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Oltre lo specchio delle bugie - E. Ortu (a cura di), Appunti di Pedagogia

Riassunto del libro. Corso: pedagogia della lettura e laboratori territoriali.

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 11/06/2023

_SilviaGrasso_
_SilviaGrasso_ 🇮🇹

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Scarica Oltre lo specchio delle bugie - E. Ortu (a cura di) e più Appunti in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Oltre lo specchio delle bugie – Ortu (a cura di) Introduzione Sesso e genere permeano la nostra cultura e società in una relazione complessa e stratificata. Sono ormai presenti in tantissimi ambiti, tra cui la letteratura per l’infanzia e l’adolescenza, nella quale si incontrano produzioni, riflessioni e posizioni differenti. Dinanzi a questa complessità e stratificazione, gli autori del libro hanno scelto un approccio multidisciplinare, facendo dialogare i vari protagonisti dei capitoli con filosofi, sociologi, pedagogisti, ecc. I livelli indagati sono quattro: 1. Epistemologico  viene utilizzata un’epistemologia problematicista, capace di far confrontare il lettore con le proprie premesse; 2. Metodologico  vengono poste domande con lo scopo di aprire nuovi sentieri o rivedere, con occhi differenti, quelli già percorsi; 3. Contenutistico  vengono indagate alcune stereotipie di genere da diversi punti di vista; 4. Formale  vengono utilizzati un linguaggio e uno stile capaci di cogliere ogni contributo e offrire diverse esperienze. Molti dei capitoli sono stati scritti di pari passo con un confronto continuo con bambini/e e ragazzi/e attraverso differenti laboratori. L’invito è quello di “guardare oltre lo specchio”, ossia di osservare la tematica obliquamente, da diversi punti di vista: oltre, di lato, dietro le cornici, in posizioni inaspettate, ecc. Capitolo 1. Genere, educazione e letteratura per l’infanzia: modelli di costruzione identitaria (S. Barsotti) 1.1. Genere ed educazione: uno sguardo storico Storicamente parlare di genere ed educazione significa volgere lo sguardo prevalentemente all’educazione femminile e alle differenze nei percorsi educativi e identitari di bambini e bambine. Se dovessimo ripercorrere brevemente la storia, potremmo affermare che nella cultura patriarcale la donna è rimasta a lungo estranea al sociale, destinata a diventare moglie e madre, esclusa dalla sfera intellettuale e simbolica; si è ritrovata per secoli rinchiusa nella gabbia del ruolo sessuale, condannata ad un insieme di norme e relegata a determinate aspettative elaborate e prescritte dagli uomini. La donna, in sostanza, non ha potuto partecipare alla costruzione della tradizione culturale dell’Occidente; fin dall’antichità, infatti, pensatori e scrittori di sesso maschile hanno elaborato teorie sulla sua naturale inferiorità e hanno fornito nei propri trattati, saggi, ecc. un insieme di regole a cui le donne dovevano attenersi. Eva Cantarella (storica e sociologa), riprendendo un’affermazione di Euripide, parla di “ambiguo malanno” per definire la rappresentazione dell’identità femminile e la sua condizione nell’antichità greca e romana, con lo scopo di sottolineare come essa fosse fin da allora ritenuta naturalmente inferiore a quella maschile. A partire da questo contesto, la studiosa estende la sua analisi fino a prendere in esame i codici prescrittivi dell’età medievale e moderna e le contraddizioni del secolo dei Lumi, caratterizzato dal manifestarsi di un movimento intellettuale proiettato nella lotta contro il pregiudizio e la schiavitù, ma, al tempo stesso, incapace di concedere alle donne ruoli non esclusivamente confinati nella rete della vita privata. Era in particolare il ruolo materno ad essere esaltato quale unico destino e completa realizzazione del femminile; tra ‘700 e ‘800, infatti, medici, educatori, filosofi, chierici, ecc. sostenevano l’idea della maternità attraverso argomentazioni legate all’esaltazione delle pratiche di cura della prima infanzia e dell’importanza dell’allattamento. Erano gli uomini ad indicare una serie di prescrizioni e norme da imporre alle donne considerate esclusivamente madri; tra queste, ad esempio, il nuovo dovere di allattare i propri figli per garantirne il corretto sviluppo, per arginare il fenomeno della mortalità infantile e per porre le premesse per una rigenerazione sociale. Chiara Briganti, scrittrice e artista, definisce questo fenomeno “colonizzazione del femminile”. Questa “scoperta” della maternità ha rappresentato un fenomeno rilevante sia dal punto di vista delle nuove teorie pedagogiche, mediche e igieniche, sia dal punto di vista di alcune nuove esperienze realizzate in quegli anni nella cura e nell’accudimento dei figli. Il verificarsi di questo nuovo atteggiamento nei confronti del valore dell’infanzia, con la conseguente valorizzazione del ruolo materno, ha avuto ripercussioni degne di analisi negli itinerari formativi destinati alla donna. Dal punto di vista dei contenuti, l’educazione della donna è sempre ruotata intorno ad elementi consolidati: addestramento alle attività domestiche, formazione morale e religiosa, buona condotta e, in alcuni casi, canto, musica e lingue straniere. Tuttavia, l’idealizzazione di una figura materna in grado di determinare a livello psicologico, affettivo e culturale un corretto sviluppo infantile, da cui dipende il destino dell’umanità, ha portato a considerare sotto una nuova luce il problema dell’accesso della donna all’istruzione. L’800 ha rappresentato il momento storico in cui si è consolidata la relegazione della donna in una serie di funzioni assistenziali ed educative, con ripercussioni significative anche rispetto ai contenuti degli itinerari formativi e delle attività professionali considerate “naturalmente femminili”. Dunque, è a partire da questo periodo che l’amore materno viene percepito come un nuovo ideale, come un valore naturale e sociale, favorevole alla specie e alla società. Nella prima metà dell’800, il problema dell’educazione della donna è entrato nella scena della saggistica pedagogica, non soltanto in quella di ispirazione cattolica. Lo scopo di tale produzione era principalmente quello di sradicare abitudini e costumi non corrispondenti ai nuovi modelli educativi. Per quanto riguarda l’Italia, l’esempio più significativo può essere quello di Caterina Franceschi Ferrucci, autrice di numerosi saggi, convinta che il buon espletamento della funzione materna vada sostenuto da una solida formazione culturale. In Dell’educazione morale della donna italiana, dopo aver condannato l’abitudine di trascurare l’educazione dei figli, l’autrice afferma di volersi occupare dell’educazione della donna in sé, perché sostiene che, in quanto madre, debba conoscere in che modo si educano gli uomini alle virtù domestiche e civili. Ancora una volta, quindi, il legame tra femminilità ed educazione è indiscusso e la madre è la custode principale del destino educativo dei figli; la potenza pedagogica del buon esempio è sempre più evocata nella letteratura educativa, assieme alla pesante condanna morale nei confronti della “donna salottiera” e della “donna sciatta”. L’istruzione delle bambine e delle fanciulle diventa sempre più orientata al ruolo di madre cui la donna è naturalmente destinata e i contenuti si legano sempre di più alle buone maniere e all’apprendimento di regole. Inoltre, le bambine e le donne vengono respinte dal concetto di “uomo” come animale razionale: se il maschio poteva essere definito “uomo” o “persona” in quanto dotato di autorità, autorevolezza e autonomia di giudizio, la femmina rappresentava la non razionalità, la prevalenza delle emozioni, l’arrendevolezza e la disponibilità a seguire le decisioni del sapere – potere maschile. Per sostenere questa rappresentazione della donna quale essere incapace di intendere, di volere e di fare, è nato lo stereotipo della fragilitas femminile: una fragilità soprattutto fisica, che rende la donna inadatta a qualunque tipo di lavoro, ma anche una fragilità mentale, poiché nella donna dominano i sensi e non la mente, e infine una fragilità sul piano dell’apprendimento, che comporta un’incapacità all’astrazione e quindi alle scienze. In tardo ‘800, nell’ottimismo positivistico, si arriva addirittura a voler dimostrare scientificamente l’inferiorità della donna, spinti dalla convinzione che la donna sia meno intelligente dell’uomo, abbia il cervello più piccolo, non sia capace di ragionamento logico e abbia uno sviluppo intellettuale bloccato ad uno stadio inferiore. Questa violenza simbolica ha portato le donne ad interiorizzare una vera e propria svalutazione della propria corporeità e soggettività, rendendo sempre più difficile il cammino verso la liberazione. Fino a non molto tempo fa, infatti, per le giovani donne era quasi impossibile progettare la propria vita futura in maniera diversa da quanto era richiesto loro dall’ideologia patriarcale dominante: a differenza degli uomini, la loro direzione era quella della non realizzazione di sé. Solo a partire dalla seconda metà dell’800, all’interno delle famiglie aristocratiche e borghesi, questo atteggiamento comincia a cambiare. Le figlie, infatti, devono essere ben educate per risultare appetibili nei confronti di eventuali pretendenti che si presentano al loro fatiscenti; è una bambina coraggiosa e determinata, odia i deboli e ama l’avventura più di ogni altra cosa, infatti compie un viaggio alla ricerca delle proprie origini, grazie al quale salva la madre e ritrova il padre. Nel romanzo, la descrizione spietata della realtà contemporanea e del suo degrado si alterna e si mescola con quella della fantasia, dell’immaginazione e della fiaba. Anche il viaggio della protagonista è fiabesco, in quanto richiama molti elementi della fiaba: gli esseri speciali, come streghe o draghi, il mistero e la magia, ma tutto celato nella realtà contemporanea. Innovativo è il fatto che Dakota rappresenta l’eletta, ossia colei che sarà in grado di compiere il viaggio e raggiungere la meta, proprio come i classici eroi maschili; anzi, nel racconto di Ridley i maschi sono deboli e negativi. È negli anni Duemila che le bambine di carta hanno finalmente acquistato il loro posto nella letteratura per l’infanzia, lontane da stereotipi e gabbie identitarie, esprimendo se stesse e compiendo il proprio percorso di crescita in autonomia. Ne è un esempio il romanzo Coraline di Neil Gaiman (2003), in cui la protagonista compie un vero e proprio viaggio fiabesco di cui vengono rispettati tutti i simboli: l’ingresso nell’altrove, gli antagonisti, gli aiutanti, gli oggetti magici, gli animali parlanti messaggeri e traghettatori tra questo mondo e l’altrove, ecc. Anche Coraline ha tutte le caratteristiche dell’eroe fiabesco: è curiosa, coraggiosa, astuta e definisce più volte se stessa come un’esploratrice. L’altro mondo si apre solo a lei perché è proprio lei ad avere bisogno del viaggio, alla cui base c’è l’incomprensione tra adulti e bambini: i genitori sono troppo presi dal loro lavoro e dalla vita frenetica per ascoltare Coraline, ma a differenza di quelli di Matilde, la amano davvero e attraverso il viaggio lo capirà anche la figlia. Inoltre, la partenza da casa assume in questo caso la metafora dell’allontanamento dell’eroe dal nucleo di origine: come nella fiaba, il viaggio della protagonista si presenta come il passaggio da una situazione squilibrata e insoddisfacente di partenza ad un punto di arrivo di equilibrio e soddisfazione. Il viaggio, perciò, si innesta su un passaggio che determina la crescita della protagonista, in quanto segna il distacco dalla situazione protetta delle origini e dell’infanzia e getta la giovane nel mondo, favorendone la maturazione e l’ingresso nel gruppo degli adulti. Questo è quanto accade a Coraline, che attraverso una porta riesce ad arrivare in un altrove in cui trova una donna molto simile a sua madre, ma che ha lunghi artigli e dei bottoni al posto degli occhi. Solo al termine del viaggio, la protagonista riconosce i suoi veri genitori