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Oriente e Occidente nella genesi del Medioevo, Sintesi del corso di Storia

L'area mediterranea della civiltà antica e le migrazioni verso sud di popolazioni 'arie' caratterizzate da linguaggi indoeuropei. Si parla della funzione culturale di guida acquisita dal popolo greco e della creazione dei regni ellenistici. Si descrive il sincretismo religioso greco-orientale e l'espansione militare di Roma nel Mediterraneo. Si parla del ceto politico operante nel Senato di Roma e dell'impero romano. Infine, si menziona il mondo fluido di un germanesimo alla ricerca sempre di terre.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 15/04/2022

Atena1995
Atena1995 🇮🇹

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Scarica Oriente e Occidente nella genesi del Medioevo e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! ALTO MEDIOEVO Cap. 1 ORIENTE E OCCIDENTE NELLA GENESI DEL MEDIOEVO 1.1 L’area mediterranea della civiltà antica emerse da diversi popoli che occupavano la fascia di clima temperato caldo dell’emisfero settentrionale, dal Mediterraneo fino al Mar Cinese Orientale. A nord di questa immensa fascia vivevano popolazioni nomadi o seminomadi a economia pastorale spesso attratte verso le regioni meridionali in cui penetrarono. Di particolare ampiezza furano nel terzo millennio a.C. le migrazioni verso sud di popolazioni ‘’arie’’ caratterizzate da linguaggi indoeuropei. Dal crogiolo di popoli diversi che in tal modo si formò in queste regioni nacquero i complessi sistemi sociali e culturali di lingua indoeuropea. Nel settore mediterraneo una funzione culturale di guida fu acquisita dal popolo greco. Gli Elleni si formarono come popolo di altissima creatività culturale dopo l’incontro dei folti gruppi indoeuropei con una civiltà che preesisteva soprattutto a Creta. Queste relazioni si intensificarono nel primo millennio a.C. con la creazione delle poleis finchè le imprese dei Macedoni e dei Greci sotto la guida di Alessandro Magno determinarono la creazione dei regni ellenistici (dalla Macedonia all’Egitto, dalla Siria all’Iran e all’India Occidentale). I regni ellenistici si imperniarono sull’egemonia culturale greca e sul sincretismo religioso fra i culti ellenici e quelli orientali. Fra queste città non mancò la formazione di grandi metropoli cosmopolite come Alessandria e Antiochia. Fondamentale fu il compromesso e il connubio dell’apparato politico regio, sostenuto da un immenso patrimonio fondiario, con la preponderanza sociale di un ceto prevalente nelle città e contraddistinto da caratteri aristocratici e borghesi: ricchi possessori di terre, soliti prestare denaro a gente umile o a trarre profitti da appalti pubblici e attività commerciali. Vi erano poi: - le classi privilegiate dell’alta burocrazia regia; - categorie di modesti artigiani; - immense schiere di contadini dipendenti dal fisco (demanio pubblico); - schiavi. La schiavitù fu attenuata dal riconoscimento agli schiavi di un diritto familiare e di un limitato diritto patrimoniale, che consentiva loro di comprare la libertà. Gli affrancamenti furono frequenti e consuonavano con l’insegnamento degli stoici sul carattere innaturale della schiavitù. Il diffuso sincretismo religioso greco-orientale temperò l’alto razionalismo dei filosofi con profondi richiami emotivi a divinità salvifiche, rispondenti alle inquietudini esistenziali di un ceto colto: un pluralismo di credenze e di pratiche concorrenti dove l’esperienza religiosa si orientava verso un appello universalistico a Zeus Salvatore o alla Madre degli Dei, a Dioniso-Osiride o a Demetra, o a Cibele. Questa grande esperienza greco-orientale a carattere cosmopolita si incontrò con l’espansione militare di Roma nel Mediterraneo. Le genti abitanti la penisola italica (Italici/Etruschi) avevano incontrato la difficoltà ellenica sia direttamente nei rapporti commerciali con l’Egeo sia per l’irradiazione colonizzatrice dei Greci verso Occidente (Sicilia, Italia Meridionale, Gallia). Roma, comparabile ad una polis, emerse da un gruppo italico linguisticamente connotato come latino. All’Occidente Roma diede un’impronta linguisticamente latina: ma nella letteratura e nei pensieri latini e nelle strutture aristocratiche della città si esprimevano piuttosto dei ricchi sviluppi di una civiltà mediterranea trattodasi infine nell’esperienza ellenistica. (civiltà di ascendenza greca sviluppatasi in Asia minore, Mesopotamia, Egitto, dal IV secolo a.C. al I secolo a.C. dopo l’espansione di Alessandro Magno fino alla conquista romana d’Egitto). Di questo sincretismo culturale romano-ellenico può persuadere l’analisi del ceto politico operante nel SENATO di Roma: un ceto di ottimati il cui cedo politico, fondato sulla preminenza e la responsabilità degli abbienti, si sostanziò di concezioni filosofico-religiose del pitagorismo, provenienti da quell’aristocrazia cittadina della Magna Grecia che trovava allora in Taranto il suo epicentro spirituale. L’impero romano, con i suoi cinquanta milioni di abitanti, fu un insieme di popoli diversissimi nelle loro tradizioni indigene, ma accomunati dalla subordinazione politico-ideologica alla res publica romana e al dispotismo del principe sovrappostosi a essa, e dalla subordinazione sociale alle aristocrazie della città. La vastità e la durata delle sue conquiste favorirono la formazione di un patrimonio fiscale smisurato ma anche di fortune private a larghissimo raggio d’azione, fondate su una proprietà terriera difesa dai magistrati e da un pensiero giuridico molto sottile nella definizione dei diritti individuali sulle cose. Occorre ricordare la distinzione giuridica fondamentale tra gli uomini liberi del mondo romano, secondo che essi godessero o meno della cittadinanza romana che nel corso del I secolo a.C. fu estesa via via a tutti gli Italici della penisola e ai liberi dell’Italia settentrionale. Fra questi cives romani emergevano due ordini sociali supremi: - NOBILTA’ SENATORIA; - CETO DEI CAVALIERI. Si entrava nel Senato, in via ordinaria, per cooptazione, dopo aver ricoperto alcune magistrature cittadine di Roma, alle quali il senato preferibilmente eleggeva i figli dei senatori; o vi si entrava, in via straordinaria, per deliberazione dell’imperatore. Questa ristretta aristocrazia senatoria, in buona parte ereditaria, possedeva latifondi in tutta l’area del Mediterraneo o integrava la gestione delle proprie ricchezze con attività letterarie e filosofiche Athena95@2022 Reno e lungo il Danubio, mentre incominciava la politica imperiale di conversione dei barbari in una clientela disposta lungo i confini. Il mondo fluido di un germanesimo alla ricerca sempre di terre si intrecciò in alcune regioni con un mondo di nomadi in movimento perenne (Burgundi, Vandali, Goti). I Goti subentrarono ai Sarmati nell’attaccare le città greche, e dalla metà del II secolo combinarono per un ventennio avidità di bottino e ricerca di terre nel dirigere coalizioni di barbari a sud del Danubio fino all’Egeo. Si erano intanto formate tra i Germani occidentali le leghe militari dette degli Alamanni e dei Franchi: le loro incursioni devastarono la Gallia e penetrarono profondamente in Italia. IL COMPLESSO DELLE GENTI BARBARICHE AVEVA ORMAI UNA PERCEZIONE NETTA DELLE POSSIBILITA’ CHE ALLE PROPRIE CAPACITA’ DI MOVIMENTO E URTO OFFRIVANO LE RICCHEZZE E LE STRUTTURE SEDENTARIE E SOSTANZIALMENTE PACIFICHE DELLE POPOLAZIONI COORDINATE NELL’IMPERO, POSSIBILITA’ AGEVOLATE DALLA GRANDE RETE STRADALE ROMANA E DALLE VIE MARITTIME E FLUVIALI. Il conflitto tra genti instabili e quelle stabilizzate andava accentuando i vecchi impulsi al conflitto e tendeva a generalizzarlo. Questo conflitto sfociò in forme di contemperamento e sfruttamento reciproco. Lo sfruttamento avvenne nel quadro degli sviluppi militari dell’impero: in concomitanza con i mutamenti della strategia difensiva dell’esercito crebbe nel reclutamento delle milizie romane l’apporto germanico. Da tempo l’esercito romano aveva perduto il suo carattere italico (arruolava soldati dall’Illiria e dalla Siria). All’infiltrazione germanica nell’esercito romano si aggiunse nel III secolo l’insediamento di colonie di prigionieri franchi e alamanni nelle zone più devastate soprattutto in Gallia. Questi segni di una compenetrazione fra germanesimo e romanità si accompagnarono a un’evoluzione decisiva dell’impero. L’infiltrazione dell’elemento germanico nelle milizie romane si tradusse anche nella sua ASCESA all’interno delle gerarchie. L’ascesa germanica avvenne fin dall’età di Costantino imperatore (306-337) e fu agevolata dalla separazione fra le carriere degli ufficiali civili e degli ufficiali militari e dalla graduale scomparsa di un ordine equestre distinto da quello senatorio. L’ordine senatorio rimase il raccordo supremo fra la gerarchia delle classi sociali e l’organizzazione politica in quanto i discendenti delle famiglie senatorie entravano nelle carriere civili agevolmente e a loro volta i burocrati scelti dall’imperatore finirono con l’entrare di diritto nell’ordine dei senatori senza passare attraverso la fase già costituita dall’ordine dei cavalieri. Ciò fu Athena95@2022 sottolineato dalla rigida distribuzione degli alti funzionari nelle tre classi burocratiche dei: 1. viri clarissimi; 2. viri spectabiles; 3. viri illustres. La dignità del clarissimato spettava per eredità a tutti i membri dell’ordo senatorio indipendentemente dalla loro partecipazione o no alle carriere burocratiche. Non si giunse mai ad un’identificazione tra l’ordo supremo e l’alta burocrazia ma di certo si giunse ad una simbiosi intima, calcolata in modo da garantire all’imperatore il conforto di una classe potente e solidale al suo interno. La simbiosi allo stesso tempo soddisfaceva le ambizioni sociali degli alti burocrati i quali sempre avevano guardato all’immissione in una grande nobiltà ereditaria. Per superare i periodi di disgregazione paurosamente emersi di fronte all’offensiva del mondo barbarico, l’impero elaborò una pianificazione economica che tendeva a legare ereditariamente ogni categoria sociale alle sue attività: i contadini al lavoro della terra, gli artigiani e i mercanti alle corporazioni controllate dai funzionari imperiali, i medi proprietari alle loro condizioni di curiali, i veterani dell’esercito alla professione militare. Divenne più sistematica l’articolazione civile dell’impero nei governatori provinciali al cui ordinamento dovette adeguarsi anche l’Italia (tranne Roma): governatorati che furono raggruppati in vaste divisioni politico-amministrative, le DIOCESI, a loro volta raccolte in poche grandi prefetture del pretorio. In questa massiccia compagine sociale e politica, un’impressionante risposta alla crescente pressione barbarica, anche la cultura aristocratica subì un processo di riorganizzazione unitaria nel segno di una fede religiosa imperniata su un monoteismo intransigente e su una dottrina salvifica di respiro universale. —> fu questo il mutamento più profondo e carico di avvenire che l’impero abbia conosciuto in quegli anni. 1.3 I privilegi concessi da Costantino all’organizzazione sacerdotale del cristianesimo rappresentano un orientamento parallelo a quello manifestatosi fra il III e il IV secolo negli interventi imperiali entro le strutture economiche della società e sulle gerarchie delle fortune private e dell’amministrazione pubblica. Le radici storiche di questo processo sono molto antiche e stanno nella crisi di autonomia, non solo politica, ma etico-religiosa, delle città del mondo ellenistico e italico. Poleis e civitates diedero tono e sostanza ai regni ellenistici e all’impero romano ma in un orizzonte politico e culturale dove la tradizione civica locale delle credenze e dei rapporti sociali non reggeva il