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Norme - Istituzioni - Valori ( una teoria istituzionalistica del diritto) Massimo La Torre, Appunti di Filosofia del Diritto

il documento riassume in modo sufficientemente dettagliato il libro del prof. Massimo La Torre

Cosa imparerai

  • Che teoria di Kelsen riguarda la relazione tra diritto e potere?
  • Che argomento discute Romano riguardo alle istituzioni e la validità delle norme?
  • Qual è la differenza tra norme di diritto e norme morali?
  • Come Romano descrive l'ordinamento giuridico?
  • Che teoria di Paine pone in primo piano?

Tipologia: Appunti

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giacomo-azzoni
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Scarica Norme - Istituzioni - Valori ( una teoria istituzionalistica del diritto) Massimo La Torre e più Appunti in PDF di Filosofia del Diritto solo su Docsity! NORME, ISTITUZIONI, VALORI (TEORIA ISTITUZIONALISTICA DEL DIRITTO, MASSIMO LA TORRE) La politica, con una terminologia colloquiale, è la gestione della cosa pubblica, è un concetto alto oppure la politica agita, che è definita dai politici stessi che è cosa male, per arrivare a dei compromessi • La legislazione è un’attività che serve per gestire la cosa pubblica, serve per fare le leggi, come si vede anche nei mezzi di stampa e permette di avere delle scelte alla fine, con leggi o decreti o leggi regionali... Tra legge e potere c’è un rapporto che è inteso in 2 modi diversi. Scegliere uno di questi due rapporti indica un particolare modo di intendere il potere, con una politica morale e generale. La concezione attualmente più diffusa vede il diritto come espressione del potere. La seconda concezione vede invece il diritto come la fonte, il presupposto e anche il limite del potere. Questa contrapposizione esiste fin dagli albori del diritto e della politica. Nel pensiero greco classico vi sono dimostrazioni illustri dell’ una o dell’ altra concezione. Così, il pensiero sofistico considera la legge uno strumento del più forte per piegare il più debole. Al contrario, Platone ne “Il Gorgia” sostiene che la legge sia lo strumento con cui i più deboli contrastano la superiorità naturale dei più forti. In linea di massima è possibile osservare che la prima linea di pensiero è tipica dei sofisti, mentre la seconda è degli stoici. Successivamente, nell’ età di mezzo, la contrapposizione si manifesta da un lato nella dottrina tomistica, sostenitrice dell’ esistenza di una Lex eternae per cui quindi la legge sarebbe anteposta al potere, e dall’ altro nella dottrina occamista, la quale considera la legge di dio come il giusto, e pertanto il giusto come il derivato del potere di dio. Secondo San Tommaso, il giusto preesisterebbe in qualche modo a dio, poiché dio, difatti non potrebbe desiderare altro che il giusto. Secondo Occam, invece il giusto è il prodotto dell’ arbitrio divino. 1. Il diritto come espressione del potere: In età moderna, l’ idea di un diritto come mera espressione del potere è ampiamente sostenuta da Thomas Hobbes. Egli recupera l’ idea occamista e la formula nel senso che, all’ interno di una società, giusto e ingiusto saranno esclusivamente determinati da chi detiene il potere su di essa.( Proprio come fa Dio). Pertanto, le leggi non sarebbero altro che ordini imperativi da parte del sovrano. Questa concezione ha due ulteriori effetti per ciò che concerne la teoria del potere: - Il potere supremo è superiore alla legge e quindi non ne è vincolato - Il potere è un potere di coazione, di forza e di violenza. la legge è un comando solo nel senso in cui il potere ha la forza di imporlo. Questa concezione viene ripresa da: - Blackstone: “ … la legge è una norma di azione prescritta da un superiore ad un inferiore…” - Bentham: “ … la legge è espressione della volizione di un sovrano riguardo una condotta tassativa per una o una classe di persone…” - Austin: riprende la teoria di Hobbesà riassunto in 4 assunti: 1) La legge positiva è un comando 2) Il comando è espressione di un desiderio da realizzarsi da una persona diversa da colui che lo esprime 3) La legge è un comando da un superiore politico ad un inferiore politico 4) Il potere sovrano non è vincolato alle sue stesse leggi Non tutti comandi del potere sono leggi, ma solo quelli imperativi aventi carattere generale e astratto. In Germania, gran parte della dottrina giuridica del XIX secolo accolse quella concezione, sia pure con toni differenti. Queste idee si stanziavano all’ interno di una gamma di pensieri i cui estremi erano, da un lato l’ illimitabilità del potere statale, e dall’ altro la cd autolimitazione dello stato. Ad ogni modo, il potere sovrano è sempre visto al di sopra della legge. Due autori esemplari di tale ideologia sono: - Bornhak: 4 passaggi simili allo schema di Austin: 1) Lo stato è dominio 2) Il diritto è espressione di tale dominio 3) Tale dominio è illimitato e illimitabile Inoltre, lo stato è ASSOLUTO, anche se nella pratica non sempre ciò è così, a causa della reale debolezza dello stato. Quindi nella pratica non tutti gli stati sono assoluti, nel senso di illimitati nella possibilità di coazione, ma giuridicamente ciò sarebbe possibile, nonostante però, lo stesso Bornhak individua il limite dell’ etico. - Jellinek: egli sostiene la teoria per cui uno stato diviene stato giuridico solo attraverso l’ autolimitazione. Prima di ciò, però, lo stato non ha limiti e quindi è ancora una volta assoluto. 2. La supremazia della legge. Giusnaturalismo, costituzionalismo, stato di diritto. A fondamento della concezione moderna della supremazia della legge sul potere vi è un pensatore inglese: Jhon Locke. In primis egli afferma l’ esistenza di una legge naturale che regge tutte le azioni umane, e quindi anche gli atti del potere politico. Le leggi positive, poi sono espressione della volontà dell’ intera società. Infatti, nessun comando avrebbe alcun valore se non fosse sostenuto dalla sanzione di quel legislativo che il pubblico ha scelto e designato. Infine egli afferma che il potere pubblico deve essere esercitato secondo la legge, intesa come atto formale, certo e pubblico. Egli quindi associa ad una prima parte di pensiero giusnaturalista una seconda parte fortemente democratica ed una terza “giusformalistica”, la quale vede nella legge avente forma: astratta, generale e pubblica un limite all’ arbitrio del potere. Non è però solo la forma a garantire un limite al potere sovrano, ma anche la volontà popolare, motivo per cui la norma deve essere pubblica. È nel fatto che la legge provenga dal popolo che deriva la sua legalità. Secondo Locke, la tirannide è quindi la condizione di esercizio del potere non in virtù della legge, ma della sola propria volontà. In questo modo, Locke ha formalizzato le tre principali sfaccettature dell’ ideologia della supremazia del diritto sul potere: - Il diritto è legge naturale - Il diritto è legge fondamentale posta dalla volontà popolare ( costituzione ) - Il diritto è regola formale - Di queste 3 concezioni è possibile individuare 3 pensatori che su di esse si sono focalizzati: - William Godwin: egli critica le ideologie fondate e fondanti dello stato assoluto, affermando che, come limite alla volontà del sovrano esiste uno spazio non manipolabile dall’ essere umano, ovvero la ragione. L’ uomo non ha la facoltà di decidere l’ assurdità e l’ ingiustizia, esse sono tali secondo ragione. Consegue che, il legislatore non produce diritto ma bensì interpreta una regola che gli è stata data. - Thomas Paine: egli è fortemente costituzionalista: “… la costituzione non è l’ atto di un governo, bensì di un popolo che costituisce un governo…”. Il popolo è potere costituende, mentre il governo è potere costituito. I rappresentanti del popolo, ovvero il governo, non possono modificare le regole che il popolo si è assegnato, ovvero la costituzione. - Franz Neumann: egli si focalizza sulla trasformazione del diritto nella Germania dapprima da egli definita “capitalista monopolistica” e successivamente socialdemocratica ( nazista.) secondo il suo schema, la legge deve essere: 1) Generale 2) Specifica ( nel senso di riferita a fatti determinati, e non invece a criteri morali…) 3) Non deve essere retroattiva Inoltre Neumann distingue tra leggi tecniche e leggi. Le prime possono essere ad esempio le leggi che regolano il traffico, e sono quindi culturalmente indifferenti, le secondo invece devono prima di tutto essere distinte a loro volta, tra leggi come prodotto di una volontà sovrana e leggi come prodotto combinato di volontà e ragione. atto di un bandito che ordina ad un malcapitato di consegnargli la borsa e la norma che prescriva che colui che ruba sarà punito con reclusione da 3 a 7 anni. Si postula una differenza quantitativa, semmai circa la quantità, la durata e la legittimità della forza esercitata. In pratica cambierebbe solo il modo in cui la forza viene esercitato, allontanandosi quindi dalla realtà sociale dei popoli, che generalmente sanno immediatamente distinguere una legge da un crimine. In generale, che si sostenga che il diritto è comando espressione di violenza o che si sostenga che il diritto è politica e che questa è violenza, va criticato che, probabilmente egli non sa distinguere uno stato di pace da uno stato di violenza. Ovviamente stato di pace e stato di guerra sono opposti. La pace è l’ assenza di guerra e la società si fonda sulla pace. La guerra è la massima espressione dell’ antisocialità, specialmente la guerra civile. La società quindi si regge sull’ assenza o sulla limitazione della violenza. conseguenza di tale ragionamento è che il diritto, non può essere concepito in termini di comando. Difatti, se si evita di pensare ( stupidamente ) che il campo di azione del diritto sia solo l’ ambito istituzionale e si riconosce invece come suo spazio legittimo la società, allora si comprende che, l’ elemento fondamentale del diritto è la consuetudine all’ obbedienza. Il vincolo sociale è infatti in larga parte non volontario, bensì consuetudinario. L’ abitudine all’ obbedienza non è fonte di diritto. Piuttosto essa è solamente una spiegazione del perché il diritto viene tradizionalmente obbedito. Inoltre, l’ autore sostiene una ulteriore critica rivolgibile all’ imperativismo giuridico ( il diritto è un comando del superiore all’ inferiore) ovvero quella riassumibile dalla massima romano: “nemo ad facere cogi potest”. (Nessuno può essere costretto ad un fare). Se ciò è vero, allora l’ obbedienza ad un comando è sempre in qualche modo volontaria, il che significa che, l’ efficacia di un comando dipende in misura anche minima