e, prendendo coscienza della realtà, inizia il suo cambiamento, attraverso il quale riuscirà a sconfiggere l’altra madre e il suo falso mondo. Infine, è bene citare il romanzo La storia di Mina di David Almond (2011), ossia il prequel di Skelling, altro romanzo dell’autore uscito in Italia nel 2010. In Skelling, Mina è la bambina fuori dagli schemi, compagna di avventure del protagonista Michael, che lo aiuta a guardare il mondo con occhi nuovi e a osservarne le meraviglie; consapevole di aver creato un personaggio che colpisce il lettore, Almond ha deciso di dedicarle un intero libro. Nel romanzo del 2011, Mina viene rappresentata come una bambina che passa molto tempo su un albero, dal quale osserva il mondo sotto di lei, il cielo e la vita che si svolge sull’albero stesso; seduta sul ramo, la protagonista si interroga sulla vita e sulla morte che l’ha toccata da vicino, portandole via il padre di cui spesso sente la nostalgia. Lì seduta, però, la protagonista inventa anche attività straordinarie, scrive storie assurde e fantastiche, a volte fatte di una sola pagina bianca, e parla al lettore direttamente, invitandolo a fare come lei, a seguire la logica spesso assurda che regola la vita di tutti noi ma che, proprio perché assurda, ci aiuta a capire meglio il mondo. Mina non va a scuola perché le regole scolastiche le stanno strette e la scuola in generale limita la sua creatività e non è in grado di rispondere alle sue mille domande. Il lettore è in grado di comprendere le emozioni di Mina perché il romanzo è scritto in prima persona, come se fosse il diario della protagonista; La storia di Mina, però, si discosta dalla tradizione del diario letterario e lascia emergere la complessità, la singolarità e la divergenza della ragazzina. Si tratta di un diario intimo, profondo e introspettivo, fatto anche di interrogativi continui sul senso della vita e sul perché le cose accadano; inoltre, non manca una forte denuncia per un sistema scolastico che mortifica la creatività. 1.2.1. Voce alle bambine: la scrittura di Bianca Pitzorno Analizzando la scena editoriale dei primi anni Duemila, vale la pena soffermarsi sul romanzo di una scrittrice per ragazzi che ha determinato una vera e propria inversione di tendenza nei libri destinati alle bambine: Bianca Pitzorno. Con i suoi romanzi, l’autrice ha provocato la rottura degli stereotipi tradizionali, rappresentando nuove figure femminili capaci di intraprendere itinerari liberi dalle aspettative maschili. Le sue sono opere sono decisamente schierate dalla parte di bambine e ragazze, le quali vengono considerate intelligenti, attive, appassionate e in lotta perenne con il potente mondo dei grandi. Le protagoniste della Pitzorno costituiscono ormai un significativo risarcimento nei confronti di un apparato di negazioni da sempre edificato contro le ottiche con cui si raffigura l’infanzia; la stessa autrice ha ammesso di utilizzare la penna per descrivere ampi e articolati spazi di conflitto all’interno dell’universo femminile. Il più evidente è quello del conflitto sessuale, dal quale deriva la svalutazione sociale della donna, che l’autrice cerca di compensare con l’esercito letterario di bambine e ragazze volitive e coraggiose. Il femminismo di Bianca Pitzorno, che è stato definito individualista e appartato perché non è mai confluito nell’adesione a gruppi o movimenti, è qualcosa di più di un’idea per cui combattere e lavorare: appare fortemente radicato nell’esperienza infantile delle ragazzine che mette in scena, del tutto simili a quelle reali. La difesa e il risarcimento dell’universo femminile è il filo rosso che lega gli avvenimenti del romanzo La bambinaia francese (2004). La storia di Sophie, la protagonista, sembra nascere all’insegna di un eroismo tutto al femminile: il romanzo è caratterizzato dalla presenza di donne, ragazze e bambine provenienti da classi sociali diverse, ma tutte pronte a sfidare il mondo e ad affrontare prove di ogni genere pur di affermare se stesse, rivendicando i propri diritti, puntando dritte all’emancipazione e tenendo sempre presente il riconoscimento della loro differenza. Le motivazioni che hanno spinto l’autrice a dare vita a questo racconto sono sostanzialmente due. Innanzitutto sentiva la necessità di rielaborare un romanzo letto da ragazza, Jane Eyre di Charlotte Brönte, nel quale avvertiva alcune incongruenze; nello specifico, avvertiva uno squilibrio tra la prima parte, in cui la Brönte si dimostrava capace di descrizioni e approfondimenti psicologici, e la seconda, in cui manca una qualsiasi attenzione all’universo infantile alla sua psicologia. La seconda spinta alla riscrittura, invece, deriva dalla necessità della Pitzorno di raccontare una protagonista in cerca di una propria autonomia, in grado di proclamare, almeno a parole, i diritti delle donne e mostrare solidarietà con esse. Perciò, l’autrice ha deciso di dare voce ai personaggi che la Brönte aveva lasciato sullo sfondo. Anche il personaggio di Sophie diventa fuori dalla norma: un’orfana che, contrariamente al cliché ottocentesco, è artefice del proprio destino e non ha paura di affrontare le avversità che la vita pone sul suo cammino. La storia inizia in una fredda sera d’inverno in cui Sophie, di soli 9 anni, esce per consegnare alcune camicie confezionate dalla madre e, una volta tornata a casa, la trova uccisa dalla tisi; il suo destino, come per ogni orfana, sarebbe l’Ospizio di mendicità, ma la ballerina dell’Opera alla quale aveva consegnato i vestiti decide di accoglierla in casa sua. Attraverso i flashback di cui è costellata la prima parte del romanzo, si scopre la storia personale di Sophie: il padre è morto ucciso sulle barricate durante le giornate rivoluzionarie del 1830 e da quel momento la madre ha cercato di sopravvivere insieme alla figlia lavorando tutto il giorno e tutta la notte per pochi soldi, per permettere alla piccola Sophie di studiare. Tuttavia, dal momento in cui la protagonista entra nella casa di Céline Varens la sua vita cambia completamente. La signora è fermamente convinta che sia necessario anche per le bambine avere diritto all’istruzione, così conduce la piccola orfana alla bizzarra scuola del suo padrino, un settantenne aristocratico, entusiasta delle idee illuministe e convinto che i nobili non siano tali per diritto divino e che i privilegi che possiedono non comportino alcun merito. La particolare scuola a cui Sophie prende parte, porta evidenti segni della presenza dell’autrice: le lezioni si svolgono anche all’aria aperta, tutti gli alunni hanno diritto di parola e facoltà di interrompere il maestro con le domande, i bambini e le bambine di qualunque cultura ed estrazione sociale condividono l’esperienza educativa, ecc. Inoltre, il Cittadino Marchese (così viene chiamato il bizzarro settantenne) accoglie tra i suoi alunni bambini di ogni età e di ogni ceto sociale, la retta viene pagata dai benestanti anche per coloro che non possono permetterselo e, soprattutto, accoglie le bambine convinto che abbiano le stesse facoltà dei coetanei maschi. La rivendicazione dei diritti delle donne, quindi, è una delle principali tematiche che attraversano il romanzo. Nella seconda parte, invece, si fanno più evidenti le tracce del romanzo della Brönte, in quanto vengono introdotti altri personaggi femminili, tra cui Jane Eyre, dei quali la Pitzorno cambia il destino. Esempio lampante è Bertha Mason, che nel romanzo della Brönte viene lasciata morire, mentre in quello della Pitzorno viene salvata e riesce a fuggire e rinascere. Anche la conclusione è nettamente diversa: nella riscrittura del 2004, Sophie e tutti gli altri riescono a fuggire verso il Nuovo Mondo, che per alcuni rappresenta il ritorno al paese d’origine e per altri no, ma che per tutti si sostanzia nel ritrovamento della libertà. È soprattutto il destino di Sophie ad essere differente: la Pitzorno sembra dire ai lettori che la protagonista non può fermarsi adesso, come vorrebbe lo stereotipo, con un matrimonio dei figli; ha ancora molta strada da fare, ci sono molte prove da superare, il suo viaggio non si è ancora concluso, deve frequentare l’università e diventare la prima donna medico francese, e il lettore, che ha imparato a conoscerne la tenacia, l’intelligenza e il coraggio, non ha alcun dubbio che ci riuscirà. 1.3. Letteratura per l’infanzia contemporanea e genere: verso un nuovo cambiamento Come si è già visto, la storia delle donne è segnata dall’invisibilità e dal silenzio e lungo è stato il loro cammino nel percorso di emancipazione. Altrettanto lungo è stato l’itinerario compiuto dalle bambine di carta e dalle scrittrici che le hanno create per affermare il loro diritto di pensare. Tuttavia, con la fine del XIX secolo e, soprattutto, con il XX secolo, insieme allo svilupparsi dei movimenti emancipazionisti e femministi, la soggettività femminile ha assunto una nuova autonomia come fenomeno individuale e collettivo che, sulla base di conquiste giuridiche e istituzionali, ha consentito forme di partecipazione consapevole alla storia e alla vita politica e culturale. Fra gli studi più recenti è emersa l’importanza di un pensiero che riconduca il rapporto fra genere e norma non solo alle donne, ma anche agli uomini. Un insieme di ricerche che si sono sviluppate negli ultimi anni, all’interno dei cosiddetti men’s studies, ha aperto alla storia di genere nuove vie di indagine che hanno contribuito a storicizzare l’identità maschile, prima confinata nella cultura dominante. Contro l’immutabilità di apparati normativi, giuridici, pedagogici e religiosi che tendono a codificare rigidamente l’essere uomo e l’essere donna, emerge oggi l’idea di un possibile nomadismo dell’identità, ovvero di forme di migrazione di esperienze emotive o culturali a lungo considerate in forma esclusiva patrimonio o del genere femminile o del genere maschile. Questa apertura teorica e culturale, per quanto non risolutiva della complessità della dicotomia maschile/femminile, si pone come punto di partenza per analizzare come la costruzione sociale della diversità fra uomo e donna sia intrinsecamente interna alle modalità storiche di organizzazione della vita collettiva, ai meccanismi di differenziazione e alle strategie di disuguaglianza e riproduzione sociale. Ancora oggi, la necessità è quella di scardinare le identità fortemente stereotipate a cui i soggetti in formazione sono costretti ad aderire. Il processo di acquisizione dell’identità è complesso e non privo di problemi, per cui è necessario evitare che sul percorso formativo si accumulino ostacoli assolutamente gratuiti e rimovibili, come quelli determinati dalle restrizioni di genere. L’appartenenza a un sesso e la costruzione sociale e culturale del genere spesso vengono dati per scontati, mentre è centrale essere consapevoli, soprattutto nel processo di crescita, di come gli atteggiamenti, i comportamenti, i gesti e le parole determineranno anche le scelte adulte. L’identità di genere non può prescindere dall’assunzione dei modelli degli adulti di riferimento, ma nemmeno dagli automatismi già collaudati che gli stessi adulti operano nelle scelte per i propri figli; è per questo motivo che i processi formativi devono farsi carico delle domande esistenziali per educare non soltanto ad una consapevolezza di sé, ma anche ad un’apertura alle potenzialità, a ciò che si può diventare. La letteratura per l’infanzia si apre oggi a prospettive di questo tipo, affrontando la questione di genere nella prospettiva dell’acquisizione di un’identità libera da stereotipi. Due albi illustrati come Nei panni di Zaff (Cavallaro, Salvi, 2005) e Julian è una sirena (Love, 2018) operano proprio in questa direzione. Quella di Julian è la semplice storia di un desiderio e della sua realizzazione, grazie ad una figura adulta, la nonna, che si dimostra capace di comprendere che non si può andare contro la necessità di essere sé stessi o perlomeno di cercare di capire chi siamo. Il lettore non sa molto di Julian, non sa come si sente, ma lo intuisce; quello che è chiaro è che