confronto con una filosofia universale associata a finalità soteriologiche. Nacque dall’interno stesso delle comunità urbane un Athena95@2022 approfondimento di esperienze e riflessioni che collocavano il singolo in un orizzonte di vita immensamente più vasto. Questo avvenne in tutte le regione eurasiatiche in via di avanzata stabilizzazione, dove lo sviluppo delle città favoriva la circolazione di idee, riti consolatori e pratiche ascetiche. Il sincretismo fra culti diversi si inseriva quindi in un più vasto contesto di sperimentazioni culturali e di influenze fra le regioni dal Mediterraneo all’Asia. Queste rielaborazioni religiose conobbero una particolare intensità in India, dove alla speculazione sacerdotale subentrò la meditazione sull’identità dell’Essere universale e supremo. Uno sviluppo peculiare di queste dottrine e di queste pratiche fu rappresentato dalla nascita del buddismo (VI e V secolo a.C.), caratterizzato da un’organizzazione che aveva al suo centro l’istituzione monastica, con le sue esigenze di castità e povertà. In Cina il buddismo prese a coesistere con il confucianesimo, un’aristocratica predicazione di saggezza, sorta in contemporanea col buddismo. Sull’altopiano iranico era nato invece il mazdeismo, religione universalmente salvifica predicata da Zaratustra in polemica con le esuberanze del culto sacerdotale. E alle esperienze orientali corrispose in quegli stessi secoli nel mondo greco e greco-italico l’elaborazione delle dottrine orfico-dionisiache professate in apposite associazioni. Dalla Grecia all’India le imprese di Alessandro parvero offrire un quadro politico comune a queste elaborazioni etico-religiose. L’età ellenistica e l’età imperiale videro poi svilupparsi le inquietudini spirituali e questo dipese dagli orientamenti delle aristocrazie di tutte le regioni a civiltà sedentaria. Fu nell’iniziativa dei ceti egemonici e colti, in cerca di formule risolutrici degli angosciosi problemi dell’esistenza propria e altrui, che si attuò la disciplina intellettuale del profetismo e del simbolismo salvifico. Il coinvolgimento simultaneo entro le associazioni culturali spontanee fu il superamento dello iato creatosi fra l’aristocrazia e le culture elementari di popolo. Le tensioni sociali, che qua e là parevano esprimersi nella diffusione delle nuove espressioni culturali a livelli sociali più umili, si risolsero in un rafforzamento dell’ordine sociale esistente: la filantropia aristocratica tradizionale si tradusse in una partecipazione umana più commossa, ma continuò a legittimare le gerarchie della potenza economica, dell’influenza sociale e del potere politico. Vi furono orientamenti verso celebrazioni religiose popolari e orgiastiche (culto di Cibele) ma ciò ne determinò il declino perchè allontanava troppo dal tradizionale decoro pubblico delle aristocrazie. Più grande fu la fortuna di Mitra, il Dio indo-iranico che subì l’influenza del mazdeismo e dei culti solari che penetrò fra schiavi, soldati ma anche imperatori militari del III secolo, che mirarono a farne la religione ufficiale dell’impero romano: un Dio salvatore che garantiva il trionfo finale della vita sulla morte e del regno della luce sulle tenebre. Ma era pur sempre un culto Athena95@2022 Questo sistema ebbe responsabilità sempre crescenti per le competenze giurisdizionali (riferito all’esercizio della giurisdizione, cioè di potere ufficiale) concesse ai vescovi dagli imperatori in concorrenza con il magistrato civile, e per la formazione di ingenti patrimoni, provenienti dalle offerte personali del principe. LA RICCA CIVILTA’ ARISTOCRATICA DEL MONDO MEDITERRANEO, CON IL SUO DECORO LETTERARIO E ARTISTICO E CON LA SUA FILANTROPIA, AVEVA TROVATO UN EREDE POSSENTE CAPACE DI RINNOVARLA NEL MEDIOEVO: con maggiore efficacia sociale in quanto l’insegnamento di umanità e saggezza di ascendenza filosofica greco-romana si avvivava di richiami biblici, di perorazioni profetiche e si andava organizzando in forme istituzionali che gli consentissero di penetrare capillarmente attraverso l’articolazione dei territori affidati ai vescovi. Vi penetrava anche grazie al conforto imperiale: nel 392 Teodosio proscrisse ovunque il politeismo. La consonanza tra tradizione aristocratica, servizio civile nell’impero e assunzione di compiti pastorali divenne tale da riflettersi spesso nelle carriere dei personaggi delle migliori famiglie: - studi filosofici (Platone, Cicerone) e retorici; - anni di catecumenato/iniziazione alla fede cristiana; - coronamento della carriera: vescovo. Diventavano tali spesso anche al di là dei loro propositi: Sinesio di Cirene fu fatto vescovo di Tolemaide nel 410 nonostante le sue dichiarate perplessità sulla preesistenza delle anime, sull’eternità del mondo e la sua difficoltà nell’abbandono della teoria della metempsicosi e di sua moglie. Ciò che a lui avvenne può essere assunto a simbolo di ciò che avvenne alla cultura dell’impero romano-ellenistico nel suo declino verso il medioevo. IL PLURALISMO DELLE FORME DI PENSIERO, DI CULTO E DI VITA CHE AVEVA CONTRADDISTINTO IL MONDO MEDITERRANEO, FU RIDOTTO IN SENSO UNITARIO IN PERFETTA ARMONIA CON LA RESTAURAZIONE CHE SI ANDAVA TENTANDO DELL’APPARATO POLITICO E DEL FUNZIONAMENTO SOCIALE ED ECONOMICO. Ma se l’edificio politico-militare si disfaceva, il sistema socioculturale sopravvisse intorno ai vescovi a cui toccò mediare fra le nuove genti (nomadi) e i propri fedeli. 1.4 L’ondata barbarica che nel 406 si abbattè sul Reno determinò il fallimento della concezione strategica difensiva dell’impero. Con la scomparsa di Teodosio era parsa opportuna la definitiva articolazione della suprema direzione politico-militare in due corti imperiali residenti per l’Occidente a Athena95@2022 Milano e per l’Oriente a Costantinopoli. Dal 395 il vandalo Stilicone divenne il personaggio più potente non solo per le responsabilità militari ma anche dell’intera direzione politica dell’Occidente. Le genti barbariche federate cercarono di stanziarsi nelle terre imperiali limitrofe. La situazione in Oriente si era aggravata quando dalle steppe eurasiatiche gli Unni si rovesciarono nel 375 sugli Alàni e sui Goti e li spinsero sui Visigoti che l’impero dovette accogliere a sud del Danubio, senza riuscire a disciplinarli. L’impero d’Oriente si salvò perchè i Visigoti si mossero verso l’Italia, dove minacciarono Milano, provocando nel 402 il trasferimento della corte imperiale in una città più sicura: Ravenna. Mentre l’esercito di Stilicone era impegnato a far fronte alle orde di Goti e altre genti scese in Italia, la frontiera del Reno crollò sotto una ondata di Alani, Vandali e Svevi (406). DALLO SCHEMA DI QUESTI AVVENIMENTI RISULTA CHE IL RELATIVO EQUILIBRIO CHE SEMBRAVA DELINEARSI NEL IV SECOLO FU INFRANTO DA UN MOVIMENTO DI NOMADI DALLA MONGOLIA AL MAR NERO. L’impero romano cercò di adattarsi alla nuova situazione facendo rapidamente entrare nel proprio gioco anche gli Unni. Ma questa volta non si trattava più di grandi incursioni volte prevalentemente al saccheggio, ma di scorrerie devastatrici ma complicate dall’ansia di trovare stanziamenti diversi. Erano intere popolazioni in movimento verso nuove sedi: massacrarle sistematicamente, come si era fatto coi Cimbri e coi Teutoni, era impossibile per la simultaneità delle diverse irruzioni. Stilicone, figlio di un barbaro, ma romanizzato e leale verso l’impero, aveva appreso da Teodosio questa strategia: evitare il massacro dei vinti, anzi cercare tra i vinti qualche nuovo alleato. Ma a Ravenna non tutti erano convinti di questa strategia e cresceva l’odio verso i barbari. Stilicone fu violentemente eliminato. Ne conseguì il ritorno offensivo di Alarico: i Visigoti penetrarono a Roma e la saccheggiarono nel 410. Pur dopo l’eliminazione di Stilicone, la sua strategia venne compresa e si continuò a operare con i Germani e con gli Unni. Il maggiore protagonista di questa condotta militare e politica fu Ezio, un comandante romano che perì anch’egli in una congiura di palazzo, quando l’aggressione degli Unni in Italia ne rovinò il prestigio. Nell’impero d’Oriente tra il IV e il V secolo, quando il movimento dei Visigoti si orientò in Italia, a Costantinopoli trionfò l’intransigenza antigermanica: migliaia di Goti furono massacrati nella città e l’esercito fu riorganizzato in modo tale da impedire o ridurre non tanto l’uso dell’elemento germanico, quanto la sua ascesa a gradi elevati. Athena95@2022 L’ITALIA COMINCIO’ A OSCILLARE TRA UNA SUBORDINAZIONE A COSTANTINOPOLI E UNA CONVIVENZA CON LE FORZE MILITARI GERMANICHE: questa oscillazione si tradusse poi dal VI secolo nella divisione della penisola fra due aree di potenza e di civiltà. La comunità cristiana di Roma, prevalentemente greca di lingua e di cultura per due secoli dalla sua nascita, assunse un aspetto latino dal III secolo. L’influenza del vescovo di Roma crebbe parallelamente anche fra le comunità cristiane che si andavano moltiplicando in Occidente. Nel IV secolo, le esigenze di unità condussero alla convocazione di più grandi concili come quello di Costantinopoli del 381—> Questo concilio ribadì la necessità di un’adeguazione dell’ordinamento ecclesiastico alle articolazioni territoriali dell’amministrazione civile e riconobbe prerogative di onore a Roma in primo luogo, e in secondo luogo a Costantinopoli. UN PRIMATO ROMANO DI ONORE SOLTANTO (riconosciuta ma limitata supremazia del vescovo di Roma prima della riforma gregoriana del secolo XI. Implicava la capacità di intervento nel dirimere questioni teologiche, nell’indirizzare forme e contenuti dell’evangelizzazione, ma non governo sugli altri vescovi nè riconoscimento della monarchia papale). Verso la metà del V secolo, al tempo di papa Leone Magno (allora il termine papa era ancora applicabile a tutti i vescovi), la dottrina del primato giurisdizionale di Pietro e dei vescovi di Roma suoi successori trovò riconoscimento ufficiale in un rescritto di Valentiniano III. L’ambiguità del mondo romano-italico fra le due grandi aree del Mediterraneo confortò l’emergere di un Occidente gravitante sul mondo gallo-romano. L’urbanizzazione romana della Gallia significò la definitiva stabilizzazione del mondo celtico e l’acquisizione delle sue aristocrazie di quella cultura mediterranea. L’antico santuario celtico di Lione fu trasformato in un santuario sacro a Roma e ad Augusto. Capitale del mondo gallo-romano divenne Trèviri. Le vicende di Italia e Gallia sono ancora intensamente intrecciate nel V secolo. La grande aristocrazia fondiaria e l’episcopato di Gallia e d’Italia, culminanti nei vertici del senato e del papato, inquadravano tutti gli strati della popolazione romano-italica e gallo-romana e cercavano simultaneamente di mantenere la copertura dell’impero e di stabilire raccordi con l’elemento germanico. Ma mentre in Gallia i federati visigoti, burgundi e franchi sfuggivano al controllo imperiale, in Italia l’incontro latino-germanico avveniva come coesistenza fra un esercito romano germanizzato e un’amministrazione civile latina. Athena95@2022 mentre in Occidente sviluppi simili giunsero a conseguenze estreme, disgregando l’ordinamento pubblico capillarmente, in Oriente la potenza signorile fu contenuta e ridotta. Per un aspetto il dispotismo imperiale mostrò più chiaramente la sua volontà di funzionare in un calcolato compromesso con le altre forze operanti entro la società bizantina. L’ideologia dell’impero si era ormai talmente identificata con gli sviluppi teologici del monoteismo cristiano, che nella presentazione ufficiale del potere del principe non si potè prescindere dalla rivendicazione di una sua suprema responsabilità nella difesa dell’ortodossia cattolica. Se ne preoccupava a tal punto da complicare talvolta gli interminabili dibattiti teologici che le decisioni conciliari non