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Noi migranti. Per una poetica della relazione, Schemi e mappe concettuali di Sociologia delle Migrazioni

Riassunto completo del libro "Noi migranti. Per una poetica della relazione" di Paola Gandolfi

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

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Scarica Noi migranti. Per una poetica della relazione e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Sociologia delle Migrazioni solo su Docsity! Noi migranti 1. Tra i migranti e frontiere: l'erranza delle parole 1.1. Migranti e Stati-nazione: una riflessione critica Abdelmalek Sayad sosteneva che l'analisi delle migrazioni fossero uno dei modi migliori per avvicinarsi alla comprensione dei fondamenti dello Stato, perchè esse sollevano questioni che permettono di mettere in luce i suoi meccanismi di funzionamento. Lo Stato delimita, divide, separa, decreta una rottura, introduce discontinuità nella continuità dell'umanità (G. Sarter). I migranti, con la loro presenza, disturbano di per sé l'ordine fondato su quella “separazione” operata dallo Stato tra nazionali e stranieri, mettendo così in evidenza la discriminazione messa in atto tra essere umani e esseri umani. Pierre Bourdieu ricordava che nei dizionari e nei nostri immaginari ci sono due definizioni opposte di Stato: una legata al governo e all'insieme di servizi dell'amministrazione pubblica e una che si fonda sull'idea di uno Stato-nazione. In quest'ultimo caso lo Stato sarebbe una sorta di persona morale che rappresenterebbe una società organizzata. Secondo questa visione, lo Stato-nazione come popolazione organizzata preesisterebbe allo Stato inteso come governo o burocrazia. La Storia dimostra infatti che è lo Stato inteso come amministrazione che costruisce lo Stato-nazione. Per Bourdieu ciò che chiamiamo Stato è costituito da un insieme di risorse, tra le quali il monopolio dell'uso della violenza fisica e simbolica. Tale forma di organizzazione li dota di risorse materiali e simboliche che permettono loro di farsi obbedire. Al contempo essi costruiscono lo Stato-nazione: una popolazione unita, che parla la stessa lingua, che occupa un medesimo territorio delimitato dalle frontiere. Coloro che detengono le risorse dello Stato. Non sono inclini ad ammettere che questa funzione sia stata sorpassata da valori umanitari quali l'ospitalità o la solidarietà. Ecco perchè le migrazioni disturbano. Perchè smascherano la modalità secondo la quale concepiamo lo Stato. 1.2. Domande legittime e illegittime La dinamica dei flussi di richiedenti asilo è una delle realtà che ha segnato in modo specifico le dinamiche migratorie recenti in Italia e in Europa da dopo il 2011 a oggi. L'arrivo dei richiedenti asilo urta con quei dispositivi che erano teoricamente volti ad assicurare dignità a tutti, nel nome dei diritti umani, e ci interroga intorno a una vera attivazione della tutela dei diritti, da realizzarsi al più presto. Diventa urgente un nuovo insieme di rappresentazioni rispetto a un divenire possibile. Tutti ricordiamo la foto del piccolo Aylan Kurdi senza vita sulla spiaggia e lo sgomento, le reazioni e gli effetti da essa suscitati. Eppure tutto è svanito nel giro di poco tempo lasciando poi nuovamente spazio ai muri della fortezza europea. Dovremmo agire ricordandoci che il destino di queste persone non è quello di una massa, ma è il destino di ciascun singolo individuo come persona. Ricordandoci anche che il vissuto di queste persone ci raccontano di un'unica importante avventura umana migratoria, molto antica, che anche noi italiani abbiamo conosciuto solo pochi decenni fa. La crisi sociale ed economica nelle nostre società capitalistiche ha divaricato la distanza fra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. Gli italiani si sentono “aggrediti”dalla dinamica migratoria poiché vivono tutto questo come necessità di difendersi dal disagio che è stato prodotto dalla divaricazione. Bisognerebbe riconoscere con molta più onestà che le diverse lotte per i diritti all'interno della nostra società contemporanea sono interralate. Ognuno alla fine si ritrova “rifugiato” in qualcuno e una medesima dipendenza ci lega gli uni agli altri (Chamoiseau). È necessario non “restare indifferenti”, essere svegli e coscienti e restare umani. È necessario aprire possibilità “contro l'indifferenza”. Se la nostra società è in grado di accettare le catastrofi migratorie e le derive sociali e politiche che ogni giorno vengono perpetrate è perchè in qualche modo questa realtà inaccettabile fa già parte del nostro quotidiano. Nella misura in cui accettiamo quel che sta accadendo come ordinario e restiamo indifferenti, stiamo contribuendo a far si che la società prenda la direzione che affermiamo di non volere. Aprire possibilità “contro l'indifferenza” non è allora un invito retorico e astratto a esserci, ma è innanzitutto un'etica di ricerca. È un allenarsi a osservare con gli strumenti di indagine di cui disponiamo e un farsi domande, per costruire descrizioni dignitose della realtà che siano il primo passo verso qualsiasi riflessione e azione. Il che significa fare riferimento alle fonti statistiche. Significa riuscire a leggere i numeri contestualizzandoli, perchè nessun dato ha un valore nel momento in cui non si sa da dove proviene. Significa leggere un evento storico e antropologico rispetto alla rete di relazioni geo-politiche che hanno contribuito a determinarlo. Significa affiancare a una prima indagine quantitativa a un'indagine qualitativa, per cui, per esempio, a un mero numero di persone morte nel Mediterraneo nella traversata in mare dal Nord Africa all'Europa si possano fare corrispondere nomi, volti, biografie, storie di vita di coloro che hanno perso la vita, ma anche dei loro parenti e delle loro famiglie. Aprire possibilità “contro l'indifferenza” significa allora contribuire a realizzare un'azione prima di tutto di tipo culturale, di costruzione di conoscenza e informazione, di lettura attenta e profonda della realtà in cui viviamo. 