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Operette Morali - Giacomo Leopardi, Appunti di Letteratura Italiana

Riassunto di tutte le Operette Morali di Leopardi per esame di Letteratura Italiana Contemporanea

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 17/01/2023

asaplucrezia
asaplucrezia 🇮🇹

4.5

(14)

19 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Operette Morali - Giacomo Leopardi e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Operette morali – Giacomo Leopardi 03/11/2020 Giacomo Leopardi Giacomo Leopardi, una delle più importanti figure di tutta la letteratura mondiale, nacque a Recanati nel 1798. Sebbene la sua famiglia fosse di antiche origini nobiliari, ormai il patrimonio era andato quasi del tutto perduto. Ben presto non ebbe bisogno di insegnanti privati e si mise a studiare da solo, anche grazie alla ricchissima biblioteca di famiglia; a 15 anni conosceva già il latino, il greco e il francese e cominciò a studiare l'ebraico e l'inglese. Gli anni dal 1809 al 1816 furono da lui stesso definiti di “studio matto e disperatissimo”, soprattutto filosofico. Tra il 1815 e il 1816 Leopardi, invece, abbandonando temporaneamente la filosofia, si dedicò allo studio della poesia e cominciò a studiare i moderni, come Parini, Alfieri e Foscolo. Gli storici della letteratura hanno definito questo cambiamento, come il passaggio dal vero (la filosofia) al bello (la poesia). In questi anni però il giovane Leopardi cominciò a manifestare i primi problemi di salute: non si sa bene quale fosse la malattia, ma di certo non fu causata dal troppo studio (che non ha mai fatto male a nessuno). Probabilmente era affetto da una malattia genetica oppure da una malattia autoimmune. Visto che l’ambiente familiare gli era ostile e il suo paese, definito “selvaggio borgo natio”, non lo comprendeva, nel 1819 decise di fuggire, ma il suo piano fu scoperto e fu recluso in casa, peggiorando ancor di più la sua situazione. Finalmente nel 1822 riuscì ad andare a Roma, che però lo deluse profondamente. Credeva di trovare la Roma grande e potente studiata nei libri, ma invece vide una città gretta e in decadenza. Rispetto agli intellettuali romani, Leopardi era un gigante e questo lo deluse tantissimo. Prima del viaggio a Roma, scrisse Idilli e le Canzoni. Quando ritornò a Recanati, si aprì per lui una nuova fase produttiva. Leopardi individuò, come causa dell'infelicità, non più gli uomini, che ora erano vittime, ma la natura. Questo nuovo atteggiamento fu riversato nelle Operette Morali. Nel 1827, animato da un atteggiamento positivo, andò a Firenze; sebbene non condividesse quasi nulla, entrò in contatto con il gruppo dei giovani liberali fiorentini, raccolti intorno alla rivista “Antologia”. Conobbe anche Manzoni e Stendhal. Tra il 1828 e il 1830 è costretto a tornare a Recanati per una malattia agli occhi e qui scrisse i Grandi Idilli. Nel 1830 lasciò definitivamente Recanati e tornò a Firenze. In questo periodo ebbe una serie di delusioni amorose, tra cui, la più grande fu quella per Fanny Targioni Tozzetti. Nel 1833 andò a Napoli dal suo grande amico Antonio Ranieri, dove nel 1837 morì. Il pensiero Innanzi tutto bisogna sottolineare che Giacomo Leopardi non può essere inserito all'interno di una corrente letteraria specifica. Forse è l'autore per il quale, più di tutti, questa operazione risulta complicata. La maggior parte degli storici della letteratura lo inseriscono all'interno del Romanticismo, ma lui non si sentì mai tale e anzi attaccò più volte i concetti base del Romanticismo, sia dal punto di vista linguistico, sia dal punto di vista tematico. Dal romanticismo Leopardi esalta la spontaneità, la concezione della vita come dolore e la sfida contro il destino avverso. Dal classicismo, invece, difende i modelli di armonia e di razionalità e soprattutto il vivere secondo natura. L'equilibrio tra uomo e natura, tipico dell'età antica, secondo Leopardi aveva creato le illusioni le quali, come già era avvenuto in Foscolo, avevano permesso all'uomo di vivere meglio; in seguito, però, la ragione ha svelato la falsità delle illusioni e ha reso l'uomo infelice. Gli antichi per Leopardi non erano modelli linguistici da imitare, così come per i Neoclassici, ma modelli morali, perché avevano creato la poesia sentimentale e dell'immaginazione, a differenza dei moderni che hanno creato, invece, la poesia della ragione. Dal punto di vista filosofico, la riflessione leopardiana può essere compresa partendo da un grande dissidio interiore che non è mai sanato: lo scontro tra natura e ragione. La natura è rappresentata dalla poesia, che spingerebbe gli uomini a credere alle illusioni, alla natura, alla speranza, alla vita, all'istinto, alla felicità, ma poi interviene la ragione, cioè la filosofia, che svela il dolore della vita e la vanità di queste speranze, considerate soltanto illusioni: la natura porta a vivere; la ragione porta a non vivere. Una sorta di amore odio nei confronti della ragione, che da un lato svela tutti i segreti e ci rende infelici, dall'altro rappresenta la verità dalla quale non si può sfuggire. Nonostante tutto, però, Leopardi mantiene sempre un atteggiamento combattivo tipico di chi non vuole piegarsi alla realtà. Dallo scontro tra natura e ragione nasce il suo pessimismo che man mano si fa sempre più cupo. In una prima fase, di solito definita dagli storici della letteratura “pessimismo storico”, Leopardi è convinto che gli uomini antichi siano stati felici perché vivevano secondo natura, si abbandonavano alla fantasia e all'immaginazione ed erano capaci di creare miti e fiabe. Con la modernità, invece, la sintonia tra uomini e natura si rompe e di conseguenza gli uomini si allontanano dalla natura, dalla fantasia e dalle illusioni e seguono la ragione; in questo modo, però, svelando tutte le illusioni, scelgono la strada dell'infelicità: antichi, felici e natura, moderni, infelici e ragione. Nel mondo moderno, infatti, l'unico modo di raggiungere la felicità è attraverso l'immaginazione e il ricordo. In seguito, a metà degli anni venti, la riflessione di Leopardi si fa più cupa: si passa al “pessimismo cosmico”. In questa fase Leopardi cambia idea e non crede che l'infelicità degli uomini dipenda dal periodo storico in cui si vive, ma dalla condizione umana che è stata da sempre infelice. Di conseguenza anche gli antichi erano stati infelici come i moderni e la sofferenza è eterna; la natura non è più benigna, ma indifferente al dolore degli uomini: ci costringe a vivere e poi ci porta all'infelicità. Questa fase coincide con il ritorno alla filosofia e con la stesura delle Operette morali e in un secondo momento con i Grandi Idilli. Gli unici momenti di piacere, o meglio dire di assenza di dolore, secondo Leopardi sono “il sabato del villaggio” e “la quiete dopo la tempesta”. Il sabato del villaggio rappresenta l'attesa della felicità che dà più piacere del raggiungimento della felicità. Il sabato quindi, in quanto attesa della domenica, dà più piacere della domenica. L'altro momento di assenza di dolore è lo scampato pericolo (la quiete) e il ritrovarsi vicino alla morte (la tempesta): questo momento porterebbe ad amare la vita. L'ultima fase della riflessione leopardiana è caratterizzata da uno spirito combattivo e dall'esaltazione della solidarietà umana che dovrebbe condurre gli uomini ad unirsi per fare da scudo contro i colpi della natura; questo nuovo atteggiamento, tipico dell'uomo moderno, è sempre ironico. Dal punto di vista letterario Leopardi parte dall’Illuminismo e dal Classicismo, sempre difesi, ma piano piano si avvicina a posizioni romantiche. Teoria del Piacere: l’uomo è sempre alla ricerca del piacere e quando lo raggiunge subito ha bisogno di soddisfarne un altro, quindi il piacere non è raggiungibile, mentre il desiderio di piacere è illimitato nel tempo e nello spazio; questa teoria è alimentata dall’illusione e dal sensismo e nasce dalle angosce e dal dolore. L'unica ancora di salvezza dalla realtà è l'immaginazione e il ricordo che rendono piacevoli anche le cose che un tempo erano fonte di sofferenza. Il ricordo crea piacere, ma chiaramente è un finto piacere. Alla poesia, quindi, non rimane altro da fare che recuperare ciò che è stato vissuto durante la fanciullezza, quando ancora si viveva secondo natura e ancora non era stata svelata l'infelice condizione dell’uomo. Ricordare l’età della felicità, la fanciullezza appunto, dà piacere. Secondo la poetica della rimembranza e dell'indefinito, strettamente legate tra loro, se la realtà viene descritta in maniera vaga e indefinita, soprattutto grazie al ricordo, sembra migliore di quella che è e quindi diventa poetica. Proprio per questo motivo, all’interno della polemica tra classici e romantici, Leopardi si schiera dalla parte dei classici, perché per lui la poesia è recupero di un mondo fantastico, primitivo, che è esistito soltanto nella fanciullezza. Opere La produzione letteraria di Leopardi può essere suddivisa in quattro momenti: le prime canzoni e i Piccoli idilli (1821- 22); le Operette morali (1824); i Grandi Idilli (1828-32); il periodo napoletano e la Ginestra (1832-37). A questa suddivisione possiamo aggiungere lo Zibaldone che non è collocabile in nessuna di queste fasi, perché è stato scritto per tutta la sua vita. Lo Zibaldone è una raccolta di 4526 riflessioni, appunti e pensieri di ogni genere. Questi pensieri, buttati giù in fretta, furono lasciati in eredità al suo amico Antonio Ranieri che, per rispettare le volontà del suo amico, non lo pubblicò; infatti rimasero inediti fino al 1898. È un’opera di grandissima importanza per comprendere il pensiero del poeta e affronta qualunque tipo di problematica, dalla teoria della letteratura, alla filosofia, dalla felicità alla religione. Nello Zibaldone ci sono tutti i temi della produzione leopardiana: la noia, il dolore, il dissidio natura- ragione e la sfiducia nei confronti del progresso. Nella prima fase Leopardi attacca il suo tempo vile e arido, durante il quale la virtù era ormai scomparsa, ed elogia il mondo antico, nel quale la felicità era ancora possibile perché la ragione non aveva svelato la cruda realtà. Per questo motivo, al presente Leopardi contrappone la grandezza degli antichi i quali, vivevano seguendo la natura e le proprie illusioni e per questo erano felici. In questa fase il genere letterario preferito era la Canzone e l'Idillio. Le Canzoni furono scritte nei primi anni venti e sono componimenti poetici di ispirazione classica nelle quali Leopardi esalta le virtù antiche e l'eroe solitario che combatte contro il mondo. Anche il linguaggio è di ispirazione classica. Nei piccoli Idilli, sempre della prima metà degli anni venti, Leopardi abbandona i temi storico-mitologici per temi più personali e intimi, sebbene si identifichino con sentimenti universali. Anche lo stile è diverso, più intimo e familiare. Il capolavoro assoluto dei piccoli Idilli è l’Infinito. Nella seconda fase, Leopardi non scrive più poesie e si dedica alla filosofia. Scrive soltanto in prosa e proprio per questo pubblica le Operette morali, ventiquattro prose di incredibile bellezza, con le quali intendeva prendere in giro il tempo in cui viveva. Nelle Operette Morali, un capolavoro nel suo genere, Leopardi, sebbene in maniera satirica e con uno stile ironico e colloquiale, affronta temi filosofici di grande importanza come la natura dell’uomo, l'infelicità, la religione e la ragione umana. Fra tutti questi temi il bersaglio maggiormente preso di mira fu il progresso e tutte le correnti ottimistiche tipiche dell'Ottocento. Contro questo finto ottimismo, Leopardi si pose l'obiettivo di svelare la verità della condizione umana. Adesso era più virile guardare in faccia la verità e non illudersi più. Proprio in questa fase Leopardi, come abbiamo già detto, passa dal pessimismo storico a quello cosmico; questa sua “nuova” infelicità