dal consenso del comandato ad esso. Tale consenso si esercita almeno su due punti: - In primo luogo, l’ obbedienza al comando è un atto anche minimamente volontario. Il comando è una prescrizione di una condotta, e non invece una determinazione fisica a compierla. - In secondo luogo, un comando presuppone un consenso al comandante, nel senso che un individuo attribuisce valore di comando ad una affermazione di un’ altro individuo L’ emanazione di un comando si fonda pertanto su un certo ordine normativo precedente. Per queste ed altre ragioni, il filosofo Neil MacCormick ha sentenziato la fallacia imperativistica, ovvero della teoria imperativista. Egli elabora così la sua idea: - L’ enunciato linguistico del comando ( solo quello) non è da solo capace di farci intendere se l’ affermazione sia un comando. L’ elemento che fa di un enunciato, un comando è esterno all’ enunciato stesso. In pratica l’ enunciato è un comando se ha qualcosa di esterno al comando… ( bisogna trovare l’ elemento che distingue il comando da altri atti come le richieste, le preghiere…) Tale elemento è rinvenibile nella superiorità gerarchica del comandante rispetto al comandato e essa può esistere in due circostanze: superiorità fisica oppure esistenza di un corpo di regole condivise dall’ emittente e dal destinatario del comando. ( una ulteriore ipotesi è quella della scortesia, ovvero la richiesta tra soggetti estranei, la quale però non può essere considerata un comando “felice”, ma piuttosto un gesto di cortesia in risposta ad uno scortese). In conclusione di tutte queste riflessioni, possiamo affermare che, il diritto, non può essere inteso come derivato da un comando, ne tanto meno, il diritto può essere definito come un mero potere di fatto. Resta quindi “salva”, secondo l’ autore, la tesi che identifica il diritto con il potere. Kelsen sviluppa tale idea tenendo comunque le parti di un diritto che si identifica con il potere sul piano del potere ( non del tutto neutra). La sua idea è però valida e utile per sviluppare nuove teorie dai risultati differenti. Una cosa su cui Kelsen resta sempre saldo è che di tutti i fenomeni politici, ovvero di tutti i poteri, il motore è sempre la rappresentazione psicologica degli individui. La mera forza non costituisce di per se un’ ordinamento giuridico, uno stato dove il potere fosse detenuto da chi esercita la violenza non sarebbe uno stato, ma bensì una situazione di nuda violenza. Lo stato è un’ idea. Kelsen cede però all’ imperativismo e al realismo giuridico in 2 parti della sua teoria: 1) Cedimento imperativistico: si mostra quando egli afferma che “ la norma è il senso di un atto di volontà” che si può tradurre in: “non esiste imperativo senza imperatore..” 2) Cedimento realista: si ha quando K. afferma: “ oggetto della norma giuridica è la sanzione” à ordinamento normativo = ordinamento coercitivo Alla prima “caduta” si possono opporre tutte le critiche all’ imperativismo esposte sopra. Alla seconda si potrebbe dire in primis che esistono molteplici norme prive di sanzione, inoltre dalla sua visione si deriverebbe che l’ illiceità di un atto non sia la violazione di una norma, ma la conseguente sanzione ad esso collegata. Si ribalterebbe la visione tradizionale per cui la qualificazione di un’ atto come sanzione dipenderebbe dalla norma che imputa un certo male ad un evento già qualificato come illecito. In conclusione: la norma giuridica non può essere definita in funzione della sanzione, ma al contrario è la sanzione che può essere solo in funzione della norma. La strada imboccata da Kelsen è comunque valida per spiegare la relazione tra diritto e potere e pertanto può essere utile seguirla, aggirandone le parti cedevoli e valorizzando l’ identità di diritto e potere. Analizzando il comportamento umano, è possibile affermare che l’ uomo ha tipicamente 2 caratteristiche: 1) È tendenzialmente libero da determinazioni istintuali 2) È intenzionale Da ciò deriva una notevole indeterminatezza della traiettoria dell’ agire umano. A questa indeterminatezza si supplisce con la creazione di modelli precostituiti d’ azione e di idee di azione. L’ uomo per agire ha bisogno di regole di condotta, le quali a loro volta necessitano di idee di condotta. Esistono infatti una enormità di tipi di comportamento che per essere compiuti presuppongono il possesso di certi concetti. ( almeno per le attività tipicamente umane e non animalesche come mangiare). La norma comportamentale è quindi presupposto dell’ essere sociale. Affermare ciò significa affermare che, il diritto ( in senso ampissimo come insieme di regole) equivale alla società. ( sia per diritto che per società, in questo caso ci si riferisce ad una loro dimensione quasi primordiale, ovvero la loro stessa esistenza e non le loro manifestazioni pratiche.) In questo senso quindi, se la società è un insieme di simboli ( linguistici e comportamentali, compresi e accettati dai suoi componenti ( norme comportamentali)) non può esistere un potere politico che non sia retto da tali norme. Il diritto qua inteso è però un diritto in senso molto ampio e la società considerata è un concetto comunque distante dall’ idea di dominio cui si riferisce la nostra ricerca. È ora necessario definire proprio cosa sia il dominio ed il diritto in senso stretto, restando in un ottica normativista. Secondo l’ autore: dominio= situazione in cui le norme istituzionali ( diritto in senso stretto, successivo alle norme di linguaggio e a quelle di costume) siano sottratte alla disponibilità dei consociati. Le prime due categorie di norme restano sempre arbitrarie e casuali e sebbene siano prodotto dell’ azione umana, lo sono inconsapevolmente. Ora risulta utile analizzare il pensiero di David Hume. Egli sostiene che alla base delle società non ci sia un patto di unione, ma piuttosto una spontanea associazione o più frequentemente la forza. Hume individua due concezioni di potere politico: - Potere politico fondato sul consenso e sull’ opinione - Potere fondato sulla forza Hume individua due tipi di opinioni: - le opinioni di interesse à convinzione che il regime politico vigente sia vantaggioso per la società - opinione di diritto à divisa in: 1) opinione del diritto al potere: convinzione che i detentori del potere ne abbiano il diritto 2) opinione del diritto alla proprietà. Convinzione che i detentori di una proprietà ne abbiano il diritto Hume distingue il consenso dall’ opinione. Ciò che determina l’ obbedienza del suddito non è il consenso puro e semplice, bensì l’ opinione che quel certo sovrano sia legittimo rispetto a regole condivise di formazione del potere sovrano. Distinguendo la società dalle istituzioni, possiamo dire che, la società è il risultato di processi ampiamente sottratti alla volontà umana. Per quanto riguarda invece il piano istituzionale si possono ipotizzare due opzioni: - anche le norme istituzionali sono il prodotto inconsapevole dell’ attività dei membri del gruppo - tali norme sono poste consapevolmente dai consociati. Affinchè in tale situazione si possa parlare di dominio bisogna quindi guardare al rapporto tra tali norme ed i consociati. Se questi hanno la possibilità di modificarle e discuterle, allora si ha politicità, altrimenti si ha alienazione dell’ uomo al suo prodotto, ovvero il dominio. Il dominio è quindi il prodotto delle norme giuridiche e non invece il produttore. Autonomia, eteronomia, ideologia Thomas Paine elabora una delle teorie più significative del costituzionalismo moderno, ovvero una concezione che pone il primato del diritto sul potere politico. Nello specifico, il diritto è un limite all’ esercizio del potere. Il costituzionalismo ritiene un potere politico “ limitato” nel momento in cui l’ attività che gli è propria, ovvero l’ emanazione di comandi sotto forma di norme la cui efficacia è affidata in ultima istanza alla coazione, è a sua volta regolata da norme superiori, che pongono vincoli circa quello che può essere imposto con la coazione. Si presentano 2 ipotesi: le norme superiori sono espressione di un potere superiore allo stato ( in contrasto con l’ idea moderna di stato), oppure le norme in questione sono in qualche modo espressione dello stesso potere che limitano. La norma superiore deve avere dietro di se un qualche potere che la vuole e la realizza. Quindi non è la norma superiore a limitare il potere, ma un altro potere contrapposto al primo. Come si fondano le norme “superiori”? Abbiamo visto che il comportamento umano è largamente fondato su comunanza e condivisione di simboli. Pertanto a livello basico, società e norma coincidono. Il potere è fondato su una rete di norme ( di linguaggio, sociali..) che fanno si che difatti esso sia coincidente con il diritto. Esiste però anche un’ ulteriore livello normativo, ovvero quello positivo, costitutivo del piano istituzionalistico di una società. A questo punto si pone ed ha senso una distinzione tra diritto e potere. Al livello base di una società, ogni struttura sociale è autonoma, nel senso che si da le proprie norme. Non è però detto che a livello istituzionale si abbia una simile autonomia, questa infatti potrebbe non presentarsi nelle forme di un autonomia in senso stretto: situazione in cui le regole istituzionali sono il prodotto cosciente e volontario dei consociati.) e anzi sul piano istituzionale potrebbe vigere la più rigida eteronomia ( criteri e leggi estranei alla volontà del soggetto). Tale eteronomia vigerebbe comunque sulla base dell’ autonomia di base. ( es: in una dittatura, i cittadini continueranno a darsi, in modo inconsapevole e incosciente le proprie regole di comportamento.) Ora resta un dubbio da risolvere: la contrapposizione di diritto e potere non è un’ evento meramente ideologico? Bisogna prima di tutto chiedersi: cosa è un’ ideologia? 