1.3. Leggere i numeri per costruire parole Stando alle statistiche, il numero degli sbarchi sulle coste italiane e delle persone morte nel Mar Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l'Europa dal 2013 a oggi e, in particolare nel 2015 e 2016, si è incrementato ancora rispetto a quanto non fosse già in aumento almeno della fine degli anni '90 e nel corso di tutti gli anni 2000. L'Europa è sempre più meta soprattutto di chi, provenendo da Paesi al centro di guerre, conflitti e crisi, vi cerca rifugio. Per quanto, dunque, sia difficile orientarsi anche tra i numeri, per quanto si rilevi l'assenza totale di dati in alcuni ambiti specifici e la difficoltà nel reperimento di determinati dati, partire dai numeri è un primo passo per avviare una riflessione critica intorno ai molti aspetti della questione migratoria. È il primo passo per poi costruire e scegliere parole che, assieme ai numeri e ben oltre i numeri, descrivano la realtà. 1.4. Noi e loro La narrazione prevalente pone immediatamente i richiedenti asilo in una sorta di opposizione tra “loro” e “noi”, tra chi arriva e chi accoglie. Quasi a sancire subito un confine, nella misura in cui i luoghi di accoglienza sono spesso ben separati dai luoghi dalla città e confinati nelle periferie o comunque in strutture chiuse, spesso non facilmente visibili e accessibili. Un primo passo verso la costruzione di una narrazione il più aderente possibile alla realtà va allora nella direzione di evitare approssimazione e semplificazione e di lavorare con la finalità di scegliere parole esigenti e rigorose. Un secondo passo è la costruzione di un percorso che provi a indagare l'origine di questa opposizione noi/loro. Suggeriamo l'urgenza di utilizzare un noi che non sia astratto, ma relazionale, non etnico, razziale o nazionale. 1.5. Tra noi e loro. Con quale ragione? Normalmente vi sono tre ragione principali che possono muoversi in favore dell'accoglienza dei migranti e per una mobilitazione nei loro confronti. La prima ragione agisce in risposta al disagio e alla sofferenza dei migranti, in nome del loro essere vittime, fragili o bisognosi. È dunque una ragione che possiamo chiamare “umanitaria”. Talora questa ragione umanitaria o compassionevole rischia di considerare l'altro essenzialmente come vittima, senza voce. Il rischio è quello di silenziare i richiedenti asilo, di organizzare, di decidere, di pianificare per loro, invece che con loro. Come ben sappiamo la logica del dono, a partire dal famoso saggio sul dono di Marcel Mauss, è la base di qualunque scambio sociale e si realizza essenzialmente attraverso tre forme: donare, ricevere, rendere. Il tempo che è bene lasciare tra il ricevere e il rendere permette l'instaurarsi di una relazione. Il dono umanitario, però, non prevede nessun contro-dono. E questo talora può creare una sorta di cortocircuito. All'interno delle strutture, le incomprensioni più ricorrenti narrate sia da parte richiedenti asilo che da parte dei diversi attori dell'accoglienza si creano proprio in questo delicato interstizio in cui i richiedenti asilo mostrano di vivere priorità diverse o richieste ulteriori rispetto a quelle degli operatori. In modo, alla loro cristallizzazione. La parola non è mai neutra, è la proiezioni, sulla tela della realtà di un insieme di interessi, desideri, fantasmi, rappresentazioni. Attraverso categorie e classificazioni le parole filtrano il reale. Il linguaggio mette in circolo rappresentazioni e valori e può anche generare violenza. Le parole relative alla mobilità migratoria vanno collocate in questa prospettiva. In un'Europa segnata dalla recessione, dalla cosiddetta crisi, da un clima sociale e politico di tensione, non possiamo non considerare come la parola “migrante” catalizzi le angosce di una parte della popolazione che vive un avvenire incerto. La parola rifugiato evoca qualcuno che fugge da una morte certa o da una violenza certa e quindi nei suoi confronti si mette in moto una qualche empatia “autorizzata”. La parola migrante ci descrive qualcuno che ha ragioni alla basa del suo movimento meno pressanti, per cui egli risulta “meno desiderabile”, è spinto dalla sua definizione stessa in secondo piano o addirittura “fuori campo”, pressochè senza vergogna. Le persone si trovano così imprigionate nei confini dello stato che viene loro imposto dalle parole. Fuga, erranza, deriva, esilio, viaggio, espatrio, pellegrinaggio, vagabondaggio, migrazione, turismo, esodo, sono solo alcune delle parole che esprimono uno spostamento di persone. La differenza sta sull'accento che viene posto alle motivazioni, alle cause, ai fini di un tale spostamento. Vale la pena ricordare che “migrazione”, in latino migratio, è il semplice passaggio, lo spostamento da un luogo a un altro, senza sfumature di senso e significato. 1.11. Homo migrator e lucciole pasoliniane A volte scegliere alcune parole piuttosto che altre, significa anche osare. Patrick Chamoiseau scrive nel suo ultimo libro che quando l'umano non è più identificabile con l'umano, siamo davanti alla barbarie. Per indicare ciò che si annida ormai nelle nostre società europee contemporanee e dinanzi a quello che la fortezza Europa ha creato e alle innumerevoli morti nel Mediterraneo che contiamo tutti i giorni. L'autore sottolinea che colui che desidera far scomparire o morire l'uomo che arriva è destinato a morire lui stesso: è lui stesso che scompare. Ormai molteplici letture e analisi ci suggeriscono che respingiamo i migranti perchè questo loro arrivo sembra dirci che sono venuti a riprendersi il mondo da cui sono stati esclusi. Come continua Chamoiseau dinanzi all'irruzione incontrollabile del mondo, davanti a cui ci pongono i flussi migratori, alcuni di noi soccombono, altri ricorrono a una tranquilla benevolenza. Secondo il filosofo antillano, da questa situazione, da questa attitudine benevola può accendersi quella che Pasolini avrebbe chiamato una lucciola. Una lucciola che è umanità. Una lucciola che ha a che fare con l'entrate in relazione. I corpi dei migranti che arrivano tra noi urlano di rispetto di diritti e di essere riconosciuti come esseri umani e ci scuotono rispetto alla nostra umanità. I corpi e le nude vite dei migranti ci ricordano anche che nulla si è costruito nell'immobilità e nella fissità. Non c'è vita senza movimento, non c'è vitalità senza migrazione. La lucciola pasoliniana, in questo contesto, è quel che permette di riconoscere questo slancio di vita, questa umanità e ci fa entrare in relazione. Bisogna subito distinguere, però, tra il fatto relazionale e l'idea di relazione. L'idea di relazione per Glissant, che addirittura la eleva a rango di poetica, non è una semplice mobilitazione di valori da opporre alla disumanizzazione del mondo. Il fatto relazionale, dal canto suo, può essere considerato come un diagramma di forza antagoniste e solidali spogliate di intenzione. Perciò si parla di poetica della relazione. Il fatto relazionale fa si che quando si percepisce lo sconcerto dell'impensabile, è allora che si agisce, si crea, ci si mette in movimento. 