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Nuovo manualetto di linguistica italiana, Sintesi del corso di Linguistica

Riassunto del libro "nuovo manualetto di linguistica italiana"

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 08/11/2022

nerinaaaaaaa
nerinaaaaaaa 🇮🇹

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Scarica Nuovo manualetto di linguistica italiana e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica solo su Docsity! NUOVO MANUALETTO DI LINGUISTICA ITALIANA 1. CHE COS’É LA LINGUISTICA E CHE COSA STUDIA? LA LINGUISTICA È LA SCIENZA CHE STUDIA IL LINGUAGGIO UMANO E LE LINGUE PARLATE E SCRITTE DAGLI UOMINI La linguistica si distingue dalla grammatica poiché quest'ultima individua e cataloga gli elementi che compongono una lingua ai fini pratici dell'insegnamento della lingua stessa  la linguistica può farci capire il perché esistono certe regole grammaticali e può aiutarci nell'apprendimento di una lingua. La linguistica è tutto ciò che riguarda la lingua scritta e parlata, lo studio della lingua e le sue strutture, studia il linguaggio. La lingua scritta è un metodo di rendere la lingua parlata. La lingua nasce come lingua parlata, infatti l’uomo ha iniziato prima a parlare e poi a scrivere. LA LINGUISTICA È LA DISCIPLINA/LA SCIENZA CHE STUDIA LE LINGUE E IL LINGUAGGIO LINGUAGGIO  è l’insieme dei fonemi di comunicazione e di espressione che si manifestano sia nel modo umano sia al di fuori di esso, ad esempio negli animali. LINGUA  è il principale modo concreto e storicamente determinato in cui si manifesta la facoltà del linguaggio nel genere umano, è il tipo di linguaggio per eccellenza. Concreto perché le lingue sono codificate, hanno una grammatica e delle regole, e storicamente perché noi oggi non parliamo come Dante, ma parliamo la sua stessa lingua. Compiti della linguistica:  la descrizione delle lingue usate dagli uomini sia nel loro funzionamento attuale sia nella loro evoluzione nel tempo;  la scoperta dei fattori che agiscono nel funzionamento e nel divenire delle lingue;  l’individuazione dei percorsi e dei metodi dell’indagine. IL LINGUAGGIO E LA LINGUA Il linguaggio è quindi, in altre parole, la capacità di usare un qualsiasi sistema di segni (denti, ringhi, luci dei semafori) per comunicare. Non è perciò una caratteristica esclusiva dell’uomo. Negli animali il linguaggio può essere anche: suoni, movimenti, gesti, odori e sostanze chimiche; anche le macchine hanno il loro linguaggio (es. computer, elettrodomestici). Gli uomini possono comunicare tra loro con linguaggi diversi da quello verbale: il linguaggio dei gesti, la segnaletica stradale, l’alfabeto Morse, il linguaggio della matematica l’arte, la musica, pittori, scultori. Tra tutti i vari linguaggi, il più raffinato è il linguaggio verbale umano, capace di esprimere qualunque cosa nei modi più vari. Il linguaggio verbale umano si può definire “potente” perché: 1) essendo basato su suoni si può trasmettere a distanza, in varie condizioni (anche al buio), anche attraverso ostacoli fisici; 2) con il linguaggio umano si può parlare di tutto, mentre con il linguaggio degli animali e con i linguaggi artificiali (la spia rossa del cruscotto di un’auto, il semaforo, il linguaggio della matematica) si può parlare soltanto di alcune cose (ad esempio, la spia rossa del cruscotto ci dice soltanto due cose: c’è / non c’è la benzina. Con il linguaggio della matematica non possiamo dare ordini, esprimere i nostri sentimenti, descrivere un paesaggio. Invece con quello umano possiamo esprimere tutto quello che è espresso dai linguaggi artificiali e tantissime cose in più. Accanto al linguaggio verbale, l’uomo fa uso anche di linguaggi non verbali. Essi sono:  i gesti, i movimenti del corpo, le espressioni della faccia, l'atteggiamento generale delle persone (comportamenti cinetici);  la tonalità della voce, le interruzioni, i sospiri, il pianto, gli sbadigli: si tratta di un insieme di atteggiamenti che da soli o assieme al linguaggio vero e proprio servono a esprimere ciò che si sente (paralinguaggio);  l’uso dello spazio e il rapporto spaziale tra gli individui: ci si tiene a distanza da una persona della quale si ha rispetto o timore, invece si sta vicini a una persona con cui si è in confidenza;  l’uso di artefatti, come abiti e cosmetici: un certo tipo di vestito o un profumo particolare, in certe occasioni, dicono più delle parole. Tutte le lingue del mondo, si chiamano lingue storico storico-naturali naturali. Sono lingue nate nel corso della storia della civiltà umana e riflettono su mentalità e culture diverse, che si sono manifestate in luoghi e ambienti diversi. Si dicono storiche perché hanno una storia, un’evoluzione. Si dicono naturali perché si contrappongono ai linguaggi artificiali (segnaletica stradale, alfabeto Morse, linguaggio della matematica e dell’informatica ecc.) PECULARIETÁ DELLE LINGUE Dal punto di vista funzionale la lingua è un sistema complesso di comunicazione proprio delle comunità umane. Dal punto di vista della sua natura, la lingua è un sistema di segni vocali, articolato in due piani distinti e complementari: morfemi (unità significative) e fonemi (unità non significative). Con significante si indica il piano dell’espressione, correlato al significato che rinvia a un contenuto, il quale a sua volta rimanda ad un oggetto extra linguistico detto referente. Dal punto di vista dell’uso dei rapporti con le comunità parlanti, la lingua appare variamente differenziata: abbiamo la lingua materna, la seconda lingua (in genere dipende da situazioni di bilinguismo), la lingua straniera (acquisita con lo studio), la lingua nazionale (varietà dominante in una nazione), la lingua ufficiale (espressione linguistica di una nazione a prescindere dagli usi effettivi delle comunità ivi presenti) e la lingua veicolare (mezzo per comunicare tra comunità aventi lingue diverse). Dal punto di vista teorico, la lingua si oppone da una parte al linguaggio e dall’altra, essendo un’entità virtuale (langue), alla realtà effettuale dei discorsi (parole). I SEGNI E IL CODICE Tutti i linguaggi che abbiamo visto finora (umano, animale, artificiale) hanno in comune una caratteristica fondamentale: si basano sui segni. Un segno è un qualcosa che sta al posto di qualcos’altro, possiamo avere segni naturali o artificiali. - I segni naturali (o codici) sono legati ai rispettivi significati secondo relazioni di causa-effetto vedo del fumo qualcosa sta bruciando - I segni artificiali, sono decisi in base ad una convenzione, sono arbitrari rosso=alt (si sarebbe potuto usare qualsiasi altro colore) I segni di uno stesso tipo (es. alfabeto latino) si combinano tra loro per formare un codice. Una volta che i segni sono stati attribuiti ad un codice non possono essere più cambiati, a meno che non cambi la convenzione che regola il funzionamento di quel codice. Questo è il sistema convenzionale di segni atto a trasmettere, mediante un canale, per informazioni dalla fonte alla sua destinazioneovvero traduce la trasformazione della forma di un messaggio in un’altra forma, volta alla trasmissione del messaggio stesso questo processo è detto codificazione. La decodificazione avviene invece quando il messaggio è interpretato dal destinatario il quale si basa sullo stesso codice dell’emittente. Anche i codici possono essere elementare (semaforo solo tre segni) o complessi (alfabeto morse). LA COMUNICAZIONE La comunicazione per realizzarsi ha bisogno almeno di due persone che devono comunicare qualcosa l’uno all’altro e comprendere ciò che l’altro ha detto. Quando decidiamo di parlare compiamo inconsapevolmente, e rapidamente, tre operazioni: 1) Decidiamo di parlare 2) Troviamo un’espressione che sia capace di comunicare quanto vogliamo 3) Verifichiamo se l’espressione scelta è capace di comunicare in modo adeguato il contenuto scelto Il processo che abbiamo descritto va dall’interno (la nostra mente) verso l’esterno (la nostra bocca)con questo processo compiamo una codificazioneovvero attribuiamo il codice “lingua italiana” al nostro pensiero. Chi ti ascolta invece va a decodificareovvero passa dall’espressione in codice al contenuto di pensiero. Nella maggior parte dei casi il contenuto prodotto e trasmesso dal locutore e quello ricevuto e interpretato all’ascoltatore coincidono, ma può succedere che il contenuto ascoltato venga male interpretato rispetto alla nostra intenzione comunicativa, magari l’ascoltatore non è stato attento. Ovviamente codifichiamo in una lingua e decodifichiamo da una lingua soltanto se la conosciamo. LE FUNZIONI DEL LINGUAGGIO La lingua serve non solo a comunicare ma anche: - Per parlare con sé stessi: es. ripetere a voce alta per memorizzare - ci aiuta a svolgere un ragionamento, mettere il rapporto tra loro le nostre idee, far nascere nuove idee, analizzare dati e connetterli tra loro - Inventare un mondo che non esiste es. Una storia che tranquillizzi un bambino irrequieto - Affermare il rapporto che intercorre tra noi e chi ci ascolta, evidenziando la posizioni che gli individui occupano rispetto agli altri e alla società lei o tu - Aiutare noi stessi e il prossimo a risolvere problemi parlando chiaramente - Inoltre il linguaggio può anche parlare di sé stesso metalinguaggio Il linguaggio umano possiede queste e altre funzioni, il linguista russo Roman Jakobson propone 6 elementi su cui la comunicazione si basa. Chi parla, cioè il mittente invia al destinatario un messaggio, il quale si riferisce alla realtà che ci circonda, ovverosia a un contesto. Per potersi capire i due interlocutori devono usare lo stesso codice (es. lingua italiana), e devono instaurare un contatto. Quest’ultimo è al tempo stesso un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario. Mittente ← contatto - messaggio - codice → destinatario (contesto). dove: - Se il mittente cerca di manifestare nel messaggio il proprio stato d’animo, es. allungando le vocali -> fa uso della funzione emotiva - Se il mettente vuole convincere il destinatario per suscitare in lui una reazione favorevole o sfavorevole -> funzione conativa - Se vuole rimarcare un fatto in sé, riferendosi al contesto -> funziona referenziale - Se vuole orientare verso il canale attraverso cui passa il messaggio (per es, quando, mentre parliamo al telefono, per assicurarci che il contatto tra noi e il destinatario sia attivo pronunciare frasi del tipo: pronto?, mi senti?) -> funzione fàtica Il linguista ginevrino sostiene che: la lingua è un sistema complesso in cui “tutto si tiene” e in cui tutti i componenti si condizionano a vicenda.  la lingua non è una lunga lista di parole in cui ciascuna corrisponde ad una cosa o un oggetto  altrimenti per imparare una lingua straniera basterebbe sostituire la parola alla sua etichetta  anche perché altrimenti le parole dell’inglese e dell’italiano si equivarrebbero (scala in italiano- scale, ladder…. in inglese). SIGNIFICANTE E SIGNIFICATO Il segno linguistico è un qualcoa che sta al posto di qualcos’altro. Ciasciun segno linguistico possiede due facce: l’immagine acustica, cioè la successione di suoni linguistici che lo compongono (significante), e il concetto che esso esprime (significato). Il segno linguistico risulta quindi una somma: significante + significato, ciò vale anche per segni linguistici più complessi. Il legame che unisce il significato al significante è arbitrario  in alcuni casi il significato di un segno non è del tutto arbitrario ma risulta linguisticamente motivato. Un altro tipo di motivazione hanno vocaboli come bla bla, splash  i quali sono esempi di onomatopea, ossia sono segni rassomiglianti all’entità che rappresentano. L’imitazione di un suono naturale con un suono linguistico rientra nell’ambito dell’iconismo. Diverse forme di iconismo:  a livello fonologico: onomatopee, parole che imitano suoni reali come sussurrare, mormorare...ma la resa di uno stesso suono può variare da lingua a lingua;  a livello morfologico: una nozione semanticamente complessa viene a volte espressa con una parola più lunga (es. comparativo e superlativo), in alcune lingue si aggiunge la desinenza o addirittura avviene la reduplicazione;  a livello sintattico-testuale: si ha un ordine iconico nel testo quando la sequenza delle frasi rispecchia la sequenza cronologica degli eventi una sequenza anti-iconica se la stessa frase la volgo al passivo. LA LINGUA COME SISTEMA La lingua è composta da un insieme di elementi tra loro interdipendenti, ciascun elemento ha un valore e una funzione in rapporto al valore e alla funzione degli elementi circostanti. Il sistema della lingua è quindi composto da:  Il segno più piccolo dotato di significato è il morfema (prima articolazione) es. cantava nella frase “Carlo cantava una bella canzone”;  fonemi: che sono suoni distintivi più piccoli esistenti in una data lingua e che sono privi di significato, che sono delimitati da sbarrette. Ogni lingua possiede un numero determinato di fonemi, l’italiano ne ha 30 (21 consonanti, 7 vocali, 2 approssimanti), presi singolarmente sono privi di significato (seconda articolazione); monemi lessicali: (o lessemi) una classe superiore formata da morfemi e fonemi articolati tra loro. In cantava si hanno due monemi: cant (che indica un’azione) e ava (che indica che l’azione è compiuta nel passato e da un solo individuo). Nella frase “ho mal di testa” si hanno 4 monemi: ho, mal, di, testa. RAPPORTI SINTAGMATICI E PARADIGMATICI Nella prospettiva strutturalistica i segni linguistici si definiscono in base ai rapporti e le differenze che intercorrono tra i vari segni. Questi rapporti e differenze sono analizzabili attraverso:  dimensione sintagmatica (o lineare) per la quale un elemento di una frase è in rapporto con gli elementi che lo precedono e lo susseguono, questa ci mostra come la combinazione dei vari componenti sia realizzata in base a regole e restrizioni tipiche di una lingua. Io mangio una mela matura (SI) io mangio un mela maturo (NO) oppure una mangio mela matura (NO). La dimensione sintagmatica riguarda l’ordine e il modo di combinare i vari elementi di una frase.  dimensione paradigmatica (o associativa) che riguarda i rapporti tra ciascun segno linguistico della frase e i segni che potrebbero sostituirlo, ferme restando la regolarità grammaticale e l’accettabilità semantica dell’insieme. Questa ci mostra la grande riserva da cui possiamo attingere i singoli elementi della lingua. Io mangio una mela (acerba, matura, rossa, gialla…). I rapporti sintagmatici e paradigmatici esistono in ogni livello dell’analisi linguistica: nei piani fonologico, morfologico, sintattico e lessicale. VARIANTI E INVARIANTI Una qualsiasi parola, ad esempio guerra, può essere pronunciata in tanti modi diversi a seconda delle persone, ad esempio per chi ha la r moscia, secondo lo stato d’animo e la situazione. La parola guerra può assumere diverse sfumature di significato; sarà infatti considerata negativamente da coloro che hanno sofferto a causa di eventi bellici, e positivamente da coloro che hanno respinto un invasore e sono tornati liberi. Queste differenze non impediranno alla comunità linguistica italiana di identificare sempre la parola guerra come un significante e un significato determinati. Bisogna distinguere tra ciò che varia e ciò che non varia in una lingua: tra varianti e invarianti. Per definire varianti e invarianti Saussure ha dato un significato tecnico a due vocaboli francesi. Le invarianti fanno parte del dominio delle langue e le varianti, del dominio della parola. Langue: parte sociale del linguaggio (invariante) (collettivo e sociale), un insieme organizzato di segni che esiste virtualmente, e si pone come un sistema socialmente istituito che mette a disposizione del parlante i mezzi per esprimere il suo pensiero. La langue è qualcosa di costruito, non di dato. La langue: 1. è la parte sociale del linguaggio estrema dell’individuo che da solo non può crearla né modificarla 2. è un oggetto che si può studiare separatamente dalla parole 3. è di natura omogenea, a differenza del linguaggio che complessivamente è eterogeneo 4. è un oggetto di natura concreta, i segni linguistici non essendo astrazioni Parole: è la realizzazione individuale di un segno (variante), è l’aspetto individuale e creativo del linguaggio  è il prodotto dalle varianti che i parlanti producono ogni giorno. La parole è la realizzazione individuale di un segno: la langue è la parte sociale del linguaggio. Questa opposizione tra i due termini serve a spiegare il complesso funzionamento della lingua, lo strutturalismo però è stato attaccato su due fronti sotto questo punto di vista: 1. Chomsky, il fondatore della grammatica generativa, sostiene che lo strutturalismo analizzi sono le strutture linguistiche di superficie e non si concentri su quelle profonde (lo strutturalista fa un’analisi in costituenti, il generativista prevede un esame attraverso uno schema ad albero, dove vengono evidenziati nodi in cui si articola la frase stessa); 2. la sociolinguistica ha invece rimproverato lo strutturalismo di non aver considerato il fatto che il linguaggio verbale si realizza nella vita sociale nelle interazioni con gli altri -> sostenendo quindi che la lingua condiziona fattori sociali e al tempo stesso partecipa alla costruzione di fattori sociali. Langue e parole  significante e significato sono classi, cioè unità formali e astratte; mentre fonazioni e significazioni sono unità sostanziali, atti linguistici concreti, unici e irripetibili, sono singole esecuzioni della comunicazione.  la parole è detta anche dominio della sostanza o degli atti linguistici.  i significanti come classi di fonazioni e i significanti come classi si significazioni costituiscono il dominio della langue, o anche della forma o del sistema. SINCRONIA E DIACRONIA Sincronia: stato di una lingua considerato in sé, escludendo le fasi precedenti: per esempio l’italiano di oggi, del tempo di Dante… (nel suo funzionamento in un certo periodo storico (parlante comune)); Diacronia: è la considerazione della lingua attraverso il tempo: per esempio, il passaggio dal latino volgare ai volgari italiani, la creazione dei dittonghi nel fiorentino, l’ampliamento del lessico italiano nel 700… (insieme dei fenomeni di evoluzione nel tempo riguardanti una data lingua (studioso della lingua)). Saussure sostiene che l’opposizione in questi due termini distingue due ordini di fenomeni parlante comune ha la competenza sincronica della lingua, il linguista conosce anche il passato della lingua e i fenomeni che caratterizzano la sua evoluzione. 2. LA FONOLOGIA FONETICA E FONOLOGIA Fonologia e fonetica sono due materie che hanno lo stesso oggetto di studio, ma la studiano in modo diverso Fonetica -> è lo studio concreto delle proprietà fisiche (fonetica acustica) e fisiologiche (fonetica percettiva, articolatoria) dei suoni del linguaggio. Descrive, classifica e fornisce la trascrizione dei suoni prodotti dall’uomo, foni, quando parla, senza tener conto della loro capacità di distinguere parole di diverso significato. Fonologia -> studia i suoni presenti nelle lingue umane in rapporto alla loro funzione distintiva. Questi suoni con potere distintivo sono detti fonemi i quali sono entità astratte, non realizzazioni concrete come sono i foni. La fonologia considera queste entità nei loro tratti distintivi, gli unici importanti per distinguere le parole tra loro; è la diversità di un fonema che ci permette di distinguere fino da vino. I fonemi sono rappresentati nella scrittura per mezzo di particolari segni grafici o grafemi. L'ortografia è il modo corretto di scrivere le parole in una determinata lingua. Vi sono poi norme relative all'uso della punteggiatura, sono i segni paragrafematici, i quali aiutano a rendere chiaro il messaggio e ne avvalgono la ricezione. Si noti che uno stesso fono può essere reso con grafemi diversi nelle varie lingue, nelle quali variano anche i criteri della punteggiatura. Quando noi parliamo utilizziamo una funzione del nostro corpo che è quella della respirazione, funziona che esce l’aria dai polmoni, attraversa la faringe e ad un certo punto incontra le corde vocali, dopodiché l’aria arriva all’ugola (funzione: scambio, cioè se si alza, l’aria va nella bocca, se si abbassa, l’aria passa anche nel naso), dopodiché si arriva nella bocca dove c’è la lingua. Quando noi parliamo uno degli organi che usiamo di più è proprio la lingua. Produciamo dei suoni che chiameremo fonemi o foni, i foni sono dei suoni, se questi suoni sono visti dal punto di vista della lingua li chiameremo fonemi. FONI E FONEMI Fono  È la realizzazione di un qualunque suono del linguaggio. Nella trascrizione dei foni si usano le parentesi quadrate [], Mentre i fonemi vengono indicate tra barre oblique //. Fonemi  Si identificano mediante la prova di commutazione. Allo scambio di fonemi può corrispondere l'annullamento del significato, oppure un mutamento di significato; care, dare fare mare, pare rare, sono parole italiane che hanno significati diversi. La prova di commutazione ci dice che /k/, /d/, /f/, /m/, /p/, /r/ hanno valore distintivo sono fonemi italiani. I fonemi sono modelli astratti che presiedono all’articolazione dei suoni (foni), che sono diversi ad ogni occorrenza. Il fonema è l’elemento base del significante e quindi non può essere segmentato ulteriormente, e serve a distinguere due parole.  In una lingua i fonemi si identificano se mediante la prova di commutazione si ottengono parole esistenti in quella lingua. Il linguaggio umano e discreto: il livello fonologico è costituito di unità minime distinte da un intervallo nel quale non si possono inserire altre unità. Le unità minime della fonologia sono i fonemi. Le parole fino e vino si distinguono soltanto grazie all'alternarsi dei due suoni /f/ e /v/, ma chi ascolta percepirà o l'uno o l'altro fonema, non qualcosa di intermedio. Coppia minima  due parole che differiscono tra loro soltanto per un fonema (care-dare). Un qualsiasi fono ha lo statuto di fonema di una determinata lingua, se con esso si riesce a formare almeno una coppia minima. La prova attraverso la quale si individuano i diversi fonemi attraverso l’individuazione delle coppie minimi è detta prova di commutazione. Ogni lingua ha il proprio sistema di fonemi e può essere anche molto diverso da quello di altre lingue. VARIANTI COMBINATORIE E VARIANTI LIBERE Le possibili realizzazioni di uno stesso fonema sono molteplici e variano con il variare dell'età, del sesso, delle abitudini acquisite, delle sue condizioni fisiche, del suo stato d'animo; non consideriamo la coloritura che i fonemi acquistano a seconda della regione di provenienza del parlante. Tanti foni realizzano uno stesso fonema e tuttavia le diverse realizzazioni fonetiche di Casa esprimono lo stesso significato. Non va trascurato l'influsso esercitato su un suono del linguaggio dai suoni vicini precedenti o seguenti. Quella di vento è infatti una n dentale, mentre quella di vengo è una n velare. Perché spostiamo la lingua se le consonanti che vogliamo pronunciare, sono le stesse? Lo facciamo perché ci avvantaggiamo, ci poniamo la lingua in modo da prepararci già a pronunciare il suono successivo. Non abbiamo però a che fare, in questo caso, con due fonemi distinti, ma con dei foni, perché nella lingua italiana non esiste alcuna coppia di parole che si distingua solo per avere, l’una, una n dentale, l’altra, una n velare, essendo uguali tutti gli altri fonemi. Ciò accade invece in inglese. Questi suoni non hanno valore distintivo, ma sono allofoni di un medesimo fonema. Più precisamente si tratta di varianti combinatori o di posizione determinate dal contesto sintagmatico. Le varianti combinatorie sono condizionate dal contesto fonico e non dipendono dal parlante. Quando due suoni della stessa lingua compaiono nelle medesime posizioni e i possono scambiare fra loro senza causare variazioni di significato della parola, questi due suoni sono soltanto varianti foniche facoltative di u univo fonema (allofoni). Oltre alle varianti combinatoria, consideriamo le varianti libere: Si tratta di realizzazioni fonetiche individuali dovute a particolari abitudini o a scelte dei singoli parlanti o a difetti di pronuncia. È questo il caso della R uvulare in italiano, in quanto se sostituiamo la r con una r uvulare in ramo, non otterremo una parola di significato diverso. Anche le varianti libere, al pari delle varianti combinatorie, non costituiscono unità distintive (fonemi). I FONEMI DELL’ITALIANO Nell’italiano come in quasi tutte le lingue del mondo, i suoni linguistici utilizzano l'aria solo nella fase di espirazione. L'aria uscita dai polmoni si incanala nella trachea e passa quindi nella laringe, dove incontra un primo ostacolo, le corde vocali che possono trovarsi in due diverse posizioni:  Posizione aperta: l'aria passa attraverso la glottide che è la zona libera compresa tra le corde vocali, senza farle vibrare. Si produce così una consonante sorda, come [p], [t], [k].  