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Onere della prova, Guide, Progetti e Ricerche di Diritto Processuale Civile

Tutto ciò che c'è da sapere sull'onere della prova

Tipologia: Guide, Progetti e Ricerche

2015/2016

Caricato il 14/01/2016

nemoplusiuris
nemoplusiuris 🇮🇹

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Scarica Onere della prova e più Guide, Progetti e Ricerche in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! Onere della prova Il nostro ordinamento ha distribuito la disciplina della prova tra il Codice civile e il Codice di procedura civile. Il Codice civile nel Titolo II del Libro VI intitolato “delle prove” 1, negli articoli 2697 e seguenti disciplina l’onere della prova e i singoli mezzi di prova. Nel Codice di procedura civile le prove sono disciplinate nel Titolo V del Libro I intitolato “Dei poteri del giudice” negli artt. 115 e seguenti c.p.c. Si tratta di un terreno di passaggio tra il diritto sostanziale e il diritto processuale, infatti le prove sono gli strumenti attraverso i quali i soggetti possono provare il loro diritto in giudizio. Nelle disposizioni generali l’art. 2697 c.c. Onere della prova stabilisce quanto segue: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”. Il principio di dispositività dell’onere della prova del processo civile si manifesta sotto due profili: al momento propositivo dell’azione e al momento interno al processo. Una prima declinazione del principio di dispositività riguarda il momento di determinazione dell’azione, nel senso che spetta al soggetto interessato decidere se promuovere o meno l’azione a tutela del proprio diritto, o della propria situazione giuridica soggettiva2. Quindi principio di dispositività vuol dire innanzitutto remissione al discernimento del soggetto se promuovere o meno l’azione. Questo principio subisce poche eccezioni: lo stesso non opera quando l’interesse in gioco non è solo individuale ma è un interesse sovraordinato che assume rilevanza pubblicistica. Ad esempio nel caso in cui entrano in gioco gli status del soggetto, c’è un interesse che travalica la sfera individuale perché riguarda l’accertamento della qualità con cui un soggetto si colloca all’interno della comunità, quindi vi è un interesse pubblico da tutelare. In questi casi c’è una legittimazione all’esercizio dell’azione in capo anche al pubblico ministero (art. 69 c.p.c.) e quindi non opera il principio di dispositività in senso stretto (cosiddetta inazione del principio di dispositività)3. La seconda declinazione del principio di dispositività è invece successiva cioè già interna al processo. Una volta che un soggetto propone l’azione, introduce la domanda giudiziale dinnanzi al giudice, secondo il principio di dispositività enunciato dall’art. 2697 c.c., ha l’onere della prova, cioè deve dare le prove. Quindi non è il giudice che deve cercare le prove per risolvere la controversia, ma è la parte che deve dare la dimostrazione del fatto dispositivo del proprio diritto. 1 1 Il titolo II del libro VI dedicato alle prove contiene un primo capo dedicato alle disposizioni generali : art. 2697 e 2698. Poi tratta la disciplina dei singoli elementi di prova, abbiamo il capo II dedicato alla prova documentale, il capo III dedicato alla prova testimoniale, il capo IV alle presunzioni , il capo V alla confessione , con il capo VI dedicato al giuramento (art. 2739) si conclude il titolo dedicato alle prove. 2 Il principio dispositivo sostanziale costituisce un riflesso della autonomia dei privati e della loro signoria esclusiva sui beni della vita loro attribuiti. 3 Ancor più eccezionali sono le ipotesi di deroghe al principio dispositivo sostanziale, nelle quali il giudice è legittimato a pronunciare sentenza anche se non c’è stata domanda né del pubblico ministero né della parte, come in materia di tutela dei minori, ai sensi dell’art. 336 c.c. È lo stesso principio dispositivo (art. 2697 c.c.) che genera l’onere della prova giusta il quale chi propone la domanda “deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” mentre, all’opposto, spetta al convenuto il quale “eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto”, provare ciò su cui si fonda l’eccezione. La regola enunciata dall’art. 2697 ha un logico corollario nell’art.115 c.p.c. (principio dispositivo formale) a mente del quale il giudice deve porre a base