1.12. Pratiche dell'accogliere L'accoglienza è un riflesso, un qualcosa di immediato, quasi una competenza della sensibilità umana che sorge all'impatto con lo sconosciuto e con l'imprevedibile. Nell'accogliere si raccoglie e si va oltre, ci si prende cura, ci si unisce in qualche modo ad altri con i quali si condivide uno spazio e un tempo. L'accoglienza non potrebbe realizzarsi senza una poetica e una politica della relazione. Il delicato processo di accogliere implica un avvicinarsi all'altro e provare a tesser una relazione, considerandolo nella sua interezza, in tutta l'imprevedibilità delle sue scelte e della sua natura reale. Rispetto al migrante che arriva significa, forse, riuscire a riconoscere che è qualcuno di diverso da noi, che non ci assomiglia, che magari non farà quello che noi vorremmo che facesse. È qualcuno con cui non condividiamo una storia comune, ma con cui possiamo intraprendere un divenire, per quanto impossibile da prevedere. L'accoglienza non è da intendersi come un dono, è piuttosto una modalità di vivere e di stare al mondo. Accogliere realmente i migranti che vengono, partono, restano, ripartono, implica accoglierli senza aspettative o richieste, significa riconoscere il divenire che è in loro. Proprio come in qualsiasi relazione educativa, la fatica è allora quella di esserci ma di lasciare essere, di fare in modo che la persona con cui entriamo in relazione sia pienamente se stessa e capisca chi è quel che ama e quel che desidera. Il vissuto del migrante va scoperto, indagato, osservato, compreso, innanzitutto vivendolo nella dinamica relazionale. 1.13. L'incertezza della mobilità e il divenire comune Come ormai è stato ampiamente dimostrato e dibattuto, la globalizzazione non ha cancellato le frontiere, le ha piuttosto moltiplicate, trasformate, rendendole in qualche modo anche più incerte e più fragili. Talora le frontiere sono diventati muri. Attraversare le frontiere oggi porta con sé una dose enorme di incertezza. I luoghi di frontiera, intesi come spazi estesi, sono luoghi difficili, violenti, conflittuali, estremi. Alcuni di essi vivono una gran parte della loro vita in questi territori di frontiera o bordelands. Eppure, la componente dell'incertezza non appartiene solo a questi luoghi già di per sé alla frontiera e ai margini; essa pervade molti dei percorsi migratori. Alla fine anche i campi e le strutture all'interno delle nostre città e delle nostre periferie diventano luoghi di frontiera, luoghi dove confiniamo i richiedenti asilo, luoghi ben definiti nella loro extra-territorialità che mettono in moto delle complesse dinamiche di eccezionalità. In questo quadro, è urgente oggi provare a interrogarsi su come gestire i conflitti, come co-abitare, come costruire questo divenire, come sperimentare modalità concrete di con-vivenza, di relazione. 2. Pratiche di mobilità e politiche di (in)ospitalità 2.1. Migranti e pratiche cosmopolite nel quotidiano Gli studi trasnazionali hanno da tempo messo l'accento sul ruolo fondamentale della mobilità migratoria trasnazionale nelle nostre società globalizzate e hanno dimostrato l'importanza e la specificità dei vissuti in-between dei migranti contemporanei. L'impatto di tali vissuti trasnazionali nelle società europee si misura anche in termini di cambiamenti sociali, politici e culturali. Una delle sfide del cosmopolitismo è di immaginare e creare comunità politiche che non siano delimitate da confini. Si intende con tale termine un'attitudine a una cittadinanza in senso lato, che vada oltre quella dello Stato-nazione, in una prospettiva globale e non nazionalista. L'idea è che i vissuti e le pratiche culturali trasnazionali dei migranti possano essere letti anche come un superamento delle logiche nazionali, nella direzioni di una pratica che per alcuni studiosi può essere denominata “cosmopolita”. Le diverse interpretazioni di questo concetto dipendono in parte dal fatto che gli studiosi identifichino con cosmopolitismo un'agenda politica progressista che abbia come finalità principale la lotta alle ingiustizie sociali o invece un progetto analitico ed epistemico o piuttosto una pratica ovvero una competenza. Al di là delle differenze di significato che tale concetto può assumere, alcuni autori, tra cui Elisa Pieri, suggeriscono di intendere il cosmopolitismo come fenomeno culturale ed estetico. Il cosmopolitismo dei migranti è nella prospettiva di una pratica e di una competenza. Agier, andando in questa stessa direzione, sostiene che per molti migranti contemporanei il cosmopolitismo è un qualcosa di fisico, reale, corporeo, non una teorizzazione. Si tratta di una realtà con cui bisogna imparare a vivere o con-vivere: un insieme di pratiche e vissuti cosmopoliti/ci. Il loro andare oltre al locale e vivere una dimensione trans-locale e trasnazionale fa parte della loro quotidianità e delle loro storie individuali e collettive. In questo senso, più che parlare di fenomeno culturale ed estetico, opteremmo qui per un'idea di cosmopolitismo che sia una pratica quotidiana, culturale ed estetica. Si tratta di pratiche culturali quotidiane che per molti migranti trasnazionali sono il frutto di un'articolazione complessa tra più contesti culturali. Pratiche cosmopolite che sono l'esito di un processo continuo di localizzazione e de-localizzazione, in cui i migranti provano, nel quotidiano, a sfruttare le reti trasnazionali, le relazioni, le loro risorse materiali e