era stata provocata in parte dal suo viaggio a Roma: non era solo Recanati il problema, ma tutta Italia. Nella terza fase Leopardi compone quelli che gli storici della letteratura chiamano i “Grandi Idilli”. Questo periodo coincide con il ritorno a Recanati, terra dei ricordi e dell'infanzia, e qui, dal 1828 in poi, Leopardi torna alla poesia e scrive i Grandi idilli, uno dei capolavori della produzione poetica mondiale. I Grani idilli, insieme ai Piccoli idilli, furono pubblicati col titolo “I Canti”. Nascono per pubblicare il libro. Dice a Stella che in quel manoscritto ha una importanza vitale, quindi si premura che non venga perduto o rovinato (lettera a Stella il 16/6/26). Inizialmente Stella, capendo il contenuto dell’opera, propone a Leopardi di pubblicarla in una rivista. Leopardi il 31 maggio risponde negativamente alla proposta perché non vuole smembrarla per pubblicarla a puntate, rendendole anche di breve durata. Inizia una trattativa con Stella. È un’opera talmente coerente che non ha bisogno nemmeno di un preambolo. Il 6/12/26 Leopardi scrive un’altra lettera a Stella: rifiuta le biblioteche proposte da Stella perché non vuole che le sue Operette, inserite in delle raccolte, possano perdere valore. Rivendica la natura sistematica in quanto filosofica di questo testo, scritta però con leggerezza apparente. Queste dichiarazioni sono importantissime perché ci danno molti spunti su come leggere questo testo. Nel 1827 Stella pubblica il testo per intero senza inserirlo in una raccolta. Nel frattempo però Leopardi aveva scritto altre operette oltre quelle del ’24 (una nel 25, e nel 27 “il Copernico” e “Il dialogo di Plotino e Porfirio” Seconda edizione del 1834 presso l’editore Piatti: aggiunge altre due operette: “dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere” e “dialogo di Tristano e di un amico” scritte nel 1832. Nella terza edizione del 1835 inserisce per la prima volta le operette del ’25, ma la pubblicazione viene interrotta (il primo volume viene sequestrato). Esce presso Starita. Edizione postuma del 1845. Leopardi non vedrà mai la pubblicazione intera della sua opera. Il primo testo che si incontra è “Storia del genere umano” che funge da apertura di tutto il volume, che si sofferma sull’inizio degli uomini. È una sorta di variazione moderna degli antichi miti di fondazione. È facile riconoscere in questo testo l’uso di moltissime fonti di testi (Bibbia, Ovidio, Platone etc). Il dialogo si fa abbastanza serrato. L’operetta è una delle più corpose. È stata scritta tra il 19 gennaio e il 7 febbraio del 1824, e Leopardi riporta la datazione. Questa storia del genere umano è una storia che ripercorre in chiave mitico-allegorica le vicende del genere umano dai primordi fino ai tempi presenti, attraverso tappe chiaramente riconoscibili tra cui spicca d’antichità con la presenza di grandi valori (definiti fantasmi, che una volta spariti segnano l’inizio dell’età del moderno). 05/11/2020 Storia del genere umano: (composta tra 19 gennaio e 7 febbraio 1824); è una sorta di favola cosmogonica, che racconta i primordi dell’umanità, utilizzando i codici e linguaggio del mito e della favola, e ne costruisce gli eventi fino ad arrivare alla modernità. Nel testo della trama complessa di questa operetta, Leopardi gioca e dialoga con numerose fonti come il primo libro della Bibbia, la Teogonia di Esiodo e ancora Virgilio, Ovidio e sul fronte filosofico Platone – Leopardi, infatti, si è cimentato in una lettura di Platone nel 1823, alla vigilia delle Operette Morali proprio quando la loro composizione stava divenendo sempre più pressante. Più che incontro, la lettura di Platone diventa uno scontro, una resa dei conti con la condizione metafisica e morale di cui Platone è il fondatore secondo il poeta, Leopardi, con le Operette Morali, vuole disegnare un orizzonte dopo il crollo delle condizioni metafisiche e ci parla di un orizzonte morale altrettanto de-costruito. Tra metafisica e morale esiste un rapporto molto stretto, mettere in discussione una equivale a mettere in discussione anche l’altra; Leopardi quindi non crede all’esistenza di valori assoluti o assolutamente validi nell’astratto. Stile: costruzione alla latina, prosa molto studiata. Riassunto per punti chiave: • Non esiste nessuna premessa o preambolo, l’operetta inizia con il verbo “narrasi” = indeterminatezza tipica del mito. • Riscrittura della creazione dell’uomo della narrazione biblica, non viene menzionato nessun Dio e la creazione non è dettagliatamente spiegata, inoltre l’uomo viene creato da bambino (l’accostamento dei primordi dell’umanità equivalgono a fanciullezza dell’individuo). • Quando nomina Giove sta facendo riferimento a Callimaco (poeta e filosofo greco). • All’inizio della creazione il mondo era ben diverso da quello odierno, inizialmente il mondo era pianeggiante, molto meno vario, non c’erano stelle né mare. • La prima condizione degli uomini è una condizione approssimativamente quasi felice, gli uomini contemplavano il mondo insaziabilmente con il loro sguardo privo di conoscenza e pregiudizi (= l’uomo non riesce a soddisfare il suo desidero di felicità) anche se questo era meno vario, associazione tra infinito e piacere; l’uomo vive di “lietissime speranze” ma neanche in questa condizione si sente pienamente felici, perché la felicità per natura è inaccessibile all’uomo. • “Mutazione” con la crescita (umanità/adolescenza individuo) è un processo di alterazione che produce risultati fondamentali spesso connotati in senso negativo; la speranza che l’uomo ha sempre rinviato non si concretizza (è solo promessa e non mantenimento) quindi gli uomini iniziano a non fidarsi più della speranza; subentra il seme del disinganno e della disillusione. • Spinti dalla loro infelicità, gli uomini iniziano a muoversi, visitando molte terre, per la volontà di conoscere; l’uomo “cade” perché vuole conoscere oltre ciò che gli è consentito; aumenta il malcontento e gli uomini conoscono il tedio della vita, la noia (per Leopardi, malessere esistenziale che deriva dal fatto che esistere significa non poter realizzare il proprio desiderio di felicità). • Quando si è verso la vecchiaia, l’uomo odia ormai l’esistenza per la disperazione; soluzione è il Suicidio; entrano in gioco gli Dei, umanizzati, (Leopardi prende spunto da Luciano), sconcertati dal fatto che l’uomo preferisce la morte alla vita, a questi il suicido gli sembra orrendo, si meravigliano che i loro doni sono così disprezzati dai viventi da volersene privare. Gli Dei temono che a lungo andare, aumentando il numero degli uomini che giungono al suicidio, la stirpe umana possa scomparire e temono che così facendo la perfezione dell’uomo possa svanire (tono ironico, l’uomo non è né perfetto né perfettibile per Leopardi, tanto meno la figura più importante del cosmo). • Giove cerca di indirizzare gli uomini alla felicità con maggiori sussidi, senza farli tornare alla condizione di fanciullezza (l’unico luogo in cui si potevano coltivare le speranze), cosa per lui impossibile. • L’uomo ha bisogno di muovere l’immaginazione verso qualcosa che non ha limiti certi e invece il raziocinio e l’intelletto che esplora il mondo non può che scoprire il contrario: la finitezza è tipica dell’uomo e l’infinitezza è tipica del divino; l’uomo per natura può costruire l’infinito solo con l’immaginazione e non può farne parte realmente. • La condizione dove si trova l’uomo è inscritta nell’ordine della Natura: da una parte c’è il desiderio di felicità dall’altra l’impossibilità di raggiungerlo. • Elencando gli interventi di Giove l’autore parla quindi delle origini dei fenomeni naturali, tipico della favola (Leopardi si sta riappropriando delle superstizioni del popolo che aveva scardinato in un’altra opera). A questo punto, il mondo, dopo gli interventi di Giove, prende la forma a noi nota e inizialmente funziona e ridona felicità agli uomini. Alla fine della loro vita, però, gli uomini, data l’esperienza, spengono il loro entusiasmo, ma sono allietati dalle speranze dei giovani. • Con il passare del tempo, si arriva al punto che si piange alla nascita di ogni bambino, talmente l’infelicità degli uomini è grande. La stirpe umana è infelice in partenza e come conseguenza diviene malvagia, non è infelice poiché viene punita per la sua malvagità, come invece spiega la religione cristiana. Allora, Giove punisce gli uomini per la loro insaziabilità con il diluvio e gli unici sopravvissuti, con il compito di ripopolare la terra, sono Deucalione e Pirra, i quali non sono convinti di ripristinare l’uomo sulla terra e sono quasi dispiaciuti di essere sopravvissuti. • L’uomo è diverso dagli altri animali perché non gli basta non provare dolore per stare bene ma brama sempre ciò che non può avere, quindi Giove introduce altri espedienti: inserisce nella vita altri mali e impegna in mille fatiche l’uomo per distrarlo e non fargli osservare il proprio animo o desiderare la vana felicità (altro espediente), in più la natura offre il nutrimento all’uomo; tipico dell’età dell’oro è una delle età mitiche dell’uomo; incivilimento: invenzione del vestito, nascono le prime città, popoli, nazioni e lingue in discordia tra loro, altro motivo per distrarsi dall’infelicità. Giove dona le arti divine e le leggi agli uomini e manda i fantasmi (gloria, amore, virtù...) affinché gli uomini ne possano beneficiare, bensì ogni mossa di Giove sia inutile e controproducente. • Gli uomini si ingegnano e trovano nuovi strumenti (tecnologie) per eludere le fatiche e ricadono nell’ozio e nell’inerzia, marchio della modernità contrapposto alla sana vitalità dell’antico. A questo punto, tra le larve, una, chiamata Sapienza, promette di mostrare la verità agli uomini e gli dice che se avessero avuto la verità sarebbero stati come gli Dei (parallelismo con la tentazione di Lucifero); è un’illusione, la Sapienza non poteva portare in terra la verità, solo Giove poteva, perciò, gli uomini si lamentano con Giove di non essere importanti, ma solo la piccola parte di un tutto e diventano malvagi, pieni di vizi e insaziabili. Giove decide di punirli e condannarli per sempre a miserie sempre più grandi; condanna = la verità avrebbe avuto sempre domicilio tra gli uomini e Giove avrebbe richiamato a sé i fantasmi. • Gli Dei si preoccupano perché pensano che in questo modo gli uomini possano essere simili a loro, ma Giove gli illustra gli effetti di questa condanna. L’infelicità è intrisa nell’uomo e lui saprà la verità, l’unica cosa di cui potrà essere certo è che i beni sono falsi e saprà che la sola cosa fondata è che tutto è vano fuorché i dolori. Ergo, gli uomini saranno privati della speranza, alimento della vita fino a quel momento, tale che la vita diverrà priva di scopo e somiglierà sempre di più alla morte (modernità = devitalizzata). In più, il desiderio di felicità a loro congenito non solo non li abbandonerà ma sarà ancora più insistente. La verità disvelerà e renderà impossibile l’efficacia dell’illusione dell’infinito. • Le parole di Giove furono accolte dagli Dei con sgomento ed egli prosegue dicendo che avrebbe lasciato un solo il fantasma, Amore, l’unico a poter fronteggiare il genio della verità. Nel moderno non esiste più il senso di appartenenza alla nazione e il desiderio di immolarsi (sacrificarsi) per questa, ma ogni individuo si sente nazione; amor proprio negli antichi coincideva con l’amore per la comunità, invece con la modernità l’amor proprio si trasforma in egoismo. Gli uomini sono contenti di avere fra loro la verità ma una volta capiti i suoi effetti rifiutano di adorarla e coloro che avevano aperto di più le porte alla verità (= filosofi) ne scoprono per primi e più fortemente il veleno. N.B. i verbi usati sono ora al presente e non più al passato remoto degli antichi. • Finale: Giove ha ancora pietà per una piccola parte degli uomini, per i pochi magnanimi sopravvissuti alla