee, la loro trascrizione in frasi ben collegate, l’apporto di correzioni. Compromissione del calcolo: le difficoltà iniziano con la scuola primaria e riguardano la comprensione e la manipolazione dell’abilità numerica. Il soggetto ha difficoltà nel riconoscere piccole quantità, compararle, nelle strategie di composizione e scomposizione delle quantità, nel comprendere i segni ecc. La diagnosi afferma che c’è un disturbo quando i risultati che si ottengono dai test di valutazione standardizzati sono al di sotto di quelli attesi al soggetto per la sua età e la classe che frequenta. Diagnosi: nei confronti di un bambino che presenta disturbi di apprendimento è necessario mettere in atto una diagnosi articolata in varie fasi: La prima fase verifica il livello di prestazione raggiunto nelle varie aree: - lettura di brani scelti in base all’età e alla classe che frequenta; vengono valutati il numero di errori, il tipo di errori, la velocità e la comprensione. - scrittura attraverso un dettato o una composizione libera; vengono valutati il numero di errori, il tipo di errori e la velocità. La composizione libera permette di valutare anche la lunghezza del testo, l’adeguatezza del vocabolario, punteggiatura ecc. - calcolo valutato con prove standardizzate. Una volta verificata la presenza di un deficit si passa alla valutazione globale del soggetto, per capire se si tratta di un disturbo specifico oppure se ci sono situazioni particolari nella sua vita che influenzano il disturbo. Vengono tenuti in considerazione: le carenze socio-culturali, l’inadeguata frequenza scolastica, disabilità intellettiva, disturbo del linguaggio, iperattività, disturbo d’ansia o della condotta oppure disturbi dello spettro autistico. La diagnosi differenziale si fonda su anamnesi, esame neurologico, esame psichico, livello intellettivo, questionari e interviste, esami in laboratorio. Nei bambini con DSA sono presenti molto frequentemente disturbi associati come le alterazioni del linguaggio, disturbi emotivi, difficoltà nell’orientamento tempo-spaziale. Questi vengono chiamati disturbi associati perché non sono una causa dei disturbi dell’apprendimento ma sono una co-presenza. Generalmente la cura di questi disturbi viene affidata alla scuola che ha il compito di realizzare strategie compensative e misure dispensative quando ci si trova davanti ad un Piano Didattico Personalizzato. In aggiunta al PDP deve essere formulato un Progetto Terapeutico Personalizzato che deve prendere in considerazione alcuni interventi: - riabilitativi: esercizi di lettura, dettato, calcolo, rispettando i ritmi di apprendimento di ciascun bambino, passando all’esercizio successivo solo quando quello precedente stato ben appreso,presentare gli esercizi in maniera sistematica. - psico-educativi: gli insegnanti rilevano le difficoltà, i genitori vengono allertati dalla necessità di provvedere alle difficoltà del figlio. - psicoterapeutici: interventi di rassicurazione e sostegno al soggetto per aiutarlo a superare i sentimenti di inadeguatezza e frustrazione.
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