simboliche per tessere dinamiche di negoziazione e ri-negoziazione che si giocano simulataneamente nei contesti nazionali di origine e di approdo e in un terzo spazio trasnazionale. Così facendo essi propongono pratiche culturali originali in-betweem che, pur non cancellando le appartenenze nazionali e i confini, li attraversano e li reinventano, in modo inedito. I migranti, con le loro pratiche quotidiane, sperimentano insieme la dimensione locali e quella trasnazionale. Ache se i governi e i politici raramente li ascoltano, e tendono piuttosto a continuare a trattarli con una logica securitaria o al limite umanitaria, i migranti, soprattutto alla frontiera si rivelano come soggetti e attori politici. Il campo di Calais è stato il più grande campo profughi d'Europa, soprannominato la Giungla. In quei mesi abbiamo assistito a violenza fisiche e morali contro gli abitanti del campo ma anche alle più diverse e originali forme di solidarietà e alla realizzazione di modalità creative di auto-organizzazione e di gestione degli spazi da parte dei migranti che hanno fatto diventare il campo un luogo da vivere e da abitare, ricco di legami. 2.2. Soggetti e attori politici in migrazione Nelle strutture adibite all'accoglienza all'interno delle nostre città e province che ci misuriamo con il complesso tentativo della nostra società di costruire percorsi di relazione e di inclusione. In questi contesti, la difficoltà di relazionarsi con migranti e richiedenti asilo riconoscendoli come attori sociali e politici, ossia come soggetti è un sintomo della difficoltà della nostra società di pensare chi iene da altrove e di agire realmente con essi, insieme ad essi. Possiamo, in qualche modo, ritrovare dentro a queste molteplici modalità le tre logiche dell'accoglienza che avevamo in precedenza individuato, tra cui primariamente la logica “umanitaria”. I rischi di un'accoglienza assistenziale e umanitaria consistono nel progettare un sistema di accoglienza per i richiedenti asilo piuttosto che con essi. Le difficoltà emergono, per esempio, quando i richiedenti asilo percepiscono chiaramente delle ingiustizie oppure quando, appunto, non si sentono coinvolti nel loro percorso di accoglienza. Il ruolo dei mediatori culturali sembra tutto a un tratto imprescindibile perchè si possa ricucire una comunicazione, un rapporto di collaborazione. In realtà, quelli sarebbero i momenti su cui soffermarsi, osservare in profondità, ascoltare, tentare di capire le ragioni di chi sta agendo in modo diverso da come ci si aspettava, per provare a concertare non solo un ripristino dell'ordine, ma un tentativo di creare dei contesti di vita, anche se transitori e segnati dall'eccezionalità, il più possibile umani. Bisognerebbe provare a ripensare la questione dell'accoglienza in termini di un noi che si relaziona con chi ha un'altra storia e viene da altrove e con cui si condivide uno spazio e un tempo. 2.3. Quale ospitalità? Tutte le civiltà antiche erano d'accordo su un punto: fare dello straniero un ospite. Noi stiamo facendo il contrario: trasformiamo l'ospite in straniero. Con tale drastica e provocatoria affermazione, Fabienne Brugère e Guillame Le Blanc ci sollecitano ricordandoci come non accogliendo chi sta arrivando per mare e per terra da altrove, rischiamo di allontanare dei mondi che sono già connessi e di rendere invisibile quel che è parte della realtà. I due studiosi francesi ci ricordano anche che la lenta e graduale fine dell'ospitalità sancita per legge ha avuto inizio ben oltre venti anni fa. È nel 1995, infatti, che in Francia inizia il delirio dell'ospitalità per cui si minaccia la prigione per chiunque aiuti degli stranieri in situazione irregolare, chiunque accolga in casa dei richiedenti asilo o li aiuti in qualsiasi altro modo. In Italia nel 2002 la legge Bossi Fini introduce il reato di clandestinità e di favoreggiamento alla clandestinità. Saltando molte tappe intermedie si arriva, venti anni dopo, nel 2015, anno in cui quasi tutta l'Europa sperimenta il diniego di ospitalità. Accogliere è diventato tabù. I paesi europei invece che dar vita a una politica comune di accoglienza, restano sconcertati, cadono nella paura e rifiutano di attivarsi nei confronti di coloro che richiedono un rifugio. Se si vuole davvero prendersi carico di vite contrario: la generalizzazione del diritto di uscita da un Paese non è accompagnata da quella di diritto di entrata, nonostante le dichiarazioni e i testi di diritto internazionale. Nonostante, cioè, tutto questo indichi il diritto dell'individuo alla mobilità come valore da difendere, il controllo militarizzato delle frontiere è la risposta più frequente all'evolversi dei flussi migratori. Allo stesso tempo il calo demografico e il bisogno di mano d'opera in diversi Paesi europei rimangono, poiché in realtà la dinamica migratoria è un fattore essenziale di crescita per le popolazioni dei Paesi di immigrazione. La moltiplicazione e la diversificazione delle cause che portano alla partenza, hanno fatto raddoppiare il numero dei migranti internazionali rispetto alla fine del XX secolo. Considerate le diseguaglianze globali e gli squilibri demografici che caratterizzano la nostra epoca, le migrazioni continueranno a esserci; talvolta potranno anche aumentare in ragione di fattori quali i disastri ambientali, i cambiamenti climatici, le guerre e i conflitti civili. Al contempo, i protagonisti della mobilità migratoria si sono andati diversificando negli ultimi venti anni: più della metà dei migranti oggi sono donne, sono aumentati anche i migranti interni e il numero dei minori non accompagnati. La risposta alle migrazioni da parte dei maggiori Paesi di immigrazione quali l'Europa è essenzialmente di tipo securitario. Inoltre, ci si limita a risposte e proposte di soluzioni a breve termine, se non spesso addirittura emergenziali. Dagli studi sulle migrazioni, si evince che l'unica auto-regolazione dei movimenti migratori è legata alla regionalizzazione dei flussi: i migranti più numerosi provengono dalla stessa regione piuttosto che dall'esterno perchè la migrazione ha un costo molto alto. Tutti gli studiosi di migrazioni concordano sul fatto che nella nostra epoca ci si muove di più e ci si muoverà di più: da questo bisogna partire, considerando la questione migratoria come strutturale. Qualcuno a questo punto sostiene che si debba promuovere seriamente lo sviluppo nei Paesi di origine e, al contempo, si debbano regolamentare i flussi. Per altri, bisogna ripartire da due considerazioni fondamentali. La prima è che la securizzazione delle frontiere ha provocato decine di migliaia di morti. Inoltre, il costo finanziario, diplomatico, ed economico è stato considerevole, senza peraltro riuscire nell'intento di dissuadere le persone a partire o a fuggire. La seconda considerazione è che in realtà non ci sarebbe un'alternativa alla migrazione, perchè anche il processo di sviluppo attuale spinge all'entrata in mobilità piuttosto che al mantenersi sedentari. 