posizione accostata: le corde vocali per l'azione meccanica dell'aria in uscita, entrano in vibrazione producendo un'onda sonora. Hanno origine in questo modo le consonanti sonore [b], [d], [g] e tutte le vocali. Dopo aver superato le corde vocali, l'aria incontra il velo palatino. Se il velo palatino si solleva e si appoggia alla parte posteriore della faringe, chiudendo così l'accesso alla cavità nasale, l'aria uscirà dalla bocca; avremo in questo caso un suono orale. Se il velo palatino è abbassato e l'aria penetra anche nella cavità nasale, avremo un suono nasale. La differenza tra consonanti sorde e sonore, orali e nasali è fondamentale perché permette di distinguere fonemi che altrimenti risulterebbero identici: [p], [t], [k] si distinguono rispettivamente da [b], [d], [g]. Solo perché i primi sono sordi, i secondi sonori. Allo stesso modo [d] e [b], si distinguono da [n] e [m], solo perché i primi sono orali, i secondo nasali. Quando abbiamo il raffreddore, non essendo in grado di articolare perfettamente i suoni nasali, tendiamo a pronunciare babba invece di mamma. Per questo si dice che sordità e sonorità, oralità e nasalità sono tratti distintivi dei fonemi dell'italiano. LE VOCALI I suoni linguistici si distinguono in vocali se l'aria può uscire dalla cavità orale o dalla cavità orali e nasali insieme, senza che si frapponga al suo passaggio alcun ostacolo; e consonanti se invece l'aria incontra un qualsiasi tipo di ostacolo, in un qualsivoglia punto del canale articolatorio. I suoni vocali dell'italiano sono 7, in posizione tonica (cioè accentata), e 5 in posizione atona (5 sono i grafemi che rappresentano tutte le vocali). A seconda della posizione che assume la lingua al momento dell'articolazione, le chiamate entrambe liquide, con un termine tradizionale usato già dai grammatici antichi; considerate individualmente, sono indicate con i nomi di vibrante e laterale. Le consonanti /p/, /b/, /m/, /t/, /d/, /n/, /k/, /g/, /f/, /v/, /s/, /r/, /l/, quando si trovano tra due vocali, cioè in posizione intervocalica, possono realizzarsi come tenui (dette anche scempie) oppure come intense (dette anche doppie): fato/fatto; camino/cammino. In italiano cinque consonanti sono pronunciate sempre intense in posizione intervocalica; sono le palatali /ʎ/, /ɲ/, /ʃ/ e le affricate alveolari /ts/ e /dz/. Di contro, la sibilante sonora /z/ è sempre tenue. SEMIVOCALI, SEMICONSONANTI E DITTONGHI Oltre alle vocali e alle consonanti in italiano abbiamo due approssimanti dette a seconda dei casi semivocali e semiconsonanti.  approssimanti: suoni linguistici che dal punto di vista fonetico si impostano come le vocali, ma hanno una durata più breve: infatti l’articolazione passa immediatamente alla vocale seguente. Es. io suono /w/ in uovo, il suono /j/ in ieri. Si ha, nel pronunciare un’approssimante, la sensazione di incompletezza: come se il suono in questione fosse intermedio tra una vocale e una consonante. Le approssimanti si distinguono in semivocali e semiconsonanti, la differenza tra queste ultime due sta in un fatto di posizione e di durata. Semiconsonanti  i foni, che, pur essendo impostati nell’apparato fonatorio come le rispettive vocali /i/ e /u/, hanno una durata decisamente più breve, a tal punto da non poter essere articolata da soli, perché necessitano della vocale tonica o atona successiva. La semiconsonante e la vocale che segue formano un dittongo, che viene chiamato ascendente. Secondo le regole della divisione in sillabe, tale dittongo non può essere in alcun modo scisso: ieri, sarà diviso in ie- ri. Infatti, il suono completo di questo gruppo non può essere rappresentato dalla sola semiconsonante, che, in un certo senso, necessita di essere completata dal fono successivo (sempre e solo vocalico). Esempi di parole con le semiconsonanti: iato, piadina, piovere, mietere, aiutare, fiutare Semivocali ricorrono nella posizione di margine sillabico anziché in quella di nucleo; esempi di j: Diana, aio; di w: eseguire, causa. Definiamo semivocale, una /j/ e /w/, quando seguono una vocale atona o tonica, formando con essa un dittongo discendente. Rispetto alle semiconsonanti, la durata è più lunga, molto simile a quello delle vocali, tanto che in alcuni contesti appare difficile distinguere tra semivocali e vocali piene. Esempi di parole con le semivocali: neurologo, flauto, farai, lei, poi. Presentano una semivocale dopo una vocale atona (come nel caso di neurologo, dove e non è accentato) o tonica (come in flauto, farai, lei e poi, dove tutte le vocali che precedono portano l’accento). Per quanto riguarda la divisione in sillabe, vale quanto detto per le semiconsonanti. Le approssimanti non si articolano mai da sole, ma necessitano sempre di una vocale, alla quale si appoggiano e con la quale formano un dittongo: unità formate da una vocale in funzione di centro di sonorità della sillaba e da una i oppure una u con funzione consonantica, vale a dire di margine della sillaba - Dittonghi ascendenti: i dittonghi ia, iè, ié, iò, iù, uà, uè, ué, uò, uì, nei quali la semiconsonante precede la vocale, si chiamano così perché in essi la sonorità aumenta passando dal primo al secondo elemento. Il primo elemento dei dittonghi ascendenti è chiamato semiconsonante. - Dittonghi discendenti: quando è la vocale a precedere la i o la u semivocali come in ài, èi, éi, òi, ùi, in cui la sonorità diminuisce passando dal primo al secondo elemento. Il secondo elemento dei dittonghi discendenti è chiamato semivocale. Si noti che nelle vocali che terminano in vocale accentata+i: amai, perdei, noi, voi, la -i è vocale sillabica se è alla fine della frase: solo Isa amai; la -i invece è asillabica, e cioè il secondo elemento di un dittongo discendente, se si trova al centro di una frase: solo Isa amai nella mia vita. Trittongo  due semiconsonanti che si legano ad una vocale Lo iato è invece l’incontro di due vocali che non formano un dittongo perché appartengono a sillabe diverse: mio=mi-o. Nelle parole prefissate in cui è ancora percepito il rapporto tra prefisso e base si ha lo iato: riamare= ri- amare. Dittonghi mobili  il sostantivo corrispondente di buono è bontà e non buontà. Questo perché in buono, uomo e viene l’accento cade proprio sulla radice della parola producendo per un fenomeno di fonetica storica, il dittongo, invece in bontà, omino e veniva, l’accento si sposta sulla desinenza e la vocale della radice rimane integra. I dittonghi mobili appaiono: - in alcuni verbi, nei quali le forme accentate sulla radice (dette rizotoniche) si oppongono a quelle non accentate sulla radice (dette rizoatone): muòre, morìvano; - nei derivati di una base dittongata: ruota, rotèlla; - nelle forme che hanno la stessa radice di verbi accentati sul dittongo: muovere, moviménto. Alcuni esempi di riduzione di mobilità: - le parole composte e gli stessi avverbi in -mente conservavano il dittongo: buongiorno, buongustaio, lievemente, lietamente; - i verbi nuotare, vuotare, abbuonare “togliere un debito”, hanno in tutta la coniugazione uo: nuotiamo, vuotiamo, abbuoniamo, questa estensione nel dittongo evita la sovrapposizione con le forme corrispondenti di notare, votare, abbonare “stipulare un abbonamento”, notiamo, votiamo, abboniamo; con altri verbi si hanno oscillazioni tra forme con dittongo sovraesteso e forme senza dittongo: suona/soniamo (o suoniamo), muove/moveva (o muoveva); - l’influenza di alcuni vocaboli molto comuni ha fatto mantenere il dittongo anche nei derivati: fieno, fienile; fiero, fierezza; pieno, pienezza; piede, piedistallo, i superlativi novissimo, bonissimo sono stati sostituiti con nuovissimo, buonissimo; - l’influsso dell’analogia si manifesta con la presenza del dittongo ie in luogo di e nel campo dei verbi: presiendendo, risiedette, mieteva, allieterò, non presedendo, risedette, meteva, alleterò. SISTEMI DI TRASCRIZIONE Le scritture alfabetiche naturali non rappresentano mai fedelmente i suoni di una lingua, e tale sfasatura è resa ancora più evidente dall’evoluzione della lingua parlata rispetto a quella scritta. Alcuni sistemi alfabetici (spagnolo, polacco, ungherese, finnico, italiano) rappresentano abbastanza fedelmente la lingua cui si riferiscono. Altri, come inglese e francese, presentano una divaricazione molto evidente tra alfabeto e suoni. In inglese uno stesso fonema, come la i lunga /i/, può essere rappresentato da grafie diverse: green, mean, key, people… I sistemi di trascrizione fonetica perfezionano il principio della scrittura alfabetica: tra suoni e simboli c’è un rapporto 1:1. A ogni simbolo corrisponde un suono. L’International Phonetic Alphabet (IPA) è il sistema di trascrizione fonetica più usato. Nelle società evolute l’uomo ha elaborato vari sistemi grafici per rappresentare i suoni e per fissare e tramandare i messaggi orali. I sistemi di trascrizione fonetica perfezionano il principio della scrittura alfabetica. L’ALFABETO I suoni linguistici sono rappresentati per mezzo di segni grafici o grafemi. Il grafema è la più piccola unità distintiva del sistema di scrittura di una lingua. Un grafema è una classe di realizzazioni: e un'astrazione rispetto a un grafo che è una forma concreta, la realizzazione effettiva e particolare di un grafema. Lo studio scientifico dei grafemi è compiuto dalla grafematica, invece all’ambito della didattica, e quindi ha finalità prescrittive, l’ortografia, è la resa grafica di una determinata lingua secondo un modello di riferimento. L'insieme dei segni grafici o grafemi con i quali si rappresentano i suoni di una lingua, costituisce un sistema di scrittura: per le lingue che hanno scritture alfabetiche si parla di alfabeto, vocabolo che deriva dalle prime due lettere dell’alfabeto greco: alfa e beta, corrispondenti alle nostre a e b. La scrittura fonetica deve essere distinta da quella logografica e da quella pittografica, nelle quali ciascun segno (con un diverso livello di astrazione) è simbolo di una cosa, di un’azione, di un’idea. Il mondo antico ha conosciuto diversi sistemi di scrittura (ideografici, sillabici, alfabetici). In generale si può parlare di un passaggio dalla prima fase ideografica (attraverso sistemi misti nei quali accanto agli ideogrammi si trovano segni con valore fonetico, come nella scrittura geroglifica degli antichi Egizi), a sistemi sillabici dove ciascun segno rappresenta non un solo suono ma un'intera sillaba (come accade in alcune applicazioni della scrittura cuneiforme mesopotamica). Da un sistema alfabetico puro come quello greco arcaico, discende l'alfabeto latino. GRAFEMI O FONEMI In teoria ci dovrebbe essere una corrispondenza perfetta tra le unità del sistema grafico e le unità del sistema fonetico, tra grafemi e fonemi: ogni segno dovrebbe rappresentare costantemente un solo fono e ogni fono dovrebbe essere costantemente rappresentato da un solo segno, ma le cose non stanno così. In italiano non esiste una corrispondenza tra unità grafiche e unità fonetiche. Le frequenti incoerenze tra pronuncia e scrittura si spiegano con il fatto che la lingua parlata si evolve più velocemente di quella scritta. Il nostro alfabeto è essenzialmente quello latino, anche se nella nostra lingua sono nati nuovi suoni, per i quali l’alfabeto latino non aveva un simbolo. Le maggiori incertezze del nostro alfabeto riguardano quei grafemi, come e, o, c, g, s, z, ciascuno dei quali rappresenta due suoni diversi, e quegli insiemi di due o tre grafemi (detti diagrammi o trigrammi): ci, gi, ch, gh, sc, sci, gl, gli, gn, che servono per rappresentare suoni originariamente estranei al latino. Diagramma -> è l’insieme di due grafemi indicante un unico fonema. Nella penisola convivono numerose varietà di pronunce, la pronuncia standard, il fiorentino modificato, è insegnato nella scuola. Nelle grammatiche e nei dizionari si fa riferimento alla pronuncia Fiorentina, depurata di alcuni tratti marcatamente locali. LA SILLABA Il nucleo sillabico è formato da una vocale, perché le vocali occupano il primo posto nella scala di sonorità; difficilmente è formato da un’occlusiva o da una affricata sorda, perché entrambe occupano l’ultimo posto di tale scala. La sillaba è un’unità di pronuncia, che è in genere più estesa di un suono e più piccola di una parola. Il nucleo è la parte fondamentale della sillaba; ciò che precede il nucleo è l’attacco, ciò che lo segue è la coda; il nucleo e la cosa formano la rima. Non è facile dare una definizione scientifica di sillaba. La si può considerare una struttura elementare, che in una determinata lingua regola ogni raggruppamento di fonemi; la struttura sillabica varia da lingua a lingua. La sillaba è stata di volta in volta definita in base a diversi criteri:  Dal punto di vista articolatorio: a ogni sillaba corrisponde un incremento della pressione dell’aria;  Dal punto di vista acustico: si nota che in una sequenza di suoni, alcuni sono più sonori e che ciascun culmine di sonorità corrisponde a un centro di sillaba, rappresentato per l’italiano da una vocale. In altre lingue il centro sillabico può essere rappresentato anche da una sonorante. Le sillabe che terminano con una vocale sono dette aperte o libere, te-le-fo-no; quelle che terminano con una consonante sono dette chiuse o implicate, im-por-tan-za. Talvolta si verifica un contrasto tra la sillabazione grafica e la sillabazione fonetica. Le parole composte di una sola sillaba sono dette monosillabi, le altre sono dette polisillabi (distinguibili in bisillabi, trisillabi, quadrisillabi). L’ACCENTO Due parole possono avere significati diversi anche se possiedono gli stessi fonemi, ma si differenziano per la posizione dell’accento, che cade su due diverse sillabe. Possiamo dire che l’accento si sovrappone in un certo senso, al segmento fonico. Per questo è considerato un tratto soprasegmentale. È detto soprasegmentale quell’elemento linguistico che è in rapporto con altri elementi della frase pronunciata, non in successione lineare, ma in simultaneità con uno o più di essi. I tratti soprasegmentali più importanti sono:  l’accento: che riguarda la parola  l’intonazione: che riguarda l’enunciato In alcune lingue l’accento può essere mobile funzione distintiva: distingue alcune parole che hanno gli stessi fonemi, posti nello stesso ordine. In altre lingue l’accento ha una posizione fissa, segnala il confine delle parole funzione demarcativa L’intonazione serve a distinguere enunciati di diverso significato. Esistono anche tratti paralinguistici (volume della voce, velocità dell’eloquio, pause, silenzio) i quali contribuiscono, in vario modo e in diverse circostanze, a fondere il significato degli enunciati. L’accento svolge una funzione culminativa, che consiste nel mettere in risalto una sillaba all’interno della parola o della frase. palatale /ʃ/ davanti ad a, o, u: sciame, sciocco, asciugare. Gli rappresenta la laterale palatale davanti ad a, e, o, u: maglia, maglietta, figlio, fogliuto. LA PRONUNCIA DELL’ITALIANO (1): Finora abbiamo dato per scontato che esista una sola pronuncia dell’italiano. Ma in realtà quasi nessun parlante è in grado di sottrarsi alla pronuncia della propria zona d’origine, sia nel modo di articolare i singoli suoni, sia nell’intonazione. Ciò non vuol dire che non esista un italiano modello, il quale va identificato con quello di un parlante che lascia capire il più tardi possibile la propria provenienza regionale e sociale. LA PRONUNCIA DELL’ITALIANO (2): È indubbio che una pronuncia normativa esista e debba essere insegnata, anche se vanno tenuti presente due fattori: la sanzione sociale che colpisce le pronunce regionali è in genere modesta e decisamente meno marcata della censura ortografica. Alcune pronunce divergenti dalla norma sono più accettate di altre, perché sono diffuse in aree molto vaste, perché appartengono a varietà di prestigio (come quella settentrionale). LA PRONUNCIA DELL’ITALIANO (3): Per praticità, riassumiamo ora le norme di pronuncia dell’italiano che abbiamo giù visto parlando di grafia e aggiungiamone altre. LA PROPRUNCIA DELL’ITALIANO: VOCALI APERTE E CHIUSE (1): La e si pronuncia aperta nelle descrizioni verbali endo (gerundio), ente (participio), ei, ebbe, ebbero (condizionale), ettero (passato remoto); del dittongo ie (piede); nei suffissi numerativi enne, ennio, esimo (ventesimo); nel suffisso aggettivale estre (terrestre); nei suffissi diminutivi ello, ella (poverello); nelle parole terminanti in enza (sentenza). VOCALI APERTE E CHIUSE (2): La e si pronuncia chiusa nelle restanti desinenze verbali (canteremmo, perderono), negli avverbi in mente e nei sostantivi terminanti in mento (serenamente); nei suffissi sostantivali essa, ezza, esimo (dottoressa); nei suffissi diminutivi etto (clarinetto); nelle parole terminanti in ese (piemontese). VOCALI APERTE E CHIUSE (3): La o si pronuncia aperta in tutte le parole ossitone (però), nel dittongo uo (fuoco), in parole prparossitone composte da elementi di origine dotta, almeno uno dei quali dev’essere di origine greca (termostato), nei suffissi uolo, otto. VOCALI APERTE E CHIUSE (4): La o si pronuncia chiusa nei suffissi sostantivali zione, sione, ore (dottore), nel suffisso accrescitivo one, ona (bambinone), nel suffisso aggettivale oso (noioso), nel suffisso sostantivale e aggettivale oio (corridoio). LA PRONUNCIA DELL’ITALIANO: INTENSITÁ DELLE CONSONANTI: 15 consonanti possono essere sia tenui, sia intense: p, b, m, t, d, n, k, g, f, v, s, r, l, tʃ, d3; 5 consonanti si pronunciano sempre intense in posizione intervocalica ʎʎ, ɲɲ, ʃʃ, tts, ddz, ciò accade anche all’interno di una frase quando la parola precedente termia in vocale; le affricate alveolari sono sempre intenze, anche se la grafia non lo registra: (nazione, azoto); la sibilante sonora z può essere solo tenue. LA PRONUNCIA DELL’ITALIANO: SIBILANTI: In posizione iniziale la s è sorda davanti a vocale o consonante sorda (sei, spingere, scontro); è sonora davanti alle consonanti sonore (sbattere, smettere, sgattaiolare); in posizione intervocalica è sonora tranne in parole quali casa, cosa, caso, peso, nei prefissati e nei composti con basi che iniziano per s: risalire, asettico; nei suffissi: ese, eso, oso. LA PRONUNCIA DELL’ITALIANO: AFRICATE ALVEOLARI: La z si pronuncia sorda: in quasi tutte le sequenze z + i + vocale: zio, razzie, ad eccezione di azienda e delle forme derivate da una base con dz: romanziere; dopo l: alzare, milza; nei suffissi anza, enza, ozza, speranza, bellezza. Si pronuncia sonora quando la z è scritta scempia fra due vocali: azoto, bazar; nei suffissi izzare, izzazione, idealizzare. 3. LA MORFOLOGIA La morfologia non è come fa pensare la sua etimologia, lo studio della forma delle parole, bensì lo studio dei meccanismi che regolano la struttura interna delle parole. LA FORMA DELLE PAROLE La morfologia ha come oggetto di studio la struttura delle parole ovvero l’analisi dei modi in cui gli elementi minimi dotati di significato (morfemi -> l’unità minima di prima articolazione dotata di significato) si combinano tra loro per formare le varie parole di una lingua. La morfologia si occupa in particolare della forma delle parole, dei loro usi e costruzioni. I confini tra morfologia e sintassi non sono ben definiti, infatti è difficile trattare problemi di natura sintattica escludendo la morfologia e viceversa. La morfologia può essere studiata sia in prospettiva sincronica e diacronica, quella sincronica si divide in due settori:  Morfologia flessiva riguarda la flessione dei nomi, aggettivi e verbi mediante l’utilizzo di morfemi flessivi, detti anche desinenze (es. a-e-i-o -> cugina, cugino…). Una categoria flessiva è una classe di morfemi flessivi associati ad una variazione sistematica di significato (es. tempo -> può assumere i valori di presente, imperfetto, futuro ecc..). L’insieme di categorie delle quali una parola è marcata costituisce il pacchetto morfemico (nel caso del nome e dell’aggettivo è costituito dal genere e dal numero).  Morfologia derivativa  o formazione delle parole, è il complesso di regole e di trasformazioni per mezzo delle quali si passa da parole di base a parole derivate. Questa trasformazione si ha grazie all’aggiunta di morfemi derivativi, o affissi, e attraverso l’unione di due o più parole. Gli affissi si dividono in suffissi (popolo -> popolare) e prefissi (fedele -> infedele); entrambi sono portatori di significato. Es: -Cas- (base) -erecci (morfema derivativo). -o -> morfema flessivo  Disorganizzato- > -dis è il morfema derivativo.  Morfologia lessicale ha un significato autonomo, appartiene al lessico di una lingua e nella loro forma base sono registrati nel vocabolario -> laboratorio, lavoratore, lavori…base -> lavoro. Mentre i morfemi derivativi e flessivi appartengono alla grammatica. Questi sono dei sistemi aperti, possiamo sempre creare parole nuove, al contrario dei quelli grammaticali che sono limitati. LE PARTI DEL DISCORSO In italiano, come nella maggior parte delle lingue parlate in Europa, si distinguono 9 parti del discorso: nomi, articoli, aggettivi, verbi, avverbi, pronomi, preposizioni, congiunzioni e interiezioni. Questa classificazione risale ad Aristotele ma, con il progredire degli studi, sono emersi i suoi limiti: CONTRO -> È una classificazione fondata su criteri non omogenei, non è estensibile a tutte le lingue del mondo, perché non ha un carattere universale, mette sullo stesso piano cose diverse (parole variabili: come nomi e aggettivi/invariabili: come preposizioni e congiunzioni; criteri formali/semantici; classi aperte: le parole lessicali, capaci di crescere indefinitamente, a causa dei fenomeni della derivazione e del prestito/ classi chiuse: preposizioni, congiunzioni); PRO -> questa classificazione individua con sufficiente chiarezza le differenze tra le parti del discorso, rappresenta un utile avvio all’analisi del campo. Nello svolgimento dell’analisi si adottano sia criteri distribuzionali (ognuna delle parti del discorso occupa determinate posizioni del periodo) sia criteri funzionali (il medesimo elemento può svolgere più funzioni). Le parti del discorso possono essere individuate in base tre criteri: 1. Nozionale -> (nome) si fonda sull’analisi e interpretazione di oggetti reali e concettuali. I nomi propri indicano un individuo o un gruppo di individui; i nomi comuni indicano sia individui che classi di individui; si distinguono i nomi astratti da quelli concreti, quelli numerabili da quelli di massa; 2. Morfologica -> non è sempre in grado di distinguere i nomi dagli aggettivi e dalle altre parti del discorso, se queste sono state nominalizzate. È adatta però a distinguere i nomi costruiti (solare, muraglia) da quelli non costruiti (muro, sole); i nomi composti (asciugamano) e i nomi troncati (prof, app); 3. Sintattico-funzionale -> evidenzia il fatto che i nomi fungono da argomenti, gli aggettivi da attributi. Il nome è la parte del discorso che costituisce la testa di un sintagma con funzione di argomento, l’aggettivo è la parte del discorso che costituisce la testa di un sintagma con la funzione di attributo. Dal punto di vista distribuzionale un nome può essere accompagnato da un articolo e d un aggettivo (la distribuzione indica i contesti linguistici in cui un elemento può ricorrere). LA MORFOLOGIA FLESSIVA È il settore stabile della morfologia, contiene paradigmi chiusi e categorie nozionali codificate secondo schemi rigidi: es. il plurale dei nomi, le coniugazioni dei verbi… Di questi fenomeni si occupano in particolare le grammatiche normative. Con categoria flessiva si definisce una classe di morfemi flessivi che appare associata a una variazione sistematica di significato (es. per la categoria tempo abbiamo i valori di presente, futuro, imperfetto…) Nelle parole c’è una parte che contiene informazione lessicale (detta radice) e una parte che contiene informazione grammaticale (detta desinenza). La radice rimane sempre uguale, mentre la desinenza cambia al modificarsi della categoria grammaticale. IL NOME La flessione è il processo grazie al quale si distinguono le parole che hanno forme diverse della stessa unità lessicale (la flessione nei nomi riguarda il numero singolare/plurale): cugin-o, cugin-a (flessione nominale); bell-o, bell-a (flessione aggettivale); am-o, am-i (flessione verbale). Queste forme diverse rispondono a regole flessive, le quali rientrano nel campo della morfologia flessiva. Da una parte abbiamo i morfemi flessivi (o-i-a-e), dall’altra i morfemi derivativi (zione-aio-pre). I morfemi grammaticali (flessionali e derivazionali) costituiscono classi chiuse, i morfemi lessicali costituiscono classi aperte. Si possono inventare nuove parole, difficilmente desinenze e affissi nuovi. Nell’ambito della morfologia, ritroviamo anche un’area di morfemi (articoli, pronomi), che hanno forme e usi variabili. È questa