modernità, cioè i più sventurati e afflitti, e propone agli immortali di andarli a visitare; l’amore platonico/spirituale (il Dio, non il fantasma) accetta di scendere tra gli uomini per la prima volta. Egli rivitalizza e risveglia le illusioni (quando parla del Dio amore, Leopardi usa termini tipici dello stilnovismo) e riempie gli uomini magnanimi dei valori ormai scomparsi per pochissimo tempo, perché la felicità che si ottiene da questi è vicinissima a quella degli Dei. 10/11/2020 Dialogo di Ercole e di Atlante: dal 10 al 13 febbraio 1824. Recupera il contrasto fra antico e moderno in una chiave comico-satirica (ad esempio dove Ercole impreca verso se stesso). Il punto fondamentale è una restituzione del moderno come privo di energia ed erudismo degli antichi. La terra si riduce ad un mero giocattolo. La Terra si riduce ad un gioco a cui i personaggi giocano, provano a risvegliare gli uomini dormienti, risvegliare il mondo dal sonno e dal torpore, senza però riuscirci. In questo dialogo troviamo alcuni elementi tipici di livello Lucianeo, in particolare gli studiosi hanno appurato come pietra di paragone alcuni dei dialoghi dei Morti di Luciano (Caronte e Menippo) con spunti tematici in comune; altra parte di quest'operetta messa in continuità o a contrasto con quella del Genere Umano (sguardo posato sulle origini fino al presente) qui posa lo sguardo alla fase conclusiva della parabola dell'umanità, questo torpore che avvolge il mondo intero somiglia ad una devitalizzazione del genere umano sta agli antipodi dell'operetta precedente. Questo fare apocalittico lo troviamo in altre operette modulato in modo diverso. Quando arriviamo a leggere quest'operetta non è un frutto improvviso della vena leopardiana. Ci sono nel corso dell'operetta altri riferimenti di personaggi mitologici. Le operette sono un testo dotto e colto, documentarsi per cogliere i riferimenti che ci sono. Fetente si appropria del carro del padre Apollo, ma viene ridotto ad un giovane che vuole mostrarsi alle fanciulle, tono ironico. All'inizio dell'Operetta, alla seconda battuta di Ercole, come è possibile che la Terra sia così leggera? Mi accorgo che è cambiata (mutata). Gli uomini, come dice Orazio, sono saggi e giusti, perfida ironia quando Alicante dice chi dubita della giustizia degli uomini? Risponde negativamente, gli uomini sono tutti giusti. Per Leopardi era una delle grandi illusioni che non sono compatibili col moderno. Atlante fa riferimento a quando la Sicilia si è staccata dall'Italia e l'Africa dalla Spagna, dobbiamo stare attenti a non far cadere la Terra e non sia mai succedesse un cataclisma come questi, fate relativizzazioni delle vicende umane. Dentro quest'operetta ci sono diversi temi che sfuggono. Dialogo della moda e della morte: 15-18 febbraio 1824. Pur essendo un dialogo, personifica la moda e la morte che interagiscono e interloquiscono con un tratto filosofico (variazioni di tono e registro rispetto all’operetta precedente). Il punto forte dell’operetta è quello della caducità delle cose umane soprattutto del moderno come l’epoca dell’effimero, di ciò che non dura. La moda è un’emanazione moderna della morte. La moda è un fenomeno moderno, di cui fanno parte benessere e costumi. La morte agisce in qualunque epoca. Leopardi ci propone un binomio. Questo testo è stato citato da Walter Benjamin, pensatore del ‘900. Si sofferma sulla descrizione della nuova Parigi e pone l’inizio del Dialogo di Leopardi, come a far capire che la moda va intesa come rappresentazione di una vita che reca in sé il germe della morte. La morte cita un passo di Petrarca (Canzoniere 53) in cui Petrarca si sofferma sulla differenza dell’Antica Roma e quella moderna. La morte si esprime sia con espressioni di Petrarca, che con parole come diavolo, morte ecc. Petrarca scrive anche il Trionfo della morte, quindi la morte è ben grata a Petrarca. La morte è sempre in movimento, la stabilità è duratura, infatti dice alla moda di fermarsi. C’è riferimento agli inglesi, che erano famosi per l’ottica e la costruzione degli occhiali, dove la morte dice che non potrebbe appoggiarli da nessuna parte, non avendo pelle, ma solo ossa (morte cieca, colpisce chiunque). La genealogia è tipica dei miti, entrambe le figure sono figlie della caducità. La moda fa capire alla morte che il loro compito comune è quello di rinnovare continuamente. “Queste cose che non sono né poche né piccole” dice la Moda, “le faccio per te. Stando sempre in compagnia possiamo prendere migliori decisioni, da questo momento in poi il binomio sarà indissolubile”. Zibaldone 125: per Leopardi la spiritualizzazione (in senso negativo) è da trovare anche nel cristianesimo; equivale dunque ad innalzare l’anima e lasciare da parte il corpo. Zibaldone 207: volto e occhio, manifestazione dell’attività interiore. Ci sono anche implicazioni autobiografiche. Fa un elenco di uomini di grande ingegno ma di salute cagionevole. La cognizione del vero era molto meno distruttiva Non solo pensavano che il mondo fosse al loro servizio, ma tutto ciò messo a confronto col genere umano era irrilevante. Scusa ma addirittura ritenevano che le zanzare fossero state fatte per loro, si per far vedere la loro pazienza. Ridiamo anche su questa cosa, infinite specie di animali, si ergeva o a Padrini pur non conoscendo bene le specie animali, allo stesso modo si avvedevano di qualche stella o pianeta che non conoscevano affatto, si immaginavano che le stelle fossero state messe lì per illuminare le loro attività (Presunzione di ritenersi la creatura per eccellenza). Anche le stelle cadenti venivano fatte per gli uomini come spettacolo, eppure tutto prosegue impassibilmente ed ininterrottamente il mare non si è prosciugato, le stelle ed i pianeti non si sono vestiti a lutto per l'uomo ma dall'altra c'è la ciclicità della vita naturale contrapposta alla natura umana. Per altro il Sole non si è tinto di rosso in segno di lutto (Virgilio, Georgiche, morte di Cesare), in realtà secondo il folletto si ribadisce la sostanziale estraneità della natura e del cosmo alle vicende umane, cosa che gli uomini presuntuosamente si attribuiscono (2 Canzoni: Alla primavera, Bruto minore, in entrambe le poesie seppur con toni diversi si innalza la natura nei confronti della sparizione degli uomini). Questa è una delle Operette più note e famose, il nodo dell'antropocentrismo e della specie umana affiorano in modo molto visibile. Le operette successive le possiamo considerare come una coppia di Operette perché entrambe ruotano attorno ad una questione ed un gruppo di problemi che condividono ed affrontano con lievi variazioni. Il tema del piacere: problema centrale per entrambe le operette, problema della felicità o dell'impossibile felicità, i capisaldi della teoria del piacere dentro lo Zibaldone lo definisce lui stesso così. 18 pagine consecutive in cui Leopardi formula la teoria del Piacere per poi riprenderla a più riprese sia in ambito filosofico (Zibaldone) sia nella produzione letteraria (Operette e Canti). Zibaldone (2410-2414): un punto fondamentale della teoria del piacere è l'amor proprio: è un problema fondamentale filosofico e morale (Rousseau), filosofi morali si occupano di questo nodo e vogliono coniugare l'uomo all'interno del consorzio sociale. La tradizione filosofica è importante, ma nel caso di Leopardi, almeno per quanto riguarda il Piacere, non esiste vita senza amore proprio, dura quanto dura la vita e l'amore proprio spinge il soggetto a nutrire il desiderio di felicità che si desidera senza limiti, una felicità continuata nel tempo. Il grande problema è che una felicità infinita non si può dare all'uomo, impossibile dare ciò che è non finito, vale anche per la felicità la quale non può essere infinita. Anche là dove l'uomo raggiunge un piacere episodico non può raggiungere questa felicità infinita, si innesca un continuo rilancio del desiderio, perché insoddisfatto, genera dolore e patimento, nucleo fondamentale della teoria del piacere, con elementi da aggiungere cioè che questa insoddisfazione è tanto più forte quanto più è sviluppata la sensibilità dell'individuo. Il sè è l'oggetto su cui ricade l'amore. L'uomo moderno è più predisposto a conoscere la sua posizione ed essendo più sensibile prova maggiormente la frustrazione di questo irraggiungimento della felicità. Dialogo di Malambruno e Farfarello: Malambruno, in qualità di mago, invoca i diavoli dell’inferno per ottenere i loro servigi e soddisfare una sua volontà. A rispondere all’appello sarà Farfarello che, prontamente, si presenta dinanzi al mago. Cominciano le supposizioni del diavolo su quelle che possono essere le ragioni della convocazione e pone immediatamente in risalto gli aspetti che ben raccontano la superficialità dell’essere umano: brama di potere, di successo, di lussuria. La sorpresa in Farfarello si fa grande nello scoprire la semplicità della richiesta di Malambruno: essere felice anche solo per un momento. Malambruno è il nome di un incantatore che appare all'interno del Don Chischotte, uno dei libri che per Leopardi aveva un significato importante, nonché primo personaggio umano che incontriamo. Farfarello compare e nelle battute successive, spiega a Farfarello che lo ha evocato e che ha bisogno che gli sia espresso un desiderio. Entra in gioco il comico; Farfarello insiste e afferma che nemmeno Satana sarebbe in grado di esaudire tale desiderio, Malandrino scende ad un compromesso; “non potendo farmi felice almeno posso non essere infelice e liberato da questa infelicità?” Farfarello rispose: “Ti è possibile solo se rinunci all'amore proprio, ma è ontologicamente impossibile connaturato all'essere uomo, questo infatti sarà possibile solo dopo che sarai morto”. Farfarello e Malandrino convergono nelle stesse posizioni e trovano un piano di incontro, Farfarello dice cambiando registro (non più comico-satirico), bensì con andamento malinconico e ragionato, a cui segue una catena di cause ed effetti tipica dell'argomentazione filosofica. Non si nega che si possa provare a qualche diletto, ma nessuno veramente può provarlo. A dire il vero, per tutto il tempo che amerò quel diletto sarò incapace di trovare la felicità. Anche nei momenti in cui non ci sarà dolore, non è sinonimo di assenza di infelicità. Può cessare invece mentre dormiamo senza sognare o mentre non siamo coscienti, ma non mai mentre sentiamo la nostra propria vita, finché sentiamo che viviamo vuol dire sospendere il desiderio di felicità e sospendere la felicità. Quindi a questo punto se vuoi darmi l'anima io ci sono e ti porto via, perché la conclusione a cui sei arrivato è che è meglio non vivere più che continuare a vivere infelici. Dunque, neanche un'entità con poteri sovrannaturale può risolvere questa questione. Il Dialogo della Natura e di Un'Anima: il fuoco fondamentale è il rapporto tra la sensibilità ed infelicità, ma in questo caso viene meno ancor di più la componente comica e prevale il tono malinconico e riflessivo; la connettività delle due operette (Malambruno e Farfarello, e questa) si può cogliere collegando il finale e l’inizio dell’altra operetta. Oltre a queste differenze di tono e di registro, c'è il fatto che qui non si parla della condizione dell'uomo in generale, ma di un caso specifico delle anime dei magnanimi, quindi coloro che maggiormente soffrono non solo perché sono calpestati ed esclusi, ma perché sono i più sensibili, dotati del maggior sentimento di vita, e dunque sono più soggetti alla pena del desiderio insoddisfatto di felicità. Il caso di anime grandi è un caso amplificato di infelicità, si parla di una tipologia di uomo in particolare che subisce a maggior ragione i patimenti di infelicità; anche nell'Ortis lo troviamo, che si presentà come un magnanimo ma al tempo stesso sofferente. È dunque un tema che appartiene alla sensibilità romantica. Lo spunto di quest'operetta lo troviamo, oltre che nella