2.8. Ripensare l'asilo e la cittadinanza: l'umanità in gioco Dinanzi alle derive politiche e culturali, forse anche antropologiche, a cui in Europa e in Italia stiamo assistendo, il primo passo necessario è la promozione di un'analisi seria della realtà e di una riflessione critica. L'asilo oggi è uno dei parametri di comprensione del livello paradossale e pericoloso dello stato di deficit democratico in cui molte società versano, tra cui la società italiana. Il diritto d'asilo, per come è stato sancito dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, non è solo un mero diritto di sopravvivenza, ma implica l'accesso all'intero insieme dei diritti umani senza che questo implichi il possesso preventivo di una cittadinanza. Il diritto d'asilo è il diritto ad avere diritti per l'essere umano come tale. L'ossessione per la lotta alla migrazione irregolare e per la classificazione tra “veri” e “falsi” rifugiati ha finito per stravolgere le pratiche del diritto di asilo. Inoltre, si è costituita un'opposizione rigida tra migrazioni economiche e migrazioni forzate. Nell'epoca contemporanea l'asilo si sovrappone alle migrazioni, le politiche sull'asilo si sovrappongono alle politiche migratorie. Ai richiedenti asilo si applicano le stesse limitazioni che si applicano ai migranti. Non ci sono canali di ingresso legale né per i richiedenti asilo né per i migranti: in Italia le quote di ingresso non vengono stabilite dal 2012. In sintesi, con la motivazione di “gerarchizzare” le cause degli spostamenti, gli Stati hanno trasformato l'esodo in un processo di esclusione ed eliminazione. Non si può che prendere atto, dunque, che le politiche in materia di migrazione della maggior parte dei Paesi europei sono contraddittorie se non ipocrite, considerati i continui richiami ai principi democratici e ai diritti umani. Troppe narrazioni deformano ancora la realtà e riguardano almeno due ordini di problemi. Il primo è di ordine pragmatico, economico, logistico: la cosiddetta “invasione” dei migranti corrisponde in realtà a circa lo 0,2% della popolazione di tutta l'Unione Europea. Un secondo livello della questione è di ordine morale: il numero di vite perse nel Mediterraneo ha preso dimensioni inimmaginabili tanto da avere trasformato tale mare in un cimitero. Alcuni giuristi provano da tempo a ripensare il diritto internazionale mettendovi al centro l'accoglienza e l'ospitalità, provando a immaginare e sperimentare il coraggio dell'ospitalità affrontando seriamente i conflitti che essa include e provando a costruire altre narrazioni possibili. A proposito di altre narrazioni possibili, il filosofo francese Balbar suggerisce di concepire ormai le migrazioni come erranza e si interroga se non sia forse più opportuno sostituire il termine migranti con erranti. Bisognerebbe provare a immaginare una sovranità condivisa ancora tutta da pensare e forse anche a dei diritti che non siano più solo legati a una permanenza territoriale ma anche alla possibilità di muoversi. 2.9. Un movimento, una traiettoria Tutta l'avventura umana è posta sotto il segno di un'ospitalità accordata o negata, della capacità o meno di fare spazio all'altro. L'ospitalità non è facile, non è spontanea, né innata, è qualcosa che si è andati costruendo, di cui ci si è nutriti piano piano, è il frutto di un faticoso allenamento, è l'esito di un apprendere ad apprendere, un apprendere a sperimentare. Quanto riusciamo a immaginare che l'altro sia così radicalmente diverso da noi o quanto riusciamo a immaginare che l'altro sia spaesato, o ferito, o incerto, o stanco o solo, o appassionato, o incuriosito, o sorpreso o invogliato quanto noi. È qui allora che si gioca la possibilità di allenarsi a essere ospitali, di formarsi all'ospitalità e di mettersi in movimento, in ragione di un noi che sia intrinsecamente relazionale. 3. Sconfinamenti educativi e poetiche della relazione 3.1. Articolare la questione migratoria e la questione educativa La mobilità migratoria caratterizza talmente la contemporaneità ed è antropologicamente talmente importante nella storia passata e attuale dell'avventura umana che non può non indurre a un ripensamento dei contesti scolastici ed educativi. Una serie di interrogativi si pongono almeno a due distinti livelli. Il primo nasce dalla necessità che nei contesti scolastici ed educativi si affronti seriamente la questione della mobilità quale elemento della nostra vita quotidiana scolastica. In secondo luogo, perchè la questione migratoria è una questione culturale e politica che abita i discorsi, permeando la nostra quotidianità. La questione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, così come la questione delle persone in arrivo via mare e dei naufragi quotidiani nelle acque del Mediterraneo, dovrebbero entrare a pieno titolo nelle nostre scuole non solo come contenuto ma anche come questione culturale. 