la componente analitica della morfologia. Il tipo morfologico fusivo del latino è stato sostituito in gran parte con il tipo analitico dell’italiano, lingua che tuttavia conserva vari caratteri fusivi: 1. le parole sono formate da una base e da almeno un suffisso flessivo (che esprime l’accordo); 2. gli affissi possono cumulare più funzioni (per esempio -o: maschile + singolare); 3. i valori di genere, numero, tempo, che sono propri di nomi, aggettivi e verbi si raggruppano nelle classi flessive. I due tratti “maschile-singolare” sono indicati nella maggior parte dei casi dalla desinenza -o, ma lo stesso valore assumono la desinenza -e, in portiere, barbiere, e la desinenza -a in autista, artista. Il valore di una desinenza nominale dipende dalla classe flessiva di cui da parte: la desinenza -e è tipica del femminile plurale (per esempio donne, mele), ma è propria anche del maschile singolare (monte), del femminile singolare (siepe) e di alcuni nomi della classe ambigenere (il cantante, la cantante). Una situazione analoga troviamo nella classe degli aggettivi, dove abbiamo bell-o, -a, -i, -e, ma fort-e (ambigenere), pari, fine (invariabili); inoltre si ricordi che alcuni sostantivi, locuzioni avverbiali, composti, possono essere usati come aggettivi: un discorso idiota/dei discorsi idioti; dei ragazzi perbene, dispositivi antifurto. EPICENI -> sono quei nomi che, pur indicando individui dei due generi, non subiscono alcuna variazione formale (la giraffa, la tigre). I nomi posseggono anche un genere (maschile / femminile), ma si tratta di una categoria inerente, che non comporta, almeno per gli inanimati, la possibilità di flessione (non posso creare il femminile di albero). In altre parole i nomi hanno (per la maggior parte) un paradigma flessivo a due caselle (singolare / plurale), mentre gli aggettivi hanno (per la maggior parte) un paradigma a quattro caselle Nei nomi inanimati l’assegnazione del genere è arbitraria (scarpe) A differenza di altre lingue, come l’inglese, il francese e lo spagnolo, in italiano la formazione del plurale non avviene mediante l’aggiunta di un morfema (dog → dog-s, chien → chien-s,perro → perro-s) ma attraverso la modificazione del morfema del singolare (can-e → can-i) Per quel che riguarda la formazione del plurale i nomi italiani si possono raggruppare in sei classi: La prima e la seconda classe sono produttive -> in genere quando si crea una nuova (neologismo) parola finisce in una di queste due classi La terza classe è quasi del tutto improduttiva e si arricchisce per lo più grazie a neoformazioni create coi suffissi terminanti in -e come -zione, -tore, -trice. Fra le eccezioni si segnala il neologismo drone La quarta classe non è una classe flessionale in senso stretto, ma un contenitore di tutti i nomi che per ragioni diverse sono privi di flessione. -> include anche le parole abbreviate -> foto di fotografia, bici… La sesta classe consta di pochi elementi. La sua residualità è testimoniata anche dalla relativa instabilità dei suoi componenti, alcuni dei quali nel parlato substandard sono attratti dalla prima classe (dito / diti, uovo / uovi), oppure hanno sviluppato accanto al plurale in -a uno in -i con diverso significato braccia / bracci; fondamenta / fondamenti) L’AGGETTIVO La classe degli aggettivi possiede le categorie del genere e del numero. La prima classe ha 4 forme (bello, bella, belli, belle), la seconda classe ne ha 2 (forte, forti). La classe degli invariabili, che all’origine possedeva soltanto pari e dispari, si è arricchita con i nomi dei colori convertiti in aggettivi e con elementi vari come ad esempio vini doc, prodotto extra. Possiamo distinguere aggettivi qualificativi (bello, gentile... con funzione predicativa: la risposta è esatta, avverbiale: l’auto procedeva lenta e attributiva: una casa bella) e determinativi (dimostrativi, numerali, indefiniti, interrogativi, esclamativi, possessivi). Questi ultimi invece, insieme agli articoli, sono degli specificatori  in quanto definiscono e quantificano. Gli aggettivi argomentali, di solito classificati tra gli aggettivi di relazione, derivano da un nome (luce solare), non ammettono la comparazione (ho notato un moto più sismico), non fungono da predicatori (la luce è solare), non sono preposti al nome (le solari radiazioni). Nei verbi parlare, prendere, sentire, distinguiamo: la radice (parl); la vocale tematica (che individua nell’infinito le tre coniugazioni: a); desinenze (che esprimono i modi, i tempi e le persone). Le forme accentate sulla radice si dicono forti o rizotoniche, le forme accentate sulla desinenza si dicono deboli o rizoatone. Le forme finite del verbo sono costruite aggiungendo direttamente alla radice il morfema di tempo/modo/aspetto del verbo integrato con la vocale tematica, il morfema di accordo col soggetto chiude la parola: cant-a-v-ano. La nostra lingua possiede numerose desinenze verbali, tutte facilmente individuabili. Le forme coincidenti in italiano sono poche e si distinguono mediante il pronome e/o il contesto: che io vada, che tu vada. Le congiunzioni dei verbi italiani hanno paradigmi non sempre omogenei. Tale caratteristica dipende da vari fattori:  alcuni verbi si formano da più di una base. Venire -> veng-o, venn-i, vien-i. Quando la base di un verbo termina con -s si parla di perfetti sigmatici (chiese, pose);  vi sono poi casi di suppletivismo, processo morfologico per il quale una forma sostituisce un’altra forma: in andare, sono presenti due forme: and- e vad-;  i verbi sovrabbondanti si dividono in due gruppi: quelli che differiscono solo nella forma: dimagrare-dimagrire, quelli che mutano congiunzione e significato: sfiorare (toccare appena), sfiorire (appassire). Altri verbi presentano alterazioni desinenziali dovute a diverse cause. Vi sono poi verbi che hanno un participio passato forte (assolto, rotto). In alcune forme verbali si è avuta la caduta della vocale tematica: sapere/saprò da saperò. Vi sono poi forme che si alternano per la presenza dell’affisso -isc-: inghiotto/inghiottisco, nutre/nutri- sce. Dei verbi parasintetici, formati con l’aggiunta simultanea di un suffisso e di un prefisso a una base (bottigli-a -> im-bottigli-are). Nell’italiano di oggi sono presenti numerosi verbi frasali, composti da un verbo di significato generico seguito da un avverbio specificante: andar dietro, andar su, buttar giù. Il significato dei verbi frasali non può essere previsto a partire dalla loro forma di base; buttar giù ha almeno tre significati: buttare qualcosa in basso, scrivere qualcosa frettolosamente e deprimere, affliggere. L’ACCORDO E LA REGGENZA Entrambi sono costitutivi della sintassi. L’accordo è il fenomeno per il quale la forma di una parola richiede la forma corrispondente di un’altra parola, posta nello stesso contesto sintagmatico -> il tavolo rosso: tavolo maschile singolare -> vuole rosso maschile singolare. L’italiano a differenza di altre lingue, richiede un accordo ripetuto più volte nella stessa frase -> fenomeno detto ridondanza -> I giovani studenti francesi sembravano contenti, il plurale viene utilizzato sei volte. La reggenza è una relazione tra verbo, o una preposizione, e il caso che entrambi richiedono. È soprattutto il verbo a richiedere una serie di categorie grammaticali e morfologiche specifiche. L’AVVERBIO L’avverbio è una classe di parole che modificano principalmente il verbo, secondo una definizione tradizionale, ma in realtà modificano anche l’aggettivo l’intera frase, inoltre gli avverbi sono ricorsivi (sta terribilmente male), possono anche essere coordinati tra loro (scappò improvvisamente e velocemente). Questa categoria grammaticale è eterogenea: distinguiamo avverbi lessicali (semplici qui, la, mai, bene e composti infatti, dappertutto), gli avverbi derivati con -mente (chiaramente), quelli derivati con -oni (ginocchioni). Si distinguono gli avverbi interni al predicato (avverbi di tempo, di luogo, di maniera) ed esterni al predicato. Gli avverbi che hanno funzione di collegare due frasi sono detti connettivi (quindi, dunque), quelli che esprimono un giudizio del locutore sull’enunciato sono detti: modali (probabilmente, certamente), valutativi (ovviamente) e enunciativi (francamente, onestamente). Si distinguono: gli avverbi specificatori (leggermente, specificamente), focalizzanti (perfino), circostanziali (di tempo e di luogo), frasali (francamente, probabilmente). La posizione dell’avverbio nella frase può contribuire a specificare la funzione e il valore. In italiano l’avverbio è collocato generalmente dopo il verbo e prima dell’aggettivo -> possono esserci dei casi in cui l’avverbio è preverbale o in posizione intermedia. Nella categoria degli avverbi rientrano anche le locuzioni avverbiali -> che spesso hanno un avverbio corrispondente (in genere-> generalmente, di solito-> solitamente) rientrano anche gli aggettivi con funzione avverbiale (correva veloce). PREPOSIZIONI, CONGIUNZIONI, INTERIEZIONI PREPOSIZIONI sono parole grammaticali di significato astratto e molto generico, caratterizzate da una combinatoria estesa e da una pluralità di effetti di senso. Oltre a introdurre sintagmi, si possono introdurre frasi con nucleo verbale: penso alle vacanze e a come mi divertirò. In vari casi il sintagma preposizionale può essere sostituito con un clitico: andrò in campagna domani: ci andrò. CONGIUNZIONI sono parole che congiungono due unità sintattiche. Distinguiamo tra congiunzioni semplici (e, ma, se) e congiunzioni composte (sebbene, eppure). Inoltre alcuni sintagmi possono fungere da congiunzioni (ad opera di, per mezzo di). Distinguiamo inoltre tra congiunzioni coordinanti (e, ma) e congiunzioni subordinanti (Mario è entrato quando io sono uscito). Tutte le congiunzioni producono reazioni semantiche: coordinative, avversative, disgiuntive, correlative, causali, temporali. Le congiunzioni sono invariabili. INTERIEZIONI servono a rappresentare emozioni. Non hanno rapporti con le altre parti del discorso, compaiono perlopiù nel parlato (soprattutto informale), dove sono accompagnate da profili intonativi particolari. Nello scritto invece mimano il parlato e si dividono in proprie (prive di significato lessicale: ah!, eh!) e improprie (singole voci lessicali assunte con il valore olofrastico: bravo!, perfetto!, zitto!). LA MORFOLOGIA DERIVATIVA (FORMAZIONE DELLE PAROLE) È il settore della morfologia che interagisce in modo diretto con il lessico, andando a contribuire alla creazione di neologismi: quindi all’accrescimento della lingua -> sostanzialmente ci andiamo ad occupare della formazione delle parole. La formazione delle parole è il meccanismo che regola la produzione delle parole, partendo da basi già esistenti nella lingua. In particolar modo andiamo a parlare della suffissazione (aggiunta di suffissi alla base lessicale), della prefissazione (aggiunta di prefissi alla base lessicale) e della composizione (unione di due o più parole al fine di formarne altre nuove). Oltre ai prefissi e ai suffissi ci sono anche gli interfissi: elementi che non hanno valore morfologico, ma che vengono usati comunque nella formazione di alcuni derivati (si dice libriCCIno e non librino). Prefissi, suffissi e interfissi devono essere necessariamente legati alla base lessicale. La formazione delle parole però non consiste esclusivamente nella pura e semplice addizione di prefissi, suffissi o nella pure e semplice combinazione di parole -> è necessario che il parlante riconosca il rapporto di significato che lega la nuova parola alla sua base. Tutti riconosceranno in parole come scaffalatura e librone un collegamento con scaffale e libro, ma nessuno penserà che il vocabolo struttura sia collegato a strutto. Il rapporto semantico è fondamentale nella formazione delle parole, un campo che si divide in tre settori: suffissazione, prefissazione e la composizione. Noi studieremo solo la formazione dei formati vivi delle parole, ovvero quelli analizzabili e scomponibili immediatamente dal parlante. Sono detti “vivi” perché si fondano su un procedimento vivo di produzione; tutti coloro che conoscono la nostra lingua sanno collegare lavorazione e lavoratore a lavorare; antifurto a furto, lavastoviglie a lavare e stoviglie. Oltre a quello del parlante esiste un altro punto di vista: quello dello storico della lingua, l’intervento del quale è necessario per spiegare i formati fossili. Si tratta di suffissati, prefissati e composti formati nel passato e modificatisi nel tempo, tanto che oggi riconosciamo a stento la loro origine; solo con la ricerca etimologica possiamo analizzarli. La differenza tra formati vivi e formati fossili appare chiaramente dal loro confronto. RESTRIZIONI  tutti quegli ambiti che consentono o meno l’applicazione di una regola di formazione delle parole. Il concetto di restrizione è strettamente connesso a quello di produttività: maggiori sono le restrizioni che operano su una determinata regola di formazione delle parole; minori saranno i derivati che quella regola riuscirà a produrre. Le restrizioni possono essere di tipo FONOLOGICO (il suffisso -ità predilige le basi che finiscono con -ale, -ile e -ivo: rivale-rivalità, senile-senilità, passivo-passività. Il suffisso -etto non si aggiunge a basi che hanno come ultima consonante fata-fatetta), MORFOLOGICO (riguardano la sensibilità di alcuni affissi nei confronti di alcuni morfemi. Il suffisso -ia predilige basi che terminano con alcuni secondi elementi di origine greca, quali -filo e -latra (idolatra- idolaria), SINTATTICO (riguardano la sensibilità di alcuni affissi alla categoria sintattica delle basi, ad esempio il suffisso -bile richiede esclusivamente basi transitive: abbattere-abbattibile) O SEMANTICO (il suffisso -esco nel suo senso di similarità ricorre soprattutto con i nomi propri i cui referenti umani destano associazioni di stravaganza, comicità, es. aristofane-aristofanesco). RESTRIZIONI PRAGMATICHE  specificano in quali situazioni è adeguato l’uso di una determinata regola: il suffisso ino nel suo senso diminutivo è adatto quando si vuole parlare ai bambini. PRODUTTIVITÁ  la nozione di produttività è strettamente legata a quella di restrizione. Infatti ogni restrizione, riducendo la quantità di contesti in cui è possibile una determinata regola, limita la produttività di un determinato affisso. La produttività dunque si misura attraverso il numero di parole usuali formate secondo una determinata regola. LA SUFFISSAZIONE La suffissazione consiste nell’aggiungere un suffisso dopo la base (reale-> realizzare) possiamo notare come alla base reale viene tolta la -e e viene aggiunto aggiunto il suffisso -izzare questa eliminazione della desinenza è una delle principali regole di aggiustamento. Nella maggior parte dei casi, con la suffissazione, una parola cambia la propria categoria grammaticale: un verbo può dar luogo ad un aggettivo o ad un nome, ma si ha anche all’interno della stessa categoria di parole: da un nome si passa a un altro nome.  I suffissati che derivano da un nome si chiamano denominali, quelli che derivano da un aggettivo deaggettivali e da un verbo deverbali -> i suffissati ottenuti diventeranno nominali, aggettivali e verbali. Pertanto, orologiaio (da orologio) è un suffissato nominale denominale; operabile (da operare) è un suffissato aggettivale deverbale; ideare (da idea) è un suffissato verbale denominale. Nessuna lingua sfrutta tutte le possibilità derivative di una base: da lavare si hanno lavaggio, lavatura, lavata, ma non *lavazione, *lavamento. In questi casi si parla di blocco della derivazione. In altri casi il derivato non conserva tutti i significati e gli usi della forma base: dall’aggettivo pieno deriva pienezza, usato per lo più in senso traslato: • il presidente ha i pieni poteri → la pienezza dei poteri del presidente, • il bicchiere è pieno -*la pienezza del bicchiere Nel passaggio dalla base al suffissato si possono avere alcune variazioni formali, che rientrano nell’ambito delle regole di aggiustamento:  alternanza dittongo-vocale (dittongo mobile): /jε/ - /e/ lieto → letizia; /wɔ/ - /o/ nuovo → novità;  alternanza occlusiva-affricata:/t/ - /ts/ potente → potenza; /k/ - /tʃ/ comico → comicità; /g/ - /dʒ/ mago → magia;  alternanze dovute alla conservazione nel suffissato di forme latineggianti:figlio, lat. fīliu(m) → filiale; mese, lat. mens(em) → mensile; chiaro, lat. claru(m) → acclarare. In tutti questi casi si parla di base modificata. Esistono regole della formazione delle parole, riguardanti sia la forma sia la semantica di questi processi morfologici. Le regole, mentre illustrano il meccanismo per il quale si formano delle parole nuove, rendono chiara la struttura delle parole esistenti. In particolare, le regole: 1. impongono un ordine degli affissi rispetto alla base: in + scatol + are, non *scatol + are +in; 2. specificano la categoria sintattica della base e del derivato (per es., N + suffisso → V: idea + -are → ideare); 3. indicano le proprietà semantiche del derivato: -aio si aggiunge solitamente a basi con tratto [– umano], producendo per lo più nomi con tratto [+ umano]: orologio → orologiaio, giornale → giornalaio Oltre alle regole esiste un blocco della derivazione. Alcuni suffissi sono bloccati, vale a dire non si possono aggiungere a certe basi; la possibilità di applicare uno o più suffissi muta da base a base: ad abile posso aggiungere il suffisso -ità, ma non il suffisso -ezza. Un altro aspetto importante della formazione delle parole è la produttività: la quale si misura attraverso il numero di parole usuali formate secondo una determinata regola. Vi sono affissi produttivi (-tore, -zione, -aggio), i quali continuano a formare derivati nella lingua di oggi e affissi scarsamente produttivi (-io, -itudine, - aceo). PARADIGMI DI DERIVAZIONE I rapporti di derivazione che si stabiliscono tra le parole di una stessa famiglia sono regolati per lo più da due paradigmi fondamentali:  il paradigma di derivazione a ventaglio -> nel quale ciascuna trasformazione comporta l’uso della stessa base (operare -> opera, operatore, operazione, operativo…);  il paradigma di derivazione a cumulo -> nel quale ciascun suffissato diviene la base per una successiva trasformazione (globaleglobalizzareglobalizzazione) Accade spesso che in una famiglia di parole questi due paradigmi siano entrambi presenti. DAL NOME AL VERBO La trasformazione N -> V può essere ottenuta con i suffissi:  -are, -ire  sci -> sciare; custode ->custodire; -icare, -iare  neve -> nevicare; potenza -> potenziare  -eggiare, -izzare, -ificare  tinta -> tinteggiare; alfabeto -> alfabetizzare; cemento -> cementificare Un caso particolare di derivazione è rappresentato dai verbi parasintetici, nei quali si ha l’intervento simultaneo di un prefisso e di un suffisso: cappuccio -> in-capucci-are. Si tratta di derivati che rientrano al tempo stesso nei settori della suffissazione e della prefissazione. Si distinguono dai prefissati verbali perché, quando c’è il verbo parasintetico, manca il denominale: bottiglia -> imbottigliare, ma non bottigliare. Distinguiamo i parasintetici secondo i prefissi: (a) bottone -> abbottonare, (de) caffeina -> decaffeinare, (in) scatola -> inscatolare, (s privativo) baracca -> sbaraccare, (s intensivo) bandiera -> sbandierare. DALL’AGGETTIVO AL VERBO La trasformazione A -> V può essere ottenuta con i suffissi:  -are, -ire  attivo -> attivare; chiaro -> chiarire  -eggiare, -izzare, -ificare  dolce -> dolcificare; fratello -> fraternizzare; bianco -> biancheggiare Numerosi sono i verbi parasintetici che derivano da aggettivi. I parasintetici secondo i prefissi (a) largo -> allargare, (di) magro -> dimagrire, (in, im, il) aspo -> inasprire, pallido -> impallidire, (s privativo) folto -> sfoltire, (s intensivo) corto -> scorciare. DAL VERBO AL NOME I nomi deverbali si distinguono in due specie: 1. Nomi che indicano l’azione  operare -> operazione 2. Nomi che indicano l’agente o il mezzo  lavare -> lavatrice; commerciare -> commerciante DAL VERBO ALL’AGGETTIVO La trasformazione V -> A si ottiene con vari suffissi: abbondare -> abbondante, giustificare -> giustificabile. DALL’AGGETTIVO AL NOME Utilizzando i suffissi:  -ezza  alto -> altezza Nel caso dell’attribuzione, il costituente principale esprime la parte più generale e importante del composto, ed è modificato da un aggettivo o un verbo, che fungono da attributo o da un nome, che funge da apposizione, i quali ne specificano le qualità: per es., una cassaforte è una cassa particolarmente forte. Nel rapporto di coordinazione, i due costituenti si presentano come coordinati e concorrono in pari modo al significato del composto: Per es., una cassapanca è sia una panca su cui ci si può sedere sia una cassa in cui riporre qualcosa. Di conseguenza i due membri del composto appartengono alla stessa categoria grammaticale: caffelatte, chiaroscuro. Nel rapporto di subordinazione, si riscontra una relazione di subordinazione tra i due elementi del composto. Vale a dire, il composto presenta una frase sottostante, contenente un predicato verbale: (qualcosa) asciuga (la) mano → asciugamano (qualcuno) porta (le) lettere → portalettere. Il primo dei componenti trasmette le sue proprietà semantiche e sintattiche alla nuova formazione. Il suo significato viene ulteriormente specificato dal secondo elemento. Una grande difficoltà consiste innanzi tutto nel distinguere i composti da quelle formazioni che non si possono considerare tali. Per esempio: tutti saremo d’accordo sul fatto che ferrovecchio è un composto... Ma fil di ferro lo è? E ferro da stiro? E filo spinato è un composto? E filo elettrico? Se cassapanca è un composto, cassa continua lo è? - COMPOSTI VS SINTAGMI I composti del tipo ferro da stiro si distinguono rispetto ai sintagmi e alle frasi sintattiche libere del tipo ferro per aprire la porta in base a tre criteri: 1. a)  stabilità del rapporto significante – significato 2. b)  atomicità sintattica 3. c)  frequenza d’uso - COMPOSTI VS CONGLOMERATI L’associazione memoriale produce i conglomerati, che risultano dall’unione di elementi morfologicamente caratterizzati. Saliscendi, toccasana, fuggifuggi, dormiveglia, non sono veri e propri composti, ma piuttosto associazioni di parole o di spezzoni di parole (sali e scendi, tocca e sana ecc.). Tuttavia, secondo alcuni studiosi, i conglomerati vanno considerati a pieno titolo composti verbo + verbo. altri esempi: bagnasciuga, dormiveglia, fuggifuggi, mangiaebevi, saliscendi. - COMPOSTI VS POLIREMATICHE La creazione di nuove entità lessicali per mezzo della composizione si attua con la fusione di due elementi costituenti che il parlante continua ad identificare dopo che tale fusione è avvenuta. Le polirematiche sono invece delle lessicalizzazioni, vale a dire hanno significati del tutto convenzionali. Nel linguaggio marinaresco, per es., si hanno le manovre correnti ‘cavi che servono per lo più per sollevare o spostare pesi’ e le manovre dormienti ‘cavi che servono per sostenere in posizione fissa o per guidare qualche oggetto’. TESTA DEL COMPOSTO  In un composto s’identificano una testa e un modificatore. La nozione di testa identifica l’elemento più importante del composto, quello che ne determina la proprietà semantica principale, vale a dire la parte del composto che contribuisce in maggior misura ai suoi tratti semantici; essa ne determina inoltre la categoria grammaticale nonché i tratti flessivi.  