teoria del piacere, anche nello Zibaldone. Questo dialogo mette in scena momenti in cui la natura sta per infonde un’anima in un corpo, e le predice che sarà un’anima grande: questa anima, chiedendo quale sarà il destino delle anime grande: preferirà non essere un’anima grande se a questa viene negata la possibilità di rendere felici. E la conclusione chiede alla natura di essere più che imperfetta, meno dotato di sensibilità che la natura ha prodotto; finale che si intona con Malambruno e Farfarello. Anche in questo caso, come fece Farfarello, la natura prega affichè venga accelerata la morte all’anima il più che si possa. C’è una proiezione autobiografica (l’Anima Grande è una controfigura di Leopardi). Nelle battute conclusive del dialogo, l’anima pone un quesito alla natura: "Dimmi: degli animali bruti che tu menzionavi..."; fa capire meglio per quale motivo l’anima vuole essere collocata tra gli esseri imperfetti. C’è un confronto tra il binomio uomo-animale che non è difficile da incontrare sia qui che nelle Operette che nello Zibaldone, alla ricerca di elementi condivisi ed elementi di distinzione. Per caso gli animali sono dotati di una minore vitalità degli uomini, gli animali si accorgono meno di vivere? Forse gli animali sono più felici di noi uomini? La natura risponde cominciando dagli animali più semplici, che sono inferiori per quanto vitalità; l’uomo, rispetto alle bestie, è più consapevole di vivere, siccome l'uomo è fra tutti i viventi colui che ha più sviluppate le sue capacità e la sua consapevolezza, è colui che sente di più la vita. Dal punto di vista della felicità l'uomo è imperfetto, sebbene l'uomo faccia parte della specie “perfetta”. L'anima conclude che se la perfezione vuol dire questo, allora ella preferisco essere infondo alla scala della perfezione. La natura, dal canto suo, risponde: “Tu rifiuti l'immortalità che io t'ho data” (immortalità intesa come Gloria e Fama, e non come vivere per sempre). 12/11/2020 Il Dialogo della Terra e della Luna: è un'operetta che risale alla fine dell'aprile del 1824 (torniamo ai toni e all’importazione nel Dialogo di Ercole ed Atlante); la Terra, a differenza dell’altra operetta, in questo caso è lei stessa parte del dialogo. Anche qui torna l'impostazione Lucianea (Luciano di Samosata, autore di riferimento sin dalla preistoria); un suo testo riporta alla scrittura di Leopardi, chiamato Icaro-Menippo (prende spunto per quanto riguarda il rapporto Terra-Luna). Un altro spunto preso da Leopardi riguarda un testo di uno scienziato, Fontenelle, chiamato “Colloqui sulla pluralità dei mondi,” testo di divulgazione scientifica che mirava a diffondere la dottrina copernicana; oltre all'argomento astronomico ci colpisce che Fontenelle ipotizza che gli altri pianeti del sistema solare possano essere abitati. In questo dialogo fra Terra e Luna, Terra è la portavoce del punto di vista del genere umano, e il dialogo con la luna assume l'aspetto di un confronto con qualcun altro da sé che è fondamentalmente incomprensibile, distante incommensurabilmente dalle categorie dell’uomo; la Luna diventa il simbolo di un cosmo incomprensibile. Spesso nei dialoghi tra i soggetti si converge su pensieri in comune, ed anche in questo caso accade. “Cara Luna so che tu puoi parlare con me, perché i poeti ti hanno impersonificata come uomo”: parallelismo tra poeta e fanciullo (in quanto entrambi dotati di immaginazione), il tratto tipico dell’immaginazione è quello di individuare e conferire tratti antropomorfi anche a ciò che umano non è. Anche la Terra è una persona, quest’ultima partorisce insieme ad Urano (Cielo) i Titani (tra cui Prometeo). Fa subito capire che la Terra interloquisce con La Luna, è sempre stata impegnata ma siccome ora scoppia di noia per l'inerzia dell'uomo si rivolge a lei. La Terra rivolge alla Luna diverse domande che fanno riferimento a credenze popolari o a miti, riferite alla Luna e all'universo (es. i Pianeti muovendosi emettono una musica) e chiede alla Luna se è popolata davvero come alcuni scienziati hanno ipotizzato (tra cui Fontenelle). La risposta della Luna è “gli uomini? Io non li conosco”, vi è una prospettiva antropocentrica della Terra, se esiste una forma di vita sulla Luna non può essere che come quella degli umani. “Non solo io non so cosa siano gli uomini o gli animali ma anche tutte queste cose che tu mi hai detto non ne ho capito niente”: si fa riferimento ai limiti della conoscenza dell'uomo, la conquista del territorio è propria dell'umano che si è impossessato anche della Terra ed essa pensa succeda anche sulla Luna, benchè quest'ultima nega tutto; Leopardi fa un ritratto dell'umanità (ambizione, cupidigia e la guerra). La Luna dice: “ti chiedo perdono se mi rivolgo a te in maniera franca, ma mi risulti sciocca Terra se pensi che tutte le parti dell'universo siano conformi alle tue”: mostra le incongruenze dei ragionamenti della Terra, ritratti degli uomini che portano a conclusioni infondate. “E mi parli di questo cannocchiale (come nel Folletto e nello Gnomo) a cosa è servito all'uomo se non è riuscito ad uscire da questa forma antropocentrica?” La Terra fa una serie di domande che sono lo specchio delle vane chiacchiere dell'uomo, come al solito la Luna nega le ipotesi che a leggerle sembrano un repertorio di sciocchezze che mettono in luce l'impossibilità da parte dell'uomo di uscire dall'essere egoista. Tutto quello che gli uomini perdono, la gioventù, la bellezza, gli insegnamenti alla virtù; la Terra ha perso molto nel corso dei secoli è deteriorata. “Io penso che tu Luna non hai più spazio, specialmente che negli ultimi tempi gli uomini hanno perso questa virtù completamente e non parzialmente come in tempi antichi”. La Luna dice che la Terra insiste con gli uomini, la vuole fare impazzire, toglierle la facoltà di ragionare. La Terra cerca di trovare un punto in comune, ossia il Male, in quanto entrambi appartenenti al Cosmo, non è una condizione solo dell'uomo ma è condizione dell'esistenza; il Male è cosa comune proprio come i pianeti sono di forma sferica. La Terra non è portavoce delle idee leopardiane, ma la Luna. E soprattutto gli uomini di oggi promettono grande felicità. La Lune risponde che la Terra è convinta che questa speranza non la vedrà mai realizzata. C’è una forma conclusiva di saluto: “dobbiamo interrompere il nostro dialogo, perché non voglio spaventare gli uomini dal sonno che è il maggior bene che abbiamo”. L’elemento comico è che la Luna le dice “buonanotte”, mentre la Terra le dice “buongiorno”. La Scommessa di Prometeo: troviamo un tipo di importazione che è più composito, perché c'è sia la componente dialogica sia quella narrativa, più articolata; è un’operetta più strutturata dal punto di vista della dualità dei temi e dei personaggi, infatti convivono sia personaggi umani che del mito. I personaggi di quest'operetta si spostano in diverse parti del globo ed il viaggio nello spazio che compiono corrisponde ad una varietà dei tempi della storia dell'uomo. Sguardo sull'imperfezione degli uomini, naturalmente costitutiva, è presente perfino tra i selvaggi, si capisce subito l'idea di Leopardi di prendere le distanze dal mito del selvaggio (Rousseau sosteneva che l'uomo non ancora inciviltà per sua natura è propenso a conviverci con altri, solo dopo quando la società diventa più articolata l'uomo diventa malvagio). La figura cardine sono Prometeo e Momo (Dio della maleficenza), entrambi portavoce di due posizioni distinte che poi alla riprova dei fatti giungono ad un pensiero comune. Vi è un’intonazione favolistica: in un anno non ben precisato furono pubblicati dei manifesti ed affissi nella città di Ipernefero (letteralmente al di sopra delle nuvole, citato da Luciano nell'Icaro-Menippo), luogo dove abitano gli Dei, questi manifesti propongono a chi fra gli Dei avesse inventato e trovato qualcosa di utile a presentarlo a questa commissione di giudici, e sarebbe stata consegnata una corona di alloro a chi sarebbe stato in grado di farlo. Ci racconta che gli Dei partecipano a questo Bando non perché volessero non inseguire la Gloria, bensì, annoiati, decidono di partecipare per passatempo. Le invenzioni che verranno riconosciute sono: - Bacco per l'invenzione del vino (per l'ebrezza). - Minerva per l'invenzione dell'olio (di cui si avvalgono gli dei dopo il bagno). - Vulcano che ha inventato una pentola di rame (fuoco, legame molto forte con Prometeo). Bacco, Minerva e Vulcano non sanno che farsene della corona d'alloro, e distruggono man mano il valore della Gloria. Prometeo fu l’unico che si lamentò; qui è presentato non tanto come colui che dalla volontà di Zeus ha portato il fuoco agli uomini, ma viene indicato come creatore dell'uomo e che ha dato forma alla Terra dandogli l'aspetto dell'uomo (Leopardi conosce questa tradizione leggendo raccolte di miti e le loro varianti). Sappiamo che Prometeo era venuto come parte del concorso, egli era convinto che la sua invenzione avrebbe meritato la palma della gloria, e spiega il perché il genere umano è così giusta come creazione. Prometeo si lamentava aspramente che il vino l'olio e le pentole siano state messe di fronte al genere umano, dunque propose a Momo di scendere sulla Terra assieme e facendo una scommessa sulla perfezione del genere umano; questo viaggio è scandito in 3 tappe fondamentali: una nel nuovo continente (America), uno nell'Asia e uno in Europa. Prometeo e Momo volano sulla Terra per osservare gli uomini, l’obiettivo è quello di verificare che gli uomini sono da considerarsi effettivamente in cima alle creature dell'universo, il massimo compimento dell'essere. Genio: “che cos’è il vero?” Tasso. In riferimento ad una frase pronunciata da Pilato, risponde che non lo sa. Il genio dice che non conta tanto che sia falso e non vero, quello che conta è che sia più bello e più dolce. Conta quindi la qualità dell’esperienza. Che importa se è un sogno, se ci fa sentire molto meglio di quanto non ci fa sentire la realtà? Si può essere felici solo dormendo: gli antichi facevano così, pregavano affinché gli dei gli facessero fare bei sogni (tale felicità è comunque solo uno spiraglio). Le conseguenze di questa verità sono che dobbiamo vivere solo per sognare, e Tasso non si può adeguare a questa cosa. Genio: “il fatto che tu stia vivendo vuol dire che tu già ti stai adeguando”. Altro tema che ritroviamo è quello del significato del piacere. Il piacere esiste solo nella mente, e non nella pratica. Il piacere è un desiderio. Dinamica del continuo rilancio del desiderio: una volta che viviamo un diletto desideriamo che questo si prolunghi e che possiamo viverlo appieno, ma soprattutto un godere maggiore e più vero. In realtà questo diletto finisce subito e ci lascia nient’altro che la speranza di poter godere di nuovo. Raccontiamo la nostra esperienza per autoconvincerci di aver goduto davvero o di poterlo fare davvero, cosa falsa, dunque un sogno, ma intanto alimentiamo questa nostra convinzione. Il piacere è cosa nulla. Quindi la vita, non permettendoci di soddisfare il nostro obiettivo di felicità, è una costrizione (perché non è nostra scelta di venire al mondo) ad uno stato inevitabilmente imperfetto e violento. Anche nello Zibaldone Leopardi definisce la vita uno stato violento. Questo perché anche se non ci sono i dolori, c’è la noia. Ma cosa si intende per noia? La noia è come l’aria che riempie tutti gli spazi, e laddove un corpo viene meno e al suo posto non subentra nient’altro, al suo posto subentra lei. È la condizione che si manifesta quando non c’è n’è il piacere né il dispiacere. Questo perché non esiste il vuoto. L’unico momento in cui questo intervallo non viene riempito dalla noia è quando la mente interrompe l’uso del pensiero, quindi quando si è incoscienti (quando si dorme, o quando siamo in uno stato di torpore/sonnolenza). È anch’essa una passione, nel senso che è uno stato che si sente. Poiché