della sua decisione le prove proposte dalle parti del processo, sicché se queste non provvedono a fornire gli elementi di prova necessari per la decisione della lite, il giudice non può raccoglierli autonomamente. Il nostro ordinamento, infatti, adotta il modello di processo c.d. accusatorio, in ragione di ciò il giudice non può ricercare da sé i fatti che dimostrano la fondatezza o la infondatezza della domanda che egli è chiamato a conoscere e a giudicare; del pari, almeno tendenzialmente, il giudice non può ricercare le prove dei fatti allegati dalle parti, le uniche in grado di poterle dedurre (art. 115, co. 1, c.p.c.). Chi agisce deve dare la prova costitutiva del proprio diritto, per converso chi è convenuto nel giudizio e vuole resistere alla domanda avversaria deve dare la prova delle eccezioni, cioè dei fatti estintivi, modificativi o impeditivi che adduce per neutralizzare la pretesa altrui. Quindi ciascuna delle parti del processo dovrà soddisfare il proprio onere della prova. A ben vedere, l’art. 2697 c.c. è una regola che distribuisce tra le parti il rischio della mancata prova: normalmente spetta alle parti dimostrare al giudice che il diritto esiste (attore), o che il diritto non esiste più, o non è mai esistito, oppure non ha quel contenuto (convenuto). Se però le parti non lo fanno, viene in rilievo proprio la regola dettata dall’art. 2697 c.c., che ripartisce tra le parti il rischio della mancata prova dei fatti costitutivi, o impeditivi, estintivi e modificativi. Il difetto della prova di un fatto rilevante per la decisione comporta il rigetto della domanda o della eccezione che sul quel fatto si fonda. Il principio dell’onere della prova codificato dall’art. 2697 c.c. esprime quindi una regola di giudizio per il giudice, infatti dispone che il giudice debba considerare come inesistente il fatto non provato. Per tale motivo si è soliti dire che la norma in esame distribuisce tra le parti il rischio della mancata prova. E’ importante capire cosa si intende per fatto costitutivo del proprio diritto. Per esempio: non è uguale l’onere di prova che deve soddisfare chi agisce per far valere un inadempimento contrattuale rispetto all’onere di prova che deve soddisfare chi agisce per far valere un illecito contrattuale . Colui il quale agisce per far valere un inadempimento contrattuale deve provare il fatto costitutivo del diritto, cioè il contratto e non deve provare altro perché spetterà alla controparte provare che ha adempiuto. Questo perché c’è un principio generale nel nostro ordinamento secondo il quale non è prevista la prova del fatto negativo, nel senso che mentre è possibile dare la prova di un comportamento positivo è pressoché impossibile dare la prova di un comportamento negativo. Si tratta del tema della ripartizione degli oneri di prova: chi agisce in giudizio deve dare solo la prova di avere diritto a pretendere l’adempimento, perché provare di non aver 2 Quanto alle conseguenze, la contestazione successiva del fatto comporterà che lo stesso divenga controverso e debba essere provato dalla parte che lo ha allegato, sulla quale ricadrà il rischio del mancato raggiungimento della prova. In deroga al principio dispositivo di cui all’art. 115, co. 1, c.p.c. l’ordinamento prevede espressamente dei poteri istruttori del giudice. Egli può disporre d’ufficio la consulenza tecnica (art. 61 e 191 c.p.c.), in alcuni casi la testimonianza (art. 257, co.1 e art 281-ter), l’ispezione giudiziale (art. 258 c.p.c.), la richiesta d’informazioni alla Pubblica Amministrazione (art. 213 c.p.c.), l’esibizione dei libri e delle scritture contabili delle imprese soggette a registrazione (art. 2736, n.2, c.c.). Tale potere officioso del giudice dovrà essere esercitato già nell’ordinanza istruttoria. Occorre tener presente che anche in caso di esercizio di poteri istruttori officiosi le conseguenze della mancata prova devono sempre essere determinate secondo la regola prevista dall’art. 2697 c.c., tale per cui in sede di decisione della causa è irrilevante la provenienza della prova: il giudice può desumere il proprio convincimento sulla verità dei fatti posti a base della domanda o delle eccezioni, purché il fatto sia stato ritualmente allegato in giudizio dalla parte che pretendente il prodursi degli effetti giuridici dipendenti. Inoltre, è consentito a ciascuna parte di utilizzare a proprio