riuscivano a soffocare. Il primato della chiesa romana tra tutte le chiese cristiane non era interpretato in modo univoco ed era quindi ben lungi dall’assicurare un concorde pensiero teologico fra i vescovi. La discordia teologica, viva soprattutto nell’Oriente grecizzato, nasceva da un generale bisogno di intelligenze affinate nella speculazione filosofica di origine greca di chiarire in termini concettuali le proprie credenze perchè il reclutamento dei vescovi dai ceti socialmente e culturalmente prevalenti trasferiva in un’esperienza di fede il loro gusto per l’approfondimento teorico. Ma quel gusto si associava ora all’intransigenza di una fede salvifica. L’intransigenza religiosa, innestandosi sulle speculazioni teologiche, generava quella tremenda intolleranza ideologica, che dal secolo IV, per tutto il millennio medievale, caratterizzò la difesa dell’ortodossia ufficiale. Questa intransigenza si rifletteva nelle consuetudini religiose delle comunità cristiane e si incontrava con il culto prestato alla persona del Cristo quale signore assoluto del cosmo (Cristo pantocràtore) e alla persona di Maria. Costantinopoli divenne la città di Maria: questa celebrazione affondava le sue radici nel bisogno delle popolazioni mediterranee di una sovrumana protezione femminile. Questo innesto si esasperò quando le divergenze religiose vennero a coincidere con le tensioni politico-sociali suscitate in alcune regioni dal centralismo dell’impero e dal suo fiscalismo. LA COMPLESSITA’ DEI PROBLEMI DOTTRINALI E DI PSICOLOGIA COLLETTIVA CHE L’IMPERO CRISTIANO DOVETTE AFFRONTARE APPARVE FIN DALLE DISPUTE SULL’ARIANESIMO. Dopo Nicea, il dibattito teologico si spostò dal problema trinitario al problema cristologico sul rapporto tra la divinità e l’umanità di Cristo. Affermata contro Ario l’uguaglianza del Figlio col Padre per garantire alla divinità incarnata nel Cristo la sua suprema dignità, nascevano le discussioni sul modo in cui si dovesse intendere l’incarnazione e il culto di Maria. L’incarnazione doveva essere tale da garantire attraverso le sofferenze del Cristo, l’espiazione del male prodotto dalla ribellione umana alla legge di Dio, e al contempo non doveva compromettere la divinità del Figlio. Athena95@2022 Il teologo Nestorio, vescovo di Costantinopoli, ritenne che la doppia esigenza fosse salvaguardata affermando la congiunzione fra la persona divina del Figlio e la persona umana di Gesù in una personalità comprensiva di entrambe le distinte persone: donde il rifiuto della formula ‘’Madre di Dio’’ in favore della formula ‘’Madre del Cristo’’. 431: CONCILIO ECUMENICO DI EFESO (convocato dall’imperatore d’Oriente Teodosio II) —> Condannò il nestorianesimo come insufficiente fondazione dell’unità, umana e divina, del Cristo. Nell’impero romano, la pacificazione imposta da Teodosio II si rivelava precaria per il costante proposito di esprimere concettualmente la natura complessa del Cristo. Furono elaborate varie soluzioni monofisite, secondo le quali l’umanità e la divinità di Cristo si uniscono fino a fondersi in una sola natura, capace insieme di soffrire fisicamente e di redimere divinamente. 451: CONCILIO ECUMENICO DI CALCEDONIA —> Condannò le soluzioni monofisite perchè parevano alterare, nel figlio incarnato, la natura divina o la natura umana. Di qui la formula diofisita di due nature in una persona, adottata a Calcedonia come ortodossa. Ma i monofisiti, giudicando il diofisismo un nestorianesimo mascherato, si mantennero numerosi tra i fedeli. L’imperatore Eraclio, per calmare i monofisiti irriducibili concordò con le sedi ecclesiastiche di Costantinopoli e Alessandria un ultimo tentativo di compromesso teologico: fu questa la formula del monotelismo, che pure nell’accettazione delle due nature di Cristo ne affermava unica l’attività operativa e con essa la volontà. La chiesa romana manifestò parecchie incertezze, ma scomparso Eraclio, condannò il monotelismo come monofisismo mascherato. L’asprezza di tante contese parrebbe suggerire che la custodia dell’ortodossia fosse un onere troppo gravoso per un impero travagliato da tanti problemi di difesa militare e di ordine interno. Eppure fu proprio quel compito che diede al potere del principe la consacrazione definitiva del suo carattere politicamente supremo e del suo significato universale. IL MONOTEISMO SALVIFICO, INTOLLERANTE DI OGNI ESTERNA CONTRADDIZIONE RELIGIOSA E DI OGNI INTERNA CONTRADDIZIONE TEOLOGICA, ERA DIVENTATO LA PROIEZIONE DEL DISPOTISMO IMPERIALE. Athena95@2022 Quando Giustiniano pervenne all’impero (527), in Occidente gli stanziamenti germanici avevano ormai assunto una certa stabilità territoriale: Angli, Sassoni, Iuti si erano allargati in Britannia, Franchi e Burgundi controllavano la Gallia, Svevi e Visigoti raggiunsero Cartagine e ne fecero un centro di irradiazione delle loro invasioni nelle maggiori isole del Mediterraneo. Giustiniano organizzò per terra e per mare la spedizione affidata al comando di Belisario che travolse nel 533 i Vandali e consentì a Giustiniano di estendere il controllo bizantino fin sulle coste meridionali della penisola iberica. Questa operazione rappresentò una presa di coscienza di una funzione dall’impero romano già esercitata da secoli: la liberazione del Mediterraneo dalla pirateria. Bisanzio rispose a questo problema con la creazione di una forza navale. L’impero dei dromoni (veloci navi da guerra bizantine) conservò per tutto l’alto medioevo un duplice impegno: - lotta per il controllo dei mari; - lotta per il controllo dell’ortodossia. L’ANNIENTAMENTO DEI VANDALI FU ANCHE UN’OFFENSIVA VITTORIOSA DELL’ORTODOSSIA DELL’IMPERO CONTRO L’ARIANESIMO DI UN POPOLO ECCEZIONALMENTE VIOLENTO VERSO L’ORGANIZZAZIONE CATTOLICA. Dai Visigoti e dagli Ostrogoti l’arianesimo si diffuse, oltre che tra i Vandali, tra gli Svevi, i Burgundi, i Longobardi e divenne per queste stirpi un modo di mantenere la propria identità di fronte alle genti di tradizione mediterranea a cui era stato imposto il credo niceno. La guerra di Bisanzio contro i Vandali dovette coinvolgere anche la penisola italica: ciò infatti avvenne attraverso la guerra greco-gotica (535-553). L’Italia di Odoacre non sentì più il bisogno di darsi un proprio imperatore romano, poichè aveva il suo supremo vertice a Costantinopoli: la penisola doveva essere annessa all’apparato politico-amministrativo dell’impero d’Oriente. L’instaurazione di un governo bizantino a Ravenna, che esercitava la sua azione sino ai confini con la Gallia, poteva diventare il tramite per una influenza imperiale fino all’Atlantico. LA RESTAURAZIONE IMPERIALE DI GIUSTINIANO, ANZICHE’ RIPRENDERE LA TRADIZIONALE ARTICOLAZIONE FRA UN OCCIDENTE E UN ORIENTE EQUIPARATI NELLE SUPREME RESPONSABILITA’ POLITICHE, PAREVA REALIZZARSI NELLA FORMA DI UNA STRETTA SUBORDINAZIONE MILITARE E CIVILE DELLE REGIONI CONQUISTATE DALL’UNICA CORTE IMPERIALE, SALDAMENTE INSEDIATA SUL BOSFORO. Athena95@2022 ascetica e l’attività missionaria e pastorale del vescovo furono associate, impressionò Clodoveo, il re merovingio che, convertitosi al cattolicesimo galloromano, portò i Franchi alla preponderanza in Gallia. San Martino divenne il simbolo religioso della potenza franca. Ma prima che ciò avvenisse, Martino era già considerato il simbolo spirituale dell’occidente, celebrato in contrapposizione con gli asceti orientali come il massimo dei santi d’Europa. Nel corso del V secolo in Gallia, i monasteri divennero luoghi privilegiati per il reclutamento dei vescovi. E’ il caso del cenobio di Lerins: qui giunse l’influenza del più notevole degli scrittori latini che comunicarono all’Occidente le esperienze e le dottrine degli asceti d’Oriente: Giovanni Cassiano. In Italia i primi gruppi noti di asceti si costituirono a Roma in case di grandi signori, in un ambiente prevalentemente femminile, che subì l’influenza di un personaggio di origine latino-dalmata divenuto esperto di controversie monastiche: GEROLAMO. Fra i molti esperimenti ascetici che allora si fecero vi furono all’inizio del VI secolo quelli eremitici e comunitari di Benedetto da Norcia che culminarono nella fondazione di Montecassino e nella redazione della regola famosa, nata in realtà come abbreviazione e selezione sull’ampio testo di una dotta e meticolosa regola anonima, la cosiddetta regola Magistri. La regola benedettina riprende i temi ascetici fra cui la nota alternanza di preghiera e lavoro, ma evitando ogni polemica con l’eremitismo e anzi prospettando la vita degli anacoreti come grado ulteriore di perfezione rispetto a quello raggiunto dai cenobi. All’eremo dovevano accedere solo gli asceti già addestratisi in comunità nella lotta contro le tentazioni demoniache. La regola benedettina si affermò in Italia durante il VII secolo con interruzioni e lentezze ma finì per prevalere nei gruppi monastici sulle altre regole concorrenti. Il cristianesimo e il monachesimo penetrarono in Gallia fra i Celti della Britannia e poi si diffusero in Irlanda, isola che era sempre rimasta fuori dall’impero romano, fedele al culto religioso amministrato dai druidi. Ma il tentativo di organizzare ecclesiasticamente le popolazioni dell’isola secondo il modello episcopale mediterraneo non ebbe lunga durata. La fierezza delle tribù irlandesi, la mancanza di centri urbani adatti a sedi episcopali posero in crisi il primo impianto episcopale dell’isola che rimase ma fu assorbito dall’ordinamento monastico. Avvenne che il vescovo non solo fosse reclutato fra l’elemento monastico, ma che nel suo stesso funzionamento coincidesse con l’abate di più monasteri. Questo inquadramento monastico garantì alla cristianità irlandese un controllo spiritualmente rigoroso e alimentò singolari esperienze di carattere penitenziale, fra cui la redazione dei libri penitenziali usati dai confessori. Fra le penitenze in uso fu il pellegrinaggio che condusse sul continente monaci irlandesi famosi. Il più intraprendente fu Colombano: fra il VI e il VII secolo operò con alcuni compagno attraverso la Athena95@2022 Gallia. Qui fondò monasteri sottoposti ad una regola monto severa. Attrasse a sè non pochi membri dell’aristocrazia militare franca, ottenne privilegi dai re merovingi e finì la sua vita in Italia dove fondò sull’Appennino il monastero di Bobbio che divenne un’abbazia potente, con ricca biblioteca e largo raggio culturale d’azione. La sua avventura influì sulla rinascita dell’età carolingia, cioè sulla prima organizzazione dell’Europa come sistemazione del mondo latino- barbarico. 