i diletti non sono mai davvero pieni, la noia si insinua anche in essi. La noia altro non è che il puro desiderio di felicità, non soddisfatto appieno dal piacere ma neanche offeso del tutto dal dispiacere. L’uomo si dibatte tra la noia e il dolore, ed è questo il suo destino. I rimedi per la noia sono l’interruzione dell’uso del pensiero, dunque l’interruzione dello stato di coscienza e della consapevolezza; l’oppio, che non ci fa essere pienamente consci di noi stessi, conducendo ad uno stato di alterazione; il dolore, perché quando l’uomo soffre sicuramente non sente la noia (Tasso a tal proposito dice che preferisce annoiarsi tutta la vita piuttosto che soffrire.) Anche se non ci si può liberare del tutto della noia, la varietà delle azioni ci solleva un po’ da questa condizione. Il Genio ha un'altra soluzione e fa a Tasso tante domande: è possibile in una situazione come quella di prigionia facendo un lavoro su di sé, fuggire dalla noia, tale da avere compagnia a volte. In realtà essere lontano dagli uomini ha qualcosa di utile: l’uomo lontano dalle cose umane le ricrea grazie all’immaginazione quasi arrivando a ricostruire un mondo tutto suo nella sua mente. La solitudine rimette in sesto l’immaginazione e ringiovanisce l’animo. “Mi troverai in un liquore”, disse il Genio, nell’ebbrezza: recupera ciò che ha detto prima, l’ebbrezza, come l’oppio, è uno dei rimedi che può essere di conforto. Dialogo della Natura e di un Islandese: molti studiosi hanno affermato che questa operetta segni una sorta di spartiacque tra le operette. Tra i punti fondamentali ritroviamo lo sguardo dell’uomo, rappresentante del genere umano, sulla natura incontrata di persona. La natura si configura come entità misteriosa e incomprensibile ma anche distaccata dall’uomo. Entità dinanzi alla quale l’islandese non può che soccombere. L’islandese è un vagabondo. Il suo viaggio si concluse nel cuore dell’Africa equatoriale, un punto in cui l’uomo non ha mai posto piede, da quanto è selvaggia. A quest’uomo capita un episodio analogo a quello accaduto a Vasco di Gama, navigatore portoghese che ha circumnavigato l’estremità meridionale del continente africano. L’islandese vede un masso di pietra simile a quelli dell’isola di Pasqua (questo ci fa capire quanto effettivamente l’islandese abbia viaggiato per tutto il mondo, ma anche di come Leopardi amasse documentarsi su territori che non poteva vedere di persona e di cui doveva narrare i dettagli). Ma scoprirà in seguito che era la forma di una donna, non finta, ma vera, di volto mezzo tra bello e terribile: era la natura. Era gigantesca di fronte all’uomo e dall’aspetto terribile e minaccioso e spietato, come al contempo anche bello ed incantevole (caratteristiche del sublime romantico). Storia dell’islandese: ancora nella prima gioventù conosce il vero, la vanità della vita e la stoltezza degli uomini. Dice che gli uomini sono dediti ad una lotta continua gli uni con gli altri, sopportano male e fanno male agli altri inseguendo dei piaceri e la felicità che però non troveranno mai. E tanto più si affaticano, meno riescono a raggiungerli. Egli è un saggio, perché ha capito che per vivere il meglio possibile l’uomo deve cercare il più possibile di assopire il desiderio di felicità. Decide di tenersi lontano dai patimenti e di vivere una vita oscura e tranquilla. Anche avendo fatto questa scelta ho capito che anche se tu non vuoi offendere nessuno è impossibile che altri non ti offendano (esempio di magnanimo sventurato). Nella società moderna gli uomini a causa dell’amor proprio che diventa egoismo sono in lotta tra loro, ma tanto più vogliono prevalere sui magnanimi come l’islandese. “Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente”: si isola da tutti, cosa che è favorita geograficamente dalla conformazione dell’Islanda. Ma questa scelta non basta, perché finiti i patimenti derivanti dalla società subentrano i patimenti derivanti dalla natura. Visto che paradossalmente lui si contraeva in lui stesso, tanto più accadeva che le cose lo inquietassero, allora iniziò a spostarsi per cercare nuovi climi e posti in cui non offendendo nessuno, non sarebbe stato offeso (simile a Prometeo che va in giro nel mondo per vedere la condizione degli uomini). Ragiona sul fatto che probabilmente la natura all’inizio avesse limitato l’uomo in dei luoghi precisi, come aveva fatto per le altre specie animali. Quando però non poté più vivere in quel modo e una volta rotti gli schemi prescritti dalla natura, allora lei li colpì con la sofferenza. L’uomo forse ha superato i limiti e quindi se soffre in parte è anche per quello. Dalla storia del genere umano sappiamo che se gli uomini soffrono non è tanto per causa loro, ma per la loro stessa natura, quindi non dipende da una loro scelta. Ma alla fine l’islandese prende atto del fatto che non può esistere in cui possa essere ospitato senza dover essere minacciato dalle calamità della natura. Quindi se prima pensava che la natura non fosse responsabile di questa condizione, ora non è più così e la ritiene colpevole. Lui spesso si è interrogato sul perché la natura abbia reso l’uomo così desideroso di piacere ma al tempo stesso reso il piacere così impossibile da raggiungere e nocivo per l’essere umano stesso. Contraddizione ecco perché la natura è un mistero orribile. Continua narrando dei suoi viaggi: l’islandese dice che non ricorda di aver vissuto un giorno senza aver sofferto una pena di qualche tipo. Non può che concludere che la natura è nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le sue opere”. La natura gli chiede retoricamente: “pensavi che il mondo fosse stato creato per voi? Il mio compito non è rendervi felici ma neanche infelici”. Quando la natura ci offende in qualche modo non se ne rende conto, così come non si accorge se ci rende felici. È del tutto indifferente, non lo fa apposta. E se anche si riducesse ad estinguere tutta la nostra specie, non se ne renderebbe proprio conto. L’uomo fa parte di un perenne ciclo di produzione e distruzione di cui non è il protagonista, bensì uno degli elementi, e come tutti gli altri prima o poi sparirà. Similitudine usata dall’islandese per far comprendere alla natura la condizione degli uomini: l’uomo invitato da qualcuno con grande insistenza a casa sua (questo rappresenta momento della nascita) dove è ospite, ma poi viene messo dal padrone di casa in una cella lacera e rovinosa; questa è la condizione umana. Non solo gli viene difficile sostentarsi ma viene anche schernito e maltrattato dagli altri e poi si lamenta con l’ospite, lui gli risponde che non ha creato mica la villa per lui quindi lui replicherebbe: visto che la villa non è stata creata per me, perché mi hai invitato? L’islandese sa che non ha creato gli uomini per il servigio degli uomini, piuttosto pensa che lo abbia fatto per tormentarli. “Non ti ho chiesto io di mettermi al mondo, ma allora visto che ormai ci vivo, non vale la pena di rendermi la vita facile?” La natura risponde che l’uomo fa parte di un processo di produzione e distruzione il cui fine è la conservazione dell’universo e non delle singole vite. Questo lo dicono già molti filosofi, ma poiché quel che è distrutto subisce il dolore e quello che provoca la distruzione non prova piacere (il cosmo è regolato dalla legge della distruzione) e visto che quello che distrugge anche poi sarà distrutto, che senso ha tutto questo? Che senso ha che tutti gli elementi dell’universo soffrano per mantenere l’universo stesso in vita. Vi è una duplice conclusione: due leoni scarni e laceri per la fame mangiano l’islandese e riescono a sopravvivere qualche giorno in più (lui stesso è un esemplare di questo meccanismo di produzione e distruzione. È come se la risposta alla sua domanda sia questo fatto). Un vento, quindi la furia degli elementi, lo travolge e costruisce su di lui un monumento funebre di sabbia (la sabbia è deperibile, come se la natura volesse deridere l’islandese). Verrà poi ritrovato da alcuni esploratori che esporranno il suo corpo mummificato in un museo europeo. 18/11/2020 Il Parini ovvero Della Gloria: questa è l'operetta più corposa del libro. Testo elaborato e molto studiato nella scrittura, più lungo degli altri, tra il 16 luglio ed il 20 Agosto del 1824. È una sorta di trattato, che ha come tema la gloria, che viene preso frontalmente. I capitoli hanno varia lunghezza: i primi capitoli hanno come nucleo la gloria del poeta e negli ultimi associa la gloria del poeta al filosofo. Due piani che convivono: 1. Storico-antropologico si dimostra il motivo per il quale è molto difficile conseguire la gloria poetica e lo è di più nei tempi della modernità. 2. Sociologia della letteratura; all'interno dell'operetta Leopardi fa riferimento al grande sviluppo dell'editoria e di chi sviluppa i libri. Leopardi si interroga sulle sorti della letteratura e anche delle sue possibilità di esistenza nei tempi contemporanei. Tuttavia la conclusione dell'opera non è totalmente negativa (dopo l'Islandese si constata un certo cambio di tono, una maggiore predisposizione da parte di Leopardi ad ammettere una possibilità della rinascita di speranze o accettazione dell'esistenza). Primo capitolo: spiega su cosa si soffermerà in particolare, ha una funzione di introduzione generale. L’unico campo in cui si può forse sperare di raggiungere la gloria è quello dello studio e delle lettere. Parini spiega che l’uomo sarebbe predisposto più che allo studio (perché è frutto dell’incivilimento, non è cosa naturale), all’azione e all’agire, ma non è così per i moderni. Ma oggi a noi moderni, se dotati di grandezza d’animo, non rimane che seguire la strada degli studi. Quindi di conseguenza chi si mette su questa strada è probabilmente uno dei pochi magnanimi rimasti. Ma essendo questa un’attitudine non naturale, seguire la via dello studio ha delle ripercussioni sul corpo. Secondo capitolo: spiega al suo giovane allievo il destino dell’uomo dall’anima grande, ovvero quello di essere perseguitato e maltrattato dai contemporanei ma anche il rischio di essere dimenticato, sia finché in vita che dopo una volta morto. Parini dice: facciamo il caso che tu venga risparmiato da tutti questi problemi, non vuol dire che non ci saranno comunque impedimenti nel raggiungimento della gloria. Coloro che sono davvero in grado di apprezzarti come grande scrittore sono pochi perché per farlo devono essere a loro volta scrittori o quanto meno capire quello che significa scrivere, e sappiamo che sono veramente poche queste persone. Tutta l’operetta è all’insegna della restrizione progressiva di arrivare alla gloria. Conclude il capitolo facendo riferimento a Virgilio e sostenendo che la fama degli scrittori spesso dipenda dal caso più che da un effettivo riconoscimento dei loro meriti, e dal fatto che una volta diventato “famoso” venga tramandato il mito di generazione in generazione, come fosse un luogo comune, non perché abbiano davvero le facoltà per apprezzare la loro grandezza. Terzo capitolo: anche i pochi che sarebbero predisposti a formare un giudizio sulle opere di eloquenza ecc., in determinate circostanze possano avere dei momenti di distorsione del giudizio e dunque non saper giudicare un’opera. Questo dipende dal fatto che il giudizio di un’opera dipende anche dall’effetto che l’opera suscita nel lettore e chiaramente se il lettore è in uno stato d’animo ben disposto, allora sarà più propenso a comprendere ed esprimere un giudizio positivo sull’opera. Si arriva dunque ad una maggiore restrizione del campo. Ci sono persone che sono più predisposti al calore delle passioni, altri alle opere di immaginazione, e spesso lo si è anche temporaneamente, in base alle circostanze. Anche in questo caso si collega all’idea dell’impossibilità di una verità assoluta. Quarto capitolo: Parini mostra al giovane allievo cosa cambia in base alle età dell’uomo (chissà se in un’età