3 ipotesi: - ideologia come corpo di idee, come teoria - ideologia come ambito distinto dalla realtà materiale, o anche come “ sovrastruttura”. - Ideologia come falsa coscienza, discordante con la realtà effettuale, in genere funzionale al consolidamento di certi interessi. Rimanendo sulla terza ipotesi, prima abbiamo detto che, le istituzioni della società sono costituite dai membri di una società per mezzo di una concezione normativa largamente condivisa. È quindi possibile muovere un obiezione quasi ovvia: molti regimi politici diffondono una concezione di se non corrispondente alla realtà effettuale. Come si concilia questa discrasia con la tesi che le istituzioni si costruiscono in virtù dell’ idea che si ha di esse? 4 risposte: - Non tutte le rappresentazioni delle istituzioni sono ideologiche - Nessuna ideologia (come falsa coscienza) è una concezione che è costruttiva di istituzioni - Una concezione normativa è ideologica se e solo se non corrisponde al funzionamento effettivo delle istituzioni di cui si tratta - Concezione normativa costitutiva delle istituzioni è quella che corrisponde al funzionamento effettivo delle istituzioni nel loro complesso Cosa distingue un ideologia e la concezione normativa fondamentale di una società? Bisogna osservare se certi postulati corrispondono o meno alla realtà sociale effettiva della società SECONDA PARTE: SIGNIFICATO E NORMA “Tra diritto e linguaggio vige una efficace analogia” ( Jacob Grimm – 1841 ). à ormai tale tesi è ampiamente accettata. Tale relazione si sviluppa anche su un piano metateorico, nel senso che, l’ adozione di una certa teoria del linguaggio influenza l’ adozione di una certa teoria del diritto e viceversa. In questo capitolo si tenterà di collegare la teoria istituzionalistica del diritto alla teoria del significato come “uso”. Si analizzeranno quindi alcune delle più importanti teorie del significato alla luce delle obiezioni e critiche mosse da Ludwig Wittgenstein. 1. Teoria del significato come uso, elaborata da Ludwig Wittgenstein e sviluppata da filosofi del linguaggio come Friedrich Waismann e William P. Alston. La teoria è proposta attraverso la critica di 3 principali teorie del significato: § Teoria della rappresentazione nella sua versione ideazionale del significato: a tale teoria si può far corrispondere una teoria della norma come dichiarazione di volontà originaria di un effetto. In tal caso, la norma sarebbe valida se corrispondente alla volontà del soggetto che l’ ha emanata. § Teoria oggettivistica della teoria rappresentativa: ad essa è possibile far coincidere una teoria platonica della norma: le norme sono entità reali ( non materiali ma ideali ) raffigurate dagli enunciati normativi. La norma in questione sarebbe valida se appartenente ad un certo “mondo” normativo. ( validità ontologica). § Teoria comportamentistica: la teoria della norma ad essa corrispondente vedrebbe la norma come un tipo particolare di stimolo. Il senso della norma è l’ effetto provocato sul suo destinatario. La validità della norma potrà solo coincidere con la sua efficacia. Tale idea è stata di recente sostenuta da Henrik von Wright, il quale sostiene che la norma è una determinante esterna. Cosa è una determinante esterna? Secondo W. Una d.e. è uno stimolo al quale noi reagiamo. Teoria istituzionalistica del linguaggio ( teoria dell’ uso) Wittgenstein, fino agli anni 30 sostenne le teorie enunciate nella sua prima e unica pubblicazione, ovvero quelle citate in precedenza. Successivamente egli elabora una nuova teoria che lo porta a rinnegare le precedenti, la teoria dell’ uso. Egli afferma: “ il significato di una affermazione è per noi l’ utilizzo che ne facciamo”. Da subito è importante sottolineare che, l’ uso a cui si riferisce è un uso da intendersi come una consuetudine, quindi la ripetizione di una condotta con la consapevolezza della sua doverosità. L’ uso del linguaggio, secondo Wittgenstein si fonda su regole. Tale uso deve quindi possedere i seguenti requisiti: - Deve essere continuato nel tempo, ripetuto e consolidato - Deve essere un’ attività umana collettiva - Deve essere retto da norme, nel senso che tali norme sono una condizione di esigibilità della condotta. L’ uso da lui citato non è da pensare come una quantità di singoli usi. Se si vuole far coincidere il significato di un termine con il suo uso, bisogna indicare le regole per un suo uso corretto. Il logico tedesco Von Kutschera distingue poi tra il significato di un espressione linguistica e il significato della sua enunciazione. ( es: “piove” esisterà quindi, un significato riferito all’ espressione, ovvero la condizione metereologica ed un significato della sua enunciazione in un contesto reale e pratico, come ad esempio il voler rendere noto che sta piovendo a delle persone presenti.) I concetti di uso e di significato connesso sono legati, secondo W. a due altri concetti. - Gioco linguistico: l’ uso del segno che ne determina il significato non è quello meramente individuale, bensì quello che fa parte di un certo gioco linguistico, ovvero di un certo linguaggio. Non ogni uso attribuisce significato ad un termine, ma solo quello effettuato all’ interno del gioco. - Forma di vita: il gioco è espressivo di una certa forma di vita, ovvero di una prassi comunitaria. Il significato di un segno è definito come ruolo che questo svolge all’ interno di un certo gioco linguistico. Di conseguenza, il non senso è l’ utilizzo di un segno al di fuori del gioco linguistico. La teoria del uso è normativista. Per comprendere il significato delle espressioni bisogna osservare certe regole. La teoria dell’ uso è anche una teoria istituzionalistica, poiché le regole che secondo tale teoria guidano l’ uso linguistico sono espressione di una realtà sociale organizzata o istituzionalizzata. Secondo w. le regole non sono da se sufficienti a determinare il significato delle espressioni linguistiche. Affinchè si comprenda il significato degli usi che vengono fatti delle regole, esse vanno ricondotte alla forma di vita in cui sono espressione. Tale teoria viene sviluppata con lo scopo di riformulare le precedenti teorie del linguaggio, e pertanto essa nel suo complesso può apparire confusa. Per questo motivo non sono mancate interpretazioni fuorvianti di essa. Una di queste è quella che la intende come strumentalista del linguaggio. Si crede che, un espressione avrebbe significato solo se il suo uso raggiungesse un certo scopo. Von Savigny ad esempio ritiene che il significato di un espressione linguistica sta nella condotta ritenuta opportuna rispetto all’ espressione da parte dei membri di una comunità linguistica. S. attraverso la sua reinterpretazione critica della teoria commette l’ errore di ricadere in un comporamentismo. La teoria dell’ linguaggio come uso nell’ accezione Wittgensteniana abbraccia quindi una teoria istituzionalistica del linguaggio, e quindi anche dei fenomeni normativi. (Restando quindi in una dimensione istituzionalizzata del diritto, è possibile conservare una distinzione fondamentale: quella tra validità e efficacia della norma. Infatti, che una regola sia seguita si può determinare dall’ osservazione. Ma che l’ assunzione di un comportamento che si può ricondurre al contenuto di una regola implichi anche la validità di tale regola ed anche la sua vigenza, non è “pacifico”. ) pag. 90 la teoria di Wittgenstein è inoltre molto simile alla teoria di S. Romano. Infatti, Romano paragona la società ad un gioco e il fenomeno linguistico a quello giuridico. Gli ultimi 2 infatti sono: - Normativi - Umani - Involontari In conclusione, nella teoria del diritto si incontrano principalmente 4 concezioni del diritto + la concezione istituzionalistica: - Concezione volontaristica: il diritto è una somma di comandi e di volontà = trova corrispondenza nella teoria rappresentativa del significato e in quella causalistica. - Concezione normativistica “pura”: il diritto è un insieme di norme intese come meri enunciati semantici = trova corrispondenza nella teoria rappresentativa del significato ed in quella referenziale. - Concezione fondata sull’ idea che i fenomeni giuridici come fatti retti da ripetizioni regolari di comportamenti. Il diritto è valido quando è efficace. = trova corrispondenza nella teoria verificazionistica ed in quella causalistica del significato - Concezione sociologica: i fenomeni giuridici sono una variante dei fatti naturali, un sistema tra i sistemi, un’ elemento della realtà naturale, comunque retto dalle regole di causali dei fenomeni naturali= trova parziale corrispondenza nella teoria regolaristica del significato e corrisponde alla teoria causalistica del significato. - Accettando la teoria istituzionalistica del diritto si deve rigettare ogni singola teoria qua esposta. La teoria istituzionalistica del diritto La teoria istituzionalistica del diritto ha i suoi documenti più significativi nelle opere di Maurice Hauriou e Santi Romano. In primis è doveroso precisare che Romano ha conservato per tutti i suoi studi una concezione del diritto, per la quale quindi il diritto va “preso” cosi come è, e non come “dovrebbe essere”. Egli quindi esclude la morale dal suo studio. Egli poi elabora una importante distinzione: - Diritto come una o più norme singolarmente considerate - Diritto come l’ intero ordinamento giuridico Sulla seconda “forma” di diritto egli concentra la sua intenzione, poiché ritiene che sia la forma fondamentale. Cosa è l’ ordinamento giuridico secondo Romano? - Non è una mera somma di norme - Non è una somma di rapporti giuridici Per Romano l’ ordinamento giuridico è un entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove le norme medesime, le quali quindi rappresentano piuttosto l’ oggetto e anche il mezzo delle sue attività. Vediamo ora gli aspetti essenziali del concetto di diritto secondo Romano: innanzitutto il concetto di diritto deve ricondursi al concetto di società. La società è un unità concreta distinta dagli individui che la formano. ( quindi un ceto o una classe sociale non sono per Romano una società.) inoltre, il concetto di diritto deve contendere l’ idea di ordine sociale. à ogni manifestazione sociale è, per il solo fatto di essere sociale, ordinata. Questi 2 punti sono fondamentali nell’ idea di Romano e sono il presupposto per una definizione di diritto come istituzione: Istituzione è à qualsiasi ente o corpo sociale che abbia un assetto stabile e permanente e formi un corpo a se con una vita propria. Egli poi scrive: “ogni ordinamento giuridico è una istituzione e viceversa, ogni istituzione è un ordinamento giuridico. Maurice Hauriou aveva preceduto Romano nell’ utilizzo del concetto di istituzione. Romano muove 4 obiezioni alla sua teoria: - Vengono considerato ( ingiustificatamente ) istituzioni solo le organizzazioni corporative à solo quelle sviluppate à solo gli stati moderni - Sostiene erroneamente che le istituzioni siano solo quelle avente modello costituzionale – rappresentativo - Sostiene che l’ istituzione è fonte del diritto - Una quarta obiezioni la cui comprensione mi è oscura Prese le distanze da H., romano procede ad elencare quelli che a sua avviso sono i caratteri fondamentali del fenomeno istituzionale: - Deve essere obbiettivamente e concretamente esistente à sebbene immateriale, la sua individualità deve essere esteriore e visbile - Deve essere manifestazione della natura sociale e non puramente individuale dell’ uomo - Deve essere un ente