vuole essere una sirena come quelle che ha incontrato sulla metropolitana: forse lo sarà solamente per un pomeriggio, per semplice curiosità, per la durata della parata, o forse vorrà esserlo per tutta la vita, ma in ogni caso andrà bene ugualmente perché sarà sé stesso. Anche la storia di Zaff affronta il tema della libera esplorazione della propria identità e del rispetto di quella degli altri, rivolgendosi a bambine e bambini nel loro linguaggio. Zaff, infatti, vuole essere una anche la scoperta della profonda incidenza dei sommovimenti politici nelle vicende personali. Questo approccio all’impegno offriva un modello di militanza politica anche per donne che ne erano state fino ad allora ai margini e che potevano in quel modo aprirsi un percorso praticabile e possibile in una dimensione non abituale. Vero è che i temi di cui si occuparono prevalentemente le donne divennero in qualche modo ghettizzanti: quasi mai economia o politica, ma cura, sanità, scuola e diritti civili. Questi stessi temi, infatti, sono poi diventati centrali nella discussione dei decenni a venire. In questa fase, da movimento prevalentemente sociale e politico, il femminismo ha invaso il campo della riflessione sul femminile a tutto tondo, fino a toccare il tema di quali fossero i suoi caratteri essenziali e quali quelli contingenti: sostanzialmente si è preparato il terreno per un contesto culturale nel quale sarebbero poi maturati il tema della differenza sessuale e della differenza di genere. Il tema della differenza si è poi sviluppato nella prospettiva di un arricchimento sociale, filosofico e psicologico, proponendo modelli di vita e di formazione auspicabili; la differenza in sé è diventata valore e ha iniziato a connotare in positivo il femminile in tutte le sue caratteristiche, non più osservate come manchevoli rispetto a un ideale, ossia quello neutro/maschile. In questo orientamento è stato notevole il contributo della psicologa statunitense Carol Gilligan, che sin dall’inizio degli anni ‘80 ha posto il problema dello sviluppo del pensiero morale femminile, scoprendo una sua tipica divergenza rispetto a quello maschile. Nel testo Con voce di donna, la psicologa affronta il tema della percezione, da parte delle donne, di una morale che consenta loro di esprimere dei giudizi, pervenendo successivamente a una prospettiva che viene sinteticamente definita come una contrapposizione tra un’etica della cura femminile e un’etica della giustizia maschile. Più approfonditamente, si può dire che il dilemma morale fondamentale, evidenziato dalla maggioranza delle donne, nasce da una considerazione soggettiva delle situazioni e del sentire delle persone coinvolte, mentre il dilemma maschile è più indirizzato a comprendere eticamente il rapporto del singolo con la norma astratta e universale. Gilligan, quindi, fonda la visione di una differente eticità femminile, ancorata a quelli che iniziano ad essere visti come aspetti caratteristici della sua essenza femminea, come la propensione alla cura di sé e un senso di identità che si concepisce radicalmente in rapporto all’altro da sé. Si può ritenere, dunque, che nel femminismo della differenza ci sia stata e ci sia una tendenza a presentare le differenze di genere sotto un’aura che potrebbe essere definita di romanticismo. Infatti, se tale prospettiva si presenta da un lato come fortemente innovativa, dall’altro sembra recuperare qualcosa che era andato perso nella fase più aggressiva del femminismo: quel senso di essenziale complementarietà che rende attraente il rapporto tra i generi. Oltre a quello di Gilligan, è bene citare il pensiero di Daniel Levinson, in modo tale da cogliere una prospettiva esterna al pensiero femminista e femminile. Egli ha pubblicato nel 1978 uno studio sull’evoluzione psicologica in età adulta, che è stato criticato per il suo aver universalizzato elementi della personalità adulta che sarebbero stati poi considerati esclusivamente maschili. Per porre rimedio a tale critica, l’autore ha intrapreso successivamente uno studio similare con un campione di donne, che ha portato alla produzione di una ricerca contenuta in The season of a woman’s life, testo edito postumo nel 1996. Levinson, sostanzialmente, si è mosso dentro una prospettiva di differenze di genere strettamente duale; anzi, ha aggiunto alla nozione di differenza qualcosa in più, parlando di gender splitting, ossia suddivisione, divisione, separazione di genere. Ma come si produce, secondo Levinson, una rivoluzione di genere? Secondo una visione sociologico – economica, egli ha evidenziato soprattutto il fatto che l’allungamento della vita ha fatto emergere un minore bisogno di natalità e un calo delle nascite, che ha reso meno necessaria la presenza della donna in casa in qualità di caregiver; al contrario, la sua presenza è sempre più richiesta fuori dalla famiglia. È proprio questo passaggio ad aver modificato radicalmente il ruolo sociale delle donne e ad aver fatto nascere figure femminili che lui stesso esaminerà approfonditamente in seguito. Concludendo, quindi, è a partire dai primi anni ’90 che possiamo osservare una nuova prospettiva che in qualche modo supera le differenze di genere a favore di una rottura del dualismo maschio/femmina che storicamente ha segnato l’idea di genere. 2.2. Judith Butler e la “performatività” di genere Judith Butler descrive il genere come un insieme di performances, intese soprattutto nell’accezione di “rappresentazioni” che sono state acquisite e interiorizzate attraverso l’azione educativa, non solo quella intenzionale, ma anche quella legata ai dispositivi formativi come l’ambiente, la cultura, gli spazi, gli oggetti e i corpi che circondano il soggetto. La filosofa definisce la sua prospettiva come nascente dal pensiero femminista, ma talvolta riscontra in esso una rigida concezione della mascolinità e della femminilità, che prelude a un atteggiamento omofobo. Facendo riferimento ad un proprio percorso personale, l’autrice evidenzia quella che possiamo interpretare come una condizione paradossale del femminismo: movimento di lotta e di pensiero che mira a liberare le donne da un’oppressione incentrata sul loro essere tali, che da un lato genera attenzione e istanze di liberazione per le donne, offrendo strumenti di emancipazione ai giovani, alle persone che vivono un’emarginazione su base etnica, alle persone omosessuali, con disabilità, ecc., ma che dall’altro, proprio in seguito alla messa in discussione della rigida appartenenza a un genere, inizia a vedere offuscata la sua primaria ragion d’essere, proprio per effetto dello smantellamento del dispositivo della differenza di genere. Nella sua prima fase, il femminismo ha ricercato una necessaria legittimazione giuridica, contestando l’idea dell’identificazione riduttiva del soggetto giuridico universale con il soggetto maschile. A tal proposito, la Butler spiega come il sistema giuridico non si limiti a rappresentare l’esistente, ma lo costruisca e lo produca con scopi nascosti e inconsapevoli di esclusione e legittimazione, benché talvolta si possa notare nel testo giuridico una sorta di apertura a una possibile o inevitabile evoluzione storico – culturale dei propri assunti. Secondo lei, il femminismo ha portato con sé concezioni precostituite sulle donne come oggetto universale, portatore di ideali non verificati e verificabili, una delle quali era, ad esempio, l’idea che tutte, ad ogni latitudine, fossero vittime dei sistemi patriarcali, aspetto che in realtà si lega ad una visione sostanzialmente occidentalistica. Il pensiero della Butler, quindi, è mosso inizialmente dalla domanda sul rapporto tra essenza biologico – anatomica e costruzione del genere; la studiosa indaga proprio sulla presenza o meno di una dinamica consequenziale tra sesso e genere o sull’eventuale arbitrarietà del rapporto tra i due. In seguito, ispirandosi al pensiero di altri autori, la filosofa intende arrivare a concettualizzare come la costruzione del genere sia essenzialmente una costruzione terminologica, di attitudini e gesti, che procede secondo delle precomprensioni che non vengono mai né svelate né spiegate. Inoltre, riprendendo il pensiero di Julia Kristeva (altra filosofa), mette in evidenza l’aspetto pre – simbolico del linguaggio, ovvero quello semiotico, che si esprime, ad esempio, attraverso le prime ecolalie (= ripetizione di parole) del neonato e che rappresenta la pulsione a riunirsi con il corpo della madre; quando una donna non riesce a superare l’aspetto semiotico e a collocarsi nel sistema simbolico del linguaggio, secondo entrambe le studiose dominato dal maschile, per Kristeva cade nella psicosi. Questo aspetto, però, è contestato dalla Butler, che vede in esso l’affermazione di un’origine psicotica del lesbismo; tuttavia, nella sua interezza, il discorso sul genere di Kristeva viene da lei considerato molto importante per il suo affermare la costruzione culturale del genere su una base che viene proposta come naturalistica, ma che in realtà è orientata dal potere. Il fatto che il genere sia una costruzione è talmente vero per la Butler che anche la figura iconica della drag queen, volendo contestare l’arbitrarietà della prescrizione della differenza di genere, secondo lei non si sottrae a quella che appare come un’artificiosa performance. Tale figura, tuttavia, nella sua interpretazione ha una grande funzione culturale, rappresentando in modo speculare e parodistico quella che è la sua realtà psicologica: un corpo “essenzialmente” maschile che si traveste da e si finge donna, ma in realtà un corpo “essenzialmente” femminile rivestito di caratteri che esteriormente sono letti come maschili. Queste riflessioni portano la filosofa ad affermare che “l’identità di genere potrebbe essere riconcettualizzata come storia personale/culturale di significati acquisiti, soggetti ad una serie di pratiche imitative che rimandano lateralmente ad altre imitazioni e che, congiuntamente, costruiscono l’illusione di un sé connotato dal punto di vista del genere primario e interiore o parodiano il meccanismo di tale ricostruzione”. Dunque, il genere è costruito dal soggetto sostanzialmente come una performance . Tale discorso ha due scopi: decostruire l’idea di un’identità femminile univoca e universale e di una binarietà dei generi, cui conseguirebbe l’obbligo eterosessuale, e affermare la fallacia di una concezione pre – discorsiva dell’identità, che invece può essere intesa in modo più reale quale prodotto del discorso stesso. In sostanza, la riflessione della Butler apre la via ad una considerazione dell’identità di genere non solo come non binaria e non esclusivamente e prevalentemente eterosessuale, ma come aperta al cambiamento nel suo sviluppo storico, in quanto essenzialmente collegata agli altri messi in opera dal soggetto. Tuttavia, l’idea che il soggetto possa, avendone la libertà, interpretare il proprio corpo nel senso della costruzione di un’identità di genere che superi le norme precostituite, non può che fare i conti con il fatto che debba esistere una libertà e un’autonomia universalmente riconosciuta in tal senso. In conclusione, dal pensiero della Butler si può dedurre che la differenza sessuale non è né totalmente data né totalmente costruita: è entrambe le cose. Dunque, ci si muove non tanto verso uno smantellamento della differenza sessuale, ma verso l’idea di una valorizzazione della differenza intesa come molteplice e non binaria. 