piuttosto che in un’altra si è più predisposti ad apprezzare il grande scrittore). Gli anziani sono meno predisposti a sentire il bello, ed è per questo che ci si stupisce quando si trovano gli uomini che sentono ancora l’effetto del poetico. Per essere predisposti a sentire l’effetto della poesia bisogna conservare dentro di sé anche una minuscola convinzione che al mondo la poesia possa ancora esistere. Non bisogna credere che se gli anziani sono meno predisposti lo siano di più i giovani. Questo perché siccome loro ancora non sono del tutto disillusi e non hanno imparato che non possono raggiungere la felicità che cercano. Quindi finiscono per non amare le opere o per disprezzarle, oppure, proprio perché sono inesperti, amano ciò che li colpisce maggiormente, ciò che è eclatante ed eccessivo. Chiedono alle opere quello che non potranno mai ottenere, quindi nel momento in cui sono posti di fronte alla verità non saranno mai contenti fino in fondo di ciò che leggono. Le metropoli spingono ad una vita all’insegna della frenesia e della superficialità. La cultura diviene mero svago e passatempo, non abbastanza per apprezzare i grandi autori (auto-riferimento al soggiorno a Roma e alla sua delusione nel capire che probabilmente pochi lo avrebbero apprezzato e compreso fino in fondo). Quinto capitolo: Parini parla di una fiumana di libri che inondano i potenziali lettori. Questa continua produzione costringe chi vuole essere informato e al passo con le novità ad una lettura frettolosa e superficiale. Quindi non li apprezzano appieno. Questo oltretutto confonde in un grande marasma i testi eccellenti e quelli mediocri. Continuano a sopravvivere i testi antichi molto di più rispetto a quelli moderni; si studiano molto di più di quelli moderni ma si apprezzano anche di più perché è qualcosa che è già stato apprezzato in passato; ecco anche perché un autore moderno farà più fatica ad ottenere la gloria. Nelle operette i morti dicono di non essersene accorti nel momento della morte, proprio come quando ti addormenti e non te ne accorgi. Tutti pensano alla morte come qualcosa di dolorosissimo, ma essendo la morte la fine della sensibilità non si prova niente (spegnimento di ciò che si sente). Leopardi si chiede “è possibile che nella morte ci sia qualcosa di vivo?”, la risposta è ovviamente no, non si può credere che la morte arrechi dolore. Il dolore è da associare all’essere in vita. Il piacere è una privazione del sentimento. Quando si ci addormenta non si prova né dolore né piacere, stessa cosa nella morte. Che cos’è la morte se non è dolore? La morte procede per gradi e all’ultimo di questi istanti non reca né dolore né piacere. I sensi si spengono progressivamente. È anche piacere (di cui parla Tasso, del torpore, del sonno) di modo che i sensi sono capaci di piacere anche presso all’estinguersi, la stessa languidezza è piacere. Ma mentre si moriva, vi rendevate conto che stavate morendo? Finchè il morto, non era diventato tale, pensava di stare continuando la propria vita. Fino all’ultimo si spera di poter proseguire la vita. I morti acconsentono, sempre sottoforma di coro. Cicerone dice che non c’è nessuno, almeno che non sia decrepito, che pensi che non ci sia almeno un altro anno di vita (speranza della vita). Ruysch non coglie fino in fondo il concetto e chiede come abbiano fatto a capire di essere morti; loro non rispondono, il quarto d’ora è scaduto, simbolo del fatto che a queste domande non si può rispondere. Prova a toccarli, sono rimorti, non c’è pericolo che possano fargli paura di nuovo. “Torniamocene a letto”, tornare alla quotidianità: davanti al mistero della morte nemmeno lo scienziato può rispondere, si accetta e si torna alla propria vita. Per quanto Ruysch sia canzonatorio, non nega l’accettazione. C’è una rasserenazione, un’accettazione più serena dell’esistere. Detti memorabili di Filippo Ottoneri: Filippo è un personaggio fittizio. Leopardi, sotto l’invenzione di Filippo Ottonieri, traccia un ritratto ironico di sé, toccando i temi più importanti del suo sistema di pensiero, dalla consistenza del piacere, il desiderio di felicità, la casualità della sorte, alla natura degli uomini, al loro egoismo, ai loro comportamenti sociali, al perseguimento esclusivo dell’interesse. Il titolo è interessante: “detti”, parole non scritte, ma è evidente che Leopardi si richiama ai “memorabilia”, delle frasi da memorizzare come insegnamento di vita. Questi detti sono attribuiti ad un personaggio d’invenzione connotato da un’attitudine ironico-scettica che ha fatto pensare ai commentatori a un possibile richiamo al Didimo Chierico di Foscolo (controfigura fittizia, era il “finto” traduttore di Sterne; in Notizie su Didimo Chierico in cui traccia il profilo di questo personaggio con le frasi che ha pronunciato). Sono suddivisi in sette capitoli, con una struttura frammentaria, contenenti insieme di osservazioni. Leopardi già da tempo scriveva lo Zibaldone (susseguirsi di pensieri apparentemente scollegati tra loro). Gran parte di questi detti memorabili provengono dallo Zibaldone, ripuliti e collocati in questa operetta. È un insieme di battute, frasi scherzose e scettiche: quest’ironia è esercitata su vari argomenti esposti secondo un ordine che non è coerente a prima vista. Questa disorganicità sembra riprodurre un discorso orale, poiché è meno organizzato e coeso di un discorso scritto. Filippo rivendica di non aver scritto niente e di aver detto tutto a parole. Egli fornisce una specie di breviario di comportamento di vita, suggerimenti di vita per l’uomo disincantato e disilluso (mezza filosofia, non mette a sistema le sue idee, usa la parola per offrire a chi lo ascolta delle indicazioni). È disincantato, conosce il vero, ma non al punto da rinunciare ad agire nella vita. Arrivati a conoscere il vero si fa un piccolo passo indietro e non si vuole osservarlo di continuo, perché questo impedirebbe di vivere e di agire, ma proprio perché lo si è visto si vuole salvaguardare quel che si può. Capitolo 1: Filippo Ottonieri nasce e vive a Nubiana, paese delle nuvole, non esiste, nella valle di Valdivento. Filippo è un magnanimo e un disilluso, odiato dai cittadini perché troppo diverso (come l’islandese). Non si ergeva a giudice di chi faceva scelte diverse, ma si capiva la sua diversità e per questo era odiato. Bisogna capire che tipo di filosofo era, non quello astratto e speculativo, ma un mezzo filosofo. Primo detto: nella modernità per essere considerati singolari bisognava essere meno diversi di quanto accadeva negli antichi (basta essere poco diverso dall’altro per scoprire la singolarità). Filippo era solito fare un paragone fra Rousseau e Democrito in cui diceva che chiunque si comporta oggi come si comportavano loro all’epoca sarebbe escluso senza dubbio dal consorzio civile, dalla società. Socrate è l’esempio massimo del mezzo filosofo; egli si rifiutò di mettere per iscritto le sue idee, il parlare è la soluzione. Filippo è un Socrate moderno e da lui ha corso questa abitudine di parlare con sottotono ironico. Fino ad ora la filosofia si era occupata della natura, mentre con Socrate scende nell’agire quotidiano, come l’uomo vive e agisce (altro elemento tipico del mezzo filosofo). Vi è una polemica nella quale il lavoratore, colui che si applica ed è occupato, è escluso da qualsiasi tipo di pensiero filosofico e di riflessione, due stili di vita differenti (Socrate moderno di una società capitalistica). C’è un’ambiguità in cui non parla più di Socrate, ma di Filippo, senza dirlo esplicitamente. Filippo non scrive mai qualcosa di filosofico, almeno che non siano pensieri privati (come lo Zibaldone per Leopardi). Spunti dei capitoli successivi, che proseguono apparentemente in maniera slegata ma sono accumunati da alcuni temi comuni: nel secondo capitolo c’è il tema del desiderio e del piacere, delle speranze. Ci sono una serie di consigli che vengono dati da Filippo per tenere a bada la spina del desiderio e dall’altra parte consigli per alimentare le speranze. Il terzo capitolo si sofferma sul dolore, su come affrontare il dolore della vita. Il quarto capitolo si sofferma sui caratteri degli uomini, fa una descrizione sulla varietà dei caratteri degli uomini. Ci sono vari richiami a precedenti operette, come quella del Parini. Nel quinto capitolo parla dell’egoismo della modernità. Il sesto capitolo ha una lunga carrellata di citazioni di autori antichi, di motti, battute e freddure di vari argomenti. È la parte più dotta dell’operetta, ci sono citazioni di Cicerone, Plutarco ecc. Nel settimo capitolo si arriva a una stretta finale in cui c’è una ricapitolazione dei fili più importanti. Emerge un pacato invito alla conciliazione con la vita. 24/11/2020 A partire dall'Islandese in avanti nel corso delle Operette si fa più visibile l'idea di una riattivazione delle illusioni e delle speranze, conciliazione con la vita o qualche strumento di conforto con il quale l'uomo possa giovarsi. Questo concetto di Leopardi si definisce come Mezza Filosofia, ossia il recupero di una condizione mediana (perché chiamata mezza) è una sorta di passo indietro di fronte al vero mostrato dalla ragione, che non è una negazione ma un non posare lo sguardo ininterrottamente sul vero, e grazie a questo rialimentare il potere delle illusioni. Questa teoria è già presente nelle pagine dello Zibaldone da qualche anno: afferma che la filosofia provoca inazione ed un popolo interamente formato da filosofi non sarebbe capaci di azione. Per stare in vita, abbiamo bisogno di darle un senso, di darci degli obiettivi/speranze a lungo e breve termine. La filosofia piena ci mostra l'incompatibilità di queste speranze, ma la mezza filosofia fa l'opposto e quest'ultima è una filosofia che partecipa in qualche modo all'errore e non e verità pura. Gli errori della mezza filosofia possono essere rimedi per la filosofia, si fa un passo indietro con l'auto persuasione, con rimedi e consigli come il torpore la distrazione e l'ebbrezza, presentati in diverse operette. Solo una filosofia che in qualche modo non è compiuta, com’è di consuetudine perché non tutti sono filosofi fino in fondo, è importante che non sia arrivata ad intaccare il profondo dell'animo, è possibile uno spiraglio di azione per le illusioni. L’ignoranza parziale può esistere anche nell'uomo in società; esso può mantenersi in uno stato di parziale ignoranza che lo tiene al riparo dagli effetti mortificanti della ragione piena. La possibilità della felicità dipende da questo, sono tutti accomunati da questa ignoranza almeno parziale precedente allo sviluppo e la conoscenza della ragione. Quando si parla di ignoranza si parla di illusioni che l'uomo dovrebbe coltivare naturalmente. Un conto è l'errore intellettuale quindi errore generato dalla filosofia con conclusioni fuorvianti, un conto quello provocato dell'immaginazione degli uomini che è vitale quindi dà vita. Il mezzo filosofo, dunque, è colui che riesce a mantenere una distanza dal vero e riesce ancora a sperimentare il desiderio delle illusioni, ed alimentare il potere delle illusioni anche negli altri tramite la parola, che possono essere attivate dal potere persuasivo del dire. L'obbiettivo che si pone il mezzo filosofo è di rimettere in gioco l'oralità che era degli antichi, quindi prima della scrittura razionalizzare della filosofia (prima di Platone). Filippo Ottonieri è, in conclusione, un mezzo filosofo perché non ha mai scritto e da motivi di conforto e consolazione pur partendo dalla disillusione ed il disincanto, il vero lo ha visto ma prova lo stesso a fare un passo indietro. Possiamo constatare che alla base delle Operette c'è il problema di verificare se è possibile ancora conservare attraverso un libro quell'effetto persuasivo della parola e della voce che era degli antichi; Leopardi infatti si chiede se ancora la parola letteraria ha funzione vitale come nei secoli precedenti. Dialogo