2.3 Alla sistemazione carolingia del mondo latino-barbarico si giunse dopo tre secoli di progressiva compenetrazione fra le genti germaniche e il tessuto latino. La distinzione tra le stirpi in cui il mondo barbarico si articolava, le nationes, sono da intendersi come il risultato instabile di anteriori processi di assimilazione culturale e giuridica, vissuti dalle singole genti barbariche nel corso dei loro spostamenti periodici e che nel provvisorio insediarsi, si erano unite con elementi di popoli che le avevano precedute nell’occupazione del suolo. Rimane legittimo considerare distintamente le vicende di queste genti in continuo divenire etnico. VISIGOTI —> La prima efficacia dell’incontro latino-germanico fu visibile nella loro vicenda fin dal V secolo, quando, dopo aver vagato dall’Italia alla penisola iberica, si fissarono in Aquitania e diedero vita a quel regno che ebbe il suo centro politico a Bordeaux e a Tolosa. Ma in larga parte dell’Aquitania sopravvissero ricche famiglie di tradizione senatoriale. Le imposizioni fiscali gravavano soltanto sui romani, mentre il servizio militare solo sui Goti. Le due popolazioni rimasero per alcuni aspetti distinte anche sul piano giuridico, poichè avevano tradizioni loro proprie. Il precoce sviluppo del connubio gallo- romano in Aquitania fu violentemente interrotto nel 507 dall’espansione dei Franchi. A salvare il regno visigoto fu l’ostrogoto Teoderico. I Visigoti furono costretti a riparare in Castiglia: centro politico del regno divenne Toledo sul Tago. Nel regno goto-iberico la collaborazione con l’elemento latino proseguì in tutte le direzioni. Intanto la corte regia cercava di assumere forme palesemente romane (lingua, sviluppo di patrimoni fondiari, clientela). OSTROGOTI —> Sotto Odoacre l’aristocrazia romano-italica conservò le responsabilità dell’amministrazione civile, di fronte ad un esercito di stirpe germanica. Le milizie di Odoacre non erano che l’insieme di gruppi barbarici già costituenti l’esercito ufficialmente romano d’Italia. Quando in Italia sopravvennero, con l’approvazione dell’imperatore Zenone, gli Ostrogoti, il loro re Teoderico distribuì il suo popolo nell’Italia settentrionale e nell’Appennino. Esclusivamente dei Goti fu la responsabilità militare, romani furono i governatori civili, e solo romano-italico fu il senato di Roma, che sotto Teoderico sviluppò nuovamente il suo prestigio politico, poichè il re ne trasse Athena95@2022 consiglieri e ministri influenti, non volendo per alcun atto dipendere dall’imperatore d’Oriente. Le aristocrazie dei due popoli si trovavano rappresentate insieme solo nel consistorium ravvennate, quel consiglio in cui sopravviveva la tradizione del sacrum consistorium imperiale: là infatti attorno al re Teoderico i capi militari ostrogoti si riunivano con quei grandi personaggi di stirpe senatoria e di cultura retorica, i viri illustres dell’alta burocrazia civile. A questo clima politico risale anche l’attività architettonica ravvennate di età ostrogota, dalla reggia di Teoderico al suo mausoleo, chiare testimonianze di una comunità di ambizioni culturali, strettamente connesse con l’organizzazione del potere. Questo orientamento fu duraturo nei secoli ed è evidente nell’attività di Cassiodoro Senatore, che svolse l’attività di ministro a Ravenna non solo nei migliori anni di Teoderico ma pure dopo la crisi determinata dai sospetti del re contro il filobizantinismo di certe famiglie senatorie e culminato dell’esecuzione di Boezio il filosofo. Solo nella fase più esasperata della guerra greco-gotica, quando il re Totila fece appello alla lealtà dei contadini dei latifondi abbandonati, il regno goto sembrò contemplare la possibilità di mettere in crisi il sistema sociale consolidato nei secoli. I contadini vennero spesso utilizzati come oggetto di sfruttamento dell’uno e dell’altro apparato di potere. L’impero si occupò di reintegrare i grandi signori latini nei loro patrimoni fondiari, di agevolare il ritorno dei senatori fuggiti da Costantinopoli e di annullare ogni disposizione del nefandisismo Totila. Questa restaurazione bizantina del sistema sociale scosso dalla guerra fu gravemente compromessa dallo stanziamento longobardo in Italia. LONGOBARDI —> Tra il V e il VI secolo erano fra le popolazioni più instabili del mondo germanico. Divennero federati dell’impero in Pannonia al tempo di Giustiniano e si lasciarono impiegare contro gli Ostrogoti d’Italia nel 552, il penultimo anno della guerra, quando al comando dell’esercito bizantino vi era Narsete che si liberò appena potè del contingente longobardo, avendone sperimentato l’indocilità. Intanto in Pannonia i Longobardi entravano in lotta con i Gepidi, e riuscirono a schiacciarli nel 567 con l’aiuto degli Avari. L’anno successivo, la difficoltà di condividere il dominio sulle regioni danubiane con gli Avari, indusse i Longobardi a migrare verso l’Italia, dove nel 569 dilagarono, sotto la guida di re Alboino, senza un preciso piano strategico per eliminare il dominio bizantino. Ne risultò un intrico di dominazioni longobarde e bizantine, ostili fra loro per oltre un secolo. Il dominio longobardo in Italia fu incerto per decenni nella sua interna struttura. Vi fu un decennio, dal 574 al 584, in cui il potere regio rimase vacante: una trentina di duchi longobardi divennero signori autonomi dei loro ampi stanziamenti. Il pericolo che la disgregazione politica preludesse alla fine della dominazione longobarda, indusse i duchi a restaurare il potere regio, il Athena95@2022 UNICO CAPO DEI FRANCHI, fondatore di quella dominazione territoriale dei Merovingi che seppe inquadrare la Gallia per due secoli e additare le vie della futura espansione dei Carolingi in Europa. Il dinamismo militare di Clodoveo trovò un ostacolo nella rete di amicizie che la diplomazia ravennate di Teoderico riuscì a costruire nelle relazioni con i popoli germanici: re Teoderico diede in moglie figlie, sorella, nipote a principi dei Burgundi, Visigoti, Vandali, Turingi. Anche con Clodoveo Teoderico cercò di convivere pacificamente, sposandone la sorella, ma di fronte all’espansione dei franchi, cercò di contenerla e prendere Alamanni e Visigoti sotto la sua protezione. Il progetto Teodericiano scomparve con Teoderico e lasciò di fronte le aspirazioni dei Bizantini e dei Franchi. L’arrivo dei Longobardi in Italia offrì ancora occasione a Bisanzio di stipulare accordi con i Merovingi successori di Clodoveo: questi ne approfittarono per espandere la potenza franca verso il Mediterraneo centrale. Il travaglio interno del mondo franco ritardò fino al VIII secolo la soluzione franca del problema europeo. Il profondo connubio realizzatosi fra l’aristocrazia gallo-romana delle famiglie senatoriali e episcopali e l’aristocrazia militare dei franchi, costituì la solida base di realizzazione dell’embrionale disegno merovingio del VI secolo. L’esempio della collaborazione fra le due aristocrazie intorno al potere regio fu offerto ai Franchi dal regno visigoto di Aquitania e dal regno Burgundico, ma la profondità del connubio fu resa possibile dall’introduzione dei Franchi in quel medesimo organismo religioso cattolico in cui già i Galloromani si trovavano inquadrati. Nel 533 i Franchi sottomisero anche i Burgundi, conservando tuttavia al regno un’individualità politica franco- burgundica, sottolineata dal duplice insediamento di nuclei di Burgundi e di Franchi in mezzo alla popolazione latina. Il cuore politico militare della potenza franca fu sempre nelle regioni situate fra la Loira e il Reno, che nel corso del VI secolo si distinsero nel: - REGNO DI NEUSTRIA che rappresentava il prolungamento franco dell’ultima dominazione romana autonoma in Gallia, conobbe una profonda compenetrazione di tradizioni latine e germaniche; - REGNO DI AUSTRASIA Fu in gran parte germanica nella popolazione ed espresse quell’aristocrazia militare di particolare intraprendenza, da cui uscì la dinastia dei Pipinidi o Carolingi. 2.4 L’organizzazione religiosa delle popolazioni latine funzionò come principale strumento di protezione del sistema sociale e delle conquiste intellettuali e civili di tradizione mediterranea. Il reclutamento dell’episcopato consentì il raccordo fra il mondo egemonizzato delle elites cittadine e la sistemazione sociale germanica, imperniata sul predominio delle aristocrazie Athena95@2022 militari. Le città indubbiamente decaddero, fin dal V secolo, ma rimasero sedi episcopali e il territorio rurale si andò sempre più articolando in distretti plebani (pievi) facenti capo al vescovo. L’organismo ecclesiastico fu subito al centro del problema che il potere germanico dovette affrontare nell’instaurare un modus vivendi fra le popolazioni diverse nello stesso territorio. L’arianesimo di gran parte delle genti germaniche immigrate era uno strumento di identità etnica, nonostante la sua origine fosse da attribuire a quello stesso clima civile e dottrinale da cui procedeva l’organizzazione delle chiese di credo niceno. L’arianesimo rappresentava dunque una prima fase di quel processo di acculturazione a cui le genti germaniche furono sottoposte nelle loro relazioni con il mondo mediterraneo. Avvenne che i re vandali e svevi, goti, burgundi e poi i re longobardi, rimassero fedeli all’ordinamento ariano, come parte ormai integrante del patrimonio culturale delle genti conquistatrici, le quali erano tutt’uno con l’esercito, ma avvenne che i medesimi re dovessero simultaneamente preoccuparsi di quell’altro organismo ecclesiastico che inquadrava la ben più numerosa popolazione latina. I re vandali non sentirono la gravità e la delicatezza di un problema che riguardava la coesistenza di modi diversi di vivere e di riconoscersi come entità collettive. Come saccheggiarono i grandi proprietari, così saccheggiarono le chiese cattoliche e ne trasferirono i beni ai vescovi ariani. Ma in questo modo scavarono un fossato incolmabile fra la dominazione barbarica e una popolazione latina che tutta si riconosceva ormai nell’immagine dell’organismo cattolico. Perciò il vandalismo dei vandali, indubbio, ma non peculiare di essi soltanto, divenne nella propaganda episcopale cattolica, un emblema. Quando i re vandali compresero la gravità del problema cercarono dapprima di risolverlo in modo drastico colpendo le chiese cattoliche non più in quanto titolari di beni, ma in quanto cattoliche. Era la via dell’intolleranza religiosa, ma era una via che i vandali non potevano percorrere perchè la popolazione latina, massiccia maggioranza numerica, nell’arianesimo individuava l’ordinamento dei persecutori della sua fede e della sua civilitas, e perchè l’episcopato ariano non poteva competere qualitativamente con quello cattolico perchè i vescovi vandali non erano stati in grado di mantenere il livello culturale originario. Il cattolicesimo cominciò a penetrare anche in corte regia per effetto del matrimonio di un figlio di re Genserico con una figlia dell’imperatore Valentiniano III. Di tipo opposto a quello dei vandali fu la politica ostrogota verso l’organismo cattolico. Il re era ariano ma protesse le chiese cattoliche. Fu per lo più rispettoso del papato, che era influentissimo sull’episcopato d’Italia e intimamente legato all’aristocrazia di Roma. Intervenne persino nelle contese fra i partiti delle città in occasione di una duplice elezione papale, per porre Athena95@2022 fine allo scisma che turbava non solo Roma ma tutto l’episcopato italiano. Solo negli ultimi anni diventò sospettoso dei rapporti romani con Bisanzio e volle colpire quei senatori che gli apparivano filobizantini, così incarcerò papa Giovanni I, che si era recato a Costantinopoli per indurre la corte imperiale a maggiore rispetto verso gli ariani. LA QUESTIONE RELIGIOSA FINì CON AVVELENARE ANCHE IN ITALIA LE RELAZIONI FRA GERMANESIMO E LATINITA’ E CONTRIBUì A CREARE DISSENSI NELLA DIREZIONE POLITICA GOTA ALLA VIGILIA DELL’INTERVENTO DI GIUSTINIANO. Anche i re visigoti di Aquitania ebbero rapporti cordiali con i vescovi cattolici che li avevano strenuamente combattuti. Scomparsa a Ravenna e in Gallia ogni autonoma dominazione romana, il regno visigoto e l’episcopato cattolico consolidarono il loro modus vivendi. 