2.3. Genere e genitorialità; alcuni spunti Nell’ambito di una riflessione attuale sull’educazione al genere si propone come centrale un tema distintivo: c’è una generazione adulta, influenzata da ampie trasformazioni nell’ambito della riflessione sul genere ma sicuramente più familiare con una visione nella quale la differenza di genere è un dato di partenza, che si pone il problema di educare la nuova generazione all’apertura verso lo scombinamento delle caratteristiche di genere. Inoltre, si pone il problema di conciliare alcune prospettive emergenti, anche nel dibattito politico/legislativo, con un elemento interiorizzato dal genitore, ovvero la necessità di dirigere l’educazione verso un orientamento sessuale e di genere che è, a sua volta, parte integrante di una visione interiorizzata dell’identità in senso più generale. Ma è corretto ritenere che ad una determinata prospettiva del genere corrisponda una altrettanto definita impostazione educativa nella persona che la mette in atto? Quanto è consapevole il genitore di ciò che trasmette in termini di identità di genere, ovvero di uno di quegli elementi che fanno parte della sua identità profonda? Presumibilmente, molto della trasmissione di genere avviene ad un livello inconsapevole, anche se non tutto; accanto a tale dimensione inconsapevole, infatti, c’è un’azione consapevole di orientamento pedagogico – educativo e morale, corrispondente a convinzioni e a posture esistenziali definite. In questo ambito, ancora più che in altri, gli orientamenti non ragionati e non approvati del genitore, possono contrastare con quelli consapevolmente messi in atto. Nella domanda sulla valenza educativa dell’esemplarità adulta, intesa come la capacità della persona matura di rappresentare con il suo esempio e la sua testimonianza i contenuti di ciò che professa nella propria attività educativa, spesso si distingue un io dell’educatore più autentico da quello professato ed esposto nel dialogo educativo; tuttavia, a volte non si riflette a fondo sul fatto che ciò che si è nel profondo e ciò che si vuole essere non corrispondano all’autentico e all’inautentico, ma a forme di autenticità che nel dialogo educativo risultano rilevanti. Dunque, si può ritenere che un genitore risulti più pedagogicamente efficace nel suo esempio – testimonianza piuttosto che nel suo professarsi o agire. Le azioni e le parole orientate all’educazione sono tutt’altro che staccate da una vera e presunta esistenza identitaria della persona che è il genitore; la sua personalità, infatti, è anche costituita da ciò che vorrebbe essere, ma non è ancora o non riesce ad essere. Dunque, l’equilibrio tra essere ed educare, nel campo dell’identità di genere, si pone in modo molto complesso perché coinvolge pienamente l’identità di genere del genitore, anche al di là delle sue consapevolezze e al di là di quell’idea di naturalità che tendiamo ad ascrivere al legame tra genitalità maschile o femminile e sviluppo delle caratteristiche di genere. È presumibile, infatti, che i genitori proiettino negli atti, nella gestualità e negli orientamenti generali dell’educazione, quella radicata idea di consequenzialità tra sesso biologico e genere socio – culturale che ha innervato la loro stessa esperienza di crescita e formazione. Martha Nussbaum (altra filosofa) riflette sulle pratiche di allevamento dei neonati che i genitori mettono in atto e nota come gran parte di esse discenda da uno degli elementi fondamentali cui è orientata l’educazione Susanna Barsotti (docente) sostiene che quanto accade viene sempre espresso dagli esseri umani in forma di racconto. Quest’ultimo, inteso anche come forma di rappresentazione interiore, caratterizza l’umano e i rapporti con i suoi simili. La nostra formazione, infatti, procede attraverso un racconto complesso che intrecciamo di noi stessi, collegando e rielaborando il nostro passato e il nostro presente e proiettando la nostra trama odierna verso il futuro. Inoltre, nel rapporto con i nostri simili narriamo e veniamo narrati, non solo nel senso che ci narriamo dei racconti, ma anche nel senso che le relazioni rispondono ad una struttura essenzialmente narrativa. Stante la costitutività identitaria del narrare, la stessa distinzione tra dimensione e strumento può apparire artificiosa, in quanto anche il raccontare storie, come strumento educativo, è sempre un raccontare la propria identità e iniziare a delineare quella di colui al quale si narra. A queste riflessioni segue la domanda su quanto, attraverso la narrazione, si elaborino, si accolgano e si trasmettano, in senso educativo, idee, modelli e tratti di genere. Nelle narrazioni di vario tipo dedicate all’infanzia e alla giovinezza sono fortemente presenti precisi modelli di mascolinità e femminilità, anche perché le trame contenute nel mito e nella fiaba rappresentano personaggi che, mediante i riti di passaggio/le iniziazioni, transitano dall’indefinitezza infantile alla definitezza adulta, sostanzialmente caratterizzata dall’appartenenza a un genere e dall’assunzione dei suoi compiti. Guardando il tema da una prospettiva femminile, si coglie, ad esempio, nelle fiabe classiche, un preciso modello di giovane donna ignara e ingenua, caratterizzata dall’innocenza, che spesso è esposta alla malvagità di altre figure femminili, altrettanto stilizzate. Tali modelli sono evidentemente strutturati secondo interessi di genere maschile e hanno avuto e hanno tuttora un ruolo di enorme valenza educativa all’interno di una prospettiva patriarcale. Tuttavia, il lavoro di alcuni critici è stato cruciale perché ha svelato l’intrinseca complessità dei modelli e delle figure fiabesche: infatti, nella narrazione fiabesca si ritrova una pluralità di figure di uomini e donne che sono anche modi differenti di rappresentare le caratteristiche di genere. Le identità di genere nelle storie, quindi, sono meno definite e univoche di quanto si possa pensare; il quesito che ci si pone a questo punto è se quanto appena affermato sia frutto di una rilettura – riscrittura moderna dei racconti popolari, oppure sia frutto di un’attenta ricostruzione storiografico – letteraria che tiene in considerazione la genesi, il percorso e l’evoluzione delle trame del racconto, svelandone aspetti rimossi o taciuti dall’interpretazione più comune della storia. Sembra possibile rispondere affermativamente ad entrambe le questioni, definendo i due processi come “ricostruzione” e “riattualizzazione” dell’opera d’arte. Sebbene l’ermafroditismo e l’androginia siano banditi nella fiaba, occorre considerare l’apertura interpretativa come sguardo possibile della fiaba stesa, che ne potenzia il valore educativo e ne prolunga all’infinito la funzione pedagogica, aprendo alle riflessioni storicamente più recenti. 2.6. Spunti e sollecitazioni di un’indagine; Josephine March e Samantha Cristoforetti Il presente paragrafo coglie alcune sollecitazioni provenienti dalle prime fasi di un’indagine, che proseguirà per tutto il 2022, tra genitori di studenti dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado, dunque con figli di età compresa tra i 3 e i 14 anni. Lo scopo è quello di esplorare la loro comprensione e interpretazione del concetto di genere, il modo in cui questo agisce nel loro orientamento educativo e come essi ritengono che ciò avvenga. I quesiti sono stati posti anche agli insegnanti degli stessi gradi scolastici, che hanno avuto la possibilità di fornire un riscontro anche in veste di genitori e che hanno risposto anche a domande mirate a rilevare eventuali stereotipi di genere nel loro ambito professionale. Le persone che hanno partecipato all’indagine hanno tra i 30 e i 67 anni e sono all’80% di sesso femminile; tra di essi c’è un numero consistente di impiegati e professionisti, mentre le famiglie sono prevalentemente di tre o quattro membri. Simili dati anagrafici si riscontrano tra gli insegnanti, dei quali il 70% è anche genitore. Le questioni poste in questa prima fase sono state essenzialmente tre: la narrazione come strumento educativo e come strumento di educazione al genere; il modo in cui i genitori reagiscono all’eventuale o concreto allontanamento dei propri figli dai modelli stereotipati di genere; le azioni che pongono in essere in relazione alla conformazione o alla rimozione degli stessi modelli. I genitori hanno dichiarato di avere avuto esperienze di contatto con la lettura durante la loro infanzia e adolescenza e, prevalentemente, di aver riscontrato poche figure che potessero avere la funzione di modelli di genere. Al tempo stesso, però, hanno indicato diverse figure chiave emergenti dalle loro letture, quali i personaggi principali dei romanzi classici per ragazzi, e tra di essi, assolutamente dominante, la figura di Josephine March, una delle protagoniste di Piccole donne. La risposta degli insegnanti riguardo alle letture, invece, è risultata più polarizzata verso le voci negative o positive: i personaggi nominati, in questo caso, appartengono prevalentemente alle narrazioni classiche per l’infanzia e l’adolescenza e si concentrano, anche in questo caso, sull’iconica di Josephine March. Per quanto riguarda la presenza o meno di modelli di genere positivi nei libri scolastici dei propri figli, i genitori hanno risposto prevalentemente in senso negativo, mentre il giudizio sulle letture scelte dai ragazzi, oppure proposte da loro stessi, è più positivo. I personaggi indicati come modelli educativi, però, non sempre intrattengono un legame diretto con la letteratura, in quanto spaziano da Giovanni Falcone a Samantha Cristoforetti. Al tempo stesso, i genitori partecipanti hanno rilevato una scarsa presenza di modelli di genere nei consumi culturali del cinema, della televisione, della musica e del teatro. Gli insegnanti, invece, hanno opinioni relativamente discostanti: prevalgono opinioni negative rispetto ai testi scolastici, mentre viene indicata la presenza di modelli di genere positivi nelle letture scelte per le rispettive classi; inoltre, sono più inclini rispetto ai genitori a riconoscere questi stessi modelli in alcuni prodotti culturali. I partecipanti sono anche stati interpellati rispetto alle loro reazioni nei confronti di atteggiamenti dei ragazzi che potrebbero essere interpretati come discostanti dalle rispettive “caratteristiche di genere”. I genitori hanno dichiarato, in prevalenza, un accordo rispetto a qualsiasi scelta del figlio, ma hanno manifestato anche la volontà di indagare, con domande indirette, sulla natura degli atteggiamenti giudicati inappropriati alle caratteristiche di genere e di osservare con attenzione l’evoluzione degli stessi atteggiamenti. Una parte minoritaria ha dichiarato di voler affrontare subito l’argomento con i figli. Rispetto al tema degli orientamenti culturali e professionali, secondo i genitori attribuibili all’altro genere, ha prevalso nettamente una reazione d’accordo; anzi, la preoccupazione si è manifestata più che altro rispetto alla tendenza dei figli a seguire modelli omologanti proposti dai mass media. Un’altra parte di indagine è stata rivolta alla conoscenza di un’eventuale discrepanza tra le mansioni domestiche assegnate a maschi e femmine: da questa è risultato che, in generale, i genitori non attribuiscono precise mansioni domestiche i figli, bensì quelle legate ai compiti di scuola; c’è, tuttavia, una lieve prevalenza dei compiti assegnati ai maschi. Per quanto attiene alle uscite, è emerso il fatto che, nella fascia tra i 10 e 14 anni, i ragazzi possono uscire più delle ragazze, ma in orari precisi e prevalentemente non da soli. Dalle risposte degli insegnanti, invece, è emerso che viene assegnata una totale libertà ai ragazzi, rispetto sia agli atteggiamenti e all’abbigliamento, sia alle future scelte culturali e professionali. Gli insegnanti, tuttavia, sembrano attribuire prevalentemente alle allieve compiti di assistenza nelle attività di classe e ai maschi compiti di mediazione dei conflitti e commissioni materiali. Secondo loro, i maschi tendono a riconoscersi maggiore libertà d’azione sia dentro che fuori dalla scuola. Infine, tra gli insegnanti che hanno risposto anche in veste di genitori, una gran parte ha dichiarato di non trovare alcun modello di genere valido dal punto di vista formativo nei libri scolastici dei propri figli, mentre il rapporto si ribalta per quanto attiene i libri scelti dai figli o le proposte dei genitori stessi. Per quanto riguarda la libertà, invece, gli insegnanti – genitori sembrano essere più stringenti con i propri figli piuttosto che con gli allievi. Capitolo 3. Conoscere la fanciulla fiabesca e le sue ombre (M. Bernardi) 3.1. Premessa La fanciulla fiabesca è un’icona sfuggente, spesso travestita sotto mentite spoglie, che appare in castelli incantati, foreste, ecc. e che resiste a svariate disavventure. Interrogare la sua figura significa innanzitutto prendere in esame la molteplicità di senso che connota quest’icona dell’immaginario, quale abitante della forma e degli intrecci narrativi del corpus fiabesco. Tuttavia, assumendo svariati ruoli e sfaccettature, il lavoro qui riportato non può essere altro che un incompleto e accennato esempio di un possibile itinerario intorno alla figura polisemica della fanciulla fiabesca. 