di Colombo e Gutierrez: il tono è generalmente pacato, anche qui circola l'idea di una riconciliazione con la vita. La natura qui viene presentata da una prospettiva diversa da quella dell'islandese, è una Natura che può regalare le illusioni a patto che ci si ponga davanti a lei con una giusta attitudine. Esce fuori un tono più rasserenato, è una diversa reazione davanti alla natura rispetto alla reazione dell’islandese. Ci sono due uomini in viaggio nella natura ma ragionano in termini diversi (l'Islandese non è l'unica strada). Leopardi immagina il dialogo tra Colombo ed uno dei suoi marinai Gutierrez, dopo aver letto vari testi sull'America. In questa Operetta ritroviamo l'antropocentrismo, la contrapposizione tra la speranza e l'esperienza della vita ed ancora l'insufficienza delle facoltà umane dinanzi alle forze delle leggi che regolano la natura. Ritroviamo inoltre la metafora del viaggio, che non è visto come strumento di conoscenza e di scoperta, ma è letto da una prospettiva di rischio e di avventura, del viaggio verso l'ignoto e dunque dell’aspettato e del pericoloso, ed in questo senso c’è una declinazione meno scontata perché il viaggio come rischio fa sì che ci si senta più attaccati alla vita: più quanto la si mette in pericolo, più la vita diventa degna di essere vissuta. Il dialogo avviene durante il viaggio dell’esploratore Colombo verso terre sconosciute. Cristoforo Colombo si interroga sugli obiettivi dell’impresa. A Pietro Gutierrez, vice di Cristoforo Colombo nella prima spedizione navale, è affidato il compito di sollecitare, attraverso domande e commenti, le riflessioni di Colombo. Il confronto è tra due uomini d’azione che si pongono in maniera opposta: Colombo all’azione unisce immaginazione e la poesia, e non pone come prioritario il risultato pratico. Agisce indipendentemente dall’esito finale ma nell’ottica di sperimentare e ricercare; Gutierrez invece è un uomo concreto e pratico a cui importa soprattutto la realizzazione di risultati, quindi la sua azione mira unicamente ad ottenere un risultato certo. Colombo incoraggia Gutierrez e gli fa notare che se la vita la si prende nel verso giusto essa è più cara, ci fa apprezzare cose che non apprezzeremmo. Gutierrez esprime un velato rimprovero nei confronti di Colombo che solo sulla base di mere supposizioni ha posto a repentaglio la vita sua e dei suoi uomini e chiede se un viaggio così pericoloso possa essere intrapreso sulla base di “una semplice opinione”. Colombo introduce così il tema della noia: argomentando che dato il fatto che gli uomini pongono la loro vita in pericolo sempre, anche per cose di piccolissimo conto, almeno vivere questo stato di incertezza e rischio in mezzo alla distesa del mare, coinvolti in questa avventura, contribuisce ad evitare lo stato di noia prodotto dall’insensatezza della vita. La loro attuale condizione di pericolo e incertezza è tutt’altro che negativa perché rende cara la vita riempie di senso ciò che prima era dominato dalla noia, facendo sì che ogni cosa, anche la più piccola, appare unica e preziosa. Nella parte conclusiva del dialogo l’incertezza scompare per fare posto ad una timida speranza. I segni della natura che all’inizio si erano rivelati illusori sembrano adesso rivelare una concreta e positiva realizzazione delle aspettative. Nell’imminenza della scoperta della terra, la narrazione si interrompe lasciando in sospeso lo svelamento della realtà di come si svolgeranno i fatti. Elogio degli uccelli: il protagonista è Amelio, filosofo realmente esistito. Con l'elogio aggiungiamo un'altra forma di scrittura, gli antichi scrivevano elogi di ogni tipo. L’elemento degli uccelli ed idea della contemplazione degli elementi della natura, si passa da un elemento marino (nell’Operetta di Colombo e Gutierrez) a quello aereo, ossia gli uccelli: da una parte il canto, il moto, l'aria e dall'altra il pensatore Amelio fisso a studiare (controfigura del Leopardi), mentre gli uccelli volano e cantano. Amelio riesce a staccarsi dal pensare ed essere rapito dagli uccelli (rinuncia in parte all'essere filosofo completo). Distogliere lo sguardo dal vero e dimenticare completamente la propria condizione, ed anche qui come nel Tasso si fa riferimento all'ebrezza come dimenticanza ed oblio. Gli uccelli sembrano essere gli animali più felici ed ostentano la loro felicità con il loro canto allegro e soave che riesce a trasmettere sensazioni positive ed un sorriso agli uomini che altrimenti non potrebbero conoscere. Amelio fa riferimento alle opinioni di alcuni che il canto degli uccelli sia più dolce nei centri abitati. Associare il canto ed il volo in uno stesso genere di animali che non è scontato, in maniera tale che questi esseri viventi che avevano il compito di confortare con la voce tutti gli altri si trovassero in un luogo alto. Sullo sfondo ritroviamo la figura del poeta, che è in grado di osservare le cose dall'alto, ed ha il compito di rianimare alla vita. Gli uccelli partecipano al privilegio che ha l’uomo nel ridere e probabilmente proprio su questa sua peculiarità si può giungere ad una nuova definizione di essere umano come animale risibile trasferendo la sua virtù principale dalla ragione al riso. Amelio è preso da questo riso e esce dai binari, contagiato dalla vivacità degli uccelli, talmente preso da questa cosa che pensa di scrivere una storia sulla risata. Gli uccelli sembrano appositamente creati dalla natura per dare una testimonianza agli uomini della felicità delle cose, comunicano agli uomini che l'ordine delle cose è felice seppur essendo falso. E del resto gli stessi uccelli sono i più felici esseri viventi perché liberi dalla noia, poiché in perenne movimento ed esercizi: per loro natura cambiano spesso luoghi, non hanno una casa abituale, provano la vita secondo diverse sfaccettature, esercitano il loro corpo, hanno come obiettivo solo quello di soddisfare le loro funzioni essenziali essendo immuni dall’ambizione. Quindi, in conclusione, sono gli uccelli ad essere considerati l'essere perfetto della natura e non gli uomini; l'uomo è da porre nel gradino più basso della perfezione dell'essere perché non potrà mai raggiungere la felicità, al contrario degli uccelli che sono in cima. Per questo motivo Amelio in modo meno ragionativo, chiude l'elogio con una sua immaginazione e fantasia; immagina infatti di diventare un uccello e di poter essere felice finalmente. Il Cantico del Gallo Silvestre: cronologicamente è l'ultima delle Operette scritte nel 1824. In esso sono presenti le teorie del dolore universale e della vanità dell'esistenza: come la prima operetta che apre con le origini antichissime del mondo, si chiude con la visione della fine di ogni esistenza. Il brano inizia con una breve introduzione umoristica in cui Leopardi spiega, attraverso la finzione letteraria del ritrovamento di un manoscritto ebraico, l’esistenza di un gallo gigante, che viveva con le zampe sulla terra e con la cresta arrivava a toccare il cielo. Questo gallo possiede l’uso della ragione e la facoltà di parlare la lingua degli uomini. Ogni mattina, al sorgere del sole, il gallo propone un canto per far sì che gli uomini si destino dal sonno: ciò comporta il passaggio dalla finzione dei sogni al peso della realtà. Il sonno è un momento piacevole, portatore di letizia e speranza, Impostazione dialogica ed atto di commedia, divisa in 4 scene, scrittura teatrale. Copernico viene presentato in chiave comico parodica, la scoperta viene imposta dal Sole impone a Copernico di proclamare questa verità. Il Sole impigritosi decide un bel giorno di non voler più faticare e di girare intorno alla Terra (anticlericale). I personaggi sono il Sole, l'ora della giornata e altri personaggi mitologici ma vengono ridotti in chiave borghese; i cavalli sono intesi come carri del Sole, mentre Venere annuncia l'inizio del giorno. Il Sole dice: “sai che c'è, io sono stanco di girare intorno alla Terra ed a questi animaluzzi”; antropocentrismo fatto a pezzi, e per questo gli uomini devono trovare un modo loro per tenersi vivi. L'Ora gli fa notare tutte le conseguenze negative che potrebbe portare questa scelta fatta dal Sole, niente calore e niente cibo. C’è indifferenza da parte degli elementi naturali; al Sole ciò non importa perché non è la balia del genere umano, è il genere umano che si deve avvicinare al Sole e non viceversa. Il Sole incarica l’Ora ad andare sulla Terra e trovare un uomo che faccia al caso suo, e l’uomo in questione sarà proprio Copernico, che troviamo impegnato a guardare il cosmo con un cannocchiale di carta (chiave comica). A visitare Copernico c’è l’Ora Ultima del giorno, sotto vesti di uomo, e Copernico crede che sia la morte arrivata a prenderlo. L’Ora prende Copernico e lo porta al cospetto del Sole e gli spiega le intenzioni di quest’ultimo, la Terra è sempre stata al centro dell’universo e la decisione del Sole cambierebbe tutto, gli uomini diventerebbero da eccellenti a miserabili: ciò però non è un problema del Sole, non si scompone minimamente. Copernico si attacca alla sua ultima obiezione: non vuole essere bruciato vivo come un eretico (il destino che stava per aspettare a Galileo e quello che arrivò per Giordano Bruno). Il Sole risponde dicendo di essere stato profeta (di Apollo, Dio del Sole), dice di tornare ad esserlo e di fargli una profezia; Copernico non riceverà ripercussioni, ma sarà meglio per lui scrivere il prossimo libro sul Papa per non perdere il posto in chiesa. Dialogo di Plotino e Porfirio: troviamo un Dialogo che intercorre tra due persone storicamente esistite, il filosofo Plotino ed il suo allievo Porfirio. Plotino ad un certo punto conviene con Porfirio che il suicidio è un atto legittimo, consigliabile e non va in alcun modo contro natura; d'altra parte Plotino, nonostante la conoscenza del vero, fa leva sul credere alle speranze e sul bisogno da presenza dei cari (esprime a Porfirio dei motivi per rimanere in vita, non piano del vero ma piano della persuasione). Circola molto affetto, amore ed umanità in queste pagine. Sfogo di Porfirio circa la condizione degli uomini, dall'altra parte voce consolante e confortante di Plotino. Inizia subito sul rapporto d'affetto, e Plotino espone la sua preoccupazione capendo che Porfirio cova una mala intenzione. Porfirio quindi, pur ammettendo che voleva mantenere il segreto, accetta di aprirsi e confessa che sta prendendo in considerazione il suicidio a causa del fastidio della vita e della vanità delle cose che è sempre davanti ai suoi occhi. Plotino cerca di convincere Porfirio facendo riferimento a Platone, maestro comune; condannando il suicidio, insinua che, dopo una morte volontaria, ci aspetti una punizione nell’aldilà. Presente ogni chiave della dottrina cristiana, Platone viene collocato sullo stesso livello della Natura (fato e necessità). Porfirio risponde dicendo che Platone ha parlato della vita ultraterrena solo per far astenere gli uomini dal male durante la vita, e che unica "medicina di ogni male" è la morte. Tuttavia Platone ha tolto agli uomini questo conforto dichiarando il suicidio una cosa illecita. Plotino obietta che è la natura stessa a insegnarci che il suicidio non è cosa lecita, perché l’ordine delle cose sarebbe sovvertito: la natura infatti comanda di provvedere alla propria conservazione. Porfirio dice che questa verità è propria degli antichi, e non è più la nostra: la ragione ha creato in noi un'altra natura, per cui darsi la morte è conforme alla nostra nuova natura, diretta dalla ragione. La conclusione del dialogo è affidata a Plotino, che pure ammettendo che è secondo ragione uccidersi, adduce due motivazioni contro il suicidio: la prima è che il suicidio è un atto egoistico, perché non si tiene in considerazione le persone care, la seconda è che “i mali della vita, benché molti e continui, non sono malagevoli da tollerare". Le ultime righe del dialogo sono un "inno alla vita” che Plotino fa al suo amico: si conforteranno insieme fino a che non li coglierà la morte. La parte rappresentata da Porfirio, sostenitore del suicidio, afferma che l’unico rimedio all'infelicità umana (rappresentata dai motivi del pessimismo leopardiano) è la morte. La polemica contro Platone e la sua teoria dei premi e delle pene dell'aldilà lascia trasparire la polemica leopardiana nei confronti della religione. L'altra parte è affidata a Plotino, ed è importante che a questo spetti l’ultima parola, perché è simbolo della propensione di Leopardi a recidere l’idea del suicidio. L’argomentazione principale che Plotino propone è il riguardo che si deve avere nei confronti delle persone care. Infatti il suicidio non creerebbe altro che il loro dolore. 