506 SINODO VESCOVILE in SETTIMANIA —> prima sinodo di vescovi tenutasi in Gallia e controllata da un re germanico ariano per regolare il funzionamento liturgico, gerarchico, morale e patrimoniale del corpo ecclesiastico. Fu proprio il progresso dell’influenza cattolica a porre a re Leovegildo il problema dell’unificazione religiosa. Il prestigio dei prelati cattolici fu tale che il metropolita di Siviglia, Leandro, riuscì a convertire un figlio del re, che si trovò poi coinvolto in un’insurrezione contro il padre e fu ucciso. L’unificazione religiosa allora necessaria, ma in senso ariano. MA COME L’IMPOSIZIONE DEL CREDO ARIANO ALLE CHIESE LATINE, COSì ANCHE LEOVIGILDO FALLì. Il figlio suo successore, Reccaredo, finì per seguire la via opposta: passò al cattolicesimo. I focolai di insurrezione ariana si spensero e la conversione del re e del popolo fu solennizzata nel terzo concilio di Toledo del 589, che fu il primo che assunse quel valore di assemblea ecclesiastica e politica insieme, che fece del concilio di Toledo un’istituzione centrale del regno visigoto. La nuova istituzione rappresentava l’accettazione episcopale di un orientamento politico che nella celebrazione del sanctissimus princeps, ortodoxus rex, si ispirava al modello imperiale di Bisanzio. Il concilio di Toledo espresse in modo visibile l’incipiente fusione fra i due popoli e fra le loro aristocrazie. Doveva derivarne la progressiva formazione di un’aristocrazia comune, caratterizzata da un’ulteriore espansione dei patrimoni fondiari. Nello stile di vita di questa comune aristocrazia prevalse la tradizione militare dei goti. IL NUOVO REGNO VISIGOTO CATTOLICO DURO’ POCO PIU’ DI UN SECOLO. Vi pose fine violentemente l’invasione dei Musulmani del 711. I Longobardi in Italia rappresentano una cultura religiosa più arretrata di quella dei Goti, perchè il loro arianesimo manifesta ancora segni di Athena95@2022 abbaziale. Queste chiese erano animate da uno spirito missionario, in cui la tradizione irlandese si contemperava con la volontà di operare in stretto lraccordo con la chiesa di Roma. Da questa esperienza procedette la cultura di monaci celebri, fra i quali Beda il Venerabile, autore di opere agiografiche e storiche. 2.5 La più celebre fra le missioni anglosassoni del VIII secolo fu quella di Wynfrith, un nobile del Wessex, il quale assunse a Roma il nome di Bonifacio e dignità di vescovo missionario, operò per decenni in Germania contro il politeismo di Turingi e Sassoni e morì martire tra i Frisoni nel 754. Le conversioni che gli riuscì di ottenere costituirono una fase eroica e pacifica di penetrazione del cristianesimo. La fase ulteriore sarà una vasta operazione politico-militare cruenta, contraddistinta dall’emanazione di norme costrittive inesorabili. L’Europa dei Franchi di Roma nacque così fra vocazioni al martirio e crudeli violenze. Ma se la conquista si tradusse in una profonda incorporazione dell’intero mondo barbarico in un’Europa romano-cattolica, ciò fu possibile in quanto la sistematica espansione territoriale dell’episcopato fu preparata sia dalla predicazione missionaria anglosassone, sia dalla ricostruzione di strutture episcopali capaci di fornire un modello al grande disegno di dominazione e assimilazione culturale, affidato alle nuove chiese fondate nei territori germanici. L’idea di riformare l’episcopato franco fu suggerita ai maestri di palazzo dei merovingi dall’attività esercitata da Bonifacio in Germania: che era, si predicazione di uno spirito di penitenza e di ascesi, ma al medesimo tempo, riordinamento territoriale ecclesiastico e creazione di nuove sedi episcopali, strettamente vincolate al papato. Fra i documenti più belli è la LETTERA inviata da Bonifacio a PAPA ZACCARIA (742): lo informa sull’erezione in città di alcuni luoghi fortificati per farne sedi episcopali e gli chiede il consenso per convocare una sinodo per la riforma dell’episcopato franco, poichè da molti decenni nel mondo dei Franchi non se ne riunivano più, nè più i vescovi si coordinavano intorno ai metropoliti, e il costume di molta parte del clero era divenuto rozzo e violento. Nei decenni seguenti, sotto il controllo dei Pipinidi- Carolingi tutta una serie di sinodi fu convocata, la disciplina ecclesiastica fu restaurata e a fondamento della restaurazione si pose l’istruzione di chierici e monaci, il rispetto delle regole grammaticali e retoriche, lo studio delle sacre scritture, la conoscenza dei canoni emanati dalle sinodi, l’adeguazione agli usi della chiesa di Roma, in un intento di uniformità di lingua latina ufficiale, di credenze teologiche e di culto, rispondente ad u’idea di ordine politico e religioso europeo. Questo lavoro cultura ebbe una tale efficacia nel tempo, che pur quando l’impero carolingio scomparve, la risposta al disordine potè venire dall’interno di queste strutture medesime. Ma la centralità assunta storicamente dal movimento culturale nato nel secolo VIII non può farci Athena95@2022 dimenticare che il suo respiro europeo fu possibile in quanto vi si accompagnò una fortunata vicenda di imprese militari (Carlo Martello, Pipino il Breve, Carlo Magno) Da dove furono attinte le forze necessarie a simili imprese, nonostante la profonda crisi che i regni merovingi avevano conosciuto alla fine del secolo VII? La violenza di quei vescovi, reclutati tra l’aristocrazia militare, altro non era un aspetto dello sviluppo politico delle grandi famiglie franche a danno dei Merovingi, non più sostenuti dall’efficienza di un esercito di popolo, in cui la potenza dei nobili potesse rimanere inquadrata. Il popolo franco era ormai una classe di possessori in cui le stirpi dei Franchi e dei Burgundi erano socialmente confuse con i possessori di ascendenza latina (analogamente al caso degli arimanni in età longobarda), e se formalmente la figura del popolo- esercito persisteva, di fatto la vocazione franca per la guerra e il bottino era in declino, tanto più che i Merovingi da tempo non si erano più mostrati in grado di condurre il loro popolo in guerre offensive di largo profitto immediato. La virtù politico militare dei Pipinidi fu nell’attrarre intorno alla propria intraprendenza crescenti contingenti clientelari reclutandoli anche nell’aristocrazia. Questo specifico sviluppo clientelare intorno ai Pipinidi, integrando con armati di vocazione le normali forze militari di popolo, consentì risposte efficaci alle aggressioni e alimentò le guerre di conquista. Fu l’espansione clientelare dei Pipinidi-Carolingi a costituire l’esperienza di base per tutta l’ulteriore evoluzione politico-militare del medioevo: la tradizione vassallatica. Si tradusse infatti, dall’età di Carlo Martello nell’esperienza delle clientele vassallatiche, in virtù di una nuova formalizzazione giuridica dei rapporti clientelari a livello militare: una formalizzazione simbolica nata dalle consuetudini di commendatio, fin dall’età romana, nei rapporti bilaterali fra singoli potenti e singoli di debole condizione socio-economica. Analoghi vincoli di dipendenza c’erano anche in Italia, e in età longobarda si combinarono con abitudini germaniche e diedero luogo al gasindiato (gasindius e vassus hanno la stessa radice: il primo termine, di ambito longobardo, indica una figura sociale modesta, paragonabile al cliens romano. I primi vassi franchi erano simili ma il termine finì per essere applicato a fedeli dell’aristocrazia militare, in grado di mantenersi armatura e cavallo). Ma solo nella Gallia dei Franchi la commendatio, diede luogo a quegli sviluppi vassallatici destinati a immensa fortuna in tutta l’area latino-germanica. Il vincolo militare vassallatico era un contemperamento, tra le forme di accomandazione ad un patrono e i giuramenti di fedeltà militare. La cerimonia con cui il vincolo si istituiva, ne riusciva complessa e solenne, poichè implicava sia la immixtio manuum, con cui il vassus metteva le proprie mani in quelle del senior pronunciando parole rituali di sottomissione (omaggio) e un giuramento di fedeltà su un testo sacro. Il vincolo era sentito come strettamente personale e come moralmente assai Athena95@2022 impegnativo per entrambi i contraenti. Il vassallo acquistava la dignità di un familiare del proprio signore. Il servizio, per lo più in armi, era rimunerato col suo mantenimento nella casa signorile, oppure con l’assegnazione di un beneficio, per lo più una terra concessa in godimento precario al vassallo. I maestri di palazzo e poi i re carolingi o quegli altri potenti che disponevano di vasti patrimoni fondiari, erano in grado di nutrire, con le concessioni beneficiarie, clientele vassallatiche folte. L’assegnazione del beneficio avveniva mediante un’investitura simbolica. La restaurata potenza militare dei Franchi, fondata sul connubio fra le clientele vassallatiche e l’esercito franco di popolo destò in Occidente largo interesse e suggerì ai pontefici romani di rivolgersi via via a Carlo Martello, a Pipino il Breve e a Carlo Magno per ottenere soccorso contro i Longobardi, allorchè la monarchia di Pavia mirò a travolgere quei baluardi bizantini che rompevano il regno longobardo in sfere regionali di difficile organizzazione unitaria. Il ricorso papale all’aiuto dei Franchi rappresentava l’aspirazione delle popolazioni latine di area bizantina a mantenere la propria identità socioculturale di fronte alla minaccia di incorporazione in un regno di tradizione germanica. Carlo Martello, impegnato nella difesa del mondo franco da troppe minacce, respinse le richieste papali, ma i suoi successori le accolsero. A questo risultato concorsero più ragioni: il riconquistato spirito aggressivo dei Franchi per l’affluire di sempre più agguerrite clientele vassallatiche nell’esercito, lo sviluppo di relazioni ecclesiastiche fra il mondo franco e la sede papale, dopo l’intervento di Bonifacio, e l’interesse di Pipino il Breve per un’intesa che confortasse la dignità regia da lui conseguita deponendo dal trono quella dinastia merovingia che per oltre due secoli era apparsa agli occhi dei Franchi ammantata di sacralità. 754 —> PAPA STEFANO II procedette personalmente all’unzione sacra di Pipino e dei suoi figli: egli strinse con il re un patto di amicizia e ne ottenne una promessa d’aiuto. L’anno stesso Pipino intervenne militarmente in Italia e costrinse il re longobardo Astolfo ad abbandonare le regioni bizantine occupate dall’esarcato ravennate. Che tali regioni siano state consegnate alla chiesa di Roma significò riconoscimento dell’autonomia di governo da esse raggiunta e tendenza a pensarle in funzione dell’efficiente organismo papale. Pipino pretese anche un tributo annuo da Astolfo, come segno dell’accettazione della supremazia franca sull’Italia longobarda. Questo preannunciava la conquista di gran parte del regno compiuta nel 774 da Carlo Magno. FU COSI’ SEGNATO NON SOLO IL DESTINO DI GRAN PARTE D’ITALIA, MA IL DESTINO D’EUROPA. La soluzione franco-galloromana estesa per le vittorie dei Carlo sui Sassoni si complicò con l’assunzione di un compito Athena95@2022 Dio, Allah, a predicare la via per giungere alla salvezza attraverso l’incondizionata sottomissione (Islam) alla sua onnipotenza. Dalla città dovette emigrare con i propri fedeli e scelse come luogo ospitale la città di Medina, in cui i clan arabi ed ebrei erano in contrasto con la Mecca. Fu allora che Maometto divenne il profeta armato rivelando doti politiche e di strategia militare non inferiori a quelle religiose: e fu allora che nel collegamento medinese e musulmano con tribù nomadi avverse ai Meccani, la tradizionale razzia degli arabi si associò alla lotta religiosa e strinse via via intorno al profeta molte tribù fin allora ostili tra loro. La Mecca finì per lasciarsi conquistare da questa travolgente sintesi teocratica di violenza e di religione realizzatasi attorno a Maometto, il quale riceveva continue rivelazioni di Allah, da cui nacque il Corano (recitazione dei messaggi divini). Via via che nell’Arabia le tribù più aggressive si andavano orientando intorno a quel capo di eccezione che era Maometto, una potente somma di aggressività veniva convogliata in una guerra-razzia di dimensioni crescenti contro i nemici della nuova fede. Quando Maometto morì (632) la forza unitaria aggressiva si orientò verso nord: verso le regioni dei sedentari organizzati negli Imperi dei Sassanidi di Persia e di Costantinopoli. La rivalità fra l’impero iranico e l’impero romano era antica, sollecitata da complesse ragioni: le ambizioni territoriali dell’uno e dell’altro, la tendenza dei Sassanidi a monopolizzare il grande commercio dell’area mediterranea con l’Asia, le tensioni religiose fra mazdeismo e cristianesimo. Questa antica