chiuso, che può venire in considerazione in se e per se, proprio perché possiede una individualità propria. - Deve essere una unità ferma e permanente. ( deve conservare la sua individualità anche nel caso in cui cessino di farne parte i suoi individui ( e vengano sostituiti da altri/ mutino le norme / il patrimonio / gli interessi.)). Il concetto di istituzione implica quello di organizzazione. L’ istituzione è organizzazione della forza. Il concetto di forza a cui si riferisce Romano non è però da intendere come mera forza bruta, ma in senso ampio, come forza sociale. “ogni forza che sia effettivamente sociale e quindi organizzata si trasforma per ciò stesso in diritto.” Romano riconosce 2 concetti di diritto: - Diritto come ordinamento nella sua completezza ed unità à un’ istituzione - Diritto come insieme di precetti e norme à subordinato al primo A questi due tipi di diritto corrispondono due tipi diversi di validità giuridica: - Il diritto come istituzione è valido solo in quanto effettivo, ovvero come porzione della realtà - Il diritto come norma è valido quando sia connesso con il diritto come ordinamento. La norma trae la sua forza dall’ istituzione. Lo studioso Giacomo Gavazzi ha ricostruito i caratteri della teoria giuridica di romano riassumendoli così: essa è una teoria del diritto: - Giuspositivistica: considerando una concezione ampia del positivismo giuridico, per la quale il diritto è solo il prodotto dell’ azione umana. - Realistica: Romano tenta di conciliare l’ ambito giuridico con il mondo dell’ essere, inoltre concepisce il diritto come una sfera della realtà à come un insieme di fatti - Antinormativistica: nel senso che la norma è “sottomessa” all’ istituzione ( il diritto è istituzione, non norma) nonostante ciò, i due concetti non sono “rivali”, ma anzi, un istituzione si accompagna sempre di norme, anche se non esplicitamente formulate. Senza di esse non si può avere un’ istituzione. Esse sono una condizione necessaria dell’ istituzione, ma non sufficiente. - Antistatualista ma non imperativistica: Romano è antistatualista in 2 modi: in primis perché nega che il diritto sia composto soltanto di quegli atti tipici dell’ attività statale ( prescrizioni, sanzioni, imperativi). Inoltre perché nega la pretesa dello stato di essere l’ unico ordinamento giuridico valido ed efficace in un dato territorio. à sostiene invece la tesi del pluralismo degli ordinamenti giuridici. Arriva addirittura a sostenere l’ idea per cui ogni gruppo sociale costituisce ordinamento giuridico à pangiuridicismo - Formalista: nel senso che attribuisce valore sostanziale a condizioni non tipicamente giuridiche che un certo gruppo di individui deve soddisfare per vedersi riconosciuto come ordinamento giuridico. - Non sanzionistica: negazione dell’ idea che la sanzione sia un elemento distinto della norma. L’ istituzionalismo è stato di recente rivisto da due filosofi provenienti da aree culturali diverse: Neil MacCormick e Ota Weinberger Esaminiamo in primis i punti di contatto tra le teorie dei due filosofi citati e l’ istituzionalismo di Romano: - linguaggio e diritto sono tra loro interconnessi e per certi versi omologhi - l’ esistenza di una realtà giuridica distinta da quella fisica - la rivendicazione del metodo “positivo” per cui il diritto va studiato per come è - la separazione del diritto dalla morale - L’ esistenza di pluralità di ordinamenti La prima differenza che incontriamo sta nell’ idea dei due filosofi “moderni” per cui non tutte le istituzioni sono giuridiche. M e W ritengono di poter individuare istituzioni giuridiche e istituzioni non giuridiche. Non ogni istituzione è pertanto un ordinamento giuridico, pur essendo un ordinamento normativo. La distinzione più evidente sta nel significato attribuito al concetto di istituzione. Per Romano: istituzione = società = ordinamento giuridico. L’ intenzionalità dei soggetti rispetto alle istituzioni si dispiega su due livelli principali: - Si può volere o no di entrare in un certo ambito d’ azione ( gioco a calcio) - All’ interno dell’ ambito d’ azione, applicando concretamente le norme che lo definiscono, posso andare ad alterarle. ( applico il catenaccio ) Inoltre, affinchè un comportamento si possa ritenere conforme ad una regola: - Serve l’ intenzione di conformarsi a quella regola. Più specificamente, serve una abitudine, poiché altrimenti sarebbe privo di senso affermare che, una volta sola nella storia dell’ uomo, una persona ha seguito una regola. L’ intenzione che sorregge l’ azione umana è esterna alle regole. à le regole, come tali, non hanno il potere di applicarsi o di determinare qualcosa senza che intervenga un fattore esterno: l’ intenzione di seguire o applicare quella regola. La capacità cognitiva di comprendere una regola implica una capacità pratica: quella di compiere operazioni secondo quella regola. la soggettività è doppiamente rilevante in una prospettiva istituzionalistica: - La decisione di entrare nell’ istituzione - L’ esecuzione delle singole azioni. Fino ad ora, tutta la trattazione effettuata ha toccato poco le regole in senso giuridico. si è infatti parlato di norme in generale, come norme linguistiche, norme dei giochi etc.. risulta invece necessario prendere in considerazione una certa specificità delle regole giuridiche, poiché altrimenti si rischia di perdere la differenza tra esse, e le altre tipologie di regole. Innanzitutto, è opportuno affermare che le regole giuridiche non sono tanto convenzionali quanto le regole di un gioco. Esse devono fare riferimento a qualcosa al loro esterno e da loro non costituito. Questo fattore esterno è il mondo. ( in realtà Wittgenstein sostiene che nemmeno le regole dei giochi siano puramente convenzionali, ovvero rette da convenzioni, ma devono considerare fattori esterni di uso, come ad’ esempio l’ intrattenimento dei giocatori.) Così, le norme giuridiche, pur costituendo la possibilità di certe condotte, esse devono presupporre l’ esistenza di un senso. Anzi, nessuna regola più di una norma giuridica può comprendersi senza tenere in conto il fine a cui è diretta. Così affermato il carattere istituzionale del diritto, non si è ancora detto tutto su di esso. Rimane ancora da comprendere la parte più rilevante del fenomeno giuridico: gli interessi, i fini, i valori, le idee che fanno si che esso abbia senso per l’ esperienza umana. Diritto e potere il dualismo tra primato del potere e primato del diritto si può intendere in 2 prospettive distinte: - Descrittiva / empirica: rapporto di due fenomeni tra i quali intercorre una relazione causale - Etica / normativa: fissa le priorità assiologiche dell’ una e dell’ altra sfera d’ azione e ne dirime i possibili conflitti Le teorie sociologiche si interessano quasi esclusivamente alla prima prospettiva. In tal caso, il dualismo di diritto e potere deve accogliere un terzo elemento fondamentale, la società. Per capire quindi come si articoli nelle teorie sociologiche il rapporto tra diritto e potere bisogna considerare il loro modo di concepire la società. - Se si considera come mere relazioni di forza e calcolo utilitaristico: si tenderà a subordinare il diritto al potere à concezioni realistiche ingenue o realistiche - Se si considera invece l’ agire sociale come intrinsecamente governato da regole: si tenderà a subordinare il potere al diritto à concezioni realistiche normative o normativistiche Si procederà ora a trattazione di alcuni illustri esponenti di ambedue le concezioni SUPREMAZIA DEL POTERE: Ludwig Gumplowicz: - Distingue il modo di intendere il dualismo a seconda che ci si trovi dinanzi ad un gruppo sociale omogeneo o eterogeneo. ( il primo caso si ritiene non necessiti di diritto e di potere siccome non ci sono diseguaglianze.) à gruppi primordiali - Nel caso di gruppi eterogenei à la convivenza è resa possibile dalla forza soverchiante di un ceto su di un’ altro à il diritto è la forza soverchiante che per abitudine si fa precetto: il diritto è funzionale allo stabilimento e al mantenimento del potere politico, che è dominio violento. ( nella concezione da lui elaborata, il diritto sembra quasi perdere il suo ruolo normativo, assolvendo piuttosto un ruolo descrittivo del limite o ambito del sociale nel quale il potere ha voluto stanziarsi: à diritto come “segnaposto”.) Michel Foucault - Visione alquanto drammatica: “il diritto nasce da conflitti reali: massacri, conquiste, città incendiate… la legge nasce con l’ agonia degli innocenti.” Il diritto è lo strumento di dominazione. Per quanto il diritto sia strumento di dominio, esso non riesce a creare la pace, ma solo riprodurre il conflitto. Secondo Foucault, il potere non si concentra in un punto determinato, in un soggetto o in un istituzione. Esso è diffuso e circola nei vari soggetti. Lo schema della sovranità è in realtà una finzione che occulta lo schema della diffusione del potere. F. riprende la tesi di Clausewitz per la quale la guerra è la politica continuata con altri mezzi. Nella sua reinterpretazione, il filosofo francese afferma: Il potere ( la politica) è la guerra continuata con altri mezzi. Conseguenze di tale ribaltamento: 1. I rapporti di potere sono rapporti di forza 2. La pace sociale è una copertura ideologica della guerra senza quartiere che è in corso 3. L’ unico criterio umano è quello della forza ( chi vince dice cosa è giusto, cosa è bello…) Theodor Geiger - Il modo di concepire il dualismo è una questione definitoria, siccome dipende dalle definizioni che si danno di diritto e di potere. 