In un composto come capostazione, il costituente capo determina il tratto ’nome di entità animata’ e individua il referente del composto come un capo (e non una stazione); inoltre ne individua il genere (il maschile di capo e non il femminile di stazione) La testa può essere interna al composto o esterna, ma è anche possibile avere composti con due teste. I composti in cui è possibile identificare un elemento con funzione di testa, come capostazione sono detti endocentrici; quelli in cui nessuno dei due elementi contribuisce in modo prevalente a determinare le caratteristiche semantiche e sintattiche del composto, come pellerossa ’appartenente alle tribù indigene dell’America’ o casco blu ’militare dell’ONU’, sono detti esocentrici. Nei composti esocentrici la testa è fuori del composto: pellerossa designa infatti non un tipo di pelle, ma un essere umano, identificato per la particolarità di avere la pelle rossa. È quindi un nome di essere animato, anche se nessuno dei due membri del composto è animato. Di norma, il significato dei composti esocentrici non può essere interpretato in modo univoco a partire dai suoi costituenti: a differenza di un composto endocentrico come pesce spada, in cui la testa pesce indica i tratti semantici prevalenti del referente del composto e spada ne indica alcuni tratti specifici, in un composto esocentrico come pettirosso nulla ci dice che si tratti di un uccello. Il significato dei composti esocentrici può quindi essere parafrasato: ‘qualcosa o qualcuno il cui B è A’, dove B indica il secondo membro del composto e A il primo. Esistono casi in cui entrambi i costituenti possono essere la testa del composto: sono chiamati composti dvandva per influsso della tradizione grammaticale sanscrita, ma possono essere definiti anche "composti di coordinazione" o "composti copulativi". Sono composti di questo tipo parole generalmente formate dall'unione di due sostantivi, per es. cassapanca, emiliano-romagnolo", ecc. ESEMPI DI COMPOSTI: VERBALI  SOCIALIZZARE (no), saliscendi, maltrattare, maledire, sopraggiungere, sottintendere, barcamenare, girovagare NOMINALI  CASSAPANCA, pescecane, caffelatte, leccalecca, angloamericano, aspirapolvere, ferrovia, girasole AGGETIVALI  SORDOMUTO, agrodolce, angloamericano, verde menta ENDOCENTRICI  CAPOCLASSE, pescespada, terraferma, caposala ESOCENTRICI  DORMIVEGLIA, pellerossa, purosangue, salvavita CON TESTA A DESTRA  SCUOLABUS, claustrofobia, malumore, banconota CON TESTA A SINISTRA  PESCECANE, vagone-letto, buco nero, capoufficio COMPOSTI ESOCENTRICI CON ORDINE DETERMINATO, DETERMINANTE  CAPOSTAZIONE, mezzanotte (?), salvagente E CON ORDINE DETERMINANTE, DETERMINATO  ACQUEDOTTO UNITÁ POLIREMATICA CON DUE ELEMENTI (SENZA REPOSIZIONE)  FINE SETTIMANA, decreto sicurezza, realtà virtuale (vanno bene?), nulla osta E CON TRE ELEMENTI (CON PREPOSIZIONE)  FERRO DA STIRO, codice a barre (questi due non vanno molto bene) -> luna di miele, motore di ricerca fuggi fuggi -> congomerato o verbo verbo LE POLIREMATICHE L’acronimia comporta l’eliminazione di parti dei componenti: cant(ante) + autore -> cantautore, carto(leria) + libreria -> cartolibreria. Ricordiamo poi le parole macedonia: post(ale) + telegra(fico) + (tele)fonico -> postelegrafonico. Un’unità lessicale superiore o polirematica è un insieme di due o più elementi che compongono un’unità formale e semantica, il cui significato non si ricava dalla somma dai significati delle parole che la compongono. Polirematiche nominali (busta paga, ferro da stiro), polirematiche aggettivali (rasoio, usa e getto), polirematiche verbali (avere bisogno, fare chiarezza). Le polirematiche non tollerano inserimenti né spostamenti dei componenti: si dice un buon ferro da stiro e non un ferro buono da stiro. Un nome può avere la funzione di modificatore nei composti del tipo N + N: uccello mosca, dove il secondo componente vale “piccolo come una mosca”. In altri composti N + N come vagone letto, il secondo elemento significa che ha la funzione di, che serve come. Infatti esse: 1. non ammettono:(a) la sostituzione sinonimica dei costituenti interni (camera a gas → * stanza a gas) né (b) la variazione per via di flessione, sia per quanto riguarda gli elementi che non sono testa del sintagma (fare acqua → *fare acque; gioco di carte → *gioco di carta), sia per lo stesso elemento testa (alte sfere → *alta sfera); 2. non possono essere interrotte con l’interposizione di altre parole (casa di cura → *casa spaziosa di cura); 3. non permettono dislocazioni (permesso di soggiorno → *è di soggiorno quel permesso?) o altri cambiamenti nell’ordine delle parole (alti e bassi → *bassi e alti); 4. non consentono di pronominalizzare uno dei costituenti interni (prestare attenzione → *che cosa hai prestato? attenzione; cartone animato → *quelli animati sono i cartoni che mi piacciono di più). Il diverso grado di coesione strutturale può dipendere anche da altri fattori, come la presenza o assenza della testa. Al pari dei composti, anche le polirematiche possono essere endocentriche (cioè dotate di testa interna all’espressione) o esocentriche (prive di testa interna). Come già accennato, i verbi in italiano sono sempre endocentrici, mentre si hanno strutture esocentriche tra i nomi (gratta e vinci, cessate il fuoco), e soprattutto tra gli aggettivi (acqua e sapone) e gli avverbi (di punto in bianco). Nelle strutture endocentriche propriamente dette, la testa può essere categoriale (cioè determinare la categoria lessicale dell’intera polirematica) o semantica (sicché la polirematica è un iponimo della testa): è il caso di letto a castello (un tipo di letto) e campo da calcio (un tipo di campo). Esistono casi in cui, pur essendo presente formalmente una testa categoriale, questa non funge da testa semantica: luna di miele, ad es., è un nome esattamente come luna, che funge da testa categoriale, ma la luna di miele non è un tipo di luna. Quest’ultimo esempio mostra che una delle caratteristiche delle polirematiche è l’idiomaticità: il significato di luna di miele è infatti (come si dice tecnicamente) non-composizionale, cioè non si ricava dalla somma dei suoi costituenti, come accade anche per le espressioni idiomatiche. Tuttavia, è chiaro anche come altre polirematiche, come letto a castello, mulino a vento, carta da lettera, tavolo da cucina, ecc., siano molto più trasparenti dal punto di vista semantico, sebbene anche in tali casi non manchi una dose di convenzionalità che le rende un tutto indivisibile. Esempio polirematiche: • N+N: campagna acquisti, decreto sicurezza, fondi pensione, pacchetto giustizia, rischio razzismo; • N+A: costo economico, impianto frenante soggetto politico, realtà virtuale testamento biologico; • N + Prep + N: aereo a reazione, casa a riscatto, codice a barre; cavallo di razza, centro di eccellenza, motore di ricerca, posto di lavoro, ruota di scorta; camera da letto, gelato da asporto, macchina da scrivere, tazzina da caffè; furto con scasso, ripresa in diretta, vestito su misura Concludendo -> nell’italiano contemporaneo la formazione delle parole è un bacino di crescita della neologia, dove nascono vocaboli nuovi, rispondenti allo sviluppo della società e delle terminologie tecnico-scientifiche. Si tratta di vocaboli analizzabili da parte del parlante e che sovente creano microsistemi lessicali funzionali nell’ambito dell’italiano moderno. 4. LA SINTASSI La sintassi studia i principi in base ai quali le parole delle varie lingue possono combinarsi in certi modi e non in altri, deriva dal greco “syntaxis” e significa disposizione, ordine. SOGGETTO E PREDICATO Le varie parti del discorso (nomi, aggettivi, pronomi, verbi, avverbi…) si possono combinare tra loro formando frasi. Ad esempio nella frase “io mangio una mela matura”, abbiamo un soggetto, un predicato e un complemento oggetto. Questa frase ha un significato anche grazie a un certo ordine dei suoi componenti. Se questo ordine viene alterato, ad esempio “una mangio matura io mela”, non si ha più una frase, ma un cumulo di parole privo di significato. La grammaticalità (o buona formazione) di una frase è indipendente dal suo senso. Le combinazioni di parole possono essere ben formate oppure no indipendentemente dal senso delle parole stesse. La sintassi si fonda sul principio della combinabilità e sul principio della sequenzialità (gli elementi che compongono una frase si devono combinare secondo un certo ordine). La sintassi studia:  i motivi per cui alcune combinazioni sono ben formate e altre no;  le regole che determinano il modo in cui le parole si combinano in una frase per ottenere un significato;  le sequenze formate dalle parole nella frase;  le trasformazioni che le sequenze possono subire (es. io mangio una mela matura -> una mela matura, me la mangio). La sintassi si distingue dalla morfologia che è lo studio della struttura delle parole. La frase è una forma linguistica indipendente, dotata di un significato compiuto. È un insieme sintattico compreso tra due pause e indipendente dal punto di vista della sintassi. È una sequenza di parole caratterizzata da una certa intonazione. Ed è un’unità astratta del sistema linguistico vs enunciato: entità della comunicazione. Soggetto -> è un argomento del verbo, è qualcuno o qualcosa di cui si dice qualcosa. Il significato delle frasi è il risultato di una predicazione. Un predicato può legittimare un argomento (Antonio starnutisce), né può giustificare due (Antonio colpisce la palla, Antonio obbedisce alla mamma) o tre. Un argomento deve avere un rapporto di legittimazione col predicato. In un rapporto di predicazione, a proposito di qualcuno (Mario) o di qualcosa si afferma una caratteristica (è gentile), una proprietà (è mio fratello) o si rappresenta un’azione (Mario percuote Luigi); i due componenti di questo rapporto di predicazione si dicono soggetto e predicato. La relazione fondamentale che si stabilisce in una frase è quella che collega un sintagma nominale (SN), detto soggetto, e un sintagma verbale (SV), detto predicato -> SN e SV costituiscono la frase nucleare. Con frase nucleare s’intende la frase più piccola di una lingua, vale a dire non composta da altre frasi. Un insieme di frasi nucleari forma un periodo, che è una struttura sintattica complessa e generalmente più estesa della frase. Le frasi possono avere molte forme e assumere una varia tipologia.  Discorsi o testi: combinazioni di parole che comprendono più frasi  Sintagmi: combinazioni di parole più piccoli di una frase (insieme di elementi che in una frase costituisce un’unità)  Frase: forma linguistica indipendente dotata di un significato Una frase per essere autosufficiente, deve dire qualcosa, cioè deve contenere una predicazione: deve dare un’informazione riguardo qualcosa. Generalmente una frase quindi contiene un verbo, ma non è sempre così, è una frase anche: “Bella, questa macchina!” -> frase nominale. SCOMPOSIZIONE DELLA FRASE -> Anche le frasi possono essere analizzate nei loro costituenti immediati. Es. Io magio. Mia mamma ha comprato un’aspirapolvere nuovo ultraleggero. Io + mangio. Mia mamma + ha comprato un’aspirapolvere nuovo ultraleggero, sono i costituenti immediati. Si chiamano costituenti immediati perché unendosi tra loro, costituiscono, senza altri passaggi, il segmento gerarchicamente superiore. Per rappresentare la gerarchia delle frasi, cioè i sintagmi di cui sono composte, si può utilizzare: un diagramma a scatole, o un diagramma ad albero. Nel primo si indica con un numero ogni frase nella quale avviene una scomposizione in costituenti immediati del segmento superiore. Nel secondo, a ogni biforcazione, o nodo, dell’albero corrisponde una scomposizione in costituenti immediati. IL SINTAGMA Ogni insieme di elementi che in una frase costituisce una unità è detto sintagma. I sintagmi sono i costituenti della frase. Il centro del sintagma è chiamato testa poi ci sono gli elementi accessori (articoli, aggettivi) che sono detti i modificatori. Tipi di sintagmi:  SINTAGMA NOMINALE (SN) -> la testa del sintagma è un nome (es. bravo studente -> testa: studente); primo livello di rappresentazione del significato. I verbi saranno elencati nel lessico insieme ai casi, e alla lista di argomenti obbligatori o facoltativi. LA GRAMMATICA GENERATIVA Fondata dal linguista americano N. Chomsky alla metà del secolo scorso, nasce dal superamento critico del distribuzionalismo e dello strutturalismo. Chomsky contrappone una linguistica deduttiva, fondata su un insieme di regole, le quali, poste in sequenza, generano delle stringhe o sequenze di unità. Il linguaggio è concepito come una capacità, in parte innata, propria della sola specie umana: l’innatezza del linguaggio. Secondo Chomsky limitare il campo d’indagine a un corpus determinato di prodotti linguistici, non permette di rendere conto di una delle caratteristiche più importanti del linguaggio umano: la creatività. Questo sistema di regole, che risiede nella mente del parlante, si manifesta concretamente nei suoi molteplici atti linguistici. Le caratteristiche fondamentali del linguaggio umano:  DISCRETEZZA: nei suoi vari livelli di analisi il linguaggio umano è costituito da unità minime distinte da un intervallo, nel quale non si possono inserire altre unità;  RICORSIVITÁ: una regola può essere applicata più volte di seguito;  la DIPENDENZA DALLA STRUTTURA: le frasi di una lingua non sono organizzate mettendo una parola dietro l’altra; in molti casi la forma delle parole è determinata dalla forma di parole che sono poste a distanza. La dipendenza della struttura permette un movimento condizionato dei costituenti nella frase. La componente innata del linguaggio umano è la grammatica universale. Le capacità linguistiche innate del bambino devono essere attivate dall’esperienza linguistica. Fondamentale, nella linguistica Chomskyana è la teoria dei livelli di rappresentazione, i quali riguardano le rappresentazioni mentali e le frasi effettivamente pronunciate o scritte: le prime rappresentano le forme astratte soggiacenti, che sono alla base delle seconde. Le operazioni compiute dalla facoltà del linguaggio in senso stretto sono tre derivazioni:  Merge -> combinare, fondere, determina la struttura delle relazioni argomentali della frase;  Agree -> concordare, accordare, determina l’accordo tra i vari componenti;  Move -> muovere, determina la struttura informazionale della frase. Con tali operazioni si costruiscono strutture sintattiche sempre più estese, le quali devono rendere conto delle caratteristiche fondamentali del linguaggio umano. Una grammatica generativa deve essere in grado di predire tutte le possibili frasi di una lingua, assegnando a ciascuna di esse una descrizione capace di mostrare gli elementi di cui si compone la frase e le loro relazioni. Questo tipo di grammatica, definito anche grammatica sintagmatica, è costituito da un insieme di simboli di categorie linguistiche messi in rapporto tra loro da un numero finito di regole. Le regole sono per lo più regole di riscrittura, tali regole di riscrittura si possono ripete fino ad arrivare agli elementi minimi di una frase. Le regole contestuali invece si possono applicare soltanto nei casi specificati dopo la barra obliqua; la linea orizzontale indica la posizione (rispetto all’elemento considerato) in cui si trova l’elemento identificato dalla regola; il tratto tra parentesi quadre indica la proprietà che devono possedere gli elementi che si trovano prima e/o dopo affinché la regola possa essere applicata (es. pag 89). L’istituzione di un livello sintagmatico permette di risolvere casi di ambiguità, dovuti al fatto che due frasi possono avere la stessa struttura lineare a diversa struttura sintagmatica, come accade con la frase “Una vecchia porta la sbarra”, che può essere interpretata in due modi: una donna anziana porta la sbarra o una porta vecchia sbarra qualcosa. Esiste una differenza tra la struttura superficiale e la struttura profonda di una frase. Per spiegare le relazioni che intercorrono tra i diversi tipi di frase: tra frasi attive e passive, tra affermative e negative, tra dichiarative e interrogative è necessario fornire la grammatica di regole trasformazionali, che permettono di derivare da una frase come “La mamma legge il giornale”, tutte le frasi a essa sintatticamente imparentate: “Il giornale è letto dalla mamma”, “la mamma legge il giornale?”. Le regole trasformazionali consentono anche di riunire due frasi in una sola: “il treno è velocissimo”, “il treno va a Milano” diventa: “il treno che va a Milano è velocissimo”, si cancella il sintagma nominale soggetto della seconda frase (il treno), mettendo al suo posto il pronome relativo che, e incassando la seconda frase nella prima (trasformazione relativa). La struttura profonda è l’organizzazione sintattica astratta che sta alla base di un enunciato e ne determina il significato; la struttura superficiale è l’organizzazione sintattica di un enunciato così come appare. La prima è responsabile dell’interpretazione semantica della frase, mentre la seconda è in rapporto con la sua rappresentazione fonetica; il passaggio dalla struttura profonda alla struttura superficiale è operato dalle regole trasformazionali. La linguistica di Chomsky è fondata su basi psicologiche, biologiche e mentali, a scapito di fondamenti storici e sociali; si tratta di una linguistica che considera il linguaggio essenzialmente come una struttura cognitiva non come uno strumento di comunicazione. STRUTTURA DELLA FRASE SEMPLICE  Analisi logico-grammaticale: soggetto (elemento che determina l’accordo con il verbo) e predicato (composto dal verbo e spesso da parole dipendenti sintatticamente dal verbo e che insieme a esso formano il “gruppo del predicato”): io canto una canzone napoletana in giardino  Analisi del contenuto informativo: tema (ciò di cui si parla, l’argomento della frase) e il rema (ciò che si dice a proposito del tema)  Analisi della struttura delle conoscenze: conoscenze condivise tra emittente e ricevente in base al principio secondo il quale lo scambio di informazioni avviene aggiungendo a una parte dell’enunciato già nota, una parte nuova LA GRAMMATICA DELLE VALENZE Lucien Tesnière ha composto gli Élements de linguistique structurale. La sua grammaire de dépendance segna una rifondazione dello studio della sintassi. Lo studioso francese esamina la strutturazione linguistica nella prospettiva della connessione e delle funzioni dei componenti della frase. Ritiene che la frase semplice può essere analizzata partendo dal verbo e dalla sua capacità di legare a sé i componenti della frase. I verbi esprimono una valenza (il termine è tratto dalla chimica, dove si riferisce alla capacità degli atomi di formare legami tra loro). Una frase minima di senso compiuto è composta da soggetto e predicato: “Il cane abbaia”. Frasi invece come: “Il cane sembra”, non hanno senso compiuto perché i verbi da soli non riescono a dire nulla del soggetto. Questi verbi necessitano di una parte nominale che è la vera predicazione del soggetto. Sono detti verbi copulativi. Il predicato quindi può essere costituito da un verbo, detto predicativo (predicato verbale), o da un verbo copulativo seguito da un nome o da un aggettivo (predicato nominale). Poi ci sono altri verbi che necessitano del complemento oggetto, in quanto sono transitivi. Altri verbi sono transitivi, ma non sono seguiti dal complemento oggetto e hanno comunque senso compiuto: “Luigi studiava molto”. Altre frasi invece nonostante ci sia il complemento oggetto, hanno bisogno di un ulteriore complemento: complemento preposizionale: “Il cane ha infilato il muso”, dove?. Nelle frasi come: “Maria abita”, i verbi sono intransitivi, ma nonostante ciò necessitano di un complemento preposizionale o avverbiale. Nelle frasi come: “Giorgio è amico”, è presente il predicato nominale, ma non è sufficiente per dar senso alla frase: anche qui si richiede un complemento preposizionale. Nelle frasi minime invece: “piove”, i verbi hanno senso compiuto e non necessitano di nessun elemento aggiuntivo. Si può dire perciò che non è corretto parlare di soggetto e predicato come elementi indispensabili della frase minima. Definizione più convincente: la frase minima o nucleare è composta da un verbo/predicato e dai suoi argomenti, vale a dire da quegli elementi che sono necessari al verbo stesso per completare il suo significato.  La proprietà del verbo di aggregare a sé elementi per esprimere un concetto compiuto si chiama valenza. Tali elementi sono chiamati argomenti o attanti. Gli argomenti si distinguono in argomento soggetto e argomento oggetto (diretto o indiretto). L’insieme delle relazioni tra verbo e argomenti è la struttura argomentale. Il numero di argomenti richiesti dai singoli verbi fa sì che questi siano definibili come zerovalenti (impersonali), monovalenti, bivalenti, trivalenti, tetravalenti.  VERBI ZEROVALENTI: Nevica  VERBI MONOVALENTI: Paola sbadiglia  VERBI BIVALENTI CON OGGETTO INDIRETTO: Piero inseguiva il suo cane  VERBI BIVALENTI CON OGGETTO INDIRETTO: Fabio va a casa  VERBI TRIVALENTI: Giulio consegnerà il pacco al portiere  VERBI TETRAVALENTI: Il vento ha scaraventato i vasi dal balcone sul marciapiede Nella frase: Luisa conosce il ragazzo, il ruolo tematico di Luisa è quello di esperiente, di chi sperimenta lo stato mentale del conoscere. Invece con verbi di azioni, come picchiare: Luisa picchia Giacomo, il ruolo tematico di Luisa è quello di agente, mentre Giacomo è il tema. In una frase attiva il tema è l’elemento che ha la funzione grammaticale di oggetto diretto. Normalmente il soggetto grammaticale coincide con il tema e con l’elemento noto; il predicato coincide con il rema e l’elemento nuovo, non sempre però si ha questa perfetta coincidenza: Il libro di fisica l’ho prestato a Carla (tema: il libro: complemento oggetto); È scoppiata una bomba (non c’è il noto ma solo il nuovo). Ciascuno dei costituenti che si possono collegare al verbo è un attante. Sono attanti quei costituenti che, partecipando all’azione verbale, risultano direttamente subordinati al verbo. Gli attanti sono classificati in base al loro ruolo sintattico-semantico: primo attante: agente, secondo attante: paziente, terzo attante: beneficiario. In relazione alle sue proprietà lessicali, ogni verbo richiede un determinato numero di attanti, creando in tal modo una sua cornice funzionale di caselle vuote da riempire; i verbi vendere e comprare sono trivalenti, in quanto prevedono tre partecipanti all’azione verbale: un venditore, un compratore, l’oggetto; il verbo colpire comporta due partecipanti: colui che colpisce e il colpito; camminare ha soltanto un attante, colui che è in movimento. I CIRCOSTANTI DEL NUCLEO Sia il verbo sia i suoi argomenti possono essere specificati da elementi che si collegano morfologicamente o sintatticamente ai singoli costituenti del nucleo: sono denominati circostanti del nucleo. I circostanti degli argomenti possono essere aggettivi, participi, nomi in funzione di apposizione, espressioni preposizionali e possono trasformarsi in frasi relative. I circostanti del verbo possono essere avverbi o espressioni avverbiali: “Giulia è andata di corsa a casa”. LE ESPANSIONI La frase può essere ampliata, oltre il limite del nucleo e dei suoi circostanti, con altri elementi, che informano sul tempo, il modo, la causa, il fine ecc…, riferiti a quanto detto nel nucleo. A questi elementi si dà il nome di espansioni. Sono elementi di varia forma (espressioni preposizionali o avverbiali, avverbi, sostituibili con frasi), i quali non hanno collegamenti sintattici o morfologici con gli elementi della struttura centrale, ma solo pertinenza semantica. L’assenza di collegamenti specifici li rende liberamente spostabili nell’ordine lineare della frase. PRECISAZIONI SULLE VALENZE Non tutte le valenze devono essere saturate, un attante infatti se è noto al destinatario può essere tralasciato: “Paolo scrive una lettera a Mario” -> “Paolo scrive una lettera”. Se ha più significati, uno stesso verbo può avere valenze diverse:  parlare (saper usare la lingua) -> monovalente intransitivo: il bambino non parla ancora;  parlare (conversare) -> bivalente col secondo argomento retto da una preposizione: il prete parla ai fedeli;  parlare (conoscere una certa lingua) -> transitivo bivalente: Marco parla bene l’inglese. Dagli attanti vanno distinte le indicazioni circostanziali, che forniscono informazioni supplementari sulla situazione in cui si svolge l’azione verbale (tempo, luogo, modalità ecc…): due anni fa ho comprato una cosa in centro. Le due indicazioni (temporale e locale) non incidono sul nucleo della frase: ho comprato una cosa, possono essere omesse e il significato di base della frase rimane immutato. LA STRUTTURA INFORMATIVA Una frase non è soltanto una struttura sintattica e semantica, è anche una struttura informativa: comprende una parte che contiene ciò di cui si parla e una parte che dice qualcosa a proposito di ciò di cui si parla; la prima si chiama tema, la seconda rema; nella tradizione anglosassone a questi due termini corrispondono topic e comment. Il tema può essere qualcosa di noto all’interlocutore, un dato già conosciuto; le informazioni recate dal rema possono essere nuove; pertanto la coppia tema/rema può essere interpretata anche come dato/nuovo. Nella frase: Mario ha scritto un articolo breve, abbiamo qualcosa di noto: Mario, e un elemento nuovo: ha scritto un articolo breve. Della frase sono possibili diverse segmentazioni: Mario (tema) ha scritto un articolo breve (rema) Mario ha scritto (tema) un articolo breve (rema) Mario ha scritto un articolo (tema) breve (rema) Il confine tra tema e rema, tra dato e nuovo, muta in rapporto al contesto e alla situazione comunicativa, cioè in rapporto ai fini comunicativi che il parlante si propone. In una frase esiste un rapporto di predicazione tra un soggetto e un predicato. Questo rapporto appare con evidenza quando la frase è scomposta in tema, ciò di cui si parla nella frase, e rema, la predicazione che viene applicata al tema: Mario (tema) ha scritto un articolo breve (rema), con una trasformazione si ha: l’articolo breve (tema) lo ha scritto Mario (rema). Il tema può essere marcato da un introduttore (quanto a, riguardo a). Nello scritto la dislocazione a sinistra può essere sostituita dalla costrizione passiva: l’articolo breve (tema) è stato scritto da Mario (rema). Il rema non s’identifica sempre con il predicato verbale e la nozione di tema non deve essere confusa con quella di soggetto. Anche se quest’ultimo coincide spesso con il tema, si tratta di due entità distinte: il soggetto si riferisce alla struttura linguistica della frase; il tema al significato della frase. Il tema può essere un complemento (diretto o indiretto): “Giovanni, l’hanno elogiato i sui superiori; A tua moglie quando pensi di dirlo?” Il tema può essere anche una porzione di frase: “Che Mario sia una brava persona lo dicono tutti”. In queste frasi si è attuato il trasferimento a tema del complemento oggetto (Giovanni), del complemento di termine (alla moglie), di una porzione di frase (che Mario sia…). Questi componenti sono messi in prima posizione: sono topicalizzati. La topicalizzazione consiste nell’evidenziare l’elemento principale della frase, trasformando in topic (o tema), al quale il rema si collega mediante un pronome clitico: lo dicono. Tale processo riguarda l’ordine dei componenti della frase: un componente subisce una dislocazione a sinistra e nella frase occupa il primo posto, di solito riservato al soggetto: Quel romanzo, (io) non lo leggo. Dislocazione a destra: l’elemento topicalizzato è spostato a destra ma anticipato da clitico: Non lo leggo, quel romanzo. In una frase il dato coincide per lo più con il noto, cioè con ogni elemento che è presente come identificabile. È detto invece nuovo ciò che è presente come non conosciuto e non identificabile. La differenza nuovo/noto è resa con l’articolo indeterminato/determinato. LA FOCALIZZAZIONE Il focus è il punto saliente di una frase, sul quale si vuole richiamare l’attenzione. Il focus appare chiaramente quando la frase è inserita in una sequenza di domanda e risposta: Chi ha visto il film giallo? L’ho visto io (focus). Il focus può essere anche un tema dato e un topic: Ha incontrato Giulia. È proprio Giulia (focus-tema) che ieri voleva parlarmi (rema). Si ha una focalizzazione contrastiva quando il nuovo, che si contrappone a qualcosa che è detto prima, appare anteposto e fortemente accentato: Ti hanno rubato la bicicletta? Il motorino mi hanno rubato, non la bicicletta. LE FRASI MARCATE Soprattutto nel parlato si ricorre a frasi sintatticamente marcate, nelle quali, mediante un particolare ordine delle parole si dà rilievo a un componente della frase: Non leggo quel romanzo. Quel romanzo, (io) non lo leggo. Non lo leggo, quel romanzo. Le tre frasi hanno tutte lo stesso contenuto proposizionale, ma producono effetti diversi sull’interlocutore, spostando l’attenzione sul romanzo (2), oppure sul leggere (3), questi due elementi risultano topicalizzati. In (2) l’elemento topicalizzato è spostato a sinistra, in (3) è spostato a destra. A Luisa, le voglio bene -> dislocazione a sinistra. Lo abbiamo acquistato in un negozio, il computer -> dislocazione a destra. Gino, a Laura, regalerà un disco -> tema sospeso o libero, tradizionalmente è detto anacoluto. Nella frase scissa la frase è spezzata in due parti, nella prima appare il verbo essere e l’elemento focalizzato, nella seconda, introdotto da un che di ripresa, appare il resto dell’informazione, es: È lui che ha bevuto il vino; È stato lui a bere il vino. Con l’inversione dei costituenti si ottiene la frase pseudoscissa, es: Chi ha bevuto il vino è lui; A bere il vino è stato lui. C’É PRESENTATIVO Introduce, evidenziandolo, un sintagma nominale, al quale segue spesso una relativa, avente la funzione di esplicitare o di ampliare la portata enunciativa della frase, es: Una persona vuole vederti -> C’è una persona che vuole vederti. Il c’è presentativo distribuisce l’informazione in due parti, mettendo in rilievo la prima. UN CONTRONTO Nella frase predicativa si dice qualcosa di un referente-topic; pertanto la struttura è topic-comment; la frase tipica e il focus cade di solito sul componente finale: Il mio libro (topic) è scomparso (comment-focus). La frase identificativa individua il referente a cui il predicato si riferisce o indica con precisione una circostanza. Il focus si trova in posizione finale: Chi è venuto? È venuto Mario (focus). Nella frase presentativa i componenti sono nuovi e il focus riguarda in genere il componente finale: Che cosa è successo? È scoppiato un incendio. La struttura informativa della frase può essere realizzata con mezzi morfologici dell’articolo determinativo e indeterminativo: ho salutato un’amica (nuovo) e ho salutato l’amica (noto). l’informatività evidenzia il rapporto testo-realtà; la situazionalità evidenzia il rapporto test-situazione, l’intertestualità definisce il rapporto testo-altri testi.  La COERENZA riguarda la connessione tra i contenuti presenti in un testo, vale a dire il modo in cui il contenuto di un discorso orale o di un testo scritto si tiene unito ed è percepito come tale dal ricevente, rispetto a una successione occasionale di parole e/o di frasi. Giovanni ha accesso il fuoco e ha incendiato il cespuglio -> accendere è la causa dell’avvenimento incendiare; il testo, così come percepito, stabilisce un rapporto di causalità tra i due avvenimenti. Nella frase il cacciatore sguinzaglia il cane che deve stanare la preda, stanare è lo scopo dell’azione sguinzagliare. la coerenza si esprime, tra l’altro, mediante rapporti di causalità, scopo, successione temporale, contemporaneità. Sono i mezzi che rendono un testo unitario, continuo e progressivo. La coerenza è la proprietà che definisce il testo come unità fondamentale della comunicazione linguistica; è una proprietà che riguarda il significato complessivo del testo: una sequenza di frasi è un testo, se il contenuto semantico delle frasi che lo compongono entra in una costruzione coerente quanto al significato e ai fini. La coerenza può essere misurata sulla base della capacità del destinatario di attribuire al testo una continuità semantica. Nella frase il cacciatore sguinzaglia la preda che deve stanare il cane, pur rispettando il criterio dell’unità tematica, appaiono privi di senso. Poiché la continuità del senso è stabilita sulla base delle nostre aspettative (è il cane che stana la presa e non viceversa). Potrebbe riacquisire un senso se lo si trova inserito in un racconto di fantascienza. L’efficacia di alcuni testi letterari si basa proprio sulla violazione intenzionale delle attese del lettore. Questo aspetto è legato a un altro requisito testuale: l’informatività. La continuità di senso di un testo è assicurata dalla sua coerenza. un testo sarà efficace se avrà legami logici unitari, non contraddittori, e se è caratterizzato dalla continuità e dalla progressione tematica.  La COESIONE riguarda i rapporti grammaticali e il modo in cui sono collegati i vari componenti di un testo. La coesione tra le diverse frasi di un testo è garantita dalle forme sostituenti (pronomi e perifrasi sostitutive), che segnalano la continuità tematica di un testo, e dai connettivi, elementi di collegamento di vario genere: congiunzioni, segnali discorsivi come avverbi, o altre espressioni tipiche. Per costruire un testo che abbia un valido significato occorre una sequenza di forme lessicali appartenenti alla stessa classe semantica e riferibili al referente principale del testo; occorrono la ripetizione degli avverbi vocaboli, l’uso di sinonimi, iperonimi, iponimi e una rete di pronomi anaforici. La coerenza e la coesione sono i caratteri propri del testo, mentre i caratteri procedurali, che dipendono dal punto di vista dell’emittente e del ricevente sono i seguenti. Essi determinano e producono quella forma di comportamento definibile come comunicazione testuale. Se i caratteri procedurali non sono soddisfatti, il processo comunicativo fallisce o si realizza in modo incompleto.  L’INTENZIONALITÁ, cioè l’intento di comunicare qualcosa, riguarda l’atteggiamento dell’emittente, la sua volontà di farsi capire. Es: Insomma, quando… a che ora parte il treno? Qui c’è una scarsa coesione grammaticale, ma il fine specifico di ottenere una certa informazione è espresso in modo chiaro ed efficace.  L’ACCETTABILITÁ riguarda l’atteggiamento del ricevente, il quale si aspetta sempre un messaggio che dimostri coesione e coerenza, che sia utile e rilevante per conoscere cose nuove e per attuare un certo progetto di comunicazione, che offra garanzie di validità. Questa aspettativa del ricevente è in rapporto con il contesto sociale e culturale e con la desiderabilità dei fini.  L’INFORMATIVITÁ, cioè il grado d’informazione, esprime la misura in cui il testo giunge atteso o inatteso, rappresenta un fatto noto o ignoto. In: La terra non gira intorno al sole, lo sostiene un’equipe di astrofisici statunitensi -> l’informatività è molto alta: infatti si tratta di un’affermazione che contrasta con le nostre conoscenze e aspettative.  La SITUAZIONALITÁ, cioè il fatto che il testo si trovi in una determinata situazione, fa si che il testo stesso risulti chiaro. Es: Io qui non posso entrare, ha un significato inequivocabile se è posto fuori da un negozio e se è associato all’immagine di un cane. Se fosse in mezzo alla strada o se fosse privo di immagine non significherebbe nulla.  L’INTERTESTUALITÁ, è il rapporto tra un testo presente e un testo o altri testi assenti (ma vivi nella memoria del ricevente). Il cartello che india la fine di un tratto di divieto di sosta, si comprende soltanto in rapporto a un precedente cartello che ne indicava l’inizio. L’intertestualità è un requisito legato all’esistenza di tipi di testi che presentano caratteristiche determinate, dipendenti da determinati scopi: indicazioni stradali, articoli di giornale, poesie, messaggi pubblicitari, previsioni del tempo, costituiscono altrettanti tipi testuali, dotati di caratteri e forme particolati che ci permettono di distinguere uno spot pubblicitario da una notizia del telegiornale. Ogni singolo testo è in rapporto con l’ampia rete universale della intertestualità, tanto che nessun testo si può interpretare a fondo senza considerare i rapporti che esso intrattiene con i testi che lo hanno preceduto e seguito. Oltre ai principi costitutivi, ci sono i principi regolativi, che regolano la comunicazione testuale:  L’EFFICIENZA, impone che un testo debba essere facilmente compreso; inoltre deve essere in stretto rapporto con una determinata situazione e con gli scopi del testo stesso. Con la scritta: preparate il denaro contato, in prossimità di un casello stradale, è efficiente, mentre sarebbe del tutto inefficiente un cartello lunghissimo dove l’automobilista non avrebbe il tempo di leggerlo.  L’EFFETTIVITÁ, consiste nella capacità del testo di rimanere impresso nella memoria del destinatario e di produrre condizioni favorevoli al raggiungimento di un determinato fine. I messaggi pubblicitari, i titoli dei quotidiani mirano a essere altamente effettivi. Quante volte, nel parlare, citiamo frasi famose, considerando queste varie uscite adatte alle circostanze.  L’APPROPRIATEZZA, ci dice che un testo deve avere una composizione equilibrata tra contenuti e caratteri testuali. Questi principi regolativi rappresentano delle condizioni ottimali, che ovviamente non sono sempre rispettate. I sette requisiti fondamentali (o principi costitutivi) del testo sono presenti in varia misura nei diversi tipi testuali. La coesione e la coerenza possono essere in parte trascurate nella lingua parlata, ma devono essere osservate rigorosamente nei testi scientifici. Mentre parlo, posso, con i gesti, con l’intonazione della voce, con riprese e autocorrezioni verbali, rimediare a eventuali difetti formali e imprecisioni del mio discorso oppure dare alle mie parole un significato addirittura opposto a quello che esse formalmente esprimono. L’ANALISI DI UN RACCONTO ES: TESTO PAS. 108 La coesione del testo è assicurata da una serie di procedimenti:  (a) la ripetizione degli stessi nomi propri  (b) la sostituzione die nomi propri mediante pronomi. La pronominalizzazione è il procedimento più importante per connettere tra loro le frasi di un testo  (c) la sostituzione dei nomi propri mediante nomi comuni che qualificano (al posto di Carlo e Luigi -> i due giovani)  (d) la sostituzione mediante nomi che indicano una caratteristica del protagonista, già prima esposta (ragazzo alto e magro)  (e) la ricorrenza parziale: in verbo passeggiando ha la stessa base del sostantivo passeggiato. A differenza del sostitutivo (b) che serve soltanto a evitare la ripetizione, le sostituzioni (c) e (d) danno elementi nuovi, si occupano cioè della progressione. Anàfora e catàfora -> entrambe possono riferirsi alla frase nel suo complesso o a un componente: nella frase: LUI sì che è sempre puntuale, il pronome anaforico lui si riferisce a Carlo; nella frase: LA conosce bene la puntualità del suo amico! Il pronome cataforico la si riferisce alla puntualità. Il collegamento tra le varie frasi che compongono il testo dipende innanzi tutto dall’unità del tema trattato, che si sviluppa senza fratture o salti logici, cioè in modo conseguente e razionale. Il collegamento tra le varie frasi avviene secondo una prospettiva e un’organizzazione gerarchica determinate. Esporre una circostanza prima o dopo non è indifferente. Tutti gli elementi evidenziati sono importanti per garantire la coerenza del testo: la sostituzione o l’eliminazione anche di un solo articolo la altererebbe. Se cambiano i due amici, con due amici. Questi chi sono? si chiederà il lettore. La presenza dell’articolo determinativo ci dice il noto. Studiando il testo dobbiamo avere ben chiari i concetti di referenza e coreferenza. Il referente è l’oggetto extralinguistico cui il segno si riferisce. La referenza sarà allora il riferimento a un contesto extralinguistico mediante un segno linguistico. Per esempio: il parlante collega le parole tavolo, bambino con i referenti tavolo, bambino. Alcune equivalenze: Carlo e Luigi, i due giovani, i due amici, queste espressioni si riferiscono allo stesso referente. Si chiama coreferenza il riferimento, attuato con vari mezzi linguistici, di più espressioni allo stesso referente. Qui la coreferenza è suggerita dal contesto; in altri casi è fornita dalle conoscenze -> Roma: capitale d’Italia. Il parlante stabilisce queste equivalenze fondandosi su una conoscenza extralinguistica. Il rapporto tra referenza e coreferenza può essere rappresentato: L’ANAFORA L’anafora (ripetizione) è uno dei due modi usati per realizzare una relazione referenziale all’interno del testo. Un’espressione linguistica, detta anaforica riceve il suo senso referenziale da un’altra espressione, detta fonte dell’anafora o antecedente. Nella frase: ho visto Giuliana e le ho parlato, il clitico le è l’anafora, e Giuliana è l’antecedente. L’altro modo di realizzare una relazione referenziale all’interno del testo è la catafora: è il riferimento a qualcosa che viene dopo: Te lo dico ancora una volta: non devi fumare in casa, lo si riferisce all’espressione, non devi fumare in casa. La catafora è meno frequente dell’anafora, la quale invece rappresenta un fenomeno essenziale della testualità. L’anafora si realizza con la ripetizione, che può essere totale oppure parziale, e con la sostituzione mediante delle pro-forme, con pronomi anaforici; sono tre procedimenti essenziali della coesione del testo. 1. Carlo Rossi è venuto a farci compagnia: Carlo Rossi si che è una persona simpatica -> ripetizione totale 2. Carlo Rossi è venuto a farci compagnia: Carlo si che è una persona simpatica -> ripetizione parziale 3. Carlo Rossi è venuto a farci compagnia: lui si che è una persona simpatica -> anafora pronominale 4. Carlo Rossi è venuto a farci compagnia: quel ragazzo si che è una persona simpatica -> proforma: è un nome che aggiunge al messaggio un contenuto semantico In altre situazioni comunicative può fungere da pro-frase anche un nome generale (cosa, faccenda, affare, problema), un aggettivo, un verbo: Mario è arrabbiato con te. È un tuo problema. Un aggettivo, un verbo e un’espressione olofrastica possono svolgere una funzione anaforica: Tu preferisci il vino rosso, io il bianco. Nell’anafora nominale possono intervenire mutamenti semantici, per esempio, quando è introdotto un iperonimo: Ho visto un cane nel parlo: l’animale correva liberamente. Anafora zero: Mario esce presto ogni mattina. (/) Va all’edicola dei giornali. L’assenza del pronome personale in italiano può, in alcuni casi, rendere incerto il riferimento. Anche i clitici ci e ne svolgono una funzione anaforica, sia all’interno di una frase: A riprendere gli studi Gina vuole provarCI, sia tra due frasi contigue, sono stato a Londra. CI andrò anche io il prossimo mese. Una funzione analoga è svolta dal clitico lo (neutro): i cugini di Giovanni sono simpatici. Anche le loro amichette lo sono. Si noti che il pronome lo rinvia a un predicato, non a un argomento, pertanto rimane invariabile. Tutti i procedimenti anaforici rientrano nell’ambito della coesione, la quale, ordinando il testo in un insieme ben strutturato e facilmente comprensibile, ne assicura la coerenza tematica Un seguito di anafore costituisce una catena anaforica. Una catena anaforica può essere ben costruita, con criteri formali, pragmatici e cognitivi ben eseguiti e ben calibrati, oppure può presentare difetti: le riprese non sono ben realizzate e provocano riferimenti incerti. Talvolta, per motivi di chiarezza, le catene anaforiche subiscono un’ipercodificazione: appare un uno intenso di pronomi anaforici; le stesse parole ed espressioni sono ripetute più volte. Ciò accade quando ci si rivolge a un bambino o a uno straniero che hanno una conoscenza elementare della nostra lingua. Le catene anaforiche sono numerose nei testi narrativi dove si ritrovano pro-forme, e dove un referente testuale è suscettibile di riprese anaforiche. TITOLI, IPERTESRO, SCRITTURE DIGITALI Suddividere un testo scritto in parti è una necessità per chi lo compone, soprattutto se il testo è lungo. Un tratto scientifico può essere diviso in tomi. In ciascun tomo la materia è ripartita in sezioni, capitoli, paragrafi, sotto paragrafi, capoversi. Ai tomi, alle sezioni, ai capitoli, ai paragrafi si assegnano titoli e sottotitoli, accompagnati da una numerazione progressiva. Spesso il trattato ha un’introduzione in cui si danno alcune notizie sull’opera: perché e quando è stata scritta, come è suddivisa, quali sono i destinatari. Alla fine del trattato appare spesso una conclusione (dove si evidenzialo i punti di maggiore interesse, si mostrano possibili svolgimenti). Vi possono essere appendici, tabelle e allegati di vario tipo. Alla fine (o all’inizio) del volume appare un indice generale. I trattati sono spesso accompagnati da note, disposte a piè di pagina o in fondo a ciascun capitolo. Le note hanno una funzione testuale importante: permettono di aprire parentesi senza interrompere il corso dell’esposizione. La configurazione generale di un testo ne condiziona l’accoglimento da parte dei lettori. Si dedica la massima attenzione alla scelta del titolo, di un’eventuale immagine, dell’impaginazione, in modo da facilitare diverse modalità di lettura (rapida, centrata sui dati fondamentali). Il rapporto tra il testo e il paratesto (vale a dire l’insieme dei titoli, la presentazione, gli avvertimenti, le note a piè di pagina, le illustrazioni con le loro didascalie ecc…) rappresenta uno dei fattori principali attraverso cui l’opera agisce sul lettore. L’ipertesto è un testo che contiene links con altri testi. La lettura di un ipertesto non è lineare: la successione è scelta dall’utente mediante una parola chiave, che rende possibile leggere nell’ipertesto tutto ciò che è collegato alla parola in questione. Se si sceglie un’altra parola si aprono altri collegamenti. Con il computer il passaggio da un testo all’altro avviene in modo automatico. Rispetto alla linearità e alla chiusura del libro a stampa, l’ipertesto ha i caratteri della multilinearità e dell’apertura. Con l’etichetta scritture digitali si definisce quell’insieme di testi comporti originariamente al computer e destinati ad essere pubblicati in rete. Caratteri di tale produzione sono: la composizione in codice binario e la modularità, l’automazione delle procedure di composizione, la variabilità e la transcodifica culturale, che riguarda la relazione dell’attività dell’utente e la struttura profonda dei dati. LA TIPOLOGIA TESTUALE All’interno dei testi orali, scritti e mediali si possono fare suddivisioni e distinzioni di vario tipo. Per quanto riguarda il rapporto tra parlato e scritto, è opportuno distinguere due piani: la realizzazione fonica/grafica (una lezione accademica, una celebrazione solenne) e la concezione parlata/scritta (appunti scolastici, fumetti). Netto è il confine tra realizzazione fonica e realizzazione grafica; invece, tra concezione parlata e concezione scritta vi è piuttosto un continuum: per esempio, la narrativa moderna contiene, spesso e in vario grado, elementi di oralità: altrettanto va detto per i testi teatrali scritti. La stessa incertezza di confini appare nei testi multimediali, nei quali la stessa realizzazione fonica e grafica, presente in simultaneità, favorisce uno scambio continuo tra concezione parlata e scritta. Per quanto riguarda la tipologia testuale, l’incertezza dei confini è la regola: quasi tutti i testi sono misti, in quanto integrano sequenze di carattere diverso. La distinzione tipologica è affidata a un criterio di predominanza: si dirà che un testo è narrativo, se in esso predomina una tipologia narrativa. Spesso accade di imbatterci in testi misti: un saggio scientifico risulta, al tempo stesso, espositivo e argomentativo. Una distinzione è quella tra testi letterari e testi di carattere pratico (scritti amministrativi, di notai, commercianti). Nell’assegnazione di una tipologia testuale va tenuto presente il fine, che l’emittente si propone nei riguardi dei destinatari del testo, e delle circostanze in cui avviene la comunicazione. Le variabili principali di cui si deve tener conto per delimitare i tipi testuali sono:  lo scopo che l’emittente si prefigge  il destinatario a cui si rivolge  le circostanze in cui avviene lo scambio comunicativo Cinque tipi di testo:  TESTI NARRATIVI -> romanzi, racconti, novelle, fiabe, articoli di cronaca, cronache storiche, biografie, relazioni di viaggio;  TESTI DESCRITTIVI -> parti di opere letterarie, resoconti di viaggio, guide turistiche, manuali;  TESTI ARGOMENTATIVI -> testi filosofici, discorsi di giudici, di avvocati, di politici, articoli di fondo del giornale, temi scolastici, testi pubblicitari;  TESTI INFORMATIVI -> manuali, enciclopedie, articoli scientifici e giornalistici;  TESTI REGOLATIVI -> codici di leggi, regolamenti, statuti, istruzioni per l’uso, ricette di cucina.  TESTI POETICI TESTO NARRATIVO Si propone essenzialmente di raccontare una storia, con i romanzi, i racconti, le novelle e le fiabe. Racconta un fatto che si svolge nel tempo e ha per protagonisti una o più persone. Testi narrativi non letterari sono, in genere, In un certo periodo storico, la grammatica di una lingua è stabile, al contrario del lessico. Cambiamenti della fonologia, morfologia e sintassi avvengono nel tempo molto lentamente, in numero incomparabilmente inferiore rispetto a quanto avviene nel lessico. Le strutture fonologiche, morfonologiche e sintattiche di una lingua sono sistemi chiusi, mentre il lessico è un sistema aperto (suscettibile a cambiamenti). Parole o vocaboli: quelle parole che appaiono nelle frasi: ragazze, camminano, nelle, strade. Lessema: unità di base del lessico; dal punto di vista lessicografo, il lessema si identifica col lemma, la voce registrata in un dizionario. Termine: parola dotata di un significato specifico e quindi non sostituibile facilmente, una parola propria di una determinata disciplina, usata per indicare un referente tecnico: aorta, prisma, protone sono dei termini. Lemma: la voce che si trova sul dizionario. Il repertorio lessicale italiano ha circa 270.000 lessemi. LESSICALIZZAZIONE E GRAMMATICALIZZAZIONE Lessicalizzazione processo per il quale un insieme di elementi retti da rapporti grammaticali diventa un sintagma (un’unità) equivalente a un vocabolo. Es.: d’un tratto, ora come ora equivalgono a improvvisamente, momentaneamente e conversioni come cantante (participio presente), reverendo (gerundio), piacere (infinito), divenuti nomi. Grammaticalizzazione processo per il quale una parola, vale a dire una forma libera, perde la sua autonomia fonologica e il suo significato lessicale per diventare un elemento grammaticale. In un certo senso si tratta del percorso inverso della lessicalizzazione. Es. la preposizione mediante era un tempo il participio presente del verbo mediare; l’amico mediante (essendo l’amico mediatore) è diventato mediante l’amico, mediante è poi diventato una preposizione: mediante le promesse. lo stesso fenomeno riguarda durante e nonostante. I LIVELLI DEL LESSICO Nel lessico di una lingua si distinguono vari livelli, che possiamo rappresentare mediante alcune opposizioni:  Parole che si usano ogni giorno e in molte circostanze / parole che si usano per argomenti specialistici e in circostanze e ambienti particolari  Parole proprie del parlato / parole proprie dello scritto  Parole di uso corrente / parole antiquate (arcaismi) o di recente formazione (neologismi)  l’arcaismo è una parola o un’espressione, una forma grammaticale o grafica, una costruzione sintattica che non è più viva nella lingua odierna.  