rivalità, al tempo di Giustiniano, aveva provocato il prolungamento della guerra greco-gotica. Al principio del VII secolo l’impero bizantino si trovò simultaneamente sottoposto alla pressione longobarda in Italia, alle scorrerie avare e slave, e ad una profonda penetrazione persiana verso occidente. L’imperatore Eraclio riuscì a capovolgere le sorti della guerra. In questa situazione, caratterizzata dalla disfatta Sassanide e dal trionfo di Eraclio, maturarono le fortune mondiali dell’Islam. La comunità musulmana seppe tenersi unita sotto il comando dei vicari e successori di Maometto, i califfi, scelti nella cerchia dei suoi primi collaboratori. A poco più di un decennio dalla scomparsa del profeta, l’occupazione araba si estendeva a nord oltre la Siria e la Mesopotamia. L’impero Sassanide scomparve e quello bizantino si ridusse alle regioni gravitanti geograficamente su Costantinopoli. L’occupazione militare rispettò le autonomie amministrative e religiose locali e si risolse in un pacifico sfruttamento musulmano degli infedeli, assoggettati ad un complesso di imposte non più gravi del fiscalismo imperiale. Nel terzo decennio dalla morte del Profeta l’unità musulmana s’incrinò sul problema delle successioni califfali, con immense conseguenze per la storia dell’Islam. I medinesi portarono al califfato Ali, cugino e genero di Athena95@2022 Maometto, quraishita come i primi tre califfi, ma avverso al predominio della Mecca. Nel 661 Ali fu ucciso e si ebbe l’avvento della dinastia quraishita degli Omayyadi, la cui legittimità fu contestata dal movimento musulmano degli sciiti. Nonostante l’opposizione sciita, gli Omayyadi mantennero l’unità politica dei musulmani sotto egemonia araba, organizzando la capitale del loro impero a Damasco e proseguirono nelle conquiste, raggiungendo la penisola iberica, dove si sostituirono al regno visigoto. La corte di Damasco trovò limiti ad un’indefinita espansione in realtà politiche di minore respiro geografico ma di robusta impronta regionale, come l’organismo latino- germanico dei Franchi, l’impero greco-romano di Bisanzio, i regni buddisti e induisti della pianura del Gange. Erano spazi di clima prevalentemente semiarido, di transizione dai deserti e dalle steppe alle regioni ricche di vegetazione: collegavano e incorporavano grandi oasi di civiltà contadina e urbana, ma costituivano un complesso territoriale troppo condizionato dalla discontinuità delle zone. La creazione di flotte arabe nel mediterraneo sorprese per la sua rapidità e per la capacità aggressiva. Costantinopoli fu assediata due volte. La città conobbe il pericolo supremo quando gli Arabi nel 717 fecero convergere sul Bosforo l’esercito e la flotta. L’imperatore Leone III contrastò per un anno la duplice aggressione, fino all’annientamento della flotta nemica. Fu una vittoria decisiva, in quanto proprio allora dalla penisola iberica stavano per penetrare gli Arabi in Gallia: dai pressi di Tours e Poitiers Carlo Martello nel 732 li respinse, con una battaglia forse non decisiva ma che ebbe la funzione di frenare sul nascere vere tentazioni di conquista da parte musulmana. La battaglia di Poitiers è stata recentemente giudicata una scaramuccia che aveva impedito una razzia e non un’invasione. Tuttavia la sua notorietà è da attribuire alla propaganda pro-carolingia degli intellettuali di corte che ha continuato a trovare terreno fertile nella cultura cristiana occidentale. L’impero d’Oriente, così drasticamente ridotto, dovette mutare la sua struttura: divenne definitivamente un impero greco. Nel secolo VII le incursioni degli Slavi e dei Bulgari si mutarono sempre più spesso in insediamenti cospicui, non sempre accettando di riconoscere la supremazia bizantina. I nuclei slavi conservarono a lungo la loro struttura tribale: nelle zone in cui seppero resistere alla pressione politica bizantina, ridussero la dominazione imperiale a poco più che un controllo delle città superstiti. L’IMPERO DOVETTE SVOLGERE UN’AZIONE MOLTEPLICE DI CONTENIMENTO MILITARE E DIPLOMATICO: COSì DEFINI’ IL SUO CARATTERE GRECO. Nello stesso momento la dominazione longobarda in Italia si consolidava. L’impero era dunque costretto a difendersi da ogni parte contro popolazioni di tradizione aggressiva, dagli Arabi ai Bulgari, dagli Slavi ai Longobardi. L’organismo militare si andò meglio articolando in un’armata intorno a Costantinopoli e all’interno delle regioni minacciate; nelle mani dello Athena95@2022 stratego erano concentrate tutte le responsabilità militari e civili di governo. Venne meno quella separazione fra i comandi militari e amministrazioni civili che aveva caratterizzato il tardo impero romano e la prima età bizantina. Nel reclutamento militare si fece in ciascun tema ricorso alla popolazione regionale e in molti temi si distruibuirono terre ai soldati: un modo di risolvere i problemi della difesa locale e quelli della colonizzazione. L’articolazione militare dell’impero si tradusse così in un’articolazione politica, che riuscì in più casi favorevole a vere autonomie regionali. Di fronte alla molteplicità dei compiti politico-militare dell’impero e alla varietà di ordinamenti delle province, l’imperatore Leone III e i suoi successori (dinastia isaurica) si impegnarono in una lotta violenta per purificazione del culto cristiano da sviluppi giudicati idolatrici soprattutto in Grecia e in Italia, dove le popolazioni, avvezze da secoli al culto delle immagini sacre, sentivano la loro proibizione come intollerabile e la loro distruzione, l’iconoclastia, come sacrilega. Per intendere un impegno purificatore così impolitico bisogna porre l’accento sulla struttura ideologica dell’impero, sulla persuasione profonda che animava gli imperatori di rappresentare nel cosmo umano e nella Chiesa universale una garanzia suprema di civiltà razionale e ortodossia cattolica. Le critiche contro il dilagare di un culto delle icone erano antiche quanto il culto medesimo, anche se nelle chiese, soprattutto monastiche, lo zelo per attrarre i fedeli aveva a sua volta promosso un larghissimo uso di immagini sacre e la giustificazione del culto ad esse prestato. Le critiche agli sviluppi esuberanti di questo culto trovarono conforto dall’esempio dell’intransigenza islamica ed ebraica. L’intolleranza iconoclasta isaurica espresse di fronte all’Islam quella medesima volontà di competizione religiosa che permeava anche la difesa militare di un impero concepito come universale. 754 —> CONCILIO DI TRECENTO VESCOVI CONDANNA IL CULTO DELLE IMMAGINI Ma le resistenze furono tali che la corte imperiale, un trentennio dopo, convocò un nuovo concilio per revocare la condanna. Era la vittoria soprattutto dei monasteri, la cui potenza e la stessa esistenza era gravemente minacciata durante la lotta. Fu anche considerata vittoria dell’ortodossia poichè i difensori delle immagini avevano accusato gli iconoclasti di vivere in un clima teologico di diffidenza verso la possibilità del divino di incarnarsi intimamente nell’umano e nel mondo visibile. LA VITTORIA CONSEGUITA SUGLI ICONOCLASTI FU IL TRIONFO DI UN’ESPRESSIONE LITURGICA ARMONIZZANTE CON LE ESIGENZE DI UNA CULTURA ARTISTICA ANTICA. Le conseguenze in Occidente dell’iconoclastia: divamparono rivolte e indignazioni che favorirono l’orientamento del mondo romano-italico verso la potenza dei Franchi. La ribellione della Chiesa di Roma provocò la confisca Athena95@2022 Damasco, in concomitanza con la rottura della costruzione unitaria tentata dagli Arabi e con la formazione autonoma di grandi e minori sistemi regionali. La dinastia omayyade fu rovesciata nel 750, quando un movimento di dissidenza religiosa di colorazione sciita, trovò conforto nella pressione esercitata sulla classe politica araba dai convertiti. Riuscì allora alla famiglia degli Abbasidi di conquistare il califfato, fondando una nuova capitale a Bagdad. La rivoluzione dinastica non fece che accelerare un grande processo di decentramento regionale, variamente colorandolo di motivazioni religiose. Subito avvenne il distacco dei musulmani della penisola iberica dove un Omayyade superstite trovò rifugio e organizzò un emirato autonomo: Al- Andalùs con capitale Cordova. La presenza musulmana si tradusse nello sviluppo del ceto mercantile, nel rifiorire di antiche città, nella costruzione di un apparato statale burocratizzato. Si produsse un sincretismo culturale che ebbe la sua più alta espressione nell’architettura delle moschee. Lo sviluppo fu promosso anche dai rapporti con il restante mondo musulmano. A Medina nacque la scuola giuridica malikita per la formulazione del diritto musulmano in armonia con la Sunna. La dinastia degli Aglabiti riuscì a mantenersi per oltre un secolo: si protessero con milizie di mercenari, scelti tra gli schiavi africani, longobardi o slavi. Approfittarono di certe discordie interne della Sicilia bizantina per trasformare nell’827 la pirateria arabo-berbera in una guerra santa organizzata contro l’isola. La conquista progredì lentamente dall’Occidente all’Oriente fino al 902 quando fu completata. A Bari si costituì un emirato autonomo che volle direttamente collegarsi con Bagdad e durò più di un ventennio. La lentezza con cui procedette la conquista della Sicilia e il carattere episodico di scorreria mostrano il mutamento avvenuto dal tempo della grande espansione. Nel Mediterraneo l’Islam è ormai arginato da due imperi cristiani. Il confronto tra le aree musulmane e cristiane tende a tradursi in una rete più ampia di relazioni soprattutto commerciali. 3.3 La definitiva incorporazione dei Bavari e la sottomissione dei Sassoni conferirono all’impero dei Carolingi una forte impronta germanica. I Franchi si trovarono a monopolizzare in Europa la protezione militare e politica delle genti latine, per lo più in esse fondendosi. Coloro che tra i Franchi erano rimasti di dialetto e costumi germanici, risultarono solidamente inseriti nel quadro delle popolazioni germaniche. Fu allora che l’Austrasia sud orientale si avviò ad essere ciò che ora chiamiamo Franconia, terra che cominciò a definirsi tedesca o teutonica. Alla formazione di una prima coscienza nazionale tedesca corrisposero la non meno lenta formazione di una civiltà francese, su base franco-latina. A questi nuovi orientamenti europei contribuirono le grandi divisioni politiche in cui l’impero franco si andò Athena95@2022 articolando fin dall’età di Carlo Magno, per effetto della distribuzione dei regni tra i membri della famiglia imperiale (es. assegnazione del regno dei Longobardi a un figlio di Carlo, Pipino,e quella del regno di Aquitania a un altro figlio, Ludovico). Fra queste distribuzioni di regni assume rilievo la varia sorte toccata ai figli dell’imperatore Ludovico il Pio: in particolar modo quella di Ludovico il Germanico che, non contento della Baviera, riuscì ad aggiungervi l’Alamannia, la Franconia, la Sassonia, la Turingia. Scomparso Ludovico il Pio, la lotta tra i figli si concluse col fondamentale trattato di Verdun (843), che riconobbe a Ludovico il Germanico le regioni da lui antecedentemente occupate, e distribuì il restante impero tra il primogenito Lotario I e Carlo il Calvo: Lotario ebbe una lunga fascia di territori centrali dal mare del Nord fino all’Adriatico e al Tirreno, Carlo il Calvo ebbe tutte le regioni a occidente di quelle dell’imperatore Lotario. LA DIVISIONE NON MUOVEVA DA PREOCCUPAZIONI LINGUISTICO- NAZIONALI, MA PUR RIVELAVA LA SPONTANEA TENDENZA A DISTINGUERE TRA L’AREA GERMANICA E QUELLA ROMANZA. Nel noto giuramento di Strasburgo, pronunciato da Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo alleati contro Lotario, si ebbe cura che ciascuno dei due re fosse compreso dai fedeli dell’altro. A Lotario era stata assegnata una fascia centrale. Alla sua morte, la sua eredità fu divisa tra i