1. Diritto: coincide con il diritto stataleà ovvero con lo stato 2. Potere: la possibilità di poter dirigere il corso di certi accadimentià tale definizione è applicabile tanto ai rapporti extra sociali che a quelli sociali. Il potere sociale è quello di indirizzare la condotta di un altro uomo. - Prosegue poi individuando fattori di potere, ovvero fattori che rendono il potere possibili: 1. Fattori primari: forza fisica, disponibilità di armi, fascino sessuale, astuzia 2. Fattori di potere secondari: risultanti dall’ organizzazione sociale à es: una carica - Il rapporto di potere è accidentale se fondato su fattori primari, mentre è categorico se si basa sull’ appartenenza di soggetti ad un certo gruppo. - Ulteriore distinzione: 1. Rapporti di potere intercorsivi: insieme di rapporti categorici tra membri di una certa struttura sociale 2. Rapporti di potere integrale: rapporti nei quali i membri di una società esercitano tra loro pressione sociale à secondo Geiger, il dominio è la monopolizzazione del potere integrale SUPREMAZIA DEL DIRITTO Eugen Ehrlich - Inizialmente sembra concepire il dominio come qualcosa di ampiamente separato dal diritto, storicamente precedente a esso. Il dominio viene pensato come il risultato della debolezza del dominato rispetto al dominatore. Successivamente arriva ad affermare che esso non può reggersi sulla mera forza fisica, ma necessita un retroterra normativo. Georges Gurvitch - Distingue tra due tipi di socialità 1. Socialità spontaneaà esercita pressioni interne o dall’ interno sulla coscienza degli individui Questa si distingue tra: § Socialità per interpenetrazione: fondata su intuizioni collettive attualià non necessita il linguaggio § Socialità per interdipendenza: è comunicativa e necessita come fondamento la socialità interpenetrativa 2. Socialità organizzataà fa capo a comportamenti collettivi guidati da schemi cristallizzati nel tempo. esercita sanzioni e costrizioni esterne o dall’ esterno. La socialità organizzata si fonda su quella spontanea. Sono struttura e sovrastruttura. - La prima è mobile, la seconda è rigida. Le esigenze mutevoli dell’ una trovano difficoltà a essere recepite senza traumi dalla seconda. - Alla distinzione tra socialità spontanea e s. organizzata, egli ricollega diritto spontaneo e diritto organizzato. Alla distinzione tra socialità ( intuitiva) e socialità simbolica egli riconnette diritto sociale e diritto individuale. Il primo è diritto di pace ( di aiuto scambievole), il secondo è diritto di guerra. Il primo è retto dalla giustizia distributiva, il secondo dalla giustizia commutativa. - Il diritto sociale è autonomo e non può mai essere imposto dall’ esterno - Quando il diritto individuale prevale su quello sociale si ha dominio La prospettiva istituzionalistica Esistono due dottrine che possono definirsi “classiche” dell’ istituzionalismo. Entrambe risolvono la controversia tra diritto e potere con il vantaggio del primo sul secondo: Maurice Hauriou l’ elemento costitutivo dell’ istituzione è “l’ idea direttrice” ( intesa come idea del diritto). Egli critica due tipi di sistemi: 1. sistemi soggettivisti: pongono a fondamento del diritto esclusivamente la volontà ( di persone fisiche o giuridiche) ( H. li rigetta siccome ritiene che non esista una volontà soggettiva al 100% 2. sistemi oggettivisti: pongono a base del diritto esclusivamente o principalmente la norma giuridica ( H. li rigetta siccome non è possibile prescindere dal fattore della volontà umana.) La sua teoria: esistono solo norme descrittive. Il legislatore non ha potere creativo. Le istituzioni costituiscono le norme. Cosa è un istituzione? à una istituzione è una idea d’ opera o d’ impresa che si realizza e dura giuridicamente entro un ambiente sociale. H. distingue 2 tipi di istituzione: - Istituzione persona ( sindacati – associazioni varie) - Istituzione cosa ( la norma) La differenza tra le due sta nel fatto che nelle prime si assiste ad un processo di soggettivazione dell’ idea direttrice. Gli elementi che compongono l’ istituzione persona sono 3: - Idea direttrice = sono come idee platoniche, non vengono create ma trovate e comprendono il fine dell’ istituzione e di mezzi che si richiedono per realizzarla. - Il potere organizzato posto al servizio della sua realizzazione - Le manifestazioni di comunione che si producono nel gruppo rispetto alla realizzazione dell’ idea. Santi Romano Il potere politico presuppone un’ organizzazione che è l’ istituzione e quindi il diritto. Romano identifica potere e diritto conservando una tendenza a favore del diritto. Infatti, lo stato è un’ istituzione, ovvero un ordinamento giuridico. il potere politico di emanare norme trova fondamento in un corpo normativo à la costituzione. La costituzione non è però un fatto extragiuridico. Per romano, anche la rivoluzione, ovvero il fenomeno politico maggiormente opposto al diritto, è possibile ed esprime un vero e proprio ordinamento giuridico. C. Olivecrona Si dichiara partigiano della supremazia del diritto sul potere. Egli afferma in realtà che il riconoscimento della supremazia del diritto sul potere è illusoria, poiché le regole che sarebbero viste superiori al potere non sono sanzionabili, ma piuttosto come direttive sull’ uso della coazione da parte del potere statale. Ota Weinberger Il comportamento sociale degli uomini è reso possibile da norme costitutive di istituzioni e si manifesta in informazioni pratiche( valori, scopi, norme, princìpi). Il diritto ( e le informazioni pratiche) non è una manifestazione dell’ istituzione, bensì ne è il nucleo fondamentale. Non possono esistere istituzioni senza norme e informazioni pratiche. Il potere dipende da un contesto normativo e si svolge bene o male all’ interno di questo. Nell’ obbiettare la concezione elaborata da Schmitt, egli sostiene: non può esistere un governo delle norme che non si esprima in poterei di uomini concreti e d’ altro canto non è possibile pensare ad un governo degli uomini al di fuori di realtà nelle quali vigono informazioni pratiche, ovvero norme. Come Romano, W. ritiene che a monte di ogni stato vi è una costituzione, anche nel caso in cui lo stato in questione non abbia una costituzione scritta. Costituzione è qui inteso come l’ insieme di norme che regolano la prassi politico giuridica dello stato. esso ma si può verificare solo se siamo in presenza di referenti concreti nel mondo e la verificabilità diventa quindi un principio meta scientifico o cade in un profondo soggettivismo à “ è significante ciò che per me è vero o verificato o verificabile ( altrimenti deve assumere dei criteri di verificabilità intersoggettivi i quali paradossalmente si sottraggono al criterio della verificabilità medesima.) • Teoria dell'uso = il significato di un certo termine dato dall'uso che viene fatto in una certa lingua che viene inteso come atto linguistico e segue delle certe regole alle quali tutti si attengono o il linguaggio è una convenzione prodotta dall'uomo che può essere risultato l'attività sia consapevoli che inconsapevoli degli esseri umani o la teoria dell'uso sostiene una pluralità di usi nel linguaggio fondata su una pluralità di giochi linguistici e di sistemi normativi e questo sottostanti i riconosci gli enunciati immorali in genere quelli normativi una dignità a quella posseduta rispetto a quella degli enunciati descrittivi Tale teoria è sicuramente la meno esposta a critiche. È invece utile chiarire cosa si intenda per USO: 1. uso come regolarità: mera ripetizione dell’ attribuzione di significato à tale uso è concepibile come meramente individuale 2. uso inteso come atto linguistico: ovvero come uso di un certo enunciato in un certo contesto con certi fini à tale approccio cade in una pragmaticità evidente 3. uso come consuetudine: ( teoria accreditata da Wittgenstein e da La Torre.) L’ uso è la ripetizione di un attribuzione di significato combinata con un elemento normativo à opinio iuris seu necessitatis questa opzione è quindi antisoggetivista e permette inoltre di spiegare gli errori di enunciazione / utilizzo della lingua. à tale teoria ammette che nell’ attribuzione di significato ( e utilizzo) esista una forte componente inconscia. Concezione di Russell e Austin • RussellàLa sua una teoria referenzialista casualistica ed espressionista o Per lui i discorsi sono intesi a provocare un comportamento altrui e la maggior parte degli enunciati sono imperativi, di conseguenza il significato di entrambi i tipi di enunciato si definiranno i termini delle credenze che essi suscitano o Viene effettuata una divisone tra parole ed enunciati • § Parole: hanno significato in quanto si riferiscono e rappresentano oggetti e stati di cose del mondo sensibile quindi non presuppongono la conoscenza di un'altra parola. hanno per se sole significato compiuto e si apprendono per via ostensiva àcon l’ ausilio di qualcuno che indichi l’oggetto empirico a cui esse si riferiscono • § Enunciato: Russell cambia moltissimo la sua visione del significato di enunciato muovendosi prima seguendo una teoria verificazionista poi una comportamentistica. Enunciato ( prima visione): lo stato d’ animo dell’ emittente. “ il significato di un enunciato è ciò che esso esprime” à enunciati falsi e enunciati veri sono ugualmente dotati di senso Enunciato ( seconda visione): enunciato come fatto psicologico Enunciato ( terza visione): il significato di una singola parola è definito dalle situazioni che fanno si che essa sia usata e dagli effetti che conseguono ad ascoltarla. • È molto critico verso la teoria verificazionistica o Non prende in considerazione la differenza tra parole denunciati o regresso infinito all'argomentazione o alcuni enunciati degli esseri umani non hanno alcun tipo di verificazione alle spalle e vengono chiamati enunciati di percezione Il linguaggio qui non è il complesso di regole sociali • per Russell la conoscenza è innanzitutto percezione à somma di enunciati singolari o per lui il linguaggio non deve essere considerato come un fenomeno sociale. non viene visto come un complesso di regole sociali perché il parlare deve essere vista come una sorta di soliloquio ànon vi è concezione di socialità nel linguaggio § il linguaggio è per i singoli • Austin= Si basa sulla teoria dell'uso di Wittgenstein, nella sua visioni il linguaggio è essenzialmente pragmatico, finalizzato a produrre effetti sulla condotta altrui ( e nel mondo empirico) à si parla per lo più di atti linguistici ( e non di enunciati). o non vi è quindi un unico uso di una parola, ma molteplici usi di una medesima parola o di uno stesso enunciato che danno luogo ad altrettanti atti appartenenti a diverse tipologie. Il significato di un enunciato sembra quindi potersi riconnettere all’ effetto dell’ atto prodotto. Austin distingue due classi fondamentali di atti linguistici: - atti constativi: servono a descrivere il mondo - atti performativi: hanno come funzione la costituzione di certi fatti nel mondo per tali atti, l’ enunciazione di un enunciato è o è parte del compimento di un’ azione. ( es: non esistono promesse senza l’ atto di promettere) à solo per gli atti performativi sembrerebbe potersi dire che il loro significato è dato dall’ uso. Successivamente Austin ripristina una teoria del linguaggio fondata su procedure e regole e permette una differenziazione tra i vari atti del parlare: à il parlare non è più quindi una serie disordinata o statisticamente regolare di usi linguistici individuali. Innanzi tutto distingue 3 tipologie di atti: - atto locutorio= l’atto locutorio è ciò che normalmente si da all’ interno della sintattica à ciò che si fa nel linguaggio - atto perlocutorio= è l’ atto diretto a produrre effetti concreti e si definisce mediante ciò che si