3.2. Perché la fanciulla fatta di fiaba Alla luce degli studi sull’immaginario e tenendo presente come la fiaba e le sue icone siano ripetutamente sottoposte alle banalizzazioni del luogo comune, si ritiene doveroso soffermarsi sulla densità metaforica del genere fiabesco e, in questo caso, sulla potenza simbolica del personaggio della fanciulla, senza però mai separarla dalla fiaba. In evidenza, quindi, abbiamo una figura fiabesca che sopporta lo stesso processo di svalorizzazione e il prosciugamento di senso e significato spesso imposto alla fiaba classica e letteraria. Il testo fiabesco chiama a sé diverse chiavi di lettura, non ultima quella psicoanalitica, che offre un apporto importante alla riscrittura della storia di eroine ed eroi. Ed è proprio la chiave dell’interdisciplinarietà che permette di accedere a comprensioni profonde della complessità delle trame e dei personaggi, sempre osservati nella specificità del linguaggio di un genere ambiguo e lontano dal realismo. La fanciulla, nello specifico, rappresenta il personaggio femminile che rischia ripetutamente la derisione, probabilmente perché è difficile cogliere la densità di senso che culturalmente le appartiene e pare che lei non faccia granché per rivelarsi. Inoltre, simili sono gli attacchi che la trama fiabesca le impone, con lo scopo non di annientarla, ma di offrirle la trama utile all’allontanamento dal giogo iniziale, cui segue l’immediato avvio del suo cammino nel territorio pericoloso, ma salvifico, dell’ignoto. Come sostiene Gasparini (favolista), però, se non si aprono un percorso e un movimento dal noto all’ignoto che conducano alla conquista di un nuovo cominciamento nell’autonomia affettiva, non c’è fiaba. In effetti, la storia fiabesca ripercorre le fasi dei riti d’iniziazione e consegna la fanciulla all’enigmatico stadio di esplorazioni, prove eroiche, rapporti con creature demoniache, rinunce e cadute, invisibilità o morte temporanea, ma tutto accade in funzione della conquista del riconoscimento. La fiaba, tuttavia, fedele al proprio stile testuale rapido, sobrio e impersonale, pur avendola accompagnata lungo la sua tormentata avventura, consente al lettore di scorgere appena le tracce sparse qua e là del suo misterioso e sfumato passaggio. Nonostante tutto, la fanciulla fatta di fiaba rappresenta un personaggio di speciale portata simbolica. Un’icona, nella cui essenza si riassume e si riepiloga l’immagine performativa di una creatura di finzione che interpreta la fase forse più delicata della metamorfosi identitaria. 3.3. Immagini di fanciulle di passaggio A ogni personaggio può corrispondere una fiaba o ne corrispondono tante, narrate in varie forme. Il nucleo di senso della storia che si tesse intorno alla figura della fanciulla e ne manifesta la traduzione simbolica nel racconto è costituito dall’immagine del transito. Infatti, per quanto possa assumere tantissime forme, la figura della fanciulla è sempre di passaggio. 3.4. La bambina d’oro e d’argento nelle ombre della foresta La protagonista della fiaba I tre orsi (Briggs, 1984), nota come Riccioli d’oro e simbolo dell’inafferrabilità, in particolare nella versione italiana, è una creatura che appare, assapora l’atmosfera della casetta animale e poi, dopo aver scrutato, pasticciato e messo in soqquadro di qua e di là, scappa alla sola vista degli orsi e sparisce tra i cespugli. La versione riportata da Catherine Briggs nella raccolta Fiabe popolari inglesi, in realtà, la presenta come “Chioma d’argento”. Indipendentemente dal nome che le viene dato, come da consuetudine del testo fiabesco, si nota come per lei non vi sia ritratto, ma è sufficiente quell’unico, lucente indizio: l’argento e soprattutto l’oro dei suoi capelli, che splendono della lucentezza che la fiaba attribuisce sempre alle chiome del personaggio della principessa. Riccioli d’oro o Chioma d’argento fugge, appare e scompare, protetta dalle fronde e dalle ombre della foresta, fuggevoli e volitive quanto lei; viene tratteggiata come una misteriosa presenza in un habitat naturale non ancora disposto a farsi addomesticare. L’associazione con l’orso, bestia polimorfa che può erigersi su due zampe e, nella fiaba, spesso interprete di un travestimento irsuto per principi incantati, la avvicina al lato oscuro dell’appartenenza boschiva, ma al tempo stesso la invita a sperimentare il confine sottile che designa sua funzione di supporto, di difesa e di insegnamento di non servirà più: vorrà dire che la principessa è pronta per varcare la soglia della separazione che l’ha confinata nel lontano della fiaba. Capitolo 4. What’s your fashion IQ? App e questioni di genere (A. Antoniazzi) 4.1. Immaginario di genere e crossmedialità Indagare sulle questioni di genere all’interno della narrazione digitale, e in particolare di app e videogames rivolti e utilizzati anche da bambini e bambine, significa scoperchiare un vero e proprio vaso di Pandora. Piattaforme come ITunes o Google Play si arricchiscono ogni giorno di centinaia di nuovi titoli, proponendone anche alcuni rivolti direttamente ai più piccoli. Oggi si parla di “nativi digitali” per indicare la generazione di coloro che si muovono in rete con un’autonomia talvolta sconcertante e spesso senza la supervisione di un adulto; si tratta di ragazzi inconsapevoli dell’effettiva pericolosità della rete, ma forse ancora di più di quella dell’incontro con modelli educativi fuorvianti ed erronei, che confermano stereotipi e consolidano pregiudizi. Se i libri o gli album trovano spesso nell’adulto un mediatore, tv, computer, smartphone e tablet sono perlopiù usati autonomamente anche dei più piccoli; gli adulti, infatti, non considerano o tendono a dimenticare che la facilità di gestione dei nuovi strumenti tecnologici non è accompagnata alla sicurezza dei contenuti che trasmettono. Uno dei rischi individuati già negli anni ‘60 da Marshall Mcluhan (1964) riguarda il passaggio della contemporaneità alla dimensione esperienziale del “villaggio globale”: una dimensione ossimorica che, portando una grande parte della popolazione mondiale a condividere merci, economia, informazioni, comunicazioni, conoscenze, modelli educativi, costumi, ecc., provoca allo stesso tempo processi di ibridazione, di convergenza e di omologazione culturale e immaginativa. Per quanto riguarda l’infanzia, si può trovare un elemento che più degli altri ha contribuito a globalizzare, in senso omologativo, l’immaginario, prima a livello occidentale poi via via coinvolgendo segmenti sempre più ampi della popolazione mondiale: il disneysmo. Per comprendere questo aspetto occorre soffermarsi sull’approccio globalizzante che caratterizza l’ottica di Walt Disney; come sostiene Roberto Farnè, la politica della Company non si è proposta come una delle possibili narrazioni, ma si è imposta come quella definitiva; ma la situazione più critica legata alla pervasività dell’immaginario disneyano riguarda il fatto che Disney costruisce le cornici visive delle proprie storie mescolando diversi generi e creando uno stile predisposto allo stereotipo, fatto per essere imitato e riciclato. Inoltre, i personaggi, pur nella loro varietà, sono profondamente statici: quasi completamente privi di complessità psicologica, non subiscono processi trasformativi del carattere e non rivelano ambiguità e ambivalenze nei propri comportamenti. Buoni e cattivi sono addirittura destinati ad essere riconosciuti già esteticamente. Questo crea gravi conseguenze dal punto di vista immaginativo, tra cui la proliferazione di personaggi, ambienti e situazioni fortemente stereotipate che creano un vero e proprio habitus in grado di originare comportamenti tali da condizionare la vita sociale. Secondo Bourdieu, quando si parla di habitus ci si riferisce a “sistemi di disposizioni durature e trasmissibili […]”. Confermando concezioni diffuse e stabilizzando stereotipi, l’habitus tende a generare comportamenti che emulano e si adattano a quelli veicolati dalle narrazioni che saturano l’immaginario; e sono sia i modelli educativi femminili che quelli maschili a risentirne. Basta osservare i luoghi preposti alla vendita di oggetti dedicati all’infanzia e all’adolescenza per accorgersi di quanto lo stereotipo di genere sia presente e radicato. Il cromatismo, dal rosa al viola per le bambine e le ragazzine, dall’azzurro al nero per i bambini e ragazzini, non solo determina la direzione degli acquisti, ma sancisce anche l’appartenenza di genere, conforma e stabilizza i modelli di riferimento in auge. Il fatto poi che le proposte al femminile riguardino perlopiù bambole, trucchi, accessori da principessa e oggetti relativi alla cura della casa e della persona, mentre quelle al maschile siano automobili, robot, costruzioni e armi, non fa che rimarcare il ruolo e ribadire distanze. La distinzione in base cromatica di ciò che è destinato a maschi e femmine non si limita solo ai giochi, ma caratterizza anche molta dell’editoria dedicata ai più giovani. Le edicole e le librerie, infatti, pullulano di proposte che offrono, sotto forma di libro, le stesse tematiche che i bambini e i ragazzi conoscono attraverso gli oggetti che utilizzano per giocare. E lo stesso accade a moltissime serie tv e film, animati e non, che i più piccoli guardano e ad una molteplicità di videogames e app per smartphone e tablet che utilizzano nel tempo libero. Prima di approfondire l’argomento del digitale, però, bisogna soffermarsi su una questione importante: la stereotipia non riguarda solo il femminile, ma coinvolge con la stessa pervasività e prepotenza i modelli maschili. Il maschile, infatti, è supportato da modelli educativi che, attraverso i media e le strategie di comunicazione, ne confermano l’appartenenza di genere; è difficile non aderire o non adattarsi a tale modello, pena l’esclusione, l’emarginazione, la presa in giro o l’ostilità di quanti l’hanno fatto proprio. Nonostante negli ultimi decenni usi e costumi siano radicalmente cambiati, resta ancora molto lavoro da fare. Ancora oggi, i maschi crescono in ambienti mediatici saturi di immagini che rimandano alla competitività esasperata, all’uso della forza e della violenza come strumenti comunicativi privilegiati e allo sporcarsi le mani come elemento dominante della propria esistenza. La tradizionale visione patriarcale dell’uomo forte, completamente padrone di sé, del proprio destino e di quello di chi gravita intorno alla sua orbita, trova un solido ancoraggio nell’immaginario contemporaneo, che ne reitera stereotipi e prassi educativo – comportamentali. Anche le narrazioni contemporanee risentono di un’idea del potere prevalsa di stereotipi maschili; ancora oggi, infatti, dal punto di vista immaginativo, il femminile continua a rimanere un enclave separato e non comunicante di un’umanità declinata al maschile. Per concludere, quindi, gli adulti educanti dovrebbero fornire strumenti interpretativi importanti a partire dalla prima infanzia, affinché i bambini e le bambine imparino ad addentrarsi nei suoi meandri senza smarrirsi e senza esserne sopraffatti. 