favore anche le prove fornite dall’avversario: si tratta del c.d. principio di acquisizione processuale, il quale comporta la conseguenza che la parte che ha prodotto in giudizio una prova non può decidere di ritirarla senza il consenso del giudice e delle altre parti. Nel nostro ordinamento il sistema probatorio è incentrato sul “libero apprezzamento” del giudice, l’art. 116, co. 1, c.p.c. rappresenta la norma cardine del sistema di valutazione delle prove, sancendo in via generale il principio del libero convincimento del giudice (“il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento”), ma chiarendo poi che tale principio non opera nel caso particolare dato dalla presenza di prove legali (“salvo che la legge disponga altrimenti”). L’art. 116 pone al centro del precetto un rapporto di regola-eccezione, in forza del quale il giudice di norma deve valutare le prove definite, convenzionalmente, come prove libere “secondo il suo prudente apprezzamento”, salvi restando quei casi eccezionali e tipici in cui, invece, “la legge disponga altrimenti”, precostituendo a priori, sia per le parti, sia per il giudice, l'efficacia probatoria di taluni mezzi di prova definiti come prove legali e caratterizzate da tassatività. Le prove legali costituisco quindi il principale limite, posto dal comma 1 dell’art. 116 c.p.c.; infatti tali prove vincolano il giudice, che non può formarsi un convincimento diverso da quello che deriva dalla meccanica applicazione della regola giuridica prevista dal legislatore. Le prove legali più comuni sono l’atto pubblico e la scrittura privata autenticata (o riconosciuta o verificata), che si dice fanno piena prova sino a querela di falso. Vi sono poi anche la confessione e il giuramento. Un secondo limite al principio del libero convincimento del giudice deriva dai divieti posti dal legislatore, là dove prevede i limiti di ammissibilità di ogni singola prova, ad esempio si pensi ai limiti oggettivi posti alla prova testimoniale (art. 2721 c.c.) o in tema di presunzioni (art. 2729, co. 2, c.c.). Sulla decisione del giudice possono influire anche gli “argomenti di prova”, ex art. 116, co.2, c.p.c., questi possono essere tratti dalle risposte rese dalle parti in sede di interrogatorio libero ex art. 117 c.p.c, dal rifiuto a consentire le ispezioni ordinate ex art. 118, co. 2, c.p.c., comunque dal contegno processuale delle parti (oggetto del prudente apprezzamento del giudice). 5 Si tratta, in sostanza, di fonti sussidiarie e complementari di valutazione, sprovviste di una propria efficacia autonoma, in quanto non sono sufficienti a fondare il convincimento del giudice, ma configurano un mezzo istruttorio ausiliario, sussidiario, complementare, sicché la sentenza che si fondi solo su questa sarebbe viziata. Sulla ripartizione dell’onere della prova possono incidere anche le parti, secondo quanto disposto dall’art. 2698 c.c.: “Sono nulli i patti con i quali è invertito ovvero è modificato l’onere della prova , quando si tratta di diritti di cui le parti non possono disporre o quando l’inversione o la modificazione ha per effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del diritto”. Quindi è possibile invertire l’onere della prova ed è anche possibile invertirlo pattiziamente: in altre parole è possibile inserire in un contratto delle clausole che distribuiscono diversamente l’onere della prova, ciò significa che la regola sancita dall’art. 2697 c.c. non è una regola imperativa ma è dispositiva, cioè le parti possono disporre su di essa. Tuttavia la deroga disposta disposto dall’art 2698 incontra un limite: il patto contrattuale che inverte l’onere della prova non può mai essere tale da impedire l’esercizio del diritto. Ad esempio in materia di responsabilità aggravata è il soggetto che si presume responsabile che deve dare prova di aver fatto quanto in suo potere per evitare l’accadimento, oppure che l’accadimento è dipeso dal caso fortuito (ipotesi considerate negli artt. 2048 e segg. c.c.). Avuto riguardo alle modalità di assunzione delle prove costituende ammesse, all’udienza disciplinata dall’art. 183 il giudice assegna tre termini perentori, di cui al 6° comma dell’articolo medesimo per lo scambio delle memorie difensive tra le parti: 1. un termine di trenta giorni (30) per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte; 2. un termine di ulteriori trenta