3.2. Nella differenza e attraverso la differenza Nel lavoro educativo non si può che provare a immaginare, raccontare, dare voce a chi è altro, nelle accezioni più diverse. Colui che arriva da altrove porta un vissuto di cui possiamo renderci conto sino a che non entriamo in relazione con lui. La “poetica della relazione”, per come la descrive Glissant, è data da un insieme di forze antagoniste e solidali che si possono esprimere in una serie infinita di possibilità di interazioni tra me e l'altro. Prendere atto di questa infinita serie di possibilità è una della prime sfide educative. Nella consapevolezza che tali differenze a volte si chiamano e si trovano, altre volte si accordano, spesso si respingono, ma nella misura in cui entrano in relazione conservano ciascuna il ricordo dell'altro. Il nocciolo della delicata questione dell'accoglienza di un richiedente asilo, richiama l'idea che, pur venendo da un luogo diverso e avendo una storia diversa, si può condividere con lui uno spazio e un tempo. Questa dinamica si realizza nei microcontesti scolastici ed educativi. Nell'osservare l'accoglienza, abbiamo visto che accoglierli senza sovrapporre le nostre rappresentazioni e le nostre paure significa dare dignità e fiducia al divenire che è in loro. Il che ci dice, seppur in condizioni limite, di quel che avviene in una qualsiasi relazione educativa e in qualsiasi contesto scolastico, dove la fatica dell'educatore è quella di esserci ma anche di lasciare essere, di fare in modo che la persona con cui entra in relazione sia pienamente se stessa e capisca piano piano chi è e che cosa desidera. La relazione è infatti un allenarsi ad aprirsi anche al non noto, all'imprevedibile, all'imprevisto. La relazione, che lo si voglia o meno, de-territorializza, provoca inevitabilmente un disequilibrio, uno spostamento e un perdersi. Nei contesti educativi e scolastici segnati dal multilinguismo e multiculturalismo, ci si trova dinanzi a un divenire comune da inventare e da sperimentare, anche in modo pragmatico, nelle pratiche quotidiane. In un'epoca come la nostra caratterizzata dalla globalizzazione, dalle dinamiche trans-nazionale, uno dei limiti del multiculturalismo, è che sia stato teorizzato in modo paternalistico, come una soluzione pensare dall'altro per gestire il problema delle minoranze, attraverso una reificazione pericolosa dalla cultura. Uno dei ripensamenti più importanti intorno agli approcci pedagogici contemporanei, riguarda un'attenzione all'articolazione tra le culture, le religioni e le pratiche culturali e religiose per come si realizzano nei microcontesti quotidiani delle persone. Piuttosto che leggere i nostro contesti educativi plurali con un approccio culturale o etnico, bisognerebbe andare oltre il paradigma culturalista e spostarsi verso una prospettiva che, a nostro parere, più che essere denominata interculturale, possa cogliersi nell'essenza del pluralismo e di un incontro tra differenti provenienze e tra specificità plurali. 3.3. Lo spostamento e lo sconfinamento come pratiche educative Nella scuola e nei diversi contesti educativi si possono e si debbono sperimentare e organizzare identità reciproche. Laddove una pratica educativa mette al centro la differenza e la singolarità, in modo radicale, essa è già di per sé pienamente inserita in un'ottica cosiddetta interculturale. Quello a cui nei nostri contesti educativi e scolastici si dovrebbe tendere è un'esperienza della condivisione di percorsi in grado di decostruire e ricostruire le interpretazioni semplificate delle identità e delle culture. Si può ripensare l'educazione nell'ottica della pluralità, per dare dignità a una differenza assunta come qualcosa di non del tutto noto e codificabile. In quest'ottica la relazione educativa, in una scuola che si ripensi a livello qualitativo intorno alla pluralità, risulta pienamente contemporanea nel momento in cui prova a immaginare e a proporre occasioni di sperimentazioni della condizione dell'essere straniero. In altre parole, questo significa sperimentare l'essere ai margini, spostare per un breve tempo il proprio sguardo, per poi ricollocarlo. Immaginate percorsi per promuovere un noi relazionale significa, costruire un processo dialettico contestuale, un terreno mobile, i cui interlocutori condividano un insieme di significati o si adoperino al fine di condividere una parte di questi significati. Un contesto educativo o scolastico contemporaneo, potrebbe allora delinearsi come il riconoscimento di una storia passata e di un tempo altro del soggetto che interagisce con noi nel presente, come un sottile e implicito equilibrio tra memoria del passato e volontà di futuro. L'asilo è il diritto d'immunità che acquistava chiunque si rifugiasse in un luogo sacro. E se ripensassimo oggi alla scuola e ai luoghi formali e informali dell'educazione come luoghi sacri, ovvero luoghi dove sia possibile, indipendentemente dalla singola storia di ognuno, trovare riparo e fermarsi?. Perchè alla fine, questa prospettiva, sacra è prima di tutto ogni singola persona con cui entriamo in relazione a cui offriamo un tempo e uno spazio dove stare, dove sentirsi protetta, dove star bene. Tutto questo potrebbe spingere a ripensare profondamente ai contesti scolastici ed educativi come luoghi che accolgono, che offrono riparo, come luoghi sacri e inviolabili che offrano anche solo un'alternativa rispetto al vissuto individuale che ognuno si porta e che in gran parte rimane insondabile. Luoghi sacri qui intesi come luoghi di laboratorio permanente, dove allenarsi a una seria gestione dei conflitti e a una possibile convivenza. Si tratta di luoghi dove “imparare a vivere” la quotidianità, dove imparare prima di tutto a entrare in relazione e a costruire saperi, intesi come reti intrecciate di conoscenze e di “savoir faire”. E dove imparare, innanzitutto, a convivere, a vivere nell'eterogeneità delle situazioni e delle persone, anche con tutta la portata conflittuale che questo comporta. 3.4. Ripensare l'educare in ottica trans-nazionale e cosmopolita dal pluralismo. La visione di un film potente e attuale come I'm not your negro dovrebbe essere presente nel primo corso di aggiornamento obbligatorio per tutti i docenti e gli educatori che oggi si ritrovano a lavorare nell'ambito di un pluralismo culturale che rischia di essere suddiviso ed etichettato con estreme naturalezza. 