figli (Lotario II e Ludovico II e Carlo). Qualche tempo dopo l’estinzione della discendenza di Lotario, salì al trono Carlo il Calvo e condusse all’incorporazione dell’eredità di Lotario II nel regno teutonico. Morì Carlo il Calvo e salì al trono un figlio di Ludovico il Germanico, CARLO IL GROSSO, il quale raccolse nelle sue mani la dignità imperiale e i vari regni in cui l’impero si era articolato. Ma ciò durò poco perchè nell’887 l’aristocrazia del regno che era stato di Ludovico il Germanico si sollevò e innalzò al trono Arnolfo, così come l’aristocrazia del regno di Carlo il Calvo innalzò il conte Oddone. LA GRANDE DICOTOMIA EMERSA NEI GIURAMENTI DI STRASBURGO SI RIAFFERMAVA CON MAGGIORE NETTEZZA. Cessò allora per sempre non la dignità imperiale ma l’unione politica del mondo latino-germanico nel continente europeo. Quale la sorte del regno di Lotario I? Roma e il regno italico rimasero estranei alla politica imperiale del corpo germanico. Il regno italico fu conteso fra due vassalli degli anteriori re carolingi d’Italia: i marchesi Berengario del Friuli e Guido di Spoleto. Intanto erano nati nel bacino del Rodano, due nuovi regni emergenti dalla grande aristocrazia franca: - BURGUNDIA, attorno al lago di Ginevra; - PROVENZA. Athena95@2022 I due regni si riunirono dopo qualche decennio in una entità politica unica, con il nome di Regno di Borgogna. Il simultaneo ricorso all’intrigo violento, ai legami di amicizia e di sangue e alle perorazioni ideologiche era ovunque il mezzo consueto di risolvere i problemi politici. La peculiarità del mondo latino-germanico rispetto a quello bizantino e islamico fu di elaborare le proprie esperienze istituzionali e sociali in forme dotate di estrema flessibilità, nelle quali l’incontro fra il potere ufficiale, le egemonie aristocratiche e la maggiore o minore acquiescenza dei ceti subordinati non si realizzava attraverso una macchina burocratica centralizzata attorno ad un dispotismo, bensì nella formalizzazione simbolica di rapporti personali, di relazioni con le istituzioni religiose, di protezioni e di sfruttamenti sanzionati dalla consuetudine. La spontanea tendenza coercitiva e la tendenza all’eliminazione dell’ordinamento pubblico ha indotto molta parte della storiografia tedesca a postulare una tradizione peculiarmente aristocratica delle genti germaniche. Ma è davvero necessario ricorrere ad un mito delle origini per spiegare la crisi di ogni apparato statale in Occidente nei secoli centrali del medioevo? La risposta è negativa. L’apporto germanico all’impero fu certamente un contributo fondamentale a quel rafforzamento delle tradizioni militari franche. Le tradizioni militari, se valsero a respingere i pericoli esterni, valsero anche a ravvivare nell’aristocrazia gli stimoli all’autonomia di comportamento dei potenti, che, forniti di proprie clientele, si contesero il regno e controllarono il re. Le invasioni germaniche provocarono un regresso nella circolazione monetaria: alla radice di quel regresso vi fu la crisi generale degli scambi, provocata dall’insicurezza delle comunicazione, dalla riduzione demografica delle città e dall’impoverimento conseguente alle depredazioni. Nei regni romano-germanici la coniazione delle monete continuò ma si limitò alle diminuite esigenze commerciali. La moneta d’oro era spesso di provenienza bizantina, e più tardi musulmana. Il definitivo prevalere della moneta d’argento su quella d’oro in età carolingia può essere stato in armonia con un certo rianimarsi del commercio locale, ma la circolazione fu sempre modesta. Il re e la regina con i loro seguiti armati si spostavano da una parte all’altra del regno non solo per far sentire più direttamente la realtà del potere ma anche per garantirsi quel mantenimento che non poteva essere assicurato da grandi cespiti espressi in moneta. La stessa mobilità caratterizzava anche i governatori territoriali: i conti, i duchi e i marchesi si spostavano con la medesima logica della corte regia. Fu per molti secoli l’età dei re itineranti: il mantenimento era assicurato sul vasto patrimonio fondiario del fisco, sparso attraverso tutto il regno. Il diritto all’albergaria, alloggio e mantenimento,spettava ai governatori, ai loro rappresentanti e ai seguiti armati. In questo quadro dobbiamo collocare anche l’esigenza di rimunerare con il godimento di beni fondiari le clientele vassallatiche dei prelati, dei laici e del re. Avvenne Athena95@2022 Carolingi avevano alcune residenze preferite, come Aquisgrana o Pavia: ma anche in queste città, la dimora del re era infinitamente lontana dal modello di Costantinopoli. La rinascita culturale d’età Carolingia non ebbe un impianto politico e urbano sufficiente ad alimentarla. Si appoggiò alle istituzioni ecclesiastiche, per lo più monasteri. Tuttavia la sua importanza è fondamentale nella storia dell’Occidente: essa fu timida e discreta ma molto ben radicata. La prima fase della rinascita, dall’avvento al trono di Pipino il breve fino alla scomparsa di Carlo Magno, fu soprattutto un insistente richiamo politico a chierici e monaci perchè riacquistassero l’uso di un latino chiaro e corretto. Questo ammonimento rispondeva a due esigenze diverse: - vi era un diretto interesse della corte carolingia a un funzionamento politico meglio sostenuto da un minimo di cultura dei personaggi di corte e dei vescovi che inquadravano le popolazioni; - occorreva la capacità di redigere norme e di emanare ordini scritti o di interpretare gli ordini ricevuti. Chierici e monaci rappresentavano la miglior garanzia di comunicazione esatta, mediante lo scritto e una meditata consultazione, fra organi centrali e periferici del potere politico-militare. Ma in quel ricorrente invito all’istruzione di chierici e monaci vi era però anche una ragione che riguarda l’orientamento riformatore della chiesa franca: il simbolismo liturgico doveva essere compreso nei suoi significati concettuali, la lettura dei testi sacri doveva essere accompagnata da un’interpretazione letterale e simbolica esatta. Per questo scrupolo di fedeltà intellettuale alle parole tramandate nei testi sacri e patristici si voleva la rinascita degli studi grammaticali e retorici. La rinascita fu lentissima per la difficoltà di istituire presso cattedrali vescovili e abbazie le scuole capaci di trasformare in luoghi di più complessa cultura gli scriptoria già esistenti, quei centri di scrittura di codici che si erano formati presso gli enti religiosi per le loro necessità immediate. Le nuove esigenze di chiarezza alimentarono anche la trasformazione graduale delle grafie in una grafia più limpida, che i paleografi denominarono ‘’carolina’’. Sulla rinascita degli studi grammaticali e retorici ebbe un peso determinante l’azione svolta come consigliere di Carlo Magno dal diacono Alcuino. Eminente fu la figura di Paolo Diacono: di nobile famiglia longobarda del Friuli è la migliore testimonianza del risveglio culturale delineatosi in Langobardia fin dall’età del re Liutprando. Fattosi monaco, si trasferì a Montecassino. Furono i molteplici meriti letterari di Paolo che indussero Carlo Magno a perdonare il fratello di lui, ribellatosi alla dominazione franca, e ad accogliere Paolo in corte regia. Dopo qualche anno tornò a Montecassino dove compose la famosa HISTORIA LANGOBARDORUM. Nè mancò un poeta visigoto, l’esule Athena95@2022 Teodulfo, a cui fu assegnato il vescovato d’Orleans. La corte di Carlo fu centro di raccordo fra tutte le aree culturali dell’Occidente cristiano: attrasse i personaggi di maggiore prestigio nella cultura ecclesiastica di lingua latina e potè diventare un centro di propulsione della cultura ecclesiastica. I grammatici che convenivano intorno a re Carlo non lavoravano soltanto per l’unità politico-religiosa del mondo franco: aspiravano alla creazione di un linguaggio culturale comune in cui inserire le proprie ambizioni di letterati. Lo studio della retorica conferiva efficacia e procurava pubblico, rappresentava un invito a tornare a Virgilio e Ovidio, Cicerone e Seneca, maestri nell’arte della composizione nonostante tutte le deprecazioni contro il paganesimo, che invitavano ad avere orizzonti più vasti di quelli definiti dall’ideologia teocratica del potere politico. E anche là dove i grammatici si ponevano al servizio di un testo religioso il loro lavoro non era un omaggio reso all’autorità di una tradizione venerata ma era un impegno critico vissuto nel valore suo proprio in cui si tentava un confronto filologico tra le divergenti redazioni attestate. Chierici e monaci si occuparono di conservare e recuperare i bisogni intellettuali ed estetici, attitudini critiche. Scomparso Carlo Magno, la rinascita degli studi continuò il suo svolgimento e raggiunse il suo più alto livello proprio nell’età più tormentata: quella di Carlo il Calvo, il principe che mostrò maggiore larghezza di interessi culturali. Egli era stato educato con cura particolare da un poeta-teologo molto famoso: Valafrido Strasbone proveniente da Fulda, la grande abbazia nell’Austrasia fràncone. Carlo il Calvo ebbe alla sua corte itinerante i personaggi più notevoli per ingegno e cultura: il più acuto tra i filologi fu il monaco Lupo, e il pensatore più originale del IX secolo, Giovanni Scoto Eriugena, conoscitore del greco e della filosofia platonica e neoplatonica. La fine dell’impero carolingio rappresentò indubbiamente una crisi del mecenatismo politico. Ma proprio allora si mostrò l’importanza che la rinascita si fosse effettuata in accordo continuo con una larga base monastica e vescovile e avesse prodotto una moltiplicazione di biblioteche e scuole presso cattedrali e abbazie: l’epicentro fu la scuola monastica di Corbie e quella episcopale di Laon (leggi lan), le scuole di Fulda e S. Gallo, e quella di Lione. La vastità dell’impianto culturale ne garantiva la sopravvivenza e confortava quella circolazione di idee che aveva reso possibile il confluire intorno ai Carolingi di esperienze anglosassoni e irlandesi, visigote e italiane etc. Questa circolazione di uomini e di idee riuscì efficace nella misura in cui le istituzioni ecclesiastiche funzionarono correttamente e il prestigio che la cultura venne acquistando contribuì alla promozione di personaggi di tutto decoro nel governo degli enti religiosi. Quel bisogno di ordine che aveva ispirato la riforma del tempo di Bonifacio continuò a operare anche in età carolingia. I canoni conciliatori (deliberazioni di concili convocati dal potere Athena95@2022 regio) e i capitolari carolingi tornarono sempre con insistenza sulla disciplina ecclesiastica. Nella normativa ecclesiastica assunsero particolare rilievo alcuni concili convocati da Ludovico il Pio ad Aquisgrana per ammonire i chierici officianti le chiese vescovili a dimorare come canonici (chierici che vivono secondo una serie di norme ecclesiastiche o intorno a un vescovo o in comunità a se stanti) in chiostri destinati alla vita in comune. La riforma monastica ebbe come massimo protagonista Benedetto abate di Aniane, un membro dell’aristocrazia visigota vissuto alla corte di Pipino il Breve e Carlo Magno e poi fattosi monaco e fondatore di cenobi. Al tempo di Carlo propagò la regola di san Benedetto e ne promosse l’accettazione in tutto l’impero. L’uso carolingio delle strutture ecclesiastiche a fini di ordine sociale e politico si tradusse, all’epoca di Ludovico il Pio, in un tale impegno di sviluppo ecclesiastico da ridurre sensibilmente l’autonomia stessa del potere imperiale. L’impero sembrò trasformarsi in un’organizzazione di episcopi e abbazie sorretta dal prestigio culturale degli uomini di chiesa più illustri e protetta militarmente dai carolingi. Di qui l’esigenza ecclesiastica di un funzionamento normale del potere regio e l’adoperarsi dell’episcopato per ristabilire la