Arcaismi lessicali: alma-anima, desio-desiderio  Arcaismi semantici: vocaboli che nella lingua antica possedevano significati oggi scomparsi: noia-pena, polo-cielo  Arcaismi fonetici: core-cuore  Arcaismi grafici: gratia-honore Arcaismi lessicali e scematici si ritrovano nel nostro linguaggio poetico tradizionale. Un criterio importante nell’ordinare il lessico consiste nell’osservare quali rapporti intercorrono tra i parlanti italiani e il lessico della nostra lingua. 3 varietà d’uso: 1. Varietà funzionali- contestuali o diafasiche: riguardano sia la situazione in cui avviene lo scambio comunicativo e il ruolo svolto dai parlanti (registri), sia la sfera di attività, l’ambito del discorso, l’argomento di cui si parla (linguaggi settoriali o sottocodici). 2. Varietà geografiche o diatopiche: riguardano la diversa diffusione aerale; nella nostra penisola l’uso di differenti tipi di italiano comporta l’uso di vocaboli particolari detti regionalismi. 3. Varietà speciali o diastratiche: le quali sono in rapporto non soltanto con lo strato sociale cui appartiene il parlante, ma anche con altre variabili riguardanti i fattori identitari e generazionali; per indicare tali varietà si usa anche il termine di socioletti. Non minore importanza occupa la variazione diamesica, che riguarda il mezzo con cui è attuata la comunicazione. Le varietà diafasiche, diatopiche, diastratiche e diamesiche influiscono sulla scelta e sull’uso dei vocaboli e delle espressioni che ricordano nel parlato e nello scritto. Si noti che tali varietà non si usano mai isolatamente: soprattutto nel parlato appaiono mescolate tra loro. ONOMASTICA E TOPONOMASTICA Un settore particolare della linguistica è l’onomastica, la quale studia in una prospettiva sia diacronica che sincronica, tutti i nomi propri. La deonomastica è lo studio delle forme lessicali comuni che derivano da nomi propri. L’onomastica studia i nomi propri di persona, che riflettono la varia provenienza dei popoli che hanno abitato l’Italia. Dai nomi propri si ricavano per lo più con l’aggiunta di affissi, dei lessemi che sono detti deonomastici: manzoniano, petrarchesco; il procedimento ha grande sviluppo nella produzione di etnici: milanese, napoletano. La toponomastica studia i nomi geografici di luogo, che in Italia sono in genere molto antichi e hanno varia provenienza. Roma è probabilmente un toponimo etrusco I LINGUAGGI SETTORIALI Linguaggi settoriali “forti” dotati di un alto grado di codificazione, sono quelli della medicina, della fisica, della chimica, della matematica e, in genere i linguaggi tecnico-scientifici, ciascuno di questi linguaggi forti possiede un suo vocabolario specifico. Linguaggi settoriali deboli come quelli della politica, della pubblicità, dello sport, i quali assumono molti vocaboli ed espressioni dalla lingua comune e praticano intensamente la creazione metaforico e la mescolanza delle terminologie. In che cosa si differenzia un linguaggio settoriale dalla lingua comune? dal punto di vista del lessico, il primo possiede vocaboli ed espressioni non presenti nella lingua comune, oppure possiede gli stessi vocaboli, ma li usa in particolari contesti, con un diverso e specifico significato. Nel settore degli autoveicoli troviamo termini come tachimetro ma anche vocaboli comuni come cambio. Le differenze che distinguono i vocaboli della scienza da quelli della lingua comune:  Un vocabolo tecnico/scientifico deve determinare il suo significato nel modo più preciso possibile, mentre le altre parole hanno significati soggetti a una certa vaghezza  Il termine di un linguaggio settoriale tende ad avere un solo significato, mentre un vocabolo della lingua comune ha in genere più di un significato.  Per definire un vocabolo appartenente al linguaggio settoriale dobbiamo tener conto del suo stretto rapporto con i termini del vocabolario di cui fa parte.  Un termine settoriale ha un rapporto stretto con la cosa significata Per formare il vocabolario di una disciplina, tecnica o specializzazione si possono seguire 3 principali vie: 1. Si può ricorrere al prestito linguistico 2. Si può ricorrere a vari procedimenti di formazione delle parole; alcuni suffissi e prefissi si sono specializzati in determinati vocabolari tecnico-scientifici. Per quanto riguardo il linguaggio medico osserviamo: 3. Si può dare un significato nuovo e specifico a parole che già esistono nel lessico della lingua comune o in un vocabolario tecnico già costituito. Vocaboli della lingua comune subiscono una rideterminazione tecnica: campo di forza, campo magnetico, campo gravitazionale…. Ciascun sottocodice si può dividere in sottosottocodici che corrispondono alle specializzazioni esistenti nei vari campi del sapere: sottosottocodici della chirurgia della radiologia… Vocabolari tecnici già costituiti forniscono termini ed espressioni a vocabolari di nuova formazione. Questo trasferimento dall’uno all’altro vocabolario dimostra quanto importante e funzionale sia il fenomeno della polisemia. Con gli stessi vocaboli si rendono diversi significati e accezioni, realizzando in tal modo quella economia di segni che è una delle regole fondamentali del funzionamento del linguaggio umano. Le parole si chiamano termini quando fanno parte di un linguaggio settoriale, che è un linguaggio proprio di una disciplina, quindi di un settore della conoscenza (es. linguaggio settoriale della medicina). Tecnicismi specifici -> termini propri di un determinato linguaggio, quei termini che non possono essere sostituiti perché indicano dei concetti ben specifici. Tecnicismi collaterali -> termini tecnici ma che hanno solitamente dei corrispondenti nella lingua comune, ma sono usati per un fine stilistico per mantenere elevato un linguaggio tecnico (es. accusare un dolore in medicina -> sentire un dolore/mi fa male qui). Quello dello sport è un linguaggio settoriale debole con scarsa densità terminologica; si può dubitare perfino della sua esistenza, dato il gran numero delle discipline, ognuna in possesso di proprie tradizioni. È un linguaggio che conosce soltanto il registro della divulgazione e che si rivolge a un pubblico vasto. Una caratteristica del linguaggio sportivo è il ricorso all’iperbole che ha il fine di esaltare l’impresa di un atleta o di una squadra. Un altro linguaggio settoriale debole è quello della politica, dove ricorrono parole ed espressioni della lingua comune, una parte del vocabolario politico serve a presentare le istituzioni, le strutture, la prassi della vita politica e i movimenti. Per motivi facilmente intuibili si assumono elementi dai linguaggi burocratico, giuridico, economico-finanziario, delle scienze. La politica non disdegna l’uso di metafore, che sono tratte da vari ambiti: sport, medicina, scienze e tecniche, arti belliche e fenomeni naturali. La denominazione di linguaggio settoriale equivale a quella di sottocodice, il primo evidenzia il rapporto con particolari settori dell’attività umana, il secondo evidenzia la subordinazione del sottocodice al codice. I REGIONALISMI Regionalismi o geosinonimi: la stessa cosa si indica con un nome diverso, secondo la regione in cui ci troviamo. In Italia lo stesso oggetto è variamente chiamato (serranda, tapparella), ma ci sono vocaboli propri dell’italiano della Lombardia, dell’Emilia, della Sicilia ecc. Vari regionalismi non sono rimasti nei luoghi di provenienza, ma si sono diffusi in tutta la penisola, ad esempio cannolo (Sicilia), grissino (Piemonte). Differenze di uno fra una regione e un’altra riguardano anche i lessemi fondamentali, all’italiano comune “Mario è contento e Luigi ha fame” il meridione risponde “Mario sta contento e Luigi tiene fame”. Regionalismi semantici  in luoghi diversi incontriamo parole che, rispetto alla lingua comune, hanno uguale forma ma diverso significato. Il toscano “sciocco” ha due significati, che in italiano si rendono con due distinte parole: insipido e sciocco. LE VARIETÁ SOCIALI Le diversità che esistono tra gruppi e classi sociali si riflettono nella lingua. Le varietà sociali riguardano anche il lessico e dipendono da cinque fattori:  L’età: un giovane tende a differenziarsi, anche linguisticamente, da coloro che sono avanti negli anni, si compiace nell’esibire neologismi, mode linguistiche, modi enfatici.  Il sesso: nell’intonazione e nella velocità dell’eloquio si notano alcune differenze tra i due sessi.  La provenienza del parlante: avendo già parlato dei regionalismi, si aggiunge soltanto che in Italia varianti regionali e varianti sociali sono per lo più in stretto rapporto.  La classe sociale ed economica: di norma i ceti medio-alti hanno più possibilità e occasioni per migliorare la padronanza della lingua.  Il livello di istruzione: una persona istruita conosce più parole ed espressioni; le sa usare in modo appropriato secondo la situazione comunicativa. Molti vocaboli registrati nel dizionario sono forniti di indicatori di registro d’uso, rappresentati con particolari sigle: pop (=popolare). Si tratta di caratterizzazioni di comodo, nelle quali si mescolano due criteri diversi:  Il livello di lingua: si riferisce a una situazione comunicativa o che è proprio di un gruppo o di una classe sociale;  la dimensione storica del lessico. L’appartenenza dei termini specifici ai vari linguaggi settoriali è indicata da altre sigle: astron. (=astronomia), mus. (musica). I NEOLOGISMI Il neologismo è una parola o un’espressione nuova che arricchisce il lessico di una lingua. La neologia è l’insieme dei processi che servono alla creazione dei neologismi. Una parola ripresa da una lingua straniera, come camping o una parola derivata da elementi italiani come servocomando o spaghetteria sono neologismi. Tuttavia è preferibile riservare il termine neologismo a vocaboli come servocomando e spaghetterie, tratti da basi italiane mediante i procedimenti della formazione di parole; si parlerà invece di prestito nel caso di vocaboli ripresi da una lingua straniera. Distinguiamo:  Neologismi combinatori: risultano dalla combinazione di elementi della nostra lingua, mediante le regole della formazione delle parole: accendi + sigaro -> accendisigaro;  Neologismi semantici: sono vocaboli, presenti nel nostro lessico ma che hanno cambiato significato o hanno acquisito un secondo significato accanto a quello già esistente: orchestrare (scrivere le parti dei vari strumenti che compongono l’orchestra) ha assunto in seguito il significato generico di organizzare un’azione predisponendone le fasi e le componenti. Il parlante comune, disponendo di una parola di base e avendo la competenza dei meccanismi della lingua, può comprendere e creare un’intera serie di neologismi combinatori. S’intende che, nell’uso effettivo, esistono soltanto alcune forme, le altre restano come possibilità non sfruttate. Un neologismo combinatorio è anche una polirematica, la quale nasce dall’unione in un sintagma di due o più parole esistenti nella lingua: codice + barre -> codice a barre. A decidere che tali sintagmi si debbano considerare non accostamenti casuali di parole, ma alla stregua di veri e propri composti valgono i seguenti fattori:  la frequenza d’uso  l’utilità e funzionalità  la stabilità della forma Non è sempre facile distinguere un neologismo da un occasionalismo “neologismo nato in un’occasione di scarso rilievo e che si presume non sia destinato a rimanere nell’uso”. A fissare stabilmente un neologismo intervengono varie cause:  la funzionalità e la necessità del neologismo  il prestigio di cui gode l’individuo o il gruppo sociale che l’ha prodotto  il giudizio di gruppi qualificati di parlanti  la moda  la registrazione in un dizionario COME È COMPOSTO IL LESSICO DELL’ITALIANO In una prospettiva storica si distinguono 3 componenti fondamentali: 1. Il fondo latino ereditario: costituito da tutte le parole di tradizione popolare e ininterrotta che provengono dal latino volgare. 2. I prestiti: sono l’insieme delle parole tratte da altre lingue; un tipo particolare e molto importante è costituito dai latinismi; i latinismi sono più numerosi delle parole di tradizione popolare e pertanto rappresentano una componente di grande rilievo nella formazione del nostro lessico. 3. Le neoformazioni o neologismi veri e propri. Componenti marginali del nostro lessico sono: l’onomatopea, cioè la trasposizione in una forma linguistica arbitraria di rumori naturali e artificiali; la creazione dal nulla, che ha una certa diffusione nel linguaggio pubblicitario; le sigle che sono pronunciate per lo più secondo il nome delle lettere. DAL LATINO ALL’ITALIANO La nostra lingua deriva dal latino volgare, il latino parlato, diverso in parte dal latino classico. Tra il latino classico e quello volgare esistevano delle differenze:  Lessicali l’italiano ha ripreso direttamente dal latino un gran numero di latinismi, così accanto a bocca si è avuto l’aggettivo orale  Morfologiche e nella sintassi Abbaiano, barbone, ciao sono parole italiane a tutti gli effetti, ma all’origine erano dialettismi diffusi soltanto regionalmente. In questi casi si parla di prestito interno, giocato tra varietà linguistiche di territori che costituiranno poi la nazione italiana. Vediamo alcuni casi: - Liguria: abbaino, lavagna; - Lombardia: barbone, panettone, risotto; - Roma: burino, caciara, pennichella, ragazzo ‘fidanzato’; - Napoli: mozzarella, pizza, sfogliatella; - Sicilia: cannolo, cassata, mafia, solfara - Due sono le categorie principali di dialettismi entrati in italiano:  Termini tecnici, prodotti regionali tipici…  Parole espressive L’ETIMOLOGIA L’etimologia è lo studio dell’origine delle parole. L’etimo è la forma più antica alla quale si può risalire studiando la storia di una parola. Occorre fare una distinzione tra:  Etimo prossimo: di padre è il latino patre  Etimo remoto: è l’indoeuropeo phter Spesso nel rintracciare l’etimo di una parola è necessario andare oltre la corrispondenza tra due termini “latinoitaliano” e tener conto delle fasi di sviluppo intermedio, soprattutto quando in questo percorso sono avvenuti dei mutamenti di forma. L’etimologia diventa allora la storia della parola, considerata nei suoi mutamenti di forma (passaggio da una forma all’altra) e di significato (passaggio dall’uno all’altro significato). Un esempio di ricerca etimologica è quello che riguarda razza. Il vocabolo che in un primo tempo era stato posto in rapporto con il latino ratio. Solo successivamente si è individuata la sua vera origine: il francese antico haras ‘allevamento di cavalli normanni’, grazie all’analisi dei contesti in cui questa parola ricorre, infatti, la parola ricorreva in passato in contesti in cui era costante il riferimento ai cavalli: sono le locuzioni di grande razza, nato in sua razza, in cui la qualità dell’animale vien fatta dipendere dalla qualità dell’allevamento da cui proviene. Di qui il passaggio semantico da ‘allevamento’ a ‘razza’. Nella forma della parola si deve tener conto non soltanto della forma della parola ma anche del suo significato, il quale può mutare nel tempo in modo del tutto imprevedibile. L’etimologia è il frutto non soltanto dell’analisi linguistica, ma anche della ricostruzione dell’ambiente che ha visto nascere un vocabolo o una famiglia di vocaboli. Che l’etimologia non spieghi propriamente il significato delle parole lo dimostra fra l’altro l’esistenza dei cosiddetti falsi amici, ovvero parole appartenenti a due lingue diverse che, pur avendo la stessa origine (di solito il latino) e forma simile, possiedono significati diversi: factory (fabbrica) -> fattoria. L’ETIMOLOGIA POPOLARE Un filone importante è l’onomasiologia, che indaga come un determinato referente è espresso in una determinata area linguistica. Significato opposto e complementare a quello di onomasiologia ha semasiologia, lo studio dei diversi significati assunti da un vocabolo in varie aree linguistiche. L’etimologia popolare è il processo per lo più estraneo agli ambienti colti per il quale una parola viene reinterpretata servendosi di assicurazioni fondate su somiglianze formali o sulla vicinanza semantica. Incrocio fenomeno che si manifesta quando una parola si modifica sul modello di un’altra parola. L’etimologia popolare e l’incrocio sono fenomeni imparentati con la retroformazione e con il concetto di rianalisi: con questo termine ci si riferisce a vari fenomeni linguistici considerati per lo più in diacronia e riguardanti la fonologia, la morfologia e la sintassi, rispetto ai quali il parlante reinterpreta una parola o un costrutto complessi, in base a una segmentazione arbitraria, a false analogie e a etimologie di pura invenzione. GLI ITALINISMI Numerosi e apparsi in vari tempi sono gli italianismi adottati dalle lingue europee e altre. Al cinquecento risalgono termini della vita militare (soldato, caporale, colonnello), i quali sono stati largamente accolti all’estero. Nello stesso periodo troviamo nomi di maschere, termini di musica, delle belle arti; nel secolo successivo si avranno cupola, miniatura, per le arti e fra i termini di teatro opera, comparse, virtuose. Nel Novecento sarà la volta di pizza, pizzeria, vespa e lambretta. Si propone di distinguere tra gli influssi diretti e indiretti cioè passati entro un’altra lingua, formali o semantici, totali o parziali, anche dubbi o solo immaginati. 7. LA SEMANTICA I MOLTI MODI DI INTENDERE IL SIGNIFICATO  LA SEMANTICA È LA PARTE DELLA LINGUISTICA CHE STUDIA IL SIGNIFICATO DELLE PAROLE, DEGLI INSIEMI DI PAROLE, DELLE FRASI E DEI TESTI. Significato degli insiemi di parole è diverso dalle parole staccate (es. luna, miele e luna di miele). Gli studiosi distinguono:  una semantica logica che analizza le condizioni di verità degli enunciati, descrivendo i significati con gli strumenti della logica formale;  una semantica linguistica, mirata a definire il significato come una relazione linguistica tra i significati;  una semantica psicologica che considera il significato come una relazione tra i segni linguistici e le operazioni mentali;  una semantica cognitiva che si pone in prospettiva mentalista, orientando lo studio del significato verso l’analisi dell’esperienza e della coscienza. Occorre distinguere tra la denotazione, che è la relazione tra un’analisi lessicale e gli elementi che formano la sua estensione, e la connotazione che si riferisce ai significati secondari di un segno linguistico. Il significato lessicale è il significato di parole intere (es. ragazzo), il significato grammaticale, riguarda i morfemi e le categorie grammaticali: in ragazzo ad esempio la desinenza -o (maschile, singolare), a questa parola poi si può ad esempio aggiungere il suffisso ino. Il significato ha anche una dimensione sintattica e una dimensione pragmatica. Il significato della frase dipende dalla combinazione delle parole nella frase e dall’ordine in cui sono disposte. Nelle frasi ad esempio: tutti i ragazzi visitano i musei/ i ragazzi visitano tutti i musei, contengono le stesse parole, ma hanno un diverso significato a causa del diverso ordine dei componenti. Il significato dell’enunciato dipende dal contesto ed è analizzato nel settore della linguistica denominato “teoria degli atti linguistici”, che esamina l’uso della lingua in situazioni concrete. La semantica è una disciplina di frontiera, infatti si trova in rapporto con le altre discipline, come la semiotica (lo studio dei sistemi di comunicazione, lo studio dei segni, non solo quelli linguistici), la logica, la psicologia, la teoria delle comunicazioni, le scienze cognitive. Allo stesso modo, lo studio della semantica sconfina in quello di altri settori della disciplina: la morfologia, la sintassi, la pragmatica, la sociolinguistica. Bisogna fare attenzione a non confondere la semantica con la semiotica, che è la scienza generale dei segni e dei procedimenti interpretativi. Esiste un legame tra la semiotica e l’ermeneutica, l’arte d’intraprendere il senso dei testi antichi, dal momento che una cosa è un segno solo se è interpretata da un interprete come un segno di qualcosa. DEFINIRE IL SIGNIFICATO Il termine semantica fu coniato soltanto nel 1883 dal linguista francese Bréal. Lo studio di questo settore della linguistica pone molte difficoltà ai linguisti, infatti questi ultimi non sono affatto d’accordo neanche su che cosa si debba intendere per significato, si sono contate ben 23 definizioni diverse. Definizione di tipo referenziale -> sono quelle definizioni fondate su concetti e su basi psicologiche: il significato è visto come un concetto, un’immagine mentale, un’idea, un’entità spirituale. Definizione basata su un modello comportamentale -> il linguista americano Bloomfield, ricostruisce il significato attraverso le situazioni in cui si producono dei messaggi e le reazioni che essi provocano nell’ascoltatore (es. il significato di Ho fame, deduce che chi ascolta questa frase, porge qualcosa da mangiare e non da bere). Definizione contestuale -> il significato di una parola coincide con la somma delle sue attestazioni, vale a dire, con l’uso che se ne fa in una lingua, ciò è quanto afferma il filosofo austriaco Wittgenstein. Diverse invece sono le definizioni fornite dallo strutturalismo, le quali partono dal presupposto che il valore di un determinato elemento della lingua non è una sua proprietà intrinseca, ma risulta dai rapporti che intrattiene con gli elementi linguistici con cui si confronta. Il significato di automobile si definisce in rapporto ai significati di veicolo, camion, pullman… il significato dell’aggettivo caldo si definisce in rapporto ai significati di tiepido e freddo. Rientra nell’ambito dello strutturalismo l’analisi componenziale, che consiste nello scomporre il significato delle parole in alcuni elementi di base (es. bambino -> + umano, - adulto, + maschio). Distinguiamo tra il significato denotativo, che ha un carattere descrittivo di base e coincide sostanzialmente con il significato riportato nei dizionari, sul quale si trova d’accordo la grande maggioranza dei parlanti (es. notte: dal tramonto all’alba), e il significato connotativo, sul quale influiscono le istanze emotive e le associazioni di significati e di immagini suscitate da ricordi, esperienze, suggestioni (es. la notte può suscitare paura, ma anche pensieri romantici e ricordi graditi), elementi appunto che variano da persona a persona e a seconda delle circostanze. Il significato linguistico è composto dal significato denotativo + quello connotativo. Il significato che una parola o un’espressione assume nel contatto fra i parlanti all’interno di un gruppo sociale è il significato sociale (es. pronomi allocutivi). Il significato lessicale è il significato di parole intere. Il significato grammaticale è il significato dei morfemi o categorie grammaticali. Si distingue ancora tra la semantica sincronica (sviluppatasi con la linguistica strutturale) che studia i significati presenti in una data epoca, mettendoli in rapporto tra loro e osservandone i reciproci condizionamenti, e la semantica diacronica che descrive il cambiamento che i significati subiscono nel tempo, indagandone le cause e i caratteri dell’evoluzione. Che cos’è il significato? Mettendolo in rapporto con il significante la rappresentazione è stata fornita nel 1923 da due studiosi anglosassoni, Ogden e Richarda -> TRIANGOLO DI OGDEN E RICHARDS -> TRIANGOLO SEMIOTICO. La linea tratteggiata in basso vuol dire che il rapporto fra il significante (tavolo) e il referente, cioè l’elemento non linguistico (l’oggetto tavolo), non è diretto ma è mediato dal significato (la nozione di tavolo). Il significato è l’immagine del referente (reale o immaginario), la quale ci perviene dopo essere passata attraverso un filtro che è al tempo stesso sociale, ideologico e culturale. Infine occorre ricordare che il rapporto tra significante e significato è arbitrario e che un referente può restare inalterato nella realtà, ma il significante può assumere un nuovo significato. Che cos’è il significato di una parola? Ciò che da il significato è il contesto. Il significato dipende anche dalla presenza di altre parole che hanno significati analoghi. La definizione di base di significato è quella che vede il significato come elemento di raccolto tra un oggetto e una parola che lo esprime. Prima di dare un nome a un oggetto noi confrontiamo la nostra immagine mentale. Il rapporto tra significante e significato è arbitrario. UNA RETE DI ASSOCIAZIONI Alcune delle idee fondamentali della semantica moderna risalgono a Saussure, secondo il quale il significato non è qualcosa di oggettivo e di esterno alla lingua, né è qualcosa che sta dentro la mente dell’uomo; il significato si trova nella lingua e si può definire all’interno di essa. Questa affermazione si basa su due principi:  il carattere arbitrario del significato  il fatto che ciascun significato si definisce in rapporto ad altri significati e pertanto nell’ambito di un sistema. In una lingua ogni parola si trova al centro di una rete di associazioni, ad esempio la parola insegnamento può essere associata a insegnare per la base comune, a avvenimento per il suffisso comune, a studio per l’analogia dei significati e a mento per l’aver in comune le due sillabe finali. Bally, un discepolo di Saussure sviluppa il concetto di campo associativo di parole. In una lingua si costituiscono insiemi di parole e di espressioni, i cui significati sono fra loro solidali e s’integrano a vicenda. In una lingua determinata i vocali e le espressioni che indicano le parti del corpo umano fondano un campo associativo. Altrettanto accade per i vocaboli che distinguono i colori e per i vocaboli che fissano i rapporti di parentela. Questi insiemi di vocaboli formano dei sistemi. Ad esempio, tutti gli uomini del mondo vedono i colori allo stesso modo, ma li distinguono secondo il sistema dei colori presenti nella propria lingua, i giapponesi infatti distinguono con due nomi diversi quello che per noi occidentali è il colore rosso. In una comunità esistono sfere concettuali stabili con le loro denominazioni fisse (i colori, i rapporti di parentela), ma esistono anche sfere concettuali mobili, riguardanti aspetti e settori della vita sociale che si modificano a causa del progresso delle tecniche e del mutare dei costumi: le comunicazioni, i mezzi di trasporto, la pubblicità, la moda. Il significato di una parola non è fisso, ma dipende da un sistema di relazioni. Ogni parola rimanda ad altre con la quale intrattiene affinità di significato di vario tipo, costituendo un insieme, una famiglia di parole. Campo semantico -> linguista tedesco Trier, in francese bois, corrisponde all’italiano: legno, legna, legname e bosco. Le lingue impongono al mondo significati, concetti e proprie griglie interpretative. Il linguista danese Hjelmslev ha parlato di forma del contenuto, la quale viene imposta a tutto ciò che deve essere nominato e pertanto risulta diversa da lingua a lingua. Il campo semantico è un mosaico: ogni parola è una tessera, l’insieme delle parole ricopre tutta una zona di significato. Il campo è un sottosistema lessicale, cioè un insieme strutturato di parole che si condizionano a vicenda e rimandano a uno stesso concetto (ad esempio, tutti i vocaboli che si riferiscono al campo semantico della casa sono in stretto rapporto tra loro, ad esempio, le parti della casa come tetto, finestra; i tipi di casa come palazzo, villa; gli spazi della casa come cucina, bagno). Il campo semantico è costituito da parole che hanno un’affinità di significato e da parole che hanno un’affinità grammaticale. Vari sono i metodi usati per analizzare il significato delle parole comprese in un campo semantico:  si possono fare prove si sostituzione, controllando se, in un determinato contesto l’operazione risulta valida: è un vestito elegante/raffinato. Se due parole risultano sostituibili in molti contesti, è probabile che i loro significati siano vicini.  