4.2. Il mainstream digitale Anche le bacheche nelle quali si possono trovare le app per smartphone e tablet tendono a suddividerle in base al genere. Se si cerca “giochi per bambine”, per esempio, si accede ad una selezione ricca di unicorni, vestiti, trucchi, hairstyling, tacchi, ecc., il tutto indicato a partire dai quattro anni. Occorre arrivare molto in fondo per trovare qualche titolo minimamente interessante e un po’ fuori dagli schemi, anche se la grafica utilizzata è quasi sempre in linea con le app indicate in precedenza: la degradazione omologante del modello disneyano al fianco di quella derivata dai tratti più stereotipici dei manga e degli anime giapponesi. Se questa componente omologante è già evidente nell’estetica delle app, è nelle storie che si annidano le più pericolose attribuzioni di genere. La maggior parte dei titoli presi in considerazione, infatti, riguarda categorie di gioco quali rompicapo e puzzle, di difficoltà crescente ad ogni passaggio di livello; da questo punto di vista, quindi, non crea grossi problemi riguardo all’immedesimazione dell’utente in un particolare modello di riferimento. Invece, le storie e le narrazioni che fanno da cornice introduttiva alle sezioni di gioco sono estremamente insidiose. Prendiamo come esempio Project Makeover – rompicapo di moda, un gioco nel quale si è chiamati a scegliere nuovi vestiti, acconciature, trucchi e mobili per persone che “hanno un disperato bisogno di un makeover”. Una volta scaricata l’app, un breve filmato racconta come lo scopo del gioco sia proprio quello di tirare fuori la bellezza interiore da queste persone che ne hanno un disperato bisogno, trasformando il giocatore in un fashion stylist. Il problema sta nello scopo del gioco, ossia quello di cambiare l’immagine, il modo di vestirsi e di rapportarsi agli altri di chi non si conforma allo standard estetico – comportamentale di riferimento e chiede aiuto per farlo. In altri termini, occorre trasformare chi abbiamo di fronte in qualcun altro, omologandolo alle mode e ai gusti condivisi, affinché non rimanga o non diventi un reietto. Il principio di omologazione diventa, quindi, un valore totalizzante che, all’interno di questa app e di altre, non può e non deve essere messo in discussione. A esasperare la situazione è il fatto che le pubblicità di questa app e simili vengono inserite all’interno di molte altre, anche non rivolte allo stesso target. In quegli spot si nota come alle ragazze che non raggiungono un determinato standard venga imposta una trasformazione radicale; se la metamorfosi non riesce, il suo fidanzato sembra autorizzato ad abbandonarla sulla porta di casa per uscire con un’altra donna dotata di un fashion IQ più alto del suo. L’IQ (quoziente intellettivo) è un sistema di valutazione che prevede la misurazione della capacità intellettiva personale tramite test standardizzati, prevalentemente logico – matematici; si tratta di un metodo di calcolo che è stato spesso criticato da studi che evidenziano come esistano una molteplicità di forme di intelligenza oltre a quella logico – matematica. In questo caso, l’IQ viene citato per sottolineare come l’utilizzo di un termine possa rappresentare già di per sé una discriminazione. Nella società occidentale di matrice patriarcale, infatti, l’intelligenza è considerata una prerogativa del maschile; le attività di governo, la scienza ma anche la letteratura e, più in generale, la cultura stessa, sono state a lungo considerate un affare, una prerogativa e un’attitudine prettamente maschili. Fin dalla mitologia greca, però, l’intelligenza non è concepita esclusivamente nella sua forma logica. Una delle divinità più prestigiose, ma anche rispettose e temute, infatti, è Metis, prima moglie di Zeus, che conosce più cose di qualsiasi dio o uomo mortale. Con il termine “metis” è stata poi indicata una forma di intelligenza particolare che permette a chi la possiede di tirarsi fuori da una situazione svantaggiosa limitando al massimo i danni. Il matrimonio con la prima moglie rappresenta quindi per Zeus la vera e propria consacrazione a monarca perché non può esistere sovranità senza metis; al tempo stesso, però, egli teme la capacità della sua sposa e per questo decide di divorarla e renderla parte integrante di sé, relegandola nella profondità del suo ventre affinché possa dargli consigli sul bene e sul male. È interessante notare come, mentre si conoscono tutti i dettagli relativi alla seconda moglie di Zeus, Era, considerata patrona del matrimonio e del parto, e quindi più consona al modello femminile, quasi nulla si sa della prima. Certo è che nella contemporaneità immaginativa di quella atavica associazione tra il femminile e l’intelligenza astuta e creativa di Metis resta poco, soprattutto se l’intelligenza femminile, secondo l’opinione comune, si manifesta e si misura nella moda. Molte sono le app paragonabili a Project Makeover, anche se ad essere ancora peggio sono le pubblicità delle stesse. Un esempio può essere quella di Homescapes, che si interrompe nel mezzo dell’animazione per chiedere al giocatore di fare una scelta: la coppia sta litigando perché l’uomo è stato sorpreso in una situazione compromettente con la cameriera e chi gioca deve decidere se far riappacificare la coppia, consentendo alla donna di partecipare ad una relazione a tre, oppure no. Nel caso in cui la scelta ricada sulla seconda opzione, la compagna ufficiale viene cacciata di casa e ben presto si ritrova sola, sconfortata e reietta, a gestire una casa fatiscente e piena di rimpianti verso l’ex partner. In un altro filmato, indipendente dal precedente, quella stessa donna viene cacciata di casa dal compagno perché accusata di essere meno appariscente e curata della nuova arrivata; anche questa volta, l’ormai ex compagna del protagonista, in mancanza di un uomo di riferimento, non riesce a gestire né la sua vita né la sua casa. Le app rivolte al pubblico maschile risentono della medesima collocazione stereotipica, anche se appartengono al fronte opposto rispetto alle proposte al femminile; si tratta infatti di giochi prevalentemente d’azione e violenza, spesso anche sanguinari. Un esempio paradigmatico è Sniper 3D: gioco sparatutto, nel quale il giocatore è chiamato a sparare in mezzo alla folla, a colpire altri cecchini, a fermare criminali, ecc. Il contesto dell’azione è sempre “bisogna fermare il sospetto”, “occorre aiutare la polizia a bloccare il terrorista”, “impedisci il furto”, e i bersagli, benché non siano descritti a parole, appartengono sempre al fenotipo umano del giovane di periferia, hanno molto spesso tratti africani e arabi, la cresta colorata, magliette rosa o senza maniche da metallari, ecc. Ovviamente non viene mai spiegato cosa abbiano fatto e, a differenza di molti altri giochi, la soddisfazione sta nel vedere la sofferenza della vittima, che giace in un bagno di sangue anche quando arriva il resoconto dell’azione ormai conclusa. Anche se non è possibile conoscere genere ed età di chi gioca con i prodotti digitali fin qui menzionati, è indubitabile che la presenza e la perpetrazione di stereotipi di genere siano una costante. Naturalmente non è la singola app ad essere insidiosa, ma è il continuo reiterare contenuti sessisti all’interno dei media e nei contesti più frequentati anche da bambini e adolescenti, poco abituati a cercare e selezionare contenuti diversi da quelli subito disponibili o acquisibili senza sforzo. Quello che gli adulti tendono a non considerare dei prodotti mediatici messi a disposizione dei propri figli, è che i media trasmettono, talvolta inconsapevolmente, modelli educativi, ovvero modi di essere, di comportarsi e rapportarsi con gli altri. Tra i primi doveri di un adulto educante ci dovrebbero essere quelli di fornire strumenti affinché i piccoli possano scegliere e, quando ancora non sono in grado di farlo in autonomia, di aiutarli nella scelta, evidenziando potenzialità e limiti delle singole proposte mediatiche. Non si tratta di censurare i prodotti mainstream che i Potremmo quindi dire che apprendiamo un modello di segmentazione e organizzazione del mondo nelle sue varie sfaccettature. Se è facile intuire come tra le premesse ci siano sesso e genere, risulta meno abituale pensare di trovare anche modelli di potere. Per meglio comprendere ci possiamo basare sul modello di lettura dei rapporti di violenza di Pat Patfoort (antropologa e biologa), incentrato sull’idea di Maggiore – minore. Secondo lei, le situazioni violente sono caratterizzate da una relazione squilibrata tra due posizioni di potere: una di minore (m), l’altra di Maggiore (M). il Maggiore può trovarsi in questa situazione intenzionalmente o non intenzionalmente e non può esserne o meno consapevole; il minore, invece, ritiene che lo squilibrio rappresenti una forma di ingiustizia e sente di essere discriminato perché differisce da M per una qualche caratteristica. È proprio da qui che ha origine il sistema M – m, ovvero in quelle differenze alle quali si collegano giudizi di valore che determinano il prevalere di uno sull’altro. Come già detto, attraverso le premesse guardiamo e segmentiamo il mondo. Questo processo si basa sulla tendenza degli esseri umani a fare due cose: prima distinguere il mondo in categorie e poi pensarle come categorie sociali, ossia dotate di un’essenza profonda che le descrive. In altri termini, tendiamo a categorizzare ciò che vediamo, sappiamo, facciamo, ecc. per semplificarlo, e questo ci è necessario vista la complessità e la velocità del vivere. Si tratta di una situazione immediata che permette di risparmiare energie, ma anche giudizi di valore, in quanto racchiude tutto in categorie tassonomiche (= sistematiche). 5.2.1. Tra premesse, potere, sesso e genere Le caratteristiche messe in evidenza dalla Patfoort sono moltissime; tra queste sicuramente troviamo sesso, età, inclinazioni sessuali, discendenza e nome. L’analisi con il modello Maggiore – minore ci permette di affrontare la tematica del potere nella sua complessità, senza limitarla solo alla necessità di equilibrare il maschile e il femminile. La relazione di potere, infatti, muta a seconda del contesto e della categoria; per esempio: una donna è discriminata come “minore” quando si trova in situazioni che implicano l’uso della tecnica, come guidare o parcheggiare un auto; un uomo, invece, viene discriminato come “minore” quando allatta un bambino o ricama. Come si nota, l’analisi M – m permette di uscire dal modello degli schieramenti, per individuare un nemico comune e trasversale. Come afferma Roland Barthes (saggista e critico letterario), è proprio la categorizzazione, il definire per stereotipi, a essere violento in sé e per sé. Attraverso il modello tassonomico, infatti, racchiudiamo dentro coppie, binarie e dicotomiche, ciò che ci circonda; ad esempio: buono – cattivo, utile – inutile, alto – basso, ecc. Apparentemente questo ci permette di guadagnare tempo e ridurre lo stress, ma approfondendo evidenzia rischi e problematiche diffuse. Il modello M – m è, infatti, una delle premesse più comuni nel modo di organizzare le relazioni di potere: spesso tendiamo a aprire relazioni con l’obiettivo di stare o non stare in una categoria, non lasciando spazio alla possibilità di condivisione del potere. Inoltre, spesso le categorie diventano giudizi a priori che, una volta appresi, diventano difficili da eliminare; addirittura, l’immagine stereotipata ha effetti sulla formazione della propria identità e delle proprie capacità perché può arrivare ad influenzare e arginare lo sviluppo delle proprie potenzialità (Stagi). Anche per sesso e genere avviene questo perché, come afferma Simone Beauvoir (femminista francese), non si nasce donna o uomo, ma lo si diventa sulla base dei processi di apprendimento e riproduzione che portano alla costruzione di una determinata categoria di genere e dei ruoli connessi. Si tratta di un processo di apprendimento che dà già i suoi frutti in giovanissima età; una recente ricerca ha evidenziato che tra i 5 e i 6 anni si può collocare il momento in cui nell’infanzia cambia la valutazione delle capacità di genere. Dunque, sin da bambini rischiamo di essere abituati ad un modello Maggiore – minore, in cui una delle prime categorie di riconoscimento che apprendiamo è proprio quella del genere. 