3.8. Per una poetica della relazione Domandiamoci allora se il concetto di creolizzazione nei nostri contesti scolastici ed educativi circoli davvero e stimoli a ripensamenti teorici e pratici. Glissant è stato uno degli autori che maggiormente ha fatto della sua origine nelle isole delle Antille il punto di forza della sua riflessione intorno alla relazione. Concentra la sua attenzione sui Caraibi per sviluppare una teoria della relazione che si differenzia dal pensiero filosofico e culturale che ha segnato l'Europa e che si è costruito a sua volta intorno al Mediterraneo. Glissant ci ricorda come il Mediterraneo sia un mare che concentra, un are interno circondato da continenti e come questa sua specifica configurazione abbia favorito lo svilupparsi di un'idea e di unicità e di un'unica radice. I Caraibi invece, sono un luogo di passaggio in un mare che diffrange e porta a culture composite che sono il frutto, appunto, di un processo di creolizzazione. Un processo che porta in sé la forza e le contraddizioni del contatto tra culture. La relazione, in questa prospettiva delle creolizzazione, si fa nell'incontro e nel riconoscimento reciproco. Glissant, però, ci propone di non pensare al riconoscimento come comprensione dell'altro: cum-prendere infatti significa prendere a sé, prendere con sé e quindi, dal suo punto di vista, propone l'idea di una fusione in un inicum. Invece tutta la potenza della riflessione di Glissant sta nell'includere nel movimento verso l'altro il riconoscimento della sua opacità. In questa prospettiva l'opacità è un diritto, è ciò che protegge chi è diverso ed è al contempo la condizione necessaria della relazione. Allenarsi a cambiare il contesto, a osservare una diversa configurazione del territorio, spostarsi dal Mediterraneo ai Caraibi per cogliere altri punti di vista, altri vissuti, e per ripensare la natura della relazione stessa. Aprirebbe a un'idea e a una pratica di ibridazione. L'ibridazione proposta nel pensiero di Glissant emerge anche nella sua modalità di esprimersi. La sua scrittura diventa essa stessa uno stimolo creativo, una rottura degli schemi espressivi prevalenti, qualcosa di altro rispetto all'ordine discorsivo occidentale. Nella sua poetica della relazione, il filosofo caraibico non solo include profondamente i vissuti dell'alienazione prodotta dalla colonizzazione europea nei Caraibi, dalla segregazione razziale e dai lunghi secoli di tratta degli schiavi, fino al momento della loro ribellione, ma riparte dal “grido” silenzioso di dolore e dalla traccia che si ritrova nell'inconscio di questi popoli violentati. Da questa trama complessa di relazioni storiche emerge una poetica della relazione che porta con sé alcuni aspetti essenziali quali l'idea di una radice identitaria “rizomantica”. Sviluppa piuttosto un pensiero dell'erranza e della traccia che nell'immagine del rizoma trova un'efficace rappresentazione. In questa prospettiva, per poter comprendere l'altro normalmente lo riportiamo a una scala di valori che è la nostra, operando paragoni e giudizi, ma soprattutto riportando tutta la sua singolarità al nostro metro di lettura e di conoscenza. Dunque operando una “riduzione” di quel che egli è. È qui che entra in gioco il diritto all'opacità. Un'opacità che altrove Glissant definisce anche come singolarità non riducibile. Nel comprendere l'altro, spesso, lo si vuole rendere trasparente, lo si riconduce ai propri schemi e alle proprie modalità di pensare. Il riconoscere l'opacità dell'altro è legato a un pensare per tracce piuttosto che pensare per sistemi: è un pensiero che spaventa, che scuote, perchè genera l'imprevisto. La creolizzazione delle culture in quella che Glissant definisce la totalità-mondo non si basa dunque sull'appartenenza a un territorio, bensì sulla conflittualità e sull'imprevidibilità di ciò che emerge dalla relazione. È importante scegliere di ripensarsi intorno alla dinamica della creolizzazione o almeno di ripensare il proprio modo univoco e prevalente di pensare e di leggere la realtà dell'incontro culturale, intorno ad altre filosofie, altre poetiche. 3.9. Oltre i muri, la poesia Glissant e Chamoiseau, nel testo Quando cadono i muri, descrivono i diversi tipi di confini che le nostre società stanno costruendo, la prima considerazione che essi pongono è una riflessione intorno all'idea che i muri, nelle nostre società europee e occidentali, non sarebbero eretti contro le culture e le identità, ma fondamentalmente si erigerebbero per mantenere il divario tra povertà e sovrabbondanza. I nostri contesti sociali ed educativi sono luoghi dove ci si nutre di bellezza, che siano pensati oltre che attraverso una poetica della relazione e nel nome di un diritto all'opacità, nel nome di un diritto alla bellezza. Un diritto alla bellezza è un diritto alla poesia, al teatro, al cinema, all'arte in quanto tale. L'arte e la poesia sono una delle risorse più potenti di cui disponiamo, sono spazi di libertà totale. La poesia può essere luogo di denuncia radicale ma anche di forza vitale, di trasformazione, di invenzione, di sperimentazione. La poesia può farci ascoltare il grido e il dolore. La poesia può raccogliere la collera e tramutarla in energia. E se ripensassimo i luoghi del sapere e dell'educare anche a partire da una vere messa in circolo della poesia e dell'arte? Non nel nome di una bellezza a sé stante o di una ragione estetizzante, ma come occasione per ritrovare un vissuto umano comune e come occasione per moltiplicare gli immaginari possibili, chiave di volta per qualsiasi dinamica di cambiamento. 3.10. Sperimentando, nei microcosmi educativi La nostra pratica educativa dovrebbe modellarsi nello stesso modo, nella differenza e attraverso la differenza, non nonostante essa. Ciò significa rivoluzionare alcuni approcci pedagogici che ci hanno raccontato un incontro tra culture, come se due culture in quanto tali potessero incontrarsi. Si incontrano sistemi che si intersecano con pratiche culturali individuali e famigliari. Per questo è importante mettere sempre al centro la persona e il tentativo di costruire una relazione con essa. Il lavoro sulla memoria e sul riconoscimento reciproco di storie di attraversamenti di confini, di fatica, di lavoro, di nostalgia di casa, di spaesamenti, di povertà e di ricchezze, è un lavoro indispensabile. La narrazione della migrazione ci pone dinanzi alla domanda di quello a cui non avremmo accesso se non attraverso il racconto. Raccontando la migrazione la si può ricominciare, rivivere, riprodurre, travestire. Un