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Orfismo canti orfici, Appunti di Letteratura

descrizione dell'orfismo canti orfici

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 19/10/2019

daniele-distefano
daniele-distefano 🇮🇹

4.2

(31)

85 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Orfismo canti orfici e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! Paesaggio, orfismo, alchimia e cammino nei «Canti Orfici» e altri scritti di Dino Campana «Essere un grande artista non significa nulla: essere un puro artista ecco cosa importa» (Dino Campana) Volendo tratteggiare un ritratto di Dino Campana, oltre alle opere, occorre aver chiara la mappatura dei luoghi nativi e di quelli che il poeta ebbe a vistare nei suoi viaggi. Marradi, il borgo che gli diede i natali nel 1885, è un paese dell’Appennino romagnolo in provincia di Firenze, al tempo isolato nella realtà geografica dai centri cittadini. Da quella parte di Appennino verso la Pianura Padana scendono “gonfi rivi” quali il Senio, il Santerno, il Lamone, il Bidente e il paese si trova alla sommità della valle del Lamone ed è attraversato dal medesimo corso d’acqua. Poco distante da Firenzuola, seguendo la valle del torrente Rovigo, si giunge a Casetta di Tiara, luogo di incontri amorosi per Dino e Sibilla Aleramo, con le poche case di pietra e la chiesetta è un toponimo ancora oggi rintracciabile nelle carte geografiche. Sulle pendici del Falterona si incontrano Castagno d’Andrea, patria del pittore Andrea del Castagno, e Campigna, piccoli agglomerati nel Parco delle Foreste Casentinesi. Dalla valle del Mugello la conformazione orografica degli Appennini sembra più repentina per la luce nitida degli orizzonti che nella visione prospettica li fa apparire come un prolungamento delle Alpi Apuane. Il Mugello, ampio bacino lacustre in epoca preistorica, con la conquista delle terre dei Guidi e degli Ubaldini da parte del Comune di Firenze nel XIV secolo e la fondazione di Castel San Barnaba, oggi Scarperia, e Firenzuola quali terre nuove ed avamposti della Repubblica Fiorentina, diviene un’importante via d’accesso ai valichi verso la Romagna e le stesse escursioni del poeta. Il vecchio castello che ride sereno dall’alto/ la valle canora dove si snoda l’azzurro fiume/ che rotto e muggente a tratti canta epopea/ e sereno riposa in larghi specchi d’azzurro”, “La sera fumosa d’estate/ dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra/ e mi lascia nel cuore un suggello ardente./ Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha/ a la Madonnina del ponte chi è chi è che ha/ acceso una lampada? Nelle liriche “Marradi” e “L’invetriata” il Nostro descrive gli scorci emblematici del proprio paese, facendo riferimento all’antico castello, al fiume che scorre nella valle e al tabernacolo costruito sul ponte che attraversa il Lamone, luogo poco distante da via Castelnaurday dove dal 1989 è ubicato il Centro Studi Campaniani. Se nei primi versi dei due componimenti sono i bagliori luminosi d’azzurro a dominare nel paesaggio, in quelli successivi il poeta trasporta il lettore in una vaporosa sera d’estate mentre una vetrata illuminata versa dall’alto forti chiarori, illuminando le zone d’ombra. Ricordata nelle liriche dei Notturni e nei racconti di viaggio, “La Notte” risulta elemento caratterizzante della poesia campaniana, un “sincretismo caotico” con indefinita scansione del verso, ricco di immagini nella forma espressiva e nella cadenza insistente di aggettivi e avverbi che sembra essere dettata tra sonno e veglia mentre nella prosa è da notare l’uso dell’iterazione per fare eco alle parole e creare una scenografia ricca di pathos. La nostalgia per la montagna e il cammino si fa spesso sentire in semantica di commozione e sentimento, partenza e ritorno, appartenenza e fedeltà; tra le montagne di Marradi Campana si rifugia nei momenti difficili, come nella circostanza dello smarrimento del manoscritto e in quella in cui si dà a riscrivere i Canti Orfici nello stile del prosimetro e già abbozzati nel Taccuinetto faentino e nel Fascicolo marradese. L’esperienza della vita montana offre al poeta senso di elevazione, finezza estetica, riflessione e ascetismo, ma anche disprezzo per la mondanità dei letterati del riassume tutte le altre, è Firenze, “gorgo di luci di fremiti sordi”, una realtà urbana verso cui Dino nutre un sentimento di odio e amore mentre sui lungarni lo “investe un soffio stanco dalle colline fiorentine: [che] porta un profumo di corolle smorte”. È a Firenze che entra in contatto con gli artisti e gli intellettuali del tempo, chiedendo riconoscimento per la propria opera. “Me ne vado per le strade/ strette oscure e misteriose/ non c’è un cane: qualche stella/ e la notte mi par bella/ e cammino poveretto/ nella notte fantasiosa/ pur mi sento nella bocca la saliva disgustosa”. Ed è sempre a Firenze che Dino conosce la falsità di certi intellettuali e subisce il disinganno del manoscritto, consegnato nelle mani di Soffici e Papini, e poi svanito nel nulla e circa sessant’anni dopo ritrovato tra le carte di Soffici col titolo originario, Il più lungo giorno, oggi conservato presso la Biblioteca Marucelliana a Firenze, avvenimento letterario di cui nel 1971 Mario Luzi ne dà notizia sulle pagine del Corriere della sera. Nel manoscritto rinvenuto nell’armadio di Soffici è dato leggere una frase in epigrafe al libro con cui Campana risponde