5.2.2. Tra premesse, sesso, genere e narrazioni Come già detto, esiste una relazione circolare tra sesso, genere e potere; questa prende la forma di premesse, le quali vengono trasmesse nei rapporti di apprendimento. Tra le forme di trasmissione e mantenimento dei modelli culturali e sociali, le storie hanno un ruolo fondamentale; questo perché la struttura narrativa è insita nella prassi dell’interazione sociale, prima ancora di trovare espressione linguistica. Dunque, le storie letterarie sono come una palestra in cui viene attivata l’abitudine alla segmentazione. In esse possiamo apprendere, rafforzare e consolidare le premesse su sesso e genere e sui modelli di potere, ma possiamo anche sperimentare cosa accadrebbe se ci comportassimo diversamente, affrontando le differenze tra le proprie premesse e quelle degli altri. I successi paragrafi analizzeranno tre tipi di storie: 1. Quelle che cercano di equiparare le figure portatrici di un immaginario, un ruolo e una posizione non androcentrica (= fondato su una visione prioritaria, o addirittura esclusivistica, del potere del maschio nella società) e che vogliono offrire un’apertura verso la possibilità di ricoprire nuovi rapporti Maggiore – minore; 2. Quelle che mettono in discussione la necessità di un approccio tassonomico a favore di una descrizione fluida dei ruoli, in cui questi non sono negati ma letti come descrizioni del mondo e modificabili in quanto convenzioni; 3. Quelle vicine al pensiero per cui la problematica di genere è espressione di un modello di potere più articolato e complesso. 5.3. È permesso scegliere? Immaginarsi dentro la dualità Un possibile modello di lettura dei rapporti di potere Maggiore – minore si trova all’interno del romanzo L’albero delle bugie (2016) di Frances Hardinge. Il libro è ambientato in epoca vittoriana e racconta la storia di Faith, una ragazza benestante figlia di uno scienziato, che ha l’opportunità di accompagnare il padre a lavoro, dove coltiva il suo talento per il disegno dal vero e si istruisce indirettamente negli studi naturalistici. Il romanzo trasporta il lettore in un periodo storico in cui l’accesso alla cultura scientifica era quasi impossibile per le donne; gli incontri e le esperienze nel mondo scientifico, infatti, causano a Faith un senso di colpa per l’inadeguatezza tra quello che vorrebbe fare e quello che le è concesso ogniqualvolta si trova davanti alla possibilità di occupare o assaporare il mondo da lei sognato. Dunque, rispetto agli studi scientifici la ragazza è in una posizione di minore, ma vorrebbe spostarsi in una posizione di Maggiore. Faith si occupa delle mansioni delle donne, con il paradosso di dover accompagnare nella formazione il proprio fratellino, che potrà accedere alle scuole a cui a lei non è consentito. Di questa posizione la protagonista soffre nel profondo: non solo non può realizzarsi, ma non può neanche pensare di poter essere altro, in quanto l’idea di fondo dell’epoca era “geni non si nasce, ma si diventa; e, finora, la condizione femminile lo ha reso impossibile”. È bloccata in un sistema in cui chi si trova in posizione di minore dà vita ad un alto numero di “quelle” e “quelli” che non possono modificare i propri confini e le proprie possibilità sulla base di descrizioni e limiti imposti. Inoltre, insieme ai limiti, nella società sono definite le strade da percorrere nel caso in cui ci si voglia avventurare nel tentativo di spostamento della propria posizione, ma anche il prezzo che si deve pagare. Tornando alla storia, un giorno Faith si trova in un campo di scavi e studi paleontologici e viene divorata dalla curiosità scientifica di vedere i fossili rinvenuti; non riuscendo più a stare zitta, chiede a uno dei ricercatori, uomo e adulto, di poter vedere quanto portato alla luce. Lo scienziato acconsente e Faith, durante la visione dei reperti, fa sfoggio delle proprie competenze e attenzione, ossia si comporta come una donna non deve mai fare, dimostrando di poter essere in una posizione di Maggiore grazie al proprio sapere. Fortunatamente riceve solo un ammonimento da parte della madre, che la definisce “ridicola”, ma è chiaro che si tratti di poca roba rispetto a quello che potrebbe avvenire in altre situazioni in cui un soggetto provasse a passare da minore a Maggiore. Come si può prendere atto dei rapporti di potere M – m presenti nelle storie? Nell’ultimo periodo si è assistito alla crescita di produzioni letterarie che, con fini genuini o commerciali, hanno promosso storie sulla parità di genere. Come affermano Simon Beauvoir e Judith Butler, però, non è sufficiente raccontare storie di donne speciali o uomini speciali, che sono andate oltre gli attuali stereotipi di genere, per educare ad una parità. In alcuni casi questo potrebbe addirittura essere controproducente, per il rischio di allontanare il quotidiano e relegare la possibilità di essere altro solo a quelle figure superiori alla media. Una meccanismo lettore – libro prettamente informativo, o che addirittura rafforza la polarizzazione, non sortisce cambiamento ma solo conferme di posizioni già in essere. La presa di coscienza del modello Maggiore – minore in riferimento a sesso, genere e potere, può essere suddivisa in tre momenti: 1. Scoprire le relazioni tra i modelli di potere e di sesso e genere (come?)  per creare quel movimento di ricerca e domanda tra storia personale e storia letteraria, bisogna cercare meccanismi precisi, tra cui quello di privare il lettore delle caratteristiche utili a classificare il sesso/genere dei personaggi; questo può avvenire, per esempio, attraverso la non – caratterizzazione di sesso e genere all’interno delle storie o attraverso una sua lenta scoperta. Costruire il meccanismo narrativo su qualcosa di diverso dal sesso/genere, come avviene in Ancora, papà! (Pesce, Penazzi, 2020), Giochi di luce (Boyd, 2017) e Mentre tu dormi (Ruiz Johnson, 2015), permette molteplici effetti. Innanzitutto, il disorientamento attivato dalla mancanza di caratteristiche che verrebbero utilizzate per categorizzare i protagonisti, permette al lettore di prendere atto di come non sempre sesso e genere siano elementi necessari a livello narrativo. Dopodiché, può aiutare a scoprire quali possano essere le caratteristiche per noi necessarie nella mappatura per sesso/genere. Infine, elimina il binomio dall’essere un “non detto narrativo”. Una variante di questo meccanismo si può trovare in quei libri che hanno volutamente giocato sul disorientamento; tra questi Cuore a razzo, farfalle nello stomaco (Jonsberg, 2019) e Un attimo perfetto (Rosoff, 2020). Entrambi portano il lettore a perdersi, a smarrire le proprie premesse e, proprio per questo, a poterle vedere una volta finito il libro in uno spazio mentale di curiosità; portano a rileggere il proprio modo di vivere le proprie premesse, mettendo maggiormente in evidenza il meccanismo di vuoti e riempimenti di cui parla Roland Barthes. Questo meccanismo viene reso ancora più chiaro nel Il principe azzurro. La principessa fuxia (Francaviglia, Scarlata, 2018). Un libro che invece si distacca da questo rischio è Cosa fanno le bambine? (Heidelbach, 2010); pur rimanendo dentro la cornice binaria maschile – femminile, sin dalla copertina riesca a rompere le aspettative: una fila di bambine vista di spalle, di cui non appaiono i volti e le cui vesti e posizioni corporee offrono un vuoto che permette al lettore di interrogarsi, lo invita ad andare oltre quello che potrebbe o vorrebbe aspettarsi. Il testo crea una serie di aspettative che poi vengono disattese, messe in discussione e a volte ribaltate dalle illustrazioni in cui risiede l’incisività di questo senso di smarrimento; si tratta di illustrazioni che stimolano al movimento e che invitano alla prosecuzione narrativa. Da un lato attingono ad immaginari diffusi, dall’altro li modificano, creando lo spazio di gioco utile a non raggiungere una facile classificazione; è proprio nello spazio immaginativo che il lettore scopre le sue premesse. I due meccanismi appena citati portano i lettori ad attivare inconsapevolmente le proprie premesse. Altri tipi di storie, invece, concentrano nei meccanismi di immedesimazione con i protagonisti la propria forza di destabilizzazione. All’interno dell’editoria sono ormai esplosi i libri che giocano esplicitamente sulle differenze tra maschi e femmine, spesso con toni volutamente leggeri e comici; spesso, però, questo genere di narrazione rischia di sortire l’effetto contrario, ossia rafforzare proprio le premesse dicotomiche e tassonomiche. Frequentemente viene sminuito l’effetto del comico nei libri, soprattutto quando è riferito alle produzioni per bambini e ragazzi; eppure il riso dovrebbe, nelle sue varie forme, basarsi sulla capacità di riconoscere la realtà, le sue regole e i suoi paradigmi e di muoversi tra questi. Tra queste forme di narrazione troviamo per esempio Addio Cotolette! I cani pirata (Mélois, Spiessert, 2019), in cui la volontà è evidentemente quella di costruire una narrazione leggera e piacevole, ben lontana da cornici sessiste; anche qui, però, il rischio è che la risata, intesa come spazio che collega il riconoscimento delle categorie, confermi e rafforzi il pensiero dominante. La storia racconta di una nave di pirati – cani che vogliono prendere possesso di un’altra nave, ossia quella delle signorine; queste ultime hanno un’aria posata e seria e si occupano di civilizzare i cani attraverso la seduzione, il cibo e la manipolazione. La loro prima azione, infatti, è quella di fargli di rosa e giocare con le bambole senza che questo susciti reazioni di preoccupazione e censura, anche pesante, non solo da parte del mondo adulto, ma anche dei pari (Abbatecola, Stagi). Il romanzo Mio fratello si chiama Jessica (Boyne, 2019) racconta con chiarezza come entrambe le polarità si trovino nel momento di voler cambiare, perché hanno preso atto dell’esistenza di un modello di genere e hanno provato ad immaginarsi altro, confrontandosi con le risposte del sistema. Il libro è ambientato in Inghilterra, ai giorni nostri; la voce narrante è Sam, che racconta la risposta data dalla sua famiglia a Jason, suo fratello maggiore, quando a 17 anni ha annunciato di essersi sempre sentito donna e di voler diventare Jessica. Il padre ha detto al figlio di essere confuso e che crescendo gli sarebbe passata; secondo lui, il motivo di questa sua confusione era dovuto al fatto che ultimamente si è parlato tanto di transgender alla radio della televisione. La prima reazione, quindi, è stata quella di sminuire sino ad eliminare l’argomento: il discorso sul sesso non può accettare l’esistenza di una posizione minore, è necessario rientrare immediatamente in posizione Maggiore, oppure fare in modo che nessuno lo sappia, come si legge alcune pagine dopo. Mio fratello si chiama Jessica racconta bene le censure che si attivano per paura di cadere in posizione di minore, come l’effetto sociale, economico e relazionale che questo potrebbe avere, o che solo pensiamo possa esserne conseguenza. Ma che cosa fare se non è possibile nascondere e/o nascondersi? La madre di Jason suggerisce di rivolgersi ai medici, in modo tale che possano fare al figlio un elettroshock e fargli dimenticare questa cosa a cui non dovrebbe pensare. Se inizialmente questa risposta non scuote tanto il lettore, il suo pensiero viene disconfermato quando i genitori, non vedendo disponibilità nel figlio a far finta che la sua richiesta sparisca dal discorso, provano a mettere in pratica la soluzione proposta: intervento medico, psicologico, negazione attraverso la creazione di un clima familiare verbalmente violento. Sostanzialmente, il pensiero Maggiore si impone, o prova a farlo. E quale soluzione rimane per Jason? Fuggire e cercare un’alleanza dove la propria posizione passi da minore a Maggiore. A cercare un’alleanza, ma senza trovarla, è anche la protagonista della graphic novel Nera. La vita dimenticata di Claudette Colvin (Plateau, 2019), che racconta le conseguenze del gesto di Claudette, quindicenne di colore che in una cittadina dell’Alabama del 1955 decide di non cedere il proprio posto sull’autobus a delle persone bianche. L’autrice dà voce alle memorie di ragazzina e racconta come il NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), dopo un primo momento in cui la tutelò, la mise da parte in quanto adolescente poco presentabile e perché rimase incinta di un uomo bianco. La storia evidenzia ancora di più come sesso e genere siano categorie fondanti e pervasive del discorso sociale, al punto da non essere riconosciute e viste come obiettivo comune anche da alcuni movimenti storici per le battaglie per i diritti civili di molte minoranze che hanno messo in atto discriminazioni di sesso e genere al proprio interno. Con la graphic novel Trottole (Walden, 2018), invece, si entra nelle risposte del gruppo dei pari e ci si confronta con il meccanismo del silenzio quale strumento di controllo dei rapporti Maggiore – minore. Nello specifico, si tratta di silenzio pubblico, una delle armi della polizia di genere che crea un terreno che rende difficile, se non pericolosa, l’esplicitazione di una propria posizione divergente. Tillie, la protagonista, accompagna il lettore nei tanti momenti in cui vorrebbe raccontare alla propria famiglia e alle amiche il suo essere lesbica, volontà che non trova mai concretezza per paura delle conseguenze. Sono proprio le chiacchiere con le amiche e i genitori, ciò su cui si scherza, le metafore, gli sguardi verso i non etero e il flusso del discorso quotidiano a farle pensare che una propria esplicitazione la porterebbe a cadere in una posizione di minore e ad essere immediatamente ostracizzata. Il silenzio pubblico, quindi, diventa un meccanismo per cui chi si trova in posizione di Maggiore non si espone per paura di finire in posizione di minore; e chi si trova in posizione di minore tace per timore, o certezza, di vedere una crescita della dose di angherie quotidiane. Il tema del silenzio pubblico colpisce entrambi i generi: da un lato gli uomini, spesso chiusi nel silenzio per difficoltà a riconoscere e dare un nome alle emozioni socialmente non coerenti con il loro ruolo, o per una vera e propria imposizione che proviene dagli altri; dall’altro le donne, educate e raccontate come subalterne e rese sogno incarnato da adorare, sono poste su piedistalli dai quali non possono realmente parlare o sono relegate in spazi di discorso separato da quello politico, tranne in quei casi in cui accettano di adeguarsi ai modelli androcentrici. Definire a monte chi può parlare di sesso e genere è uno degli strumenti di controllo individuati da Foucault, come mette in evidenza il racconto L’età del consenso (Valentine, 2011). La storia è ambientata durante un pranzo domenicale in cui sono presenti i padroni di casa, una coppia con due figli e la sorella di lei con il marito, la figlia e l’amica del cuore; e poi c’è Dora, la matrigna della padrona di casa, che si mette a parlare di sesso durante il pranzo. La signora rompe il tacito accordo per cui si può parlare di sesso solo in certi luoghi, a cura di determinate figure autorizzate e che il discorso sia aperto da una certa età in poi; inoltre, rompe anche il dettame del che cosa e del come se ne può parlare, dichiarando che il suo ex amante “ce l’aveva enorme”. Il dialogo si spinge oltre e Dora parla di piacere, chiedendo alle ragazze e ai ragazzi presenti se abbiano già avuto il primo rapporto sessuale completo o, altrimenti, come se lo immaginano. Le risposte sono tutte, almeno inizialmente, finalizzate a riportare al silenzio la signora impudente. Genero e figlia provano in prima istanza a far finta di niente, poi sottolineano i discorsi inappropriati con risatine sciocche a cui seguono tentativi di cambiare discorso, per poi esplicitare la non appropriatezza di quanto sta avvenendo; anche perché gli adulti presenti si aspettano da una settantenne che un altro tipo di discorsi. Contemporaneamente, il nipote piccolo prova a recitare le tabelline o a chiedere che gli siano fatte domande scolastiche; le nipoti e il nipote restano in silenzio, ma una volta che i genitori e gli zii si sono letteralmente rintanati in cucina, si avvicinano a Dora e le chiedono di parlare della sua prima volta. In questo momento il muro di silenzio viene rotto. Le domande naturali dei più giovani trovano risposte che parlano di corpo, affetti, emozioni, paure e speranze in un ascolto reciproco attivo; uno scambio in cui il sesso e le aspettative di genere, riportate ad una possibile naturalità, trovano una loro accogliente legittimazione. Gli adolescenti sono spesso chiamati a rompere i modelli e le forme di silenzio. Questo si vede in Un viaggio chiamato casa (Stratton, 2018), in cui Zoe, la protagonista, dovrà rompere l’oblio in cui era stato rimosso uno zio paterno colpevole di essere voluto diventare transessuale. O ancora si vede in Will ti presento Will (Green, Levithan, 2011), la cui storia ha come protagonisti Will, uno dei narratori, e il suo amico Tiny, che lui considera la persona più grossa e gay del mondo. Il romanzo rappresenta una rottura del silenzio su sesso e genere, soprattutto perché tratta molto il tema del corpo; quest’ultimo, infatti, non solo agisce, ma viene anche sentito e interrogato. Inoltre, la storia racconta tre cammini paralleli che rompono a modo loro quel silenzio. Innanzitutto il cammino di Will, che per tutto il romanzo cerca di non far accadere cose brutte rispettando le sue due regole: “fregatene” e “stai zitto”. Il ragazzo abbassa la testa quando viene attaccato in quanto amico di Tiny e si definisce “non interessato alle relazioni di coppia” per non doversi definire innamorato e rischiare. Il suo cammino lo porterà a dire al suo migliore amico “ti amo”, mettendo in evidenza come siamo abituati a pensare che l’amore e il sesso siano la stessa cosa, ma così non è. Parallelamente, abbiamo il percorso del fidanzato di Tiny, che dovrà trovare un modo per raccontarsi e raccontare la propria omosessualità. Infine, abbiamo il cammino intrapreso da Tiny, che deciderà di mettere su un musical per raccontare la propria vita, per poi accettare di trasformarlo in uno spettacolo su tematiche vicine a tutti. Un altro romanzo in cui il silenzio accompagna tutta la narrazione è Nodi al pettine (Murail, 2018). Louis, figlio di un importante medico e di una casalinga, durante uno stage scolastico in un salone per parrucchieri scopre di essere estremamente portato per questo lavoro e che lo appassiona come nient’altro nella sua vita. Il quattordicenne vorrebbe continuare, sino a farlo diventare il proprio lavoro; tuttavia, sa che il padre, persona irascibile e violenta e titolare del potere decisionale in famiglia, non accetterà mai. Né la madre, né la nonna riusciranno a modificare questa situazione, quindi Louis deciderà di continuare di nascosto. Nella storia, tutti sono bloccati nel proprio silenzio: Louis, che non riesce a capire cosa vorrebbe fare e, una volta compreso, comunicarlo ai propri genitori; la madre, che subisce il marito ed è ferma in una posizione di dipendenza emotiva ed economica; il padre, che nel suo continuo urlare e sbraitare, nella paura che comunica ai familiari, sente crescere intorno a sé un muro di silenzio. Alla triade si aggiungo anche la nonna materna, che andrà a colludere con la bugia del nipote e della figlia nei confronti del cognato, e la sorellina di Louis, capace di sfruttare la protezione del suo ruolo di piccola e femmina per poter dire ciò che pensa. La scelta del protagonista di non dare potere ai divieti del padre, di rischiare, ha un effetto di rottura rispetto all’equilibrio familiare. Sarà lo scontro fisico tra Louis e il padre, che lo manderà in ospedale, a rendere palese la situazione di violenza. I familiari che prima erano in una posizione di minore, si attivano per cambiare e scoprire che all’interno della loro famiglia il potere può essere ridistribuito. Non c’è nessun insegnamento nel romanzo di Murail, ma i lettori hanno la possibilità di immergersi nei movimenti e nei giochi di silenzio e potere, di domandarsi quali e quanti siano vicini al proprio quotidiano, che cosa farebbero loro in situazioni simili. Dunque, il silenzio può essere rotto e la posizione di minore può essere abbandonata quando qualcuno decide di affrontare le possibili sanzioni sociali, e a volte legali, che questo comporta; sanzioni che possono essere sia interne che esterne. Come in La diseducazione di Cameron Post (Danforth, 2018), dove la violenza simbolica dialoga con i sistemi di controllo e sorveglianza, dando vita a quella circolarità di potere sociale che porterà Cameron, insieme ad altri coetanei, a essere rinchiusa in un centro in cui la sua omosessualità deve essere curata. Infine, ci sono romanzi che ci ricordano quanto il silenzio sia un meccanismo ormai appreso a tutto tondo. La casa dei cani fantasma (Stratton, 2015), per esempio, racconta di Cameron, un adolescente in fuga con la madre da un padre violento, che li cerca per riaverli con sé. La fuga, che è una forma di silenzio, porta il ragazzino a non poter mettere radici, creare dei legami stabili con i coetanei, interrogarsi su chi sia la propria famiglia. O ancora, un romanzo come Reato di fuga (Leon, 2015), in cui troviamo un parallelismo dei modelli di maschile ancora diffusi e presenti, in cui gli uomini sono in difficoltà nel sentire, descrivere e comunicare le proprie emozioni. Per concludere, tutti i libri citati sono intesi nella loro possibilità di offrire spazi in cui scoprire, sperimentare e indossare una nuova ritualizzazione della parola. Sono luoghi di sperimentazione del proprio potere di autodefinizione. 5.5. È possibile non pensarci? Immaginarsi fuori dalla dualità La relazione tra storie personali e storie letterarie può assumere differenti forme, anche in relazione al rapporto sesso – genere – potere. Esistono due tipi di storie: quelle che agiscono sulle premesse di funzionamento e quelle che intervengono proprio sulle fondamenta del sistema stesso. Queste ultime sono capaci di offrire premesse nuove e seguono un meccanismo narrativo che porta ad immedesimarsi e a raccontarsi sotto una luce nuova. È possibile che quanto affermato non sia un obiettivo consapevole dell’autore, bensì l’effetto involontario di una sua riflessione personale e dei suoi modelli culturali di riferimento. Anzi, le storie non aventi questi obiettivi consapevoli sono tendenzialmente quelle capaci di costruire una relazione libro – lettore che ha effetti di attivazione di curiosità, messa in discussione e possibilità di pensarsi altro. Questo meccanismo narrativo si nota, per esempio, nel rapporto con il corpo. Possiamo affermare che il corpo è lo spazio primario di definizioni su sesso e genere, oltre che uno spazio di lotta e determinazione dell’egemonia del modello duale maschile – femminile. I libri per l’infanzia e l’adolescenza possono concorrere ai suddetti processi di soggettivazione nella costruzione di gerarchie fisiche legate al corpo e, al loro interno, di dicotomie organizzative della realtà. Un processo che va a punteggiare rafforzare il corpo come categoria tassonomica e predittiva a priori e non come spazio di ricerca e scoperta autonoma. Along came Coco: a story about Coco Chanel (Byrne, 2019) è un albo illustrato che manifesta la volontà di posizionarsi tra quelli che promuovono la parità di genere; nonostante questo, troviamo un chiaro processo di “pinkizzazione” sia estetica che linguistica. Come manifestato dalla traduzione del titolo, che in italiano si trasforma in Coco, la ragazza libera, si tratta di un testo che vuole collocarsi in un segmento editoriale specifico, proprio come il precedente The princesses wears pants (Byrne, 2017), il cui titolo si propone come liberatorio di un processo di scelta sul proprio corpo. In entrambi i casi, però, l’estetica a cui attingono e che restituiscono visivamente è vicino a quella disneyana, che possiamo trovare in tante pubblicità, applicazioni, giochi, film e serie tv. Un immaginario identico a quello criticato: occhioni dolci, forte attenzione ai vestiti alla moda, colore rosa, ecc. Entrambi gli albi ci ricordano il rischio di un’illustrazione
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