giorni (30) per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime e per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali; 3. un termine di ulteriori venti giorni (20) per le sole indicazioni di prova contraria. Il processo è governato da scansioni temporali il cui mancato rispetto è assoggettato alla sanzione della decadenza dal compimento di determinate attività. Il mancato rispetto dei termini fissati dal giudice, determina la decadenza, rilevabile d'ufficio, delle facoltà "assertorie" e istruttorie delle parti. Ciò vuol dire che le attività assertive della parte devono trovare la loro sede nella memoria ex art. 183, 6° co. primo termine e, quanto alla seconda memoria, sono giustificate unicamente se si traducano in una replica alle deduzioni della controparte o in una risposta processuale alle medesime. 6 Ciò vuol anche dire che dove la parte non depositi la memoria ex art. 183, 6° co., primo termine, la controparte non ha diritto ad alcuna attività assertiva, non avendo alcun argomento a cui replicare o contraddire. Entro 30 giorni dal decorso del termine assegnato il giudice pronuncia un’ordinanza che o fissa l’udienza di precisazione delle conclusioni, o ammette le prove richieste dalle parti, fissando all’uopo una specifica udienza (art. 184 c.p.c.). Le istanze istruttorie oggetto di questa ordinanza sono volte a chiedere l’ammissione delle prove c.d. costituende, ossia delle prove che si formano direttamente nel processo, nel corso della istruzione probatoria in senso stretto. Dette istanze istruttorie sono sottoposte a una verifica di rilevanza e di ammissibilità da parte del giudice istruttore. Il giudizio di rilevanza è volto ad escludere l’acquisizione di prove superflue rispetto alla dimostrazione dell’esistenza dei fatti rilevanti per la decisione della causa. Il giudizio di ammissibilità comporta la sottoposizione del messo di prova a un controllo di legalità, in particolare il mezzo di prova deve essere stato proposto nel rispetto delle norme, nonché di eventuali patti stipulati dalle parti ex. art. 2698 c.c.. I requisiti di rilevanza e ammissibilità devono concorrere, il giudizio di rilevanza è un prius logico rispetto a quelli di ammissibilità, poiché se un fatto è irrilevante ai fini della decisione della causa è inutile chiedersi se la sua prova sia ammissibile. Il giudizio di rilevanza e ammissibilità riguarda le sole prove costituende, per le prove precostituite, vale a dire le prove che si formano prima e fuori del processo, non è prevista alcuna preventiva valutazione, essa infatti è posticipata al momento successivo della decisione della causa. Va infine aggiunto che il giudice con l’ordinanza con cui provvede sull’ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova e con la quale, altresì, fissa il calendario del processo, fissa l’udienza ex art. 184 c.p.c stabilendo “il tempo, il luogo e il modo dell’assunzione”. Secondo quanto stabilito nella sentenza di Cassazione 6921/2015, si rileva che l'ordinanza ammissiva dei mezzi istruttori articolati dalle parti è un provvedimento insuscettibile di impugnazione dinanzi al Giudice superiore o a mezzo di ricorso per Cassazione in quanto si tratta di provvedimento tipicamente ordinatorio, con funzione strumentale rispetto alla futura definizione della causa, e in quanto tale privo di efficacia decisoria. Da ultimo va detto che il principio di disponibilità della prova assume rilievo in sede di svolgimento dell’istruttoria probatoria, infatti, ai sensi dell’art. 208 il giudice dichiara decaduta dalla prova la parte su istanza della quale deve essere assunta la prova, qualora essa non si presenti all’udienza all’uopo fissata. Tale dichiarazione ha effetto preclusivo sia relativamente al giudizio di primo grado pendente avanti al giudice che l’ha dichiarata sia relativamente all'eventuale successivo giudizio di appello. Tuttavia l’altra parte ha facoltà di chiederne comunque l’assunzione. Inoltre se la parte dimostra di non aver partecipato all’udienza per causa ad essa non imputabile il giudice può disporre la revoca della decadenza, purché la parte stessa ne faccia richiesta nella prima udienza successiva. Quando tutte le prove sono state assunte il giudice dichiara la chiusura della fase istruttoria, fissando l’udienza di precisazione delle conclusioni. 7
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