26/11/2020 Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere: è un’aggiunta tarda, nel 1832, definitivamente allontanatosi da Recanati (Firenze). Il tema preponderante è quello di continuare a vivere nonostante la conoscenza della verità, in questo caso il personaggio è il passeggere. Sono due personaggi anonimi, il passeggero disilluso (come un moderno Socrate che con le sue domande fa arrivare il venditore alla consapevolezza delle cose); il venditore è colui che rappresenta un’umanità meno conscia più facilmente propensa a rimanere nelle illusioni. Il passante chiede al venditore di almanacchi e lunari se, a suo parere, l’anno nuovo sarà felice. “Certamente!” risponde il venditore. Inizia così fra i due un fitto scambio di battute durante il quale il venditore, pur sostenendo che la vita è una cosa bella, è costretto ad ammettere che non ci sono nella sua vita trascorsa tempi felici, anni a cui vorrebbe somigliasse l’anno venturo. Alla fine il passeggere giunge alla conclusione che la felicità consiste nell’attesa di qualcosa che non si conosce, nella speranza di un futuro diverso e migliore del passato e del presente. A conclusione del dialogo il venditore dirà appunto “speriamo”: l’operetta si chiude così. Come primo istinto c’è quello di nutrire la speranza di un nuovo anno felice. Mediante le domande del passeggero, il venditore cerca di guardare le cose con più realismo. Il passeggero fa delle domande che hanno già dentro una risposta scontata. Il venditore è portatore di senso comune, quasi a non riflettere sull’effettivo essere della vita. Il passeggere dice se sarebbe così contento se dovesse ripercorrere la vita con tutti i piaceri e i dispiaceri che ha passato, non di nuovo senza dispiaceri (il venditore vorrebbe rifarla il modo migliore). Il venditore è un uomo semplice che vive del suo umile lavoro; il passante è invece una proiezione dell’io dell’autore che veste i panni del filosofo scettico. Nel dialogo dunque le domande del passeggere intendono mostrare la totale negatività della vita: all’anno nuovo infatti non corrisponde un sensibile miglioramento della condizione umana, tanto è vero che non appena viene chiesto al venditore se desidererebbe che l’anno futuro somigliasse a qualcuno del passato, egli si affretta a rispondere: Signor no, non mi piacerebbe. Il passeggere sta cercando ad incoraggiare il venditore, dicendo che l’anno che verrà sarà piacevole per tutti e il venditore risponde con “speriamo”, con aria malinconica, un po' più consapevole, ma non nega la possibilità. Si trova nella zona intermedia in cui si cerca di tenere insieme la consapevolezza delle cose e lo sperare (zona della mezza filosofia). Il passeggere fa ammettere al venditore una verità condivisa dagli uomini in virtù della loro esperienza: non si desidera tanto rifare la stessa vita tale e quale la si è vissuta, con tutti i piaceri e i dispiaceri, ma una vita “diversa”, una vita così, come Dio me la mandasse, senza altre condizioni. Il tema centrale dell’operetta morale è quello della felicità dell’uomo, molto caro a Leopardi. L’attesa di qualcosa che non è ancora arrivato, come l’anno nuovo, è carica di aspettative, che inevitabilmente verranno deluse dal verificarsi dell’evento. L’uomo può solo sperare: anche se è consapevole che la sua speranza non si realizzerà mai, non può fare a meno di sperare che il domani sarà migliore del presente. Ed è per questo che alla fine il passeggere compra comunque l’almanacco dal venditore pur avendo appena affrontato il discorso; il venditore torna alla sua vita forse con qualche conoscenza in più. Il passeggero tradisce le sue stesse condizioni ed accetta di vivere nonostante ciò non sia una cosa del tutto positiva. Dal punto di vista formale, questo dialogo è l’unico in cui uno dei due interlocutori è il solo portatore del messaggio, mentre l’altro si limita a fare da spalla attraverso interlocuzioni che aiutano progressivamente a far emergere la verità Dialogo di Tristano e di un amico: viene concepita come chiusura del libro e come testamento di un Leopardi del 1832 più maturo. Ha acquisito negli anni una postura di contrapposizione alla modernità che in quest’operetta è molto evidente. L’operetta è impostata in maniera precisa: riporta in maniera ironica tutti i temi dell’operette. Tristano ritiene che non solo il suo tempo sia caratterizzato da un’infelicità solida ed evidente, ma che ogni uomo sia ontologicamente infelice. Non può perciò accettare nessuna fiducia nel progresso né, tanto meno, alcun tipo di esaltazione dell’epoca attuale. Del resto, come è noto, proprio le Operette portano avanti una feroce battaglia contro le teorie antropocentriche in favore di un relativismo che ridimensiona l'intera condizione umana, in particolar modo quella presente, che si caratterizza solo per una superba considerazione di sé da parte degli uomini. L’amico (che resta anonimo, perché rappresenta l’intellettuale ottocentesco “tipico”, almeno nell’ottica leopardiana) ha letto le Operette morali, e ora le commenta con l’autore. Così come Saffo, l’Islandese e il pastore errante, Tristano è di nuovo un alter ego di Leopardi: stavolta, egli ha scelto per sé il soprannome dello sfortunato eroe medievale, celebre per il suo amore per Isotta. L’amico è conciliante, ottimista, moderatamente soddisfatto della vita, e vorrebbe portare Tristano dalla sua parte («voi siete diventato de’ nostri», dice a un certo punto, senza rendersi ben conto del fatto che Tristano gli sta dando ragione per finta, e sta dicendo in realtà il contrario di ciò che pensa). Le battute di Tristano manifestano invece un disprezzo profondo per gli altri uomini, che non vogliono aprire gli occhi sulla verità. Segue quindi la descrizione della teoria precedentemente sostenuta (che è la filosofia di Leopardi): I’uomo è infelice ma cerca di nascondere a sé stesso questa condizione di infelicità, infatti è meglio credere che la vita sia bella e pregevole piuttosto conoscere la realtà. È necessario accettare la condizione dell’infelicità umana anche se è una filosofia dolorosa. Così Tristano, in aperta polemica con l’Amico, all’ottimismo spiritualistico della cultura della prima metà dell’Ottocento oppone il suo lucido ed eroico pessimismo ontologico. L’arma con cui egli fa ciò in questa operetta è senz’altro quella dell’ironia, attraverso la quale il protagonista finge di aver cambiato idea e di ritornare sui propri passi per abbracciare le tesi dell’Amico. La materia di scontro è l’ultimo libro di Tristano (palese è il riferimento alle stesse Operette morali, conosciute dal pubblico nell’edizione del 1827). Già dalle prime battute si può notare come il piglio ironico non esiti a divenire sarcastico. Attraverso questa finta ritrattazione Leopardi smonterà una dopo l’altra le convinzioni ottimistiche e antropocentriche dell’Amico, vero lodatore della propria epoca. Tristano gli farà ammettere che l’infelicità è una condizione evidente e innegabile dell’uomo e respingerà, con il riso prima e con lo sdegno poi, le accuse di essere approdato a simili convinzioni a causa della propria sfortunata condizione fisica. "E avete cambiata...voi siete diventato de' nostri": con la tecnica dell'antifrasi Tristano si schiera con l'ottimismo delle ideologie dominanti nel suo secolo per quanto riguarda il progresso e la superiorità dei moderni rispetto agli antichi. Egli sostiene che la specie umana vada ogni giorno migliorando e, pur ammettendo che gli antichi fossero migliori nei sistemi morali e di metafisica, e che il numero di sapienti fosse maggiore nell’antichità rispetto al presente, tuttavia afferma ironicamente che l'uomo sia in continuo miglioramento e che il sapere e i lumi crescano di continuo. A questo punto l'amico è felice perché anche Tristano ha abbracciato la filosofia dei giornali, cioè quella del presente. Il tema centrale in questa parte è quello del ritorno all'età dell'oro, considerata come età della perfezione, in contrasto con la corruzione dell’età contemporanea. Un'altra cosa da sottolineare è la distanza che separa Tristano, e quindi Leopardi, dalla cultura contemporanea, troppo ottimistica per la sua visione catastrofica. Tristano, in seguito, parlerà di come il 19esimo secolo sarà giudicato dai posteri e anche del destino del malinconico libro. Tristano ride all'idea di lasciare il libro in eredità ai posteri perché risulta inutile preoccuparsi dei posteri visto che i processi di massificazione stanno indebolendo il peso delle intelligenze individuali. Il problema del destino delle Operette morali è centrale in questa parte, ma un altro tema importante è quello della critica al proprio secolo che viene giudicato come un secolo povero di cose ma ricchissimo di parole. Leopardi aggiunge che nel secolo non si è attenti ai veri sapienti che si perdono tra il rumore e la confusione degli infimi che si credono illustri (probabilmente Leopardi allude a sé stesso). L'operetta si conclude con l'affermazione dell'infelicità dell'autore e con il tema della morte. Tutto ciò vuole essere una sfida all'ottimismo del secolo. Si nota nell'ultima parte l’atteggiamento eroico di Tristano che non si sottomette al destino infelice, ma piuttosto desidera la morte. Inoltre si intravedono il tipico tema della natura matrigna e della fanciullezza intesa come età del sogno. Leopardi si oppone alla fiducia nel progresso, tipica dell'800, individuando nel progresso dell'uomo un motivo di decadenza. Anche il progresso, e quindi la ragione, è causa dell’infelicità dell'uomo perché ha fatto sì che si allontanasse dall'età dell'oro. Leopardi ci fornisce come insegnamento morale il precetto di non arrendersi all’infelicità, pur partendo dalla certezza negativa della propria condizione, I'uomo deve cercare in sé le forze per affrontare la negatività, e per farlo deve allearsi in una social-catena per combattere la comune nemica: la natura. La morte, nella visione materialistica leopardiana, è concepita come una liberazione dalle sofferenze della vita. Temi fondamentali o Rapporto fra antico e moderno o Infelicità dell’uomo o Conforto, speranza, potere persuasivo della parola o Mezza filosofia (da Torquato Tasso in poi, in senso cronologico) o Ordine inspiegabile del cosmo (Islandese, Gallo silvestre, Federico Ryusch) o Problema del rapporto fra vita e felicità (Malambruno e Farfarello, Plotino e Porfirio, Storia del genere umano) o Noia, tedio della vita associato alla pulsione di morte (Storia del genere umano, Scommessa di Prometeo, Tasso, Plotino e Porfirio) o Morte paragonata al sonno e al torpore, accompagnata dal sogno (Storia del genere umano, Tasso, Ryush, Gallo silvestre) o Strategie di salvaguardia con sé stessi, conforto come il rischio (Colombo), distrazione, attività (Storia del genere umano, Elogio degli uccelli) o Età del genere umano, antico e moderno (Copernico, Storia del genere umano) fino alla possibile sparizione ed estinzione (Folletto e gnomo, Gallo silvestre) o Destino del magnanimo (Il genio) o Problema della gloria (Natura e anima, Al Parini, Filippo Ottonieri)
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