prove di distribuzione: si vede in quali contesti può apparire uno stesso vocabolo; abito elegante, donna elegante. In italiano esistono più di 200 verbi che entrano nel campo semantico del movimento, diversi tra loro in base alla direzione del movimento (avanti, indietro, in alto, in basso), il luogo in cui si entra o da cui si esce, il supporto su cui si svolge il movimento (sulla terra, in acqua, in aria), la modalità (veloce, piano, con forza, con delicatezza), moto autonomo o attuato con un mezzo/veicolo. Esempi pag. 154/155 Si può distinguere tra verbi generici, come uscire, e verbi specifici come evadere (uscire da una detenzione). Si possono cercare coppie oppositive in questo modo: si prendono due lessemi e si vede in che cosa consiste la differenza, ad esempio nella coppia tuffarsi-cadere, il primo verbo indica un movimento volontario, il secondo un movimento involontario. Si possono aggiungere indicazioni modali per verificare eventuali compatibilità e incompatibilità (es. l’automobile è passata lentamente/velocemente. L’automobile è sfrecciata lentamente -> il verbo passare è neutro, mentre sfrecciare è compatibile solo con un movimento veloce). Quali sono le cause della polisemia?  una parola può assumere diversi significati o sfumature di significato secondo i contesti in cui si trova;  una parola, o un’espressione, può acquisire un significato particolare in un determinato ambiente, presso un gruppo d’individui, in una determinata tecnica (es. campagna pubblicitaria, campagna elettorale, campagna: pezza onorevole nel terzo inferiore dello scudo);  il linguaggio figurato conferisce alle parole nuovi significati (es. forbice salariale);  mediante il calco una lingua straniera può attribuire a una parola italiana un nuovo significato. La polisemia permette di migliorare il funzionamento della lingua. Se ogni parola avesse un solo significato, dovremmo fissare nella memoria tante parole quanti sono i significati di cui abbiamo bisogno. Grazie alla polisemia invece possiamo esprimere più di un significato con una sola parola. Allo stesso tempo però il fatto che una parola abbia più significati è fonte di ambiguità. Ciò accade quando il contesto non è sufficientemente chiaro oppure quando si usano parole generiche. Esiste anche una polisemia di suffissi e prefissi: il suffisso -tore, può riferirsi sia a una persona, contestatore, che a una macchina, registratore. -Auto vale da se stesso, autocontrollo, e automobile. La polisemia grammaticale fa si che una parola come giovane possa essere sia un aggettivo sia un nome. L’OMONIMIA Due o più parole di diverso significato possono avere lo stesso significante: riso: ridere, cibo. L’avverbio deriva dalla locuzione a punto, il nome è un deverbale di appuntare. La causa principale della omonimia è dunque la convergenza fonetica. In seguito ai mutamenti fonetici che intervengono nell’evoluzione di una lingua, due o più parole che in origine avevano forme diverse, si ritrovano ad avere la stessa forma (es. insegna: verbo insegnare e insegna come cartello). Un diverso fenomeno è la differenziazione dei significati: da fiore discende il diminutivo fioretto, che significa sia piccolo fiore che un’opera buona, che una spada. In italiano gli omonimi sono al tempo stesso degli omofoni (che ha uguale suono, stessi fonemi) e degli omografi (che ha uguale scrittura, stessi grafemi) -> lira: moneta, strumento musicale. Vi possono anche essere delle differenze fonetiche o di accento, come pésca/pèsca. Altre lingue mostrano fenomeni diversi, in inglese ad esempio le parole site (sito), sight (vistra), to cite (citare), si pronunciano tutte e tre allo stesso modo, in questo esempio abbiamo omofoni che non sono omografi. L’ANTONIMIA Alto/basso, maschio/femmina, bellezza/bruttezza, sono coppie di parole in cui ciascun elemento esprime un significato contrario dell’altro. Si tratta di antonimi e il fenomeno si chiama antonimia. Esistono due tipi di contrari: il contrario di alto non è solo basso, ma anche non alto. Il primo si chiama contrario, il secondo contraddittorio. I contrari non possono essere entrambi veri, ma possono essere entrambi falsi (non possiamo dire che una persona è alta e bassa allo stesso tempo, ma può essere benissimo né alta né bassa), i contraddittori non possono essere entrambi veri e non possono essere entrambi falsi (una persona non può essere al tempo stesso alta e non alta). Nel pensiero comune i contrari sono più importanti e più utilizzati dei contraddittori: si dice alto e basso piuttosto che alto e non alto. Non tutti i contrari si pongono sullo stesso piano. I contrari graduabili esprimono una comparazione: alto/basso, bello/brutto. Si mettono a confronto due cose per constatare se possiedono una certa proprietà: io sono più alto di te. Invece non possiamo dire io sono più vivo di te. I contrari non graduabili invece: la negazione di un termine di ciascuna coppia implica l’affermazione dell’altro termine (x non è vivo implica che x è morto). In alcuni casi questi aggettivi si possono usare in senso figurato (cioè vivo= vivace, se si dice io sono più vivo di te, si intende proprio la vivacità). Nel parlare di ogni giorno i contrari graduabili possono diventare non graduabili. Per una sorta di convenzione che interviene tra i parlanti, si pongono sullo stesso piano dei contrari non graduabili: celibe/sposato, vivo/morto, maschio/femmina. Di un uomo domandiamo: quanto è alto? non quanto è basso, per una sorta di convenzione infatti si assume soltanto uno dei termini della coppia come rappresentante di entrambi. Il termine scelto è quello considerato positivo. Un fenomeno particolare è l’enantiosemia: si manifesta quando uno stesso vocabolo può avere due significati opposti: come clima fresco e pane fresco, appena sfornato. LA SINONIMIA Sono detti sinonimi due (o più) vocaboli che hanno lo stesso significato fondamentale (es. via/strada). Fondamentale perché in realtà sinonimi assoluti non esistono: c’è quasi sempre un qualcosa che rende impossibile la perfetta equivalenza dei significati, ad esempio: porzione, sezione e frazione: la sinonimia di questi tre vocaboli si fonda sul fatto che tutti e tre hanno in comune il semema “parte di qualcosa”, ma in altri contesti l’intercambiabilità non è possibile: si dice una porzione di torta e non una sezione di torta. I tre vocaboli quindi sono sinonimi solo in determinati contesti (sinonimia approssimativa). Si ha invece una sinonimia assoluta quando due o più vocaboli sono intercambiabili in tutti i contesti, ma sono rari: affitto, fitto; tra, fra. Un tipo particolare di sinonimi sono gli iperonimi e gli iponimi. L’iperonimo è un nome che, per il suo significato più generale, si trova a un livello più alto di un altro nome, l’iponimo è un nome che si trova al livello del sottostante, es. fiore e rosa, il primo indica una classe più ampia di quella designata dal secondo, fiore dunque è un iperonimo di rosa e rosa è un iponimo di fiore. Gerarchia ramificata, es a pag. 167. Un tipo particolare di relazione semantica è quella che intercorre tra i nomi delle parti di un insieme, detti anche meronimi, e l’insieme stesso, detto olonimo: portiera/automobile, ala/aeroplano. I grammatici greci della scuola alessandrina considerano l’analogia un principio associativo fondamentale che serve a ordinare in categorie le strutture linguistiche e concettuali. LA FRASE E IL SIGNIFICATO I linguisti si sono occupati per lo più del significato dei vocaboli e delle espressioni, più raramente del significato delle frasi. Della semantica della frase si conosce ancora poco. Soprattutto non ci è chiaro come il significato di una frase possa derivare dai significati delle parole che la compongono. Non è difficile analizzare il significato di frase dalla struttura semplice, come L’uomo solleva la pietra, ma se la struttura è più complessa, le difficoltà aumentano. Accade spesso che i significati dei singoli componenti derivano dal significato complessivo della frase. Molti linguisti ritengono che il cosiddetto componente semantico di una frase dipenda esclusivamente dal lessico: di conseguenza si considera il lessico come l’unico dominio della semantica. Ma il significato di una frase risulta anche da altri fattori. Nella frase Oggi è proprio una giornata fredda, se è pronunciata in una certa situazione, non è semplicemente una costatazione sulla temperatura, ma è anche un invito implicito di chiudere la finestra -> forza pragmatica. Nel corso della giornata, facciamo un largo uso di queste frasi, dotate di un significato implicito, del tutto diverso da quello che appare in superficie: es. ma non dovevi uscire?, volendo intendere: vattene. Frasi idiomatiche: es. di punto in bianco, cadere dalle nuvole. Il significato convenzionale di tali frasi è estraneo ai significati dei rispettivi componenti. Il significato di una frase deriva non soltanto dl significato dei suoi componenti, ma anche da fattori esterni alla frase stessa. Per interpretare il significato di una frase, oltre alla struttura logico-semantica di base, bisogna considerare anche le informazioni cotestuali, contestuali, referenziali e pragmatiche. Per quanto riguarda il significato di una frase, alcuni linguisti pongono in primo piano il concetto di accettabilità. Il sole riscalda la Terra è una frase accettabile, il sole ipoteca la terra è una frase grammaticale ma non accettabile, sole il la riscaldano terra non è né grammaticale né accettabile. L’accettabilità, dipende da molti fattori che non sono esattamente definibili. Un enunciato assurdo può diventare accettabile se si scopre il sottinteso che ne è alla base. Esistono delle regole semantiche che legano tra loro i componenti di una frase secondo rapporti di equivalenza, d’implicazione e d’incompatibilità, ma tali regole si possono applicare soltanto a frasi ben definite dal punto di vista referenziale, lessicale e modale. Non tutte le frasi possiedono questi requisiti. 8. LA PRAGMATICA La pragmatica, settore della linguistica che studia i rapporti tra la lingua e i parlanti, si occupa in particolare della presenza del soggetto nel discorso e delle azioni che conseguono l’uso del linguaggio. L’ORIGINE La pragmatica è un temine introdotto dal filosofo americano Charles W. Morris per indicare quella parte della semiotica che studia i segni in rapporto a chi li usa, e quindi in rapporto al contesto e al comportamento segnico e linguistico mediante il quale si attua il processo della significazione. Esamina il linguaggio come azione, come forma di un agire linguistico che si svolge all’interno di una determinata situazione comunicativa. Se la pragmatica studia il rapporto tra i segni e gli utenti, la sintassi studia la combinazione dei segni e la semantica si occupa del rapporto dei segni con i referenti. Una caratteristica fondamentale della disciplina è il rapporto di collaborazione con i filosofi, i sociologi, gli psicologi, gli antropologi, gli informatici e gli studiosi di scienze cognitive. John Austin -> un filosofo del linguaggio, si può considerare il fondatore della pragmatica, che grazie a lui è divenuta un filone autonomo di studi all’interno della filosofia del linguaggio. Obbiettivo della pragmatica -> definire il significato in rapporto alle convenzioni sociali e culturali che regolano la comunicazione linguistica. IL CONTESTO Il contesto è tutto ciò che sta intorno a una realizzazione linguistica, vale a dire gli elementi sia linguistici sia della situazione comunicativa che rendono possibile l’interpretazione degli enunciati. Gli studiosi distinguono: Cotesto  il contesto esclusivamente linguistico Contesto  riguarda tutte le componenti della situazione extralinguistica. Nella vita quotidiana si ricorre continuamente al cotesto e al contesto in modo implicito ed esplicito, altrimenti la comunicazione risulterebbe difficile, se non del tutto compromessa. La vita di ogni giorno ci mostra quanto sia importante tutto ciò che circonda ogni atto comunicativo. Ciò si vede bene nel dialogo, che rappresenta lo scambio linguistico fondamentale. In ogni momento e in ogni situazione possiamo osservare quale importanza abbiano i seguenti fattori: la personalità e l’atteggiamento di chi parla e di chi ascolta, i rapporti che intercorrono tra emittente e ricevente, le circostanze in cui avviene il dialogo, l’influsso che sul dialogo esercitano discorsi ed eventi avvenuti precedentemente. “Qui si parla in italiano” esposto può essere un un’informazione, un invito, una raccomandazione. Ogni contesto è responsabile di un diverso sistema di attese e di reazioni. Si deve tener conto della situazione, del tempo e del luogo in cui avviene la comunicazione, delle conoscenze del ricevente, della qualità dei contenuti ed eventualmente dei discorsi che sono stati fatti in precedenza sugli stessi argomenti ora trattati. Distinguiamo un cotesto e un contesto globali dove il rapporto riguarda condizioni generali; da un cotesto e contesto locali dove troviamo condizioni particolari. Ad esempio le elezioni universitarie si svolgono tutte secondo alcuni parametri fissi (tema generale, esposizione frontale, lingua usata dal docente, orario e durata delle lezioni, aula), ma ogni lezione ha un argomento specifico, che comporta variazioni nei contenuti, nei modi di esporre. Queste variazioni sono possibili perché la lingua umana possiede una notevole flessibilità nelle forme, nei modi e nelle configurazioni che assume a seconda delle circostanze. La lingua umana possiede una proprietà particolare: la vaghezza, termine usato per indicare che le parole non hanno quasi mai un significato fisso e definito, ma vago, non determinato una volta per tutte e soggetto a modificarsi; ciò permette alle parole di arricchirsi di nuovi significati o sfumature di significato a seconda del cotesto e del contesto. In ogni interazione comunicativa le caratteristiche del cotesto e del contesto variano da situazione a situazione e dipendono da diversi fattori:  partecipanti alla conversazione  atti, forma e contenuto di ciò che viene detto  risultati che si vogliono ottenere  localizzazione, ma anche scena che si viene a creare  agenti strumentali, come la scelta del mezzo della comunicazione  norme di interazione e interpretazione: i comportamenti specifici, che accompagnano gli atti linguistici, e le regole condivise per comprendere che cosa succede negli atti linguistici stessi.  Tipi diversi di comunicazione: discorso confidenziale, discorso pubblico, dialogo tra due o più persone, intervista, riunione di lavoro, dibattito, lezione, interrogazione, comizio, talkshow…  Espressione, costituita dal tono, dal modo e dall’umore con cui un atto linguistico è compiuto. Frasi in vitro  frasi isolate di una lingua. Contesto globale -> in relazione con le componenti sociolinguistiche di una determinata situazione enunciativa; Contesto locale -> in rapporto con situazioni di tipo cognitivo e linguistico. L’INTERAZIONE La pragmatica studia una lingua dal punto di vista degli utenti, considerando: le scelte che essi compiono nel comunicare; le costrizioni che essi incontrano usando la lingua nell’interazione sociale; gli effetti ottenuti da un certo uso della lingua. L’interazione riguarda l’influsso reciproco che i partecipanti esercitano sulle loro azioni linguistiche. L’interazione è l’insieme degli avvenimenti che compongono uno scambio comunicativo, il quale si scompone in sequenze, scambi e altre unità costitutive. Un’interazione può essere verbale o non verbale. Il mutuo condizionamento riguarda i temi trattati, i modi della presentazione e dell’espressione verbale. Nella conversazione si individuano: - categorie discorsive: che dipendono dall’organizzazione del discorso: atto, intervento, scambio - principi di concatenazione, i quali permettono di distinguere sequenze discorsive ben formate o malformate - transizioni, le quali avvengono in domini tematici e situazionali omogenei e riguardano gli accomodamenti, i compromessi e i patteggiamenti tra i partecipanti a uno scambio comunicativo. I modi e le strategie conversazionali sono diversi, da gruppo sociale a gruppo sociale da comunità a comunità. LA DEISSI La deissi è l’insieme dei fenomeni con i quali si realizza un rinvio dal testo alla realtà extralinguistica. Indessicalità  il referente non può essere individuato se non in rapporto alla situazione degli interlocutori nel momento in cui parlano (a un amico che ha una penna in mano: me la presti?). Io, qui, ora sono i tre parametri di base del riferimento deietico e costituiscono il campo indicale, vale a dire le coordinate di spazio e di tempo nelle quali avviene la comunicazione. Ogni campo indicale si definisce in base al punto di osservazione del parlante, la cosiddetta origo, il campo indicale rimane costante, ma l’origo muta col mutare del parlante, della sua posizione nello spazio e nel tempo, del suo atteggiarsi. Indessicalità  l’uso di segni linguistici che fondano tutto o parte del loro significato sulla situazione comunicativa è una procedura enunciativa e referenziale. Riferendoci ai tre elementi che abbiamo pensato io, qui, ora possiamo distinguere:  una deissi personale: serve a identificare i partecipanti allo scambio comunicativo  una deissi spaziale: realizzata mediante gli avverbi qui/qua, lì/là, qui e lì si riferiscono ad un luogo preciso, qua e là a un luogo generico  una deissi temporale: si riferisce al momento dell’enunciazione ed è resa con: avverbi, ora, allora, fra; alcuni aggettivi, prossimo, futuro, scorso; i dimostrativi questo e quello; i tempi del verbo  una deissi testuale: appare dove il testo diventa il cotesto (es. nel presente capitolo si parla della pragmatica, nel precedente si trattava della semantica)  una deissi sociale: riguarda allocutivi che codificano le relazioni sociali, come l’uso di tu/lei e di titoli riservati a particolari interlocutori. Tempi deittici ancoraggio temporale semplice, mentre tempi deittico-anaforici hanno un ancoraggio temporale complesso. SITUAZIONI REALI Gli atti linguistici indiretti richiedono sempre un lavoro d'interpretazione del messaggio (ciò che il parlante intende comunicare, spesso non viene enunciato direttamente o formulato in maniera esplicita. Es. vieni al cinema con me stasera? devo preparare un esame… si capsce che è un no). Secondo il filosofo inglese Herbert Paul Grice in ogni comunicazione è indispensabile il principio di cooperazione tra i parlanti: il tuo contributo alla conversazione sia quello che è richiesto, al momento opportuno, dagli scopi o dall'orientamento del discorso. Da questo principio generale si possono derivare quattro massime più particolari che devono governare una conversazione ben condotta:  massima di quantità: "dai esattamente la quantità di informazione richiesta dagli scopi dello scambio"  massima di qualità: "tenta di dare un contributo vero, e quindi non dire cose false o per le quali non hai prove adeguate";  massima di relazione: "sii pertinente, ovvero dì cose che hanno rilevanza ai fini del discorso".  