ottiene nel mondo empirico grazie ad esso - atto illocutorio= ciò che si fa con il linguaggio à il genere dell’ atto che si vuole porre in essere ( preghiera, ordine, affermazione) à per A. questo è l’ atto fondamentale del linguaggio ogni atto linguistico possiede: un’ elemento locutorio, un’ elemento illocutorio e un’ elemento perlocutorio. Di qualsiasi atto linguistico si può dire se sia riuscito come ordine, come preghiera, come affermazione, guardando alle regole ( che qua non sono esposte ) del suo momento illocutorio. ( azzarderei a dire che A. pone in atto una compartimentazione delle componenti ( da lui create) dell’ atto, in modo che scomponendolo si possa osservare se esse rispondono alle regole di tali elementi.) o l'atto linguistico come classe di atti è infatti costituito da delle procedure nel suo uso è il singolo atto linguistico non si dà né valido o felice se quelle procedure non vengono osservate à devono basarsi su un criterio di correttezza o tutti gli atti linguistici per Austin sono atti che permettono di costruire e produrre il mondo e sono quindi performativi, anche se delle volte si incappa in una contraddizione logica nella contraddizione performativa o ALLA BASE DELLA SUA TEORIA C’È LA SOCIALITÀ! à Il parlante deve presupporre delle procedure intersoggettive vigenti nel contesto in cui si trova a operare e altri individui che possano confermare la felicità dei suoi atti. Il libro elabora una serie di collegamenti tra le teorie del significato, chi le sostiene e le conseguenti teorie metaetiche che potrebbero sostenere. Io mi prendo la libertà di ometterle perché ho l’ esame domani e manco dovrei stare a fare questo pazzo riassunto. ( nel caso vedi pag. 187-191) Conclusioni tratte sul carattere dei giudizi morali: I giudizi morali: • non sono riducibili né a emozioni o a prescrizioni o a stati psicologici puramente soggettivi; • non sono formulabili come mere descrizioni di circostante di fatto • non sono riducibili e regolarità di condotte sociali • non sono sottratti all’intenzionamento soggettivo. GIUDIZI MORALI E GIUSTIFICAZIONE Varie forme di concezioni metaetiche à le concezioni che riguardano la natura dei giudizi morali: 1. Metaetica rivelazionista= si basa sulle religioni cosiddette rilevate, dove vi è un dio che rivela cosa sia buono o cosa sia cattivo moralmente, in modo tale che la legge non possa disciplinare diversamente. 1. Versione della concezione irrazionalistica: Tutto quello che Dio dice è giusto à visione di Lutero e Occam (se Dio dicesse che è giusto uccidere sarebbe da accettare) 2. Versione della concezione razionalistica: Dio vuole solo il bene come dice Tommaso 3. Dio diventa quindi l’elemento che obbliga moralmente le persone a seguire la determinata condotta da lui sottolineata. A tale concezione si potrebbe contestare molto, in primis l’ incertezza dell’ esistenza di un dio p di un solo dio. Assumendo però la sua esistenza, risulta quindi che un uomo sia tenuto a seguire quella indicazione morale con il fine di non subire una punizione o di ottenere una ricompensa. à la morale diventerebbe così un mero calcolo prudenziale: CALCOLO PRUDENZIALE E MORALE NON COINCIDONO. NON POSSONO ESSERE UNITE. Se la morale può essere intesa come calcolo prudenziale non può certo dirsi che il calcolo prudenziale sia morale. i. Problemi 1. Effettiva esistenza di Dio, molto controversa 2. La volontà di qualcuno di esterno non è abbastanza per avere un atto buono o meno, alla fine sono io li giudice delle mie scelte. Altrimenti si negerebbe il carattere responsabile della morale à diviene mero ordine. 3. La presenza di più religioni fa si che si creino più visioni di atti buoni anche incompatibili l’uno con l’altro e si crea una incomunicabilità. 4. L’ assunzione di teorie rivelazionistiche implica una rinuncia della morale libertaria. Tolstoj à è un pensatore cristiano molto vicino ai pensieri libertari: fa coincidere la morale con la religione, e nonostante egli si possa definire prossimo al pensiero anarchico, in ambito etico si dimostra totalmente autoritario. È insomma in contraddizione con se stesso. 5. Se le indicazioni sono fornite da un soggetto interposto o da un libro sacro, come si può attribuire totale valore ad essi senza che esistano fattori oggettivi che provino la fonte “divina” delle loro informazioni? 6. Un dio può trasmettere regole positive e regole morali, le seconde si manifestano senza necessità di intermediazione alla coscienza dell’ uomo e sono derivabili attraverso l’ uso della ragione: è quindi la ragione il fattore di conoscenza, non la rivelazione. 2. Naturalismo = le morali sono derivabili riducibili dall'accertamento viene dalla descrizione in certi stati di cose esistenti in natura. R. Alexy propone una versione detta: soggettivista. Secondo tale concezione i giudizi di valore non sono altro che descrizioni dello stato psichico del soggetto che emette i giudizi. ( se dico: “è ingiusto rubare” in realtà stò affermando: “io penso che è ingiusto rubare”.),questa tesi è l’ equivalente metaetico della tesi per cui le norme giuridiche sono le dichiarazioni di volontà Naturalismo = si cade nella fallacia naturalistica ovvero deduzioni di conclusioni normative da premesse effettivamente descrittive. ( da uno stato di cose come si può derivare un giudizio di valore?) ( inoltre, un fatto che è vero, che esiste, come può essere intrinsecamente giusto o sbagliato? i. Si cade in un etica naturalistica ovvero la credenza che i dettami della natura sono giusti e buoni e che bisogna obbedire ai principi che reggono la natura. Ciò peraltro non è nemmeno sempre condiviso, basti guardare il pensiero gnostico, per il quale la natura non è sempre il bene. ii. La natura è per sua natura sorda alle questioni morali lOMoARcPSD|4584301 Storicismo = si concepisce la storia come la specifica natura dalle società umane può essere la fine di un'ideologia e sfocia in misure di opportunismo e di assolutismo morale Edonismo = assumi come che è morale ciò che è piacevole per l'individuo ma la moralità di un'azione non equivale a sua volta soddisfacimento di un piacere e si crede così un'etica relativistica rigidamente connessa alle sensazioni di un soggetto ed è la variante individualistiche estreme della morale. La moralità di un’ azione non equivale al soddisfacimento di un piacere. Utilitarismo = si basa sul soddisfacimento dei bisogni del maggior numero di uomini con il minor sacrificio possibile mentre la sua metaetica sono enunciati che vertono sulla felicità e sulla preferenza del maggior numero di persone 1. si vuole avere quindi la felicità del maggior numero possibile di uomini 2. cade in una fallacia naturalistica poiché ritiene che l'utilità o la felicità o la soddisfazione delle preferenze possono essere accertate oggettivamente 3. la felicità del maggior numero di persone è dopo tutto la felicità del maggior numero di singoli. Come si accerta dunque la felicità dei singoli? In cosa consiste la mia felicità? 4. La felicità non è presupposto della morale, ma derivata. Essa deriva da una serie di riflessioni interne e personali che difatti chiamiamo “morale”. 5. Paradosso: ( torturare un terrorista così da localizzare il luogo di una bomba e salvare molte vite può essere utile, sicuramente rende felice le persone salvate e non solo, ma può dirsi morale?) à riduce la morale a calcolo prudenziale - il riconoscimento ( muto)di pari dignità di tutti gli individui che partecipano alla comunicazione. Tale riconoscimento si estende ( con un passo ulteriore) a tutti gli esseri umani e si idealizza nella elaborazione normativa del concetto di “persona.” à tale riconoscimento ulteriore è possibile solo a livello riflessivo. Habermans fonda il principio di universalizzabilità su due “mosse”. - Le nostre comuni intuizioni hanno come requisito essenziale dei giudizi morali, l’ imparzialità di questi - Seconda “mossa”: mostrare che il principio di universalità è un presupposto logico-trascendentale d’ ogni argomentazione. La differenza tra Apel e Habermas consiste nel fatto che il primo mediante l’ argomento logico trascendentale deriva delle specifiche norme morali, mentre H. si limita a ottenere un solo principio generalissimo, l’ universalizzabilità. Per H. l’ argomento logico trascendentale della filosofia assume la forma seguente: chiunque rinvii ai presupposti generali e necessari del discorso argomentativo e sappia cosa significa giustificare una norma di condotta, deve assumere implicitamente la validità del principio di universalizzazione. La giustificazione delle norme morali si da, dunque, per Habermas come risultato e non come presupposto del processo argomentativo. In una seconda fase del suo pensiero, Habermas introduce un principio preliminare a quello dell’ universalizzabilità. Tale principio è il principio del discorso: “ sono valide solo quelle norme di condotta rispetto alle quali tutti i soggetti coinvolti o interessati abbiano potuto prestare il loro consenso come partecipanti a un discorso ideale. Il principio di universalizzabilità mantiene invece la forma seguente: gli effetti di ogni norma valida che per gli interessi di ciascuno conseguano prevedibilmente dalla generale osservanza della norma devono poter essere accettati da ciascuno senza l’ intervento di coazione alcuna. La Torre procede con la riassunzione di alcune conclusioni: i. la teoria del significato da accogliere, seppure con integrazioni e specificazioni, sia quella dell’ uso, inteso come uso determinato da regole, ovvero un uso collettivo. ii. La teoria dell’ uso riconosce la pluralità degli usi linguistici = la teoria dell’ uso consente di formulare in maniera liberale la tipologia di funzioni del linguaggio. iii. La metaetica noncognitivistica appare difficilmente confutabile = da un informazione teorica non può dedursi un’ informazione pratica. ( un fine, un valore, uno scopo). Aderire alla metaetica non cognitivista si badi, non significa aderire all’ emotivismo. Tuttavia l’ argomentazione morale si sviluppa mediante ragioni e a partire da esse, non da mere e arbitrarie preferenze. iv. Distinguiamo inoltre tra tipi ( livelli) di obbligo: - Obbligo socialmente dominante - Il sentimento psichico dell’ obbligo ( il sentirsi obbligati) - L’ obbligo morale in senso stretto à morale critica frutta della riflessione più o meno razionale del soggetto in questione Vi è poi un quarto tipo di obbligo: l’ obbligo giuridico: dipende dalla congiunzione della forza vincolante dell’ istituzione del diritto e della giustificazione del senso che presiede l’ istituzione. v. Bisogna riconoscere la possibilità di giustificare razionalmente i giudizi morali. Non si parla però di una giustificazione forte come può essere quella dei fatti empirici.