insieme di procedure retoriche ed estetiche aprano così all'elaborazione delle performance. È il caso di un testo come Le Ventre de l'Atlantique di Fatou Diome, che ci fa “sentire” il corpo, il ventre, i rumori, gli odori dell'umiliazione vissuta da una donna senegalese al momento del suo arrivo in Francia e dell'espletazione delle diverse procedure burocratiche richieste dall'ufficio delle Migrazioni Internazionali. L'impresa consiste nel testimoniare la violenza, almeno potenziale, di un sistema che riduce un essere umano a un esiliato, espropriandolo dei suoi ricordi, per farne degli strumenti utili a convincere, a fornire prove dinanzi a una commissione predisposta per accordare o negare l'asilo politico. Ma al di là della letteratura o della cinematografia specifica di migrazione, già avvicinarsi alla produzione letteraria di un altro contesto culturale ci permette di entrarvici un poco all'interno. Un romanzo o un film di un Paese di provenienza di un migrante ci permette di avvicinarci al suo complesso contesto antropologico di origine e qualora la produzione sia in lingua originale, è la preziosa opera di traduzione che ci permette che questo traghettamento dentro a un “mondo culturale” avvenga. Un apprendere il vissuto dello spaesamento e dello sconfinamento giocando con le parole e le frasi, coi suoni, con le melodie, coi ritmi. La lingua è anche una questione di musica. Anche dalla musica e dalla canzoni possono aprirsi percorsi di sperimentazione originali e creativi che permettano di ritrovare la memoria storica di chi ha migrato. Produzioni artistiche che attraversano Paesi, continenti, masticano lingue diverse, raccontano di distanze conflittuali, di raccordi, di irrequietezza e di nomadismo. Ci sarebbe un prezioso lavoro tutto da costruire e da inventare tra arte e ricerca nei nostri contesti scolastici ed educativi, per riuscire a dare voce ad alcuni dei tanti vissuti di migrazione. Perchè per riuscire a far conoscere la loro biografie e storie di vita, vi sono molte strade possibili. Una è quella dell'esperienza diretta, della testimonianza: riuscire a far entrare nei nostri contesti educativi queste persone per dare loro lo spazio e il tempo di raccontarsi e iniziare a mettersi in comunicazione e in relazione con noi. Molte sono le attività, i giochi, i libri, le immagini che possono servire per provare a spostare lo sguardo, per provare a osservare dai margini, per mettersi nei panni di chi viene da altrove. Forse varrebbe la pena sempre re-inventare percorsi che portino a riflettere su quante sono le storie di migrazioni che hanno segnato le vite di molti di noi, quante delle nostre famiglie abbiano al loro interno parenti che hanno viaggiato per andare a lavorare e vivere altrove. Tentativi tenaci, nei molti microcosmi del quotidiano, di andare nella direzione di un noi relazionale non etnico, non razziale, non nazionale e non superficiale. Un noi non dato ma continuamente da inventare e da sperimentare. Un noi in cui alla fine, invece che pensarsi nei termini di una relazione tra noi e i migranti, ci si pensi in e per una relazione rispetto a un noi che già includa noi e i migranti in un unico movimento. Nel momento in cui ci si pone, in cui ci si immagina come soggetti, come attori di una relazione, osando pensarsi come un noi migranti. Un noi che non chiuda in un'unicità o in una sovrapposizione, ma che sia un movimento circolare, un transitare, un errare verso per poi tornare a. non un coincidere uno sull'altro ma un tirarsi, uno spingersi, un toccarsi, un articolarsi, uno scontrarsi, un ribaltarsi, un essere in-between. 3.11. La forza dell'immaginazione: prendere posizione, per essere liberi L'immaginazione permette di pensare a situazioni diverse da quelle in cui ognuno si trova, permette di concepire vite in luoghi differenti da quelli nei quali si nasce, permette di migrare e di continuare a mantenere legami con i luoghi di origine. Tutto ciò è in parte possibile anche tramite i media e i new media: la capacità di immaginare è dunque la facoltà umana che permette alla globalizzazione sia di essere concepita che di realizzarsi. Oggi come allora c'è un immane bisogno di parole e le scuole possono fare la differenza e divenire il luogo dove creare, custodire e diffondere parole. Parole che non siano discriminatorie, razziste, escludenti, violente. Abbiamo bisogno di parole che siano chiare e ci aiutino a capire la complessità, anche le contraddizioni. La scuola ha allora una responsabilità o, mettendola in un'altra prospettiva, può giocarsi una possibilità senza pari: fornire gli strumenti per creare e capire le parole, costruire modi e traiettorie per leggere, immaginare, ricercare e pensare. 3.12. Tra arte e ricerca, in divenire Per realizzare oggi pratiche di resistenza, pratiche cosmopolite, pratiche creole e promuovere una poetica della relazione, non ci si può che porre in un'ottica di sperimentazione. Può risultare importante proporre nei nostri contesti educativi alcune sperimentazioni attraverso l'arte, per problematizzare la vicinanza e la distanza e la molteplicità dei punti di vista di chi osserva o mentali che fanno dell'articolazione creativa tra distanza e vicinanza la loro innovazione. Proporre una pedagogia critica, riflessiva, attenta ai molteplici punti di vista, sensibile anche agli altrove, alle assenze e all'indicibile, significa provare a sperimentare delle pratiche in questa direzione. Un dato che emerge da tutte queste pratiche artistiche innovative è il confronto con la complessità di una realtà contemporanea, in particolare quando essa è una realtà traumatica. La sfida è che i nostri contesti educativi siano i luoghi dove sperimentare i diritti, luoghi non dello ius per il cittadino, ma dall'asilo per chiunque. E dove il primo diritto da promuovere sia il diritto all'opacità, subito seguito dal diritto all'errare, allo stare in-between. Siamo tutti stati migranti, la specie umana è una specie migrante, tutti siamo migranti o potremmo esserlo: educare non può che essere un apprendere ad attraversare confini, reali e immaginari, e aprirsi agli imprevisti.
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