massima di modo: "sii chiaro, e quindi evita di essere oscuro, ambiguo, prolisso, confuso" Questi principi sono spesso violati per formare un’impalcatura conversazionale: si forma un messaggio che ne sottintende in realtà un altro; cioè un atto linguistico indiretto. Si distinguono: l'implicatura convezionale, basata sulle convenzioni linguistiche, e l'implicatura conversazionale, che utilizza il cotesto della conversazione. Possiamo violare la massima di quantità per reticenza o, ancor più spesso, per una forma di cortesia. Quando non siamo sicuri della verità del nostro enunciato, ricorriamo a marcatori epistemici del tipo forse, probabilmente, può darsi o a frasi del tipo non sono sicuro ma credo che. La massima di relazione può essere violata per cambiare repentinamente argomento, con lo scopo di uscire da una situazione imbarazzante. La massima di modo non viene spesso rispettata nei testi poetici. In realtà, anche le violazioni costituiscono uno sfruttamento comunicativo delle massime stesse. L’ascoltatore presuppone, fino a prova contraria, che il parlante continui a cooperare e quindi, trovandosi di fronte a incongruenze o mancanze di continuità di senso, è indotto a ricercare nelle parole dell'interlocutore un senso riposto. Dimensione sociale del linguaggio mentre si parla, si controllano le reazioni che le nostre parole suscitano nel nostro interlocutore: se ci accorgiamo che qualcosa non va, si corregge il tiro. L'atteggiamento del nostro interlocutore ci può suggerire un argomento nuovo o un nuovo modo di presentare le nostre ragioni. Si segue una strategia discorsiva. LA MODALITÁ La modalità è un termine che si riferisce a tutti i mezzi linguistici usati dal parlante per rappresentare il suo atteggiamento nei riguardi di quello che dice. La modalità è una transcategoria che coinvolge l'intero sistema linguistico. La modalità mette il parlante in rapporto con la sua enunciazione e che costituisce l’anima del discorso. Ciò che è detto, il contenuto cognitivo, il dictum è sempre accompagnato dal modus. La categoria della modalità è articolata in almeno due sottocategorie: la modalità epistemica e la modalità deontica; entrambe condividono due tratti - modalità epistemica: descrive l’opinione del parlante nei confronti della preposizione (questa auto deve essergli costata cara) - modalità deontica: descrive la necessità o possibilità di atti compiuti da agenti moralmente responsabili (puoi parlare quando vuoi) La modalità dinamica o circostanziale riguarda il rapporto tra circostanze empiriche che determinano il necessario o il possibile verificarsi di un evento; si parla di modalità dinamica anche quando si attribuisce una capacità al soggetto partecipante all'azione espressa dal verbo principale. Dalla modalità epistemica si distingue l'evidenzialità: una categoria che riguarda l'indicazione fornita dal locutore sulla fonte della sua informazione e sull' affidabilità di quest'ultima. Queste due nozioni sono tanto legate tra loro che alcuni considerano l'una inclusa nell'altra o le ritengono tra loro intrecciate. Le opposizioni di modo possono segnalare un’opposizione tra lo statuto di realtà e la fonte evidenziale. Un esempio di condizionale di attribuzione, così detto perché riporta l’opinione di altri: “sarebbero in arrivo nuovi modelli di auto”; questo condizionale è anche detto del dubbio o giornalistico, perché lo si ritrova di frequente nei giornali. STORIA DI UN TOPO E DI UN TOPOLINO La morfopragmatica è un indirizzo di studio che mira a combinare l’analisi morfologica con considerazioni di natura pragmatica. L’interpretazione di certi fenomeni morfologici non si può spiegare senza il ricorso a parametri che caratterizzano la situazione comunicativa in cui una determinata forma viene usata. Consideriamo l’uso del suffisso diminutivo in italiano. Normalmente il diminutivo indica una quantità ridotta o una dimensione piccola: cassetta è una casa piccola. Aiuto c’è un topo! Ma dai è un topolino. IN quest’ultimo caso sia topo che topolino si riferiscono allo stesso esemplare di roditore, ma con l’uso del diminutivo, il topo viene reinterpretato in una dimensione ridotta, che vuole ridurre lo spavento. Il marito intende dire che la situazione non è pericolosa come ritiene la moglie. La moglie poi risponde: è un topolone, altro che! Vuole negare quanto affermato dal marito, rimanendo nella posizione di partenza. Il significato del diminutivo è dipendente dal contesto pragmatico: può servire a sottolineare l’intimità e l’amicizia (che cosa ne dici di farci un grappino?) esistente tra gli interlocutori; può essere segno di snobismo (perché non venite tutti nella mia casetta in campagna? (in riferimento a una residenza sontuosa)); può avere valore ironico- spregiativo (senti, ragazzino, smettila di fare lo spiritoso). Il diminutivo viene usato quando ci si rivolge ad un bambino, molti diminutivi ricorrono anche nel parlato degli innamorati. Sono le donne a impiegare il diminutivo con maggiore frequenza. L’uso del diminutivo dipende dall’atteggiamento dei partecipanti al dialogo, dal tipo di atto linguistico e dalla situazione comunicativa. Il suffisso -ista di per sé è neutro rispetto al sesso del referente: farmacista o borsista possono riferirsi sia a una donna sia a un uomo. Tuttavia, alcuni di questi nomi "ambigui" ricevono spontaneamente un'interpretazione specifica: così le parole culturista ed elettricista evocano di solito un referente maschile, estetista evoca per lo più un referente femminile. Queste interpretazioni sono ovviamente legate alle nostre conoscenze enciclopediche e alle nostre abitudini e convenzioni sociali. 9. LA SOCIOLINGUISTICA Questa disciplina si è sviluppata grazie all’apporto di alcune correnti della sociologia; il che ha favorito l’analisi dei rapporti tra la lingua e la società nei loro molteplici aspetti. Due fondamentali settori di studio: la variazione linguistica e il repertorio linguistico. LINGUA E SOCIETÁ La situazione sociolinguistica italiana è caratterizzata dalla presenza di un italiano comune, di italiani regionali e di dialetti. Questi ultimi non sono varietà dell’italiano, ma varietà autonomie, derivate direttamente dal latino volgare e alle quali conviene l’etichetta dialetti italoromanzi. Tra italiano comune e dialetti, vi sono differenze fonetiche, lessicali, morfologiche e sintattiche. In questo scambio di atti linguistici (richieste, affermazioni, domande) e strategie di vario tipo, volte a rendere il messaggio chiaro, efficace, persuasivo. Un messaggio non è soltanto un’esposizione di fatti, un’argomentazione, la richiesta di qualcosa, una risposta, un comando ecc… è anche un attacco o una difesa, una sfida o un ripiegamento. Al tempo stesso, il messaggio rivela lo status sociale di chi lo produce, i suoi rapporti con i partecipanti. Un dialogo sarà diverso a seconda degli interlocutori che vi partecipano. Nel parlato come nello scritto ci si rivolge in modi diversi a un parente, a un amico, a un superiore, a un estraneo. La sociolinguistica è lo studio della lingua in rapporto alla società che la usa. Le ricerche hanno evidenziato nei parlanti delle diversità, presenti in tutti i livelli di analisi e riconducibili a condizioni sociali, economiche e culturali. Alla fine degli anni 70 del secolo scorso, la nascita della sociolinguistica, promossa dal linguista americano William Laboy è stata caratterizzata dall’analisi delle correlazioni tra le variabili linguistiche (fonetiche e morfosintattiche particolarmente) e le varianti non linguistiche (classi sociali dei parlanti, età, sesso): è questa la sociolinguistica della variazione. In seguito la disciplina ha riguardato altri temi: i rapporti tra gli usi della lingua e le classi sociali. Tra i percorsi più frequenti: l’analisi del discorso, l’analisi della conversazione, il riflesso delle ideologie nel linguaggio, le relazioni tra linguaggio e potere, l’identità linguistica, i vari aspetti della psicologia sociale. La sociolinguistica percorre due strade principali: un indirizzo variazionistico, che tiene conto soprattutto dei parametri di diatopia, diastratia e diafasia, analizzando statisticamente repertori di parlato, e un indirizzo interazionale, atto a ricostruire le strategie e i meccanismi con i quali i parlanti attribuiscono significato alle produzioni linguistiche e con i quali si produce l’interazione. Mentre la sociolinguistica variazionista parte dall’analisi dei fatti sociali per arrivare ai fatti linguistici, che vengono descritti e spiegati in termini di correlazione con variabili sociali, nell’indirizzo interazionale si segue la direzione opposta: dalla lingua si va alla società. Il comportamento verbale viene considerato una forte e una causa, almeno parziale, dei rapporti e ei fatti sociali. Questi ultimi sono in parte un prodotto del comportamento linguistico. La sociolinguistica si è giovata delle ricerche compiute nel campo dell’etnografia, la scienza che studia la cultura di un popolo, riti, cerimonie, feste, credenze, norme, sono osservazioni sul campo, quindi è un’osservazione partecipante. Da una parte vi sono fattori sociali che influenzano la lingua, dall’altra la lingua esercita il suo influsso sulla costruzione della società. La distribuzione sociale della variazione linguistica, a tutti i livelli e in tutti i suoi aspetti, è oggetto di studio della sociolinguistica. In Italia la sociolinguistica si è innestata nella dialettologia e ha perseguito obbiettivi riguardanti situazioni del presente e del passato. L'attenzione si è concentrata sui dati empirici e sulle dimensioni sociali e culturali dei vari fenomeni, mostrando un ridotto interesse nei riguardi delle teorie. L'Unità politica raggiunta nel 1870 ha rappresentato uno spartiacque: prima di tale data l'esistenza di più Stati nei confini d'Italia era una condizione non ininfluente sulla vita della lingua; con l'unificazione le direttive riguardanti l'insegnamento della lingua hanno acquisito coerenza, è iniziata l'erosione dei dialetti a vantaggio di una norma che tuttavia ha faticato a imporsi. Dal Secondo dopoguerra a oggi altri mutamenti hanno condizionato l'uso della lingua: l'industrializzazione, lo sviluppo della tecnologia. Di conseguenza il rapporto lingua-dialetti è mutato. In tale contesto vanno poste le domande che la sociolinguistica pone alla ricerca:  chi parla  quale lingua usa e quale varietà di lingua usa  quando si parla  a proposito di che cosa  con quali interlocutori  come, perché, dove L'etnografia del parlare inquadra l'attività verbale nella trama delle relazioni sociali proprie di una cultura, e pertanto è più vicina alla linguistica antropologica che non alla sociolinguistica vera e propria. Strettamente legata all'etnografia del parlare è l'etnolinguistica, che studia: le finalità e le differenze culturali che si manifestano nella lingua; il rapporto tra la lingua, la cultura dei parlanti e la loro "visione del mondo». L'etnolinguistica riserva un'attenzione particolare alla semantica lessicale e alla tipologia dei testi. La sociolinguistica dell'immigrazione. Con gli immigrati provenienti da vari Paesi del mondo, portatori di lingue e di tradizioni spesso assai lontane dalla nostra, si sono formati microcosmi linguistici, dotati dapprima di varietà comunicative veicolari, passati poi in tempi brevi a varietà di acquisizione dell'italiano. Si è sviluppata la cosiddetta linguistica acquisizionale, un settore della linguistica applicata, dedicato allo studio dell'acquisizione di una lingua non materna, mediante l'interazione con parlanti nativi di quella lingua. Con apprendimento s'intende piuttosto la conquista, basata sullo studio della grammatica e delle regole, di una seconda lingua da parte di stranieri. Il processo è lento nella comunità sinofona (i cinesi), più veloce nelle comunità rumena, araba e slava. I genitori che parlano la lingua di provenienza e i figli che rispondono in italiano. La sociolinguistica s'interessa in primo luogo della lingua parlata e in particolare dell'interazione comunicativa tra individui. L'analisi della conversazione è condotta con il metodo induttivo. Per registrare dialoghi, conversazioni, discorsi spontanei, il ricercatore si serve talvolta di un microfono nascosto. I contesti in cui si svolge la ricerca sono vari: dagli scambi comunicativi eseguiti in ambienti o in luoghi aperti, all'incontro faccia a faccia e alla conversazione telefonica; le situazioni sono sia formali (lezione universitaria, discorso ufficiale) sia informali (talk show televisivo, interviste in strada). Un'analisi di questo tipo ha le sue regole: si basa sulla mossa, che è l'unità minima della conversazione, tiene conto delle sequenze complementari ("domanda/risposta", "richiesta/accettazione"); e delle implicature conversazionali. La strategia del nostro parlare si traduce in cinque discorsivi o ranghi: 1) interazione 2) sequenza 3) scambio 4) intervento 5) atto linguistico. TRA DUE VIAGGIATORI L'analisi conversazionale può dare molti risultati all'analisi linguistica. La presenza di due o più interlocutori e il susseguirsi delle battute condizionano lo sviluppo del dialogo. Ciascuno dei partecipanti deve "regolarsi" su quello che è stato già detto da altri. Ogni battuta dipende dalla precedente e imposta quella che segue. I due viaggiatori non sono in confidenza tra loro, si danno del lei (allocutivo di rispetto). Il primo viaggiatore vorrebbe che si aprisse un finestrino per far entrare aria fresca; ma non lo dice; lo fa capire con un discorso implicito (fa tanto caldo, non trova?). Confrontando due dialoghi che hanno lo stesso contenuto, ma che presentano caratteri, tratti fotmali e pragmatici diversi, si comprendono meglio le scelte compiute nella comunicazione. Quando si scambia una conversazione:  si segue un certo progetto;  si fa qualcosa (per esempio, si convince / si tenta di convincere l'interlocutore);  si sceglie una varietà della stessa lingua. LA SITUAZIONE SOCIOLINGUISTICA ITALIANA L'italiano è una "lingua per elaborazione" e, rispetto ai dialetti, è una "lingua tetto", è sovraordinata a essi. Per secoli l'italiano è stata una lingua elitaria, usata in prevalenza dalla classe colta in situazioni-di formalità. Al momento dell'unificazione nazionale (1870) l'italiano viveva in un regime di diglossia (lingua e dialetto sono usati in ambiti distinti e separati); la diglossia era destinata a dissolversi in una situazione di bilinguismo (lingua e dialetto sono usati negli stessi ambiti, a seconda della situazione e del contesto); al bilinguismo ha fatto seguito (negli ultimi cinquant'anni) la dilalia (lingua e dialetto sono usati alternativamente e congiuntamente, senza tenere conto di ambiti, contesti e situazioni). Attualmente bilinguismo e dilalia sono situazioni diffuse nell'intera Penisola, mentre è scomparsa quasi interamente la diglossia. Dopo l'Unità è progredita l’italianizzazione dei dialetti. Veneto e Calabria sono le regioni in cui si è conservato maggiormente il dialetto. Il passaggio all'italofonia è rapido e costante nei giovani; mentre gli anziani tendono a conservare il dialetto. Istruzione, condizione professionale, spostamenti nel territorio sono fattori della diffusione dell'italiano. Non vi sono differenze di rilievo tra uomini e donne nella scelta tra la lingua e il dialetto. Attualmente soltanto il 5% degli Italiani parla soltanto i vari dialetti. I giovani considerano il dialetto una varietà alternativa, da usare in particolari circostanze. Si attribuiscono valori e funzioni espressivi e ludici al dialetto. Un fenomeno latamente diffuso è il giudizio negativo rivolto ai dialetti, visti come varietà linguistiche inferiori, non degne di considerazione. La diffusione della varietà standard a base toscana è avvenuta attraverso lo scritto e l'insegnamento scolastico: i media parlati (la radio, il cinema e, soprattutto, la televisione), potenti propagatori dell'uso della lingua, sono comparsi e si sono affermati molti decenni dopo l'Unità. La marcatezza regionale nella fonetica è diminuita nei giovani LE VARIETÁ DELLA LINGUA Una varietà di lingua si può definire un insieme solidale di varianti e di variabili sociolinguistiche. Dalle scelte di pronuncia, di lessico, di grammatica, di organizzazione del discorso e di stile distinguiamo una persona colta da un individuo scarsamente acculturato. L'uso di una varietà linguistica funge da indicatore sociale. Ogni lingua è suddivisa in varietà dipendenti da fattori sociali ed extralinguistici. Le varietà, che comprendono dialetti, parlate locali, registri, linguaggi settoriali, si classificano in:  varietà diacroniche, distribuite lungo l'asse temporale, per esempio, l'italiano moderno e l'italiano antico, un dialetto osservato in due fasi storiche del suo sviluppo;  varietà diatopiche (o geografiche), distribuite nello spazio geografico: i dialetti delle varie regioni d'Italia, le varietà regionali dell'italiano;  varietà diastratiche (o sociali), dipendenti dalla situazione dei parlanti (provenienza sociale, livello di istruzione, età, mobilità sociale, sesso); in Italia il registro basso riprende per lo più tratti dialettali; come, l'uso  l'analisi del genere sociale, vale a dire degli stereotipi sociali e culturali e delle attese tipiche rispetto ai ruoli femminili e maschili;  la cosiddetta servitù grammaticale che indica il maschile come genere di default: il genere umano, i lavoratori;  le asimmetrie per le quali di un uomo si specifica la professione (dottore, ingegnere) mentre a una donna ci si rivolge con gli appellativi generici signora, signorina (ma non si usa signorino). LO STANDARD Lo standard è la varietà linguistica, insegnata e accettata come corretta da una comunità, soprattutto negli usi scritti, in contrapposizione a varietà regionali, specialistiche, colloquiali, gergali. Lo standard è una varietà livellata dall'azione normalizzatrice esercitata dal potere centrale (attraverso la scuola e l'amministrazione). Gli Stati che hanno raggiunto nei secoli passati l'unità politica hanno goduto di una progressiva unificazione linguistica, promossa dal potere politico centrale: è il caso delle monarchie di Francia e di Spagna. L'Italia, divisa politicamente fino al 1861, ha avuto fino a quella data un'unità linguistica prevalentemente letteraria e riservata per lo più alla classe colta. Le opere di Dante, Petrarca e Boccaccio diedero un grande prestigio al fiorentino del Trecento. Questa lingua letteraria divenne in seguito un modello di lingua scritta non soltanto per i letterati, ma anche per le cancellerie e le corti di gran parte della Penisola. Il suo valore assoluto di modello (grammaticale e lessicale) fu sancito dalle Prose della volgar lingua (1525), dialogo del famoso letterato veneziano Pietro Bembo. In Francia e in Spagna fu il potere di quelle monarchie a imporre e diffondere la varietà linguistica usata nella corte: nacque una lingua dello Stato e dell'amministrazione, riconosciuta dalle classi dirigenti e dalla borghesia come strumento e simbolo dell'unità nazionale. Alcuni considerano lo standard italiano un modello ideale a cui tendere, più che una varietà realmente esistente. Insegnato nelle scuole e protetto dalle accademie, usato dall'amministrazione e dalla burocrazia, lo standard finisce per assumere un carattere vincolante: diventa la norma. Lo standard si può definire come una varietà che si oppone alla differenziazione sia geografica sia sociale: chi lo adotta si sforza, parlando, di non rivelare la sua provenienza geografica e la sua estrazione sociale. Allo standard si riconoscono caratteri come l'uniformità, la medietà, la normatività, l'asetticità sociale, il prestigio. Nei decenni Settanta e Ottanta del secolo scorso è stato presentato un tipo linguistico (neostandard), semplificato nella morfologia e nella sintassi. L'italiano neostandar si distingue, in parte, dall'italiano insegnato nella scuola. Sostenuto dai media, il neostandard appare diffuso in vari settori della lingua scritta e impronta il parlato medio, manifestandosi in una serie di scelte mortosintattiche e lessicali:  pronomi personali obliqui lui, lei, loro, usati con funzione di soggetto;  pronome personale obliquo gli, usato anche con il valore di 'a lei e a loro;  la particella ci davanti al verbo avere (Ci ho mal di testa, ci hai ragione);  il ricorso all'ordine marcato dei costituenti della frase (l'uso della dislocazione a sinistra e a destra);  la tendenza a sostituire il congiuntivo con l'indicativo in varie strutture (Credo che Mario viene);  l'uso del che polivalente (La ragazza che ci sono uscito insieme);  la presenza di ridondanze come: A me mi (a te ti) piace;  una netta preferenza per i periodi brevi, per la coordinazione e lo stile nominale; la tolleranza nei riguardi di forestierismi. (1), (2) e (4) sono presenti nella stampa e nella narrativa contemporanea; invece (3), (5), (6) e (7) appaiono in scritture poco sorvegliate e informali. TRA PARLATO E SCRITTO Poiché si svolgono in situazioni comunicative diverse, la lingua scritta e la lingua parlata presentano differenze notevoli. Lo scritto si fonda su un progetto e su una elaborazione. Nella scelta dei vocaboli e degli strumenti grammaticali. Nello scritto si cerca di evitare ogni ambiguità e incertezza interpretativa; inoltre si vuole conferire alla lingua quel carattere di stabilità che è richiesto dalla vita più lunga del testo scritto. La scrittura possiede la punteggiatura, che è una segnaletica interna usata per evidenziarne i caratteri sintattici, semantici e stilistici. Anche il parlato ha la sua "punteggiatura": la voce può essere interrotta da pause e da silenzi, entrambi portatori di significato. Inoltre può variare qualitativamente in base a molteplici fattori: intonazione, enfasi, altezza, timbro, ritmo, tempo di elocuzione. La possibilità di ricorrere agli sguardi e agli atteggiamenti facciali, ai gesti, a determinate posizioni del corpo fanno sì che il parlato possa essere continuamente "corretto", ripreso e quindi adeguato a situazioni mutevoli. Chi parla controlla continuamente l'effetto che il suo discorso ha sull' ascoltatore e può a ogni momento modificare qualcosa. Rispetto a un testo scritto, un testo parlato ha in genere minore coesione e coerenza; soprattutto ha pianificazione piuttosto ridotta. Il parlato è legato alla situazione. Nel parlato si ha una segmentazione in brevi enunciati, i quali permettono di dare rilievo a una singola parola o sintagma; vi sono inoltre esitazioni, pause, mutamenti di costruzione, tipiche ridondanze. Le frasi sono spezzate di continuo; la subordinazione è assente ed è sostituita dalla coordinazione. Anche la morfologia risulta semplificata. Abbondano le ripetizioni, i segnali discorsivi e i deittici. Non mancano interiezioni e iconismi. La forte soggettività impone l'uso del pronome io, che nel parlato appare più frequentemente rispetto allo scritto. TIPI DI PARLATO Del parlato esistono varie forme e gradi: il dialogo, il monologo, varie modi di oralità formalizzata ecc. Il dialogo si svolge con un continuo scambio di ruoli tra due o più partecipanti, procede tra interruzioni, riprese, sovrapposizioni di battute ecc. G. Nencioni ha definito "parlato-parlato" questo tipo d'interazione, fondata su molti sottintesi e presupposti, ricavabili dal cotesto e dal contesto; talvolta il dialogo possiede il massimo grado di verbalità implicita. Privo di interruzioni, il monologo ha maggiori possibilità di essere coerente, quanto al tema, e di essere coeso, quanto alla forma. Esistono lo sproloquio, privo di senso, e la divagazione, più o meno motivata. La lezione aspira a essere un monologo serio: il docente si vale spesso di un testo scritto: appunti, scaletta, grafici; ma il suo è nella maggior parte dei casi, un "parlato non spontaneo", è un recitativo indirizzato a determinati fini, è uno scritto oralizzato. Nell'oratoria e nella liturgia ritroviamo quella oralità formalizzata che svolge una funzione sociale, importante soprattutto presso le comunità prive di una lingua scritta e che assicura la memoria storica, la trasmissione del sapere, la continuità dei rapporti sociali; per raggiungere questi fini si ricerca una stabilità nell'esecuzione e si ripetono espressioni formulari. Lo scritto per essere detto (conferenze, relazioni, comunicati) dovrebbe avere caratteri tali da assicurarne una buona ricezione: un testo ben articolato, periodi sintatticamente semplici e di breve estensione, un'adeguata struttura informativa, la frequente ripetizione del soggetto grammaticale e del tema. In talune circostanze (notiziari radiofonici e televisivi) è necessario che il messaggio trasmesso sia preceduto e seguito da un breve sommario, e che le parti importanti del messaggio siano ben scandite ed evidenziate mediante una lettura incisiva, intonazioni ben calibrate e pause. Lo scritto per essere letto come se non fosse scritto è stato definito anche parlato-recitando. Alle prese con i testi teatrali e i copioni cinematografici e televisivi, gli attori riproducono uno scritto, che ha caratteri del parlato; al tempo stesso, accompagnano la dizione con gesti e atteggiamenti, descritti in parte nelle didascalie, in parte lasciati all'iniziativa degli attori. Vi sono varie modalità di parlato e di scritto. Sarebbe semplicistico e sbagliato vedere un confine netto tra parlato e scrittura. Un modo intelligente per risolvere il problema dei rapporti tra parlato e scritto consiste nel fare una distinzione tra il mezzo e il modo della comunicazione.  Il mezzo si fonda su una distinzione netta: o si parla o si scrive, o la voce o la penna.  Il modo riguarda l'atteggiamento del locutore, la posizione che egli assume nel comunicare: vicina o distante rispetto al messaggio e al locutario: questa è la polarità immediatezza/distanza.  Se combiniamo le due variabili mezzo e modo si ottengono quattro tipi di discorso: 1) discorso orale spontaneo; 2) discorso orale preparato; 3) lettera informale; 4) saggio letterario o scientifico. L'opposizione tra scritto e parlato appare superata da realizzazioni intermedie. La polarità immediatezza / distanza si scompone in una serie di 10 fattori. I parametri dell'immediatezza e della distanza introducono una prospettiva cognitiva e permettono di eliminare l'ambiguità di etichette come "scritto" e "parlato", che vengono riferite indistintamente all'aspetto materiale del testo e alle scelte di registro e di stile attuate nel testo. Immediatezza e distanza rinviano sia alla compresenza degli interlocutori durante la conversazione, sia alla loro vicinanza psicologica, sia alla condivisione di temi ed esperienze. Con ancoraggio pragmatico si rimanda alla presenza di elementi interpretabili grazie al contesto. Sia lo scritto sia il parlato possono assumere caratteri di immediatezza o di distanza. Il parlato che assume caratteri di distanza appare, in particolare nei discorsi ufficiali, nelle commemorazioni, nei messaggi trasmessi dal telegiornale. Lo scritto, che assume caratteri di immediatezza, si può ritrovare nei testi teatrali, nella cronaca dei giornali e in alcuni testi narrativi del nostro tempo.
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