( es: procedimenti logici induttivi e deduttivi). La giustificazione in questione è invece una giustificazione debole e può risultare da due procedure principali: - Deduzione per via argomentativa ( e non strettamente logica) da enunciati descrittivi - Deduzione logica ( e non meramente argomentativa) da altri enunciati normativi che sono largamente accettati e accettabili, impliciti in pratiche e usi à di cui si può affermare l’ universalità. I primi sono detti principi ponte, i secondi principi normativi primi e entrambi possono essere fatti valere intersoggettivamente solo all’ interno di un discorso che si orienti costruttivamente ad entrambi. Essi divengono stringenti solo discorsivamente à se ci si impegna a discuture con gli altri la morale di una condotta. Gli enunciati morali godono di debole giustificabilità. Una soluzione tipica a tale carenza sono le strategie di giustificabilità che si avvalgono del principio di universalizzabilità. La morale ha però una dimensione critica. La morale critica è il domandarsi e il darsi una ragione riguardo alle regole etiche seguite e da seguire. Tale morale critica è autonoma, di un soggetto che si da egli stesso dei princìpi. È una morale eminentemente riflessiva e liberale. L’ affermazione della morale critica come morale soggettiva contrapposta alla morale positiva è un evento relativamente recente, coincidente con l’ affermazione del “moderno” ( rivoluzioni francese, americana, inglese e riforma protestante.) solo la prima è morale in senso proprio, ma solo quando si presenta come riflessiva e universalizzabile ha una valenza libertaria, in quanto afferma implicitamente, in quanto afferma implicitamente che l’ unico soggetto morale è l’ individuo razionale. Costui è il giudice supremo della moralità delle sue azioni. L’ individuo è autonomo per ciò che concerne la qualificazione morale della sua condotta. Inoltre, è opportuno sottolineare che non esistono azioni amorali, poiché anche chi si propone di non assumere la moralità a fondamento del suo agire o penare, in realtà sta assumendo un criterio di condotta. È come lo scettico che per rimanere scettico dovrebbe ripudiare il suo scetticismo. L’ alternativa non è quindi tra assumere o non assumere criteri di condotta morale, ma se assumerne di individuali o di eteronomi. La nostra conclusione metaetica finale è dunque la seguente. I giudizi morali sono dotati di 7 caratteristiche individuali, insieme al carattere dell’ universalizzabilità. I giudizi morali corrispondono ai giudizi normativi puri ( di Carlos Nino) ( quei giudizi che sono accettati indipendentemente dalle circostanze della loro formulazione o dalle conseguenze della loro accettazione.) insieme al carattere della univeralizzabilità. L’ autonomia di tali giudizi, ovvero la loro purezza ( determinati solo da considerazioni normative intenzionate del soggetto) rendono esplicito il loro carattere critico. L’ universalizzabilità trova espressione nell’ esigenza dell’ accettabilità da parte degli interessati, costituisce il loro carattere razionale. DIRITTO E MORALE, PRIME CONCLUSIONI In modo ampio definiamo: C) istituzione: ogni ambito d’ azione reso possibile da norme ed effettivamente sfruttato D) norme: contenuto proposizionale di enunciati normativi à tutti quegli enunciati che dirigono in maniera diretta l’ azione umana si pone ora il problema di delimitare il campo proprio del diritto rispetto agli altri fenomeni istituzionali. In particolare bisogna distinguere tra il sistema normativo del diritto e quello della morale. Secondo l’ autore la differenza tra norme di diritto e norme morali sta nel fatto che le prime sono norme sociali, ovvero fondamento di esistenza di istituzioni o derivazione da esse, mentre le seconde sono norme individuali, basano la loro validità sul riconoscimento immediato da parte dei singoli. poiché le istituzioni sono espressione di forme di vita, esse necessitano un senso e pertanto sono suscettibili di valutazione morale che le giustifichi. Critica: à esistono norme sociali che non sono giuridiche e norme morali che sono sociali. Il diritto si potrebbe distinguere da esse in virtù della presenza di specifici meccanismi che riducono l’ indeterminatezza cognitiva e la debolezza motivante tipica delle norme morali e sociali. Critica: à esistono norme e istituzioni sociali dotate di alto grado di istituzionalizzazione, paragonabile a quello del diritto. à bisogna allora risalire ad una linea di confine tra norme di diritto e norme meramente sociali, all’ interno delle norme sociali. Prima soluzione: à O. Weinberger: sono norme giuridiche solo quelle funzionali e adeguate a fini particolarmente rilevanti per la società. Nella società moderna lo stato ha quasi interamente monopolizzato il giuridico. ( giuridico equivale praticamente a prodotto dagli organi dello stato e pertanto è difficile accettare come giuridici i princìpi, le consuetudini, i costumi…) à tale approccio è definibile positivismo statalista e se venisse accreditato, esso sancirebbe l’ antigiuridicità della stragrande maggioranza degli ordinamenti politici e sociali succedutisi nel tempo. à conclusione inaccettabile. Seconda soluzione: à H.L.A. Hart: le norme giuridiche ( a differenza delle norme morali) si articolano in un sistema di norme primarie ( impongono obblighi ) e norme secondarie ( conferiscono poteri ). ( il filosofo inciampa nel ritenere le norme morali delle norme sociali.). in realtà, le norme sociali, anche quelle morali conferiscono sia poteri che obblighi. E non solo, esistono norme sociali e morali che attribuiscono il potere di emanare vere e proprie norme. ( es: il padre di famiglia.) Reintroduciamo la teoria del significato: premessa: L’ usa è qua inteso in senso universale, e non come uso specifico. Inoltre, nella prassi linguistica è implicita la pretesa di correttezza à enunciare un espressione linguistica comporta: E) l’ espressione è sincera = chi la esprime ne è convinto F) l’ espressione è corretta = è elaborata secondo lo schema di correttezza della lingua utilizzata G) l’ espressione è vera, giusta, valida = pur considerando la diversità dei contesti ( ovvero la diversità tra discorsi teorici, empirici, pratici, normativi) il contenuto dell’ enunciato è accettabile per ogni membro dell’ uditorio a cui si rivolge. ( l’ uditorio è inteso in senso universale). H) Ciò che vale per l’ ambito linguistico vale anche, con le dovute limitazioni, per il diritto. Il diritto è un’ istituzione reso possibile da norme, dotato di un alto grado di istituzionalizzazione à (procedure esplicite di accertamento e implementazione di esse). Il diritto, inoltre necessita di una norma di riconoscimento e è dotato di un alto grado di riflessività. Anche se poste, le norme giuridiche devono continuamente essere riproposte. I) Le norme del diritto sono vincolanti in virtù del carattere particolare / specifico delle sue istituzioni Tuttavia, dal momento in cui si incomincia ad addentrarsi nei vari rami di applicazione pratica del diritto, l’ operatività della pretesa di correttezza è fondamentale, proprio in ragione delle funzioni svolte dal diritto. Infatti, il diritto mette in gioco gli interessi più vitali degli esseri umani nelle loro relazioni. Il diritto abbiamo detto e ridetto è una forma di istituzione con un senso. L’ istituzione, abbiamo detto e stradetto è un ambito d’ azione reso possibile da norme e esistente fintanto che esse sono osservate. La coazione non è un’ elemento centrale del diritto. ( anche una società di giusti necessita di una sfera di norme che indichino le rispettive sfere di azione e omissione). Riformulando la frase, anche dove non vi sia indeterminatezza normativa, ovvero, anche dove le norme vengano seguite volontariamente, l’ indeterminatezza cognitiva dei princìpi morali permane. à in ragione della loro estrema generalità. Inoltre, le norme della morale non sono costitutive ma solo regolative à prescrivono condotte anche se in termini generali. à come mai? In ragione della loro natura contraria alla realtà dei fatti ( o meglio distante). Es: per la morale è indifferente che negli scacchi esista una regola che prescrive il modo in cui si sposta il cavallo. à la morale non si occupa di determinare un tipo di condotta. Al contrario, per la morale è essenziale che i giocatori non ingannino durante il gioco. à tale principio è vuoto rispetto all’ ambito d’ azione in cui si applica à non lo determina o specifica. Per osservare le norme c’è bisogno di sapere quali queste siano e come vadano applicate. à il senso dell’ istituzione è essenziale, ma non sufficiente, necessità di una precisazione ulteriore. Tale ulteriore precisazione è un discorso che può gradualmente svilupparsi da tematizzazione solo di certe norme specifiche a discorso sul sistema di norme e sulla loro prassi di applicazione ( l’ istituzione ), per passare a considerare il senso generale della prassi in questione. Il diritto come istituzione e la morale ( che sono 2 sistemi normativi distinti, siccome il primo è costitutivo e il secondo è regolativo.) risultano così connessi mediante la necessità che è di entrambi di ricorrere ad un discorso per tematizzare i rispettivi princìpi e regole, e ridurre la loro indeterminatezza cognitiva. In entrambi i sistemi ( linguaggio e morale) il criterio di universalizzabilità assume un ruolo essenziale, anche se con diversa intensità e estensione: nel primo caso è puramente discorsivo, mentre nel secondo è anche motivante. Va detto, comunque, che nel discorso del diritto l’ applicazione di una norma piò più facilmente separarsi dalla sua giustificazione, facendo si che il discorso sulla norma rimanga entro limiti contestuali che non consentono forme elevate di riflessività. Nella morale ciò non è possibile, poiché non esiste un codice morale in senso stretto, come ad esempio un testo, e pertanto il contesto di applicazione è quasi immediatamente il contesto di giustificazione, divenendo da subito universalizzato. DIRITTO E MORALE, UNA RELAZIONE CONTROVERSA Iniziamo con il ribadire l’ importanza pratica della controversia sulla relazione tra diritto e morale. Intorno al problema sorgono almeno 3 domande: - Perché dobbiamo obbedire al diritto? - Quali contenuti il diritto può legittimamente avere? ( è diritto tutto ciò che un’ autorità politica definisce tale?) - Quali tipi di argomenti sono legittimi o validi nel ragionamento giuridico? Una decisione giuridica può essere sostenuta da argomenti morali? In questa sede non si vuole rispondere a