all’intellettuale fiorentino: «Essere un grande artista non significa nulla: essere un puro artista ecco cosa importa». In questa frase il marradese esprime il proprio sentire circa la grandezza del poeta, un’ “ombra di eternità” al di fuori delle barbare connivenze etico-sociali. Nel dicembre del 1913, dopo due giorni di cammino, Campana giunge alla “corte” di Papini e Soffici vestito di “pelli di capra”, la barba lunga ed un paio di scarponi scalcagnati. Resta qualche giorno a vagolare tra il caffè Paszkowski e le Giubbe Rosse, visita la mostra futurista presso la libreria Gonnelli in via Cavour e, non ricevendo risposta, se ne torna a Marradi. Dal suo paese invia a Papini una poesia dedicata ad un quadro di Soffici, visto alla mostra, però anche in questo caso a dominare è il silenzio né emergono riferimenti al suo manoscritto. “Faccia, a zig zag anatomico che oscura/ la passione torva di una vecchia luna/ che guarda sospesa al soffitto/ in una taverna cafè chantant/ d’America: la rossa velocità/ di luci funambola che tanga/ spagnola cinerina/ isterica in tango di luci si disfà”. Campana non aderisce al Futurismo, ma nella poesia dedicata a Soffici ed anche in “Batte botte” e “Barche amorrate” mostra tutto il suo talento, le sue capacità di poeta e quel saper indirizzare i versi in direzione delle accezioni linguistiche del Futurismo senza, però, scendere a patti con i tempi. Oltre alla poesia dedicata a Soffici, il cromatismo simbolico della pittura emerge anche in altri componimenti che si riferiscono ad opere pittoriche: “Il cappello alla Rembrandt”, “La Gioconda”, “L’Annunciazione”, “Olympia”, “La Notte”, “La Maison du pendu”, e molti sono gli artisti citati sui quali egli privilegia Leonardo e Michelangelo mentre alcuni critici rilevano la sintonia dei suoi versi con la pittura di Rosai e Morandi e quella metafisica di De Chirico. Tornato a Marradi nella primavera del 1914 dopo un lungo viaggio e aiutato dall’amico Luigi Bandini e da alcuni suoi compaesani, Campana sottoscrive un contratto editoriale con la tipografia locale Bruno Ravagli per la stampa dei Canti Orfici. Nell’estate dello stesso anno torna a Firenze per pubblicizzare, vendere il libro e farsi conoscere, ma in realtà non gli è facile sfondare il muro di pregiudizi verso la sua poesia. Alcuni anni più tardi, all’inizio del 1916, il poeta scrive una lettera con cui rompe ogni contatto con Papini: «Se entro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni fa, verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò». Rassegnazione verso la produzione letteraria e odio verso il mondo della cultura, specialmente verso i due intellettuali fiorentini, si fanno strada nell’animo del poeta e danno avvio al suo declino umano e culturale. Con un’altra lettera indirizza a Papini, il cui nome scrive sempre con la minuscola, nel maggio del 1913 Campana mostra venature di ironia tagliente nei confronti della rivista Lacerba e le varie “truculenze” dello stesso Papini, criticando la sua attività di filosofo e quell’arte falsa che fa da “mezzana” per la propaganda dei cialtroni che gravitano attorno a quella tal “Accademia del Mantellaccio”: «E se di arte non ne capite niente cavatevi da quel focolaio di cancheri che è Firenze e venite a Genova e se siete un artista il mare ve lo dirà». Ma anche a Firenze, come in altre città, Campana ha buoni amici, Boine, Novaro, Binazzi, Cecchi, De Robertis e su Firenze scrive ugualmente bellissime liriche in versi e “in prosa”: “Firenze (Uffizi)”, “Giardino autunnale”, “Boboli”, “La petite promenade du poète”, “Fiorenza giglio di bellezza”, “Frammento (Firenze)”. In tutte le immagini della sua poesia visiva, attraverso una propria maniera di astrazione, si coglie il lato più sensibile e passionale del poeta, un’alchimia drammatizzata di suggestioni reali e visioni oniriche. La cifra ermeneutica per meglio comprendere i frammenti di vita che compongono le pagine campaniane, oltre alla lettura, consiste nell’andare tra le valli, i boschi, i crinali di quella parte di mondo che si immedesima con la sua anima e la sua scrittura. “Orfici? Perché? La parola non ci parve chiara. E Campana disse allora di Orfeo, di misteri orfici, di potenza dionisiaca, di miti cosmici”. Dalla citazione di Ravagli si evince come il mito di Orfeo riveste sostanziale importanza nella vita e nelle opere del marradese anche a seguito della lettura di Whitman, a cui si ispira per scrivere il colophon degli Orfici, e quella di Nietzsche a motivo di essere poeta secondo uno stile orfico nei caratteri apollinei e dionisiaci. Gli aggettivi “caotico”, “grottesco”, “barbarico”, ma anche i sostantivi “mistero” e “gorgo” ricorrono di frequente nell’opera di Campana che sa irradiare la sua poesia con fasci di luce e ampia dedizione a quella Chimera che, “tra le statue immortali nel tramonto [gli appare] presente”. I viaggi, le traversie, le erranze, i vagabondaggi anche oltralpe e tra le “torme di cavalieri” nella Pampa argentina sono sempre fonte di ispirazione ed attenzione per ogni tipo di esperienza e quella che viene indicata come naturalizzazione della scrittura crea componimenti in versi e in prosa dove la scrittura non rappresenta il paesaggio, l’acqua, la luce, il vento, ma è acqua, paesaggio, vento, luce, suono colore in una revisione e rielaborazione continue; e quelle apparenze di disordine nella
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