queste o altre domande specifiche, quanto piuttosto considerarle punto di arrivo della ricerca. Citandole si vuole piuttosto sottolineare l’ importanza concreta di tali quesiti, spesso etichettati come futili da giuristi di qualsiasi tipo. Ora piuttosto si tenterà di epilogare ciò che è stato trattato nel manuale in modo da svelarne il senso. In primis è necessario tracciare alcune distinzioni: - Etica: studio della morale à disciplina filosofica - Morale: morale critica à atteggiamento morale adottato dalla coscienza individuale. - Morale positiva: morale socialmente dominante, ovvero la morale concretamente adottata in un certo momento storico da un determinato gruppo umano. - Tesi logica: tra il diritto cosi come è ( punto di vista giuridico) e il diritto cosi come dovrebbe essere ( punto di vista morale) non vi è alcuna possibile relazione logica. Un esempio di questa tesi è quella sostenuta da Hart, il quale sottolinea la differenza tra la conoscenza delle norme giuridiche e il rinvenimento di regole morali. Nel primo caso ci troviamo davanti ad un compito descrittivo, il secondo è invece fortemente normativo. Ovvero, mentre nel caso delle norme giuridiche potrebbe distinguersi nettamente tra un momento produttivo e uno conoscitivo, nel caso delle norme morali tale distinzione non sarebbe più possibile e prevarrebbe l’ elemento creativo. Implicita in quest’ argomento è l’ assunzione che la morale è puramente soggettiva, e non può essere dunque oggetto di conoscenza, mentre il diritto, come sistema normativo positivizzato può ambire a un certo grado di oggettività. Tale tesi però non convince, poiché è fondata su una distinzione troppo netta tra l’ aspetto cognitivo del diritto e quello volitivo e creativo della morale. - Criterio connesso alla teoria istituzionalista: in poche parole, il diritto è un istituzione, la morale no. Tale criterio è tradizionalmente impostato nel modo per cui la morale è “autonoma” mentre il diritto è “eteronomo”. La validità della norma giuridica dipende dalle circostanze di fatto della sua emanazione e della sua esecuzione, la norma morale è invece indipendente da tali circostanze. Ancora, le norme del diritto sono contestuali, quelle della morale sono universali. Infine, le norme della morale sono “regolative” nel senso che vertono su condotte già possibili, mentre le norme del diritto sono sia regolative che costitutive. Joseph Raz individua 2 modi principali di stabilire una relazione necessaria tra diritto e morale: 1) L’ impostazione definizionale: definire il diritto per mezzo di un insieme di proprietà, una o più delle quali siano apertamente proprietà morali, per esempio, che ogni diritto è moralmente valido o è conforme ai precetti di giustizia, o è posto da un autorità moralmente legittima. Per identificare l’ ordinamento giuridico abbiamo bisogno di rinviare a qualche principio o carattere morale. Tale impostazione considera impossibile identificare il diritto senza una concezione previa di ciò che deve essere considerato morale. La conoscenza giuridica risulterebbe quindi ridotta ad una conoscenza morale. à come però già osservato, la conoscenza morale è una conoscenza fragile, poiché non è possibile identificare una specifica razionalità morale fruibile esclusivamente attraverso un atteggiamento cognitivo. 2) L’ impostazione derivativa: il diritto è in primo luogo una forma di organizzazione sociale, e va identificato come tale, ma che nondimeno ha un valore morale. Secondo quest’ ultima prospettiva, le proprietà morali possedute da tutti i sistemi giuridici dipendono da proprietà non morali. La proprietà derivativa può identificare l’ ordinamento con riferimento soltanto a caratteri fattuali, non fortemente normativi. Consideriamo ora due obiezioni alla tesi derivativa. Secondo la ricostruzione di Raz, la tesi derivativa si compone di due principali strategie argomentative. - Mera esistenza: tale argomento assume a sua volta una duplice forma à 1) la sola esistenza di un qualsivoglia ordinamento giuridico è moralmente positiva. ( siccome è preferibile a non avere nessuna società o una cattiva società.) 2) La mera esistenza di un ordinamento giuridico è buona perché, per quanto possano essere cattive le leggi, la soggezione della condotta umana al governo delle leggi ha di per se un valore morale. Obiezioni: 1) obiezione empirica: non è detto che un ordine giuridico in qualsiasi caso contribuisca alla vita della società. 2) obiezione metaetica: il fatto che un ordinamento giuridica contribuisca all’ esistenza di una certa società, in che modo dovrebbe darci ragione per una valutazione morale positiva del diritto in questione? - L’ argomento del contenuto: ogni sistema giuridico, al fine di essere veramente giuridico, deve contenere almeno alcune norme o leggi giuste. Obiezioni: 1) cosa ci assicura che il minimo di leggi “giuste” siano effettivamente giuste? 2) il fatto che nell’ ordinamento siano presenti una minima parte di leggi moralmente giuste, in che modo rende giusto tutto l’ ordinamento? Conclusioni Ogni decisione giuridica contiene in se la pretesa di essere giusta, o quantomeno di non essere ingiusta. Ciò però non significa però che, se si ha a che fare con una legge ingiusta, essa non sia legge. Invece si può affermare che per tutte le leggi è possibile sottoporle ad un test di giustizia o di moralità. Per discutere della possibile ingiustizia di un atto o di una norma, si richiedono due condizioni: che il diritto non sia già di per se definizionalmente dichiarato sordo alla morale e seperato questa; che il diritto non sia derivativamente dedotto dalla morale. Nondimeno, il diritto deve essere concepito come una cosa ( o una pratica) per la quale abbia senso parlare di giustizia e di ingiustizia, e ciò eminentemente dal punto di vista interno al diritto, da quello ciò di coloro che partecipano alla pratica del diritto. Il diritto deve essere una “cosa” per la quale sia significativo e rilevante, per la sua stessa esistenza, proiettarsi o progettarsi come espressione di valori di giustizia. à il concetto di diritto come istituzione presentato nel libro dovrebbe soddisfare tali condizioni. La conclusione di La Torre è quindi la seguente: benchè non sia provato che tra il diritto e la morale vi sia una connessione concettuale necessaria, tale che la presenza di diritto comporti la presenza di norme moralmente soddisfacente, non è nemmeno stato dimostrato il contrario, ovvero che diritto e morale siano separati al punto che, accertata l’ immoralità evidente di un ordinamento giuridico, questo possa continuare a dirsi giuridico. È invece evidente che tra diritto e morale esista una connessione pratica necessaria. à ogni legge e ogni decisione giudiziale sono moralmente rilevanti in tanto in quanto hanno effetti sulla libertà, la dignità e il benessere delle persone umane. È inoltre evidente che il diritto ha una connessione funzionale con la morale ( se la si intende come morale positiva). Il diritto non funziona se i suoi contenuti non sono coerenti con la morale positiva. La morale positiva è, come abbiamo visto, distinta dalla morale critica. Tuttavia, esse sono connesse nel loro aspetto interno: il contenuto proposizionale di ciascun giudizio in cui si concreta la morale positiva data. Se si giudica della giustizia di un atto ( con un giudizio della morale positiva) è possibile trascendere la circostanza di fatto che quel giudizio sia dominante, diffuso, maggioritario in un certo gruppo sociale ed esaminare nel merito il giudizio medesimo. Consideriamo ora i 3 momenti principali della pratica giuridica: - Produzione - Applicazione - Interpretazione Tutti questi momenti implicano e richiedono qualche tipo di valutazione morale. Nondimeno dobbiamo ammettere che è possibile ascrivere significato a una norma giuridica senza entrare in nessun tipo di ragionamento morale. A questo punto non resta che rispondere ad una domanda conclusiva di questa trattazione: il diritto è una ragione normativa forte per l’ azione? Perché il diritto sia una ragione normativa( forte) d’ agire, si richiede una premessa normativa( forte): una premessa cioè, che mi dice che il diritto vigente è morale, ovvero che io debbo ( in senso forte), che ho l’ obbligo morale di obbedire alla legge in questione. Rispetto a quanto affermato, è utile citare le opinioni di Julius Binder e Carlos Nino: il primo sosteneva che “il diritto non obbliga a nulla”, il secondo che “ una validità giuridica che non sia riconducibile alla giustificabilità morale può interessare il sociologo ma è muta per l’ individuo in cerca di orientamento per la sua condotta sociale.” Solo le norme morali sono in ultima istanza, e con efficacia derogante, dotate di forza obbligatoria motivante. Anche per il magistrato il diritto non è una ragione normativa forte per agire senza ulteriori premesse. Anche quando si pensa al giudice come “bocca della legge”, è necessario un principio normativo forte che assuma come valore morale che il giudice debba essere rigidamente e costantemente subordinato alla legge positiva. Il diritto non può che ricevere dall’ esterno la sua pretesa di vincolare la volontà degli essere umani. Le conclusioni ( a ridajjje) 1) È tutt’ altro che ovvio che la morale sia puramente soggettiva e che solo il diritto possa ambire ad un certo grado di oggettività giustificativa. 2) Non pare evidente che il diritto fornisca delle ragioni escludenti per l’ azione, ovvero delle ragioni ( di secondo grado) che escludano la considerazione di ulteriori ragioni ( di primo grado) per l’ azione eventualmente in conflitto o in concorso con quelle giuridiche. 3) Non è del tutto certo che sia possibile identificare il diritto da un punto di vista esterno ( come concetto o contenuto proposizionale che non entra a far parte di un ragionamento diretto a offrire ragioni per l’ azione) senza ricorso a norme o princìpi morali. 4) Non è nemmeno certo che l’ unico possibile punto di vista normativo ( giustificativo di condotte) sia quello forte ( cioè il punto di vista morale) e che non si diano ragioni per l’ agire dettate da un punto di vista normativo debole, di carattere in genere prudenziale, convenzionale, istituzionale o anche “ontico”. ( queste potranno nondimeno essere superate o “travolte” da ragioni normative “forti”, a certe condizioni, e tanto più in un ambito del diritto che rimanda quasi immediatamente all’ ideale di giustizia.) Tuttavia il diritto non è spiegabile ne può comprendersi, e ancor meno praticarsi, senza tenere in conto la sua interna, “trascendentale” pretesa di giustizia.
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