concordia nei contrasti fra i Carolingi. In questa compenetrazione fra il regnum e il sacerdotium il momento innovatore sta nella crescita intellettuale dell’episcopato e nello sviluppo degli studi monastici: ciò soprattutto per la storia delle istituzioni e del funzionamento sociale. NEL IX SECOLO SI PRESENTA UNA SITUAZIONE CHE RICORDA LA FINE DEL VI, QUANDO IN GALLIA L’EGEMONIA ECCLESIASTICA ERA TUTT’UNO CON UNA INDISCUSSA SUPREMAZIA CULTURALE. Ma allora si trattava di un episcopato e di un monachesimo di tradizione tardo-antica, mentre in età carolingia le gerarchie religiose si reclutano dall’aristocrazia militare. La situazione è colma di contraddizioni. Da un lato la riflessione sulle strutture del potere suggerisce un riordinamento fondato su un’accentuata centralità regia: il re, vicario di Dio, esercita il potere coattivo in tutta la sfera delle relazioni umano, disciplinando le chiese non meno che i nuclei militari e le popolazioni civili, pur se, come si legge in un capitolare ludoviciano dell’825, con una continua attenzione all’insegnamento episcopale. Ma l’autocoscienza dell’episcopato come istituzione affonda le sue radici in una tradizione sua propria, e ricorda un’autonomia che già in età tardo-antica era stata rivendicata in più circostanze. Papa Gelasio I, alla fine del secolo V, affermò la dualità dei poteri che reggono il mondo, l’autorità episcopale e il potere regio e affermò che l’una non dovesse implicarsi nelle cose del secolo e l’altra in quelle divine. Athena95@2022 come centri emergenti della convergenza di fortificazioni, sedi episcopali e empori commerciali. Ma il lento formarsi di nuovi centri urbani non poteva ancora incidere sensibilmente sulla stratificazione economico-sociale dell’impero. L’ampiezza di questa base fondiaria creava ai signori problemi di gestione economica. Non si trattava infatti di smisurati latifondi compatti, bensì di un’immensa quantità di poderi e di incolti disseminati attraverso territori vastissimi. Le aree erano lontane tra loro come esito dei matrimoni, delle acquisizioni private nelle province. Soprattutto dispersa era la proprietà delle chiese, procedente da elargizioni regie o signorili ma anche da donazioni molto minori che staccavano i poderi da complessi fondiari signorili. Si aggiunga la scarsa attitudine delle nuove aristocrazie a occuparsi dell’amministrazione patrimoniale con la diligenza usata dagli antichi latifondisti nel controllare i propri redditi: i nuovi potenti non avevano neanche familiarità con lo scritto. Inoltre il reddito di un grande patrimonio si traduceva solo in piccola parte in ricchezza disponibile in moneta per le esigenze dei suoi proprietari. Anche il grande proprietario privato era indotto a spostarsi di zona in zona per vivere sui suoi complessi fondiari. A questo riguardo gli enti religiosi venivano a trovarsi in condizione difficile, donde la necessità per le grandi abbazie di organizzare gravosi servizi di trasporto dei prodotti di aziende agrarie lontane. Sistemi rudimentali di gestione e di prelevamento, dove gli agenti addetti alla vigilanza erano tratti dal ceto stesso contadino, non garantivano un rendimento proporzionato alla vastità del patrimonio. LA DISPERSIONE GEOGRAFICA DEI BENI CONDUCEVA AD UNA DISPERSIONE ALTRETTANTO GRANDE DEI REDDITI. Era difficile anche evitare che i contadini si scambiassero con altri, o che vendessero terre appartenenti al padrone, o che tenessero dei prodotti in modo da garantire a se stessi una meno precaria sopravvivenza. L’immenso numero di beni posseduti dai grandi proprietari consentiva l’accumulo di abbondanti provviste nei magazzini signorili, ma questi periodicamente si svuotavano sia per le visite regie sia per le ricorrenti carestie, durante le quali i signori attingevano alle riserve per salvare loro stessi e anche la folla dei contadini affamati. L’amministrazione della grande proprietà agraria rispondeva prevalentemente ai criteri di un’economia di consumo, per le esigenze della sopravvivenza e del lusso signorile. Le difficoltà delle grandi gestioni patrimoniali erano già emerse in età antica. Ogni villa era divisa in due parti: - riserva padronale, direttamente gestita e molto estesa; - poderi minori, coltivati da singole famiglie contadine in gestione autonoma. Athena95@2022 VEDI CARTINA Ciò si ritrova per tutto l’alto medioevo come divisione della villa o curtis fra il domincium, gestito dal villicus scelto dal dominus, e il massaricium, sorvegliato dal villicus ma costituito dai poderi, o mansi, gestiti dai massari e dalle loro famiglie. Le due parti non devono essere immaginate come compatte, ma variamente distribuite in villaggi diversi del latifondo, che era discontinuo. Il sistema curtense appare perfezionato dall’obbligo dei massari di non limitarsi a portare il censo annuale in natura, ma anche di recarsi periodicamente nella riserva padronale alcuni giorni della settimana a prestare la propria opera come integrazione del lavoro agricolo che gli schiavi vi effettuavano (corvarie o corvèes). Il manso concesso in godimento al massaro si configurava come rimunerazione per la periodica collaborazione che egli dava con qualche altro membro della sua famiglia. Quando lavorava sul dominico era mantenuto su di esso, ma negli altri giorni si manteneva da sè nel suo manso con la sua famiglia. Il sistema curtense era il risultato di un equilibrio raggiunto nella gestione delle aziende agrarie fiscali e signorili dopo una serie di sperimentazioni tra i grandi proprietari fondiari. Ma era un equilibrio precario per il dinamismo dei patrimoni fondiari. Ogni volta che oggetto di un trasferimento a un erede o a un acquirente non era l’intera curtis ma solo uno o più mansi, la corte stessa a cui erano stati staccati i mansi doveva ricostruire il proprio equilibrio interno. Ancora più gravi erano le conseguenze di una divisione per equità verso gli eredi. La mobilità del patrimonio finì per far spostare l’interesse del proprietario verso il massaricio, che non richiedeva le cure necessarie al funzionamento della riserva: tra i vantaggi procurati dal massaricio andò emergendo quello procurato dal pagamento del censo, e andò declinando quello delle prestazioni d’opera. Così si può spiegare come, in età carolingia, già si vedevano nel massaricio non pochi massari di condizione servile: testimonianza di un avvenuto spostamento di mano d’opera dal dominico al massaricio. —> questo spostamento ebbe conseguenze giuridico-sociali di grande rilievo. I servi del massaricio tendevano ad assimilarsi agli altri massari. L’assimilazione però avvenne in maniera graduale. In un primo tempo il servo immesso nel massaricio fu gravato di oneri superiori a quelli degli altri massari, perchè le prestazioni gli erano richieste ad arbitrio del padrone, cioè senza quelle esatte determinazioni numeriche di giorni o di settimane di lavoro che erano nei contratti dei massari di condizione libera. Di qui, nei polittici, la distinzione tra: 1. MANSI SERVILI; 2. MANSI INGENUILI (affidati originariamente a persone libere). Originariamente: dai polittici risulta che ben presto la denominazione servile rimase inerente al singolo manso anche quando questo passò da un servo a Athena95@2022 un libero. Si trascurava proprio quella condizione giuridica personale che aveva dato origine alla denominazione del podere. Pur nell’eventualità che diventasse titolare di un manso ingenuile, rimaneva comunque servo per la sua persona: era alla mercè dell’arbitrio padronale se voleva sposarsi e avere figli. Comunque quel primo grado di avvicinamento nelle condizioni di lavoro al massaro libero fu il primo passo per un’evoluzione secolare ulteriore che sfociò dopo il Mille nella formazione di un ceto rurale di non liberi in cui si confondevano i discendenti degli antichi servizi con molti dei discendenti dei massari liberi. CAP. 4 I PRODROMI DEL DINAMISMO EUROPEO NELLA PLURALIZZAZIONE POSTCAROLINGIA DEI POTERI La formazione dell’impero arabo e dell’impero dei Franchi ebbe risultati molto diversi nella fisionomia delle regioni e delle popolazioni che entrarono a costituirli. L’impero arabo non modificò sostanzialmente le forme di vita collettiva delle regioni occupate. L’espansione franca invece incise profondamente sull’assetto delle popolazioni germaniche nell’Europa centrale, sia inquadrandole tutte nel regno teutonico e nelle sue stabili articolazioni ecclesiastiche, sia provocando un regresso della foresta a vantaggio di meno labili forme di agricoltura. Rappresentò un allargamento dell’area europea dei sedentari. Questo non aiutò a risolvere il problema dei rapporti con i seminomadi e nomadi in Europa. Tutt’intorno all’impero dei Franchi la minaccia delle popolazioni instabili non solo persisteva, ma fra i secoli IX e X andò crescendo. Le incursioni furono indipendenti fra loro e la simultaneità delle invasioni fu assolutamente casuale. L’irradiazione dei Vichinghi dalla Scandinavia ebbe un antefatto nella fitta successione dei movimenti germanici precedenti in età anteriori dal nord, ma si trasformò in una nuova diaspora di pirati nel corso del VIII secolo proprio quando la conquista araba giungeva alla sua massima estensione e stava per alimentare una lunga pirateria nel Mediterraneo, quando anche i Bulgari sviluppavano la loro dominazione politica nella penisola balcanica e si allargavano verso il regno dei Franchi. ETIMOLOGIA ‘’VICHINGHI’’ e ‘’VAREGHI’’: 1. Vik —> (baia), provenienti dai fiordi Scandinavi; 2. Var —> (giuramento) per il legame pattizio interno ai gruppi; 3. Rus —> (remiganti). Quando sopravvennero gli Unni a sconvolgere per quasi un secolo il mondo germanico, in parte dominandolo, in parte spingendolo verso Occidente, anche l’espansione slava cominciò a modificare la sua principale direzione: Athena95@2022 territoriale nell’Europa orientale. In questa molteplice attività di una Russia nascente, si intensificò via via l’influenza commerciale, culturale e religiosa di Bisanzio, destinata ad orientare l’avventuroso dinamismo varego verso un assetto civilmente e politicamente più stabile. 4.2 Bisogna tenere presente l’incidenza che le profonde incursioni vichinghe, saracene e magiare ebbero sull’instabilità strutturale del mondo franco. Ne abbiamo testimonianza già nella legislazione dell’ultima età carolingia. Un capitolare emanato nell’864 da Carlo il Calvo ordina che siano disfatti i ripari costruiti senza sua autorizzazione, e ciò perchè i signori li usano per farne punti di forza e di partenza in azioni di rapina contro i vicini. Questi castelli improvvisati erano la spontanea reazione dei grandi proprietari terrieri, per lo più forniti di uomini armati, all’insufficienza dei poteri pubblici nella difesa territoriale contro le scorrerie vichinghe, dilaganti in Gallia in quegli anni. Il re invece voleva impedire che i ripari di iniziativa privata permanessero anche a incursioni avvenute, come strumento di locale predominio politico-militare. Di fronte all’aggravarsi delle scorrerie il potere regio cessò di opporsi alla permanenza delle fortificazioni in mano signorile. Anzi, promosse il passaggio permanente di certe responsabilità militari in mano diverse da quelle dei suoi rappresentanti. In un diploma concesso da Carlo il Grosso al vescovo di Langres si legge che l’imperatore decreta che il vescovo disponga liberamente delle mura. Nè ciò avvenne solo nelle città. Nel 906 il re d’Italia Berengario I autorizza un diacono come possessore privato a costruire, per riparo dagli Ungari, un castello nel Veronese, con torri, merli e fossati, precisando ‘’e possegga il tutto in piena proprietà’’. Talvolta i destinatari dell’autorizzazione regia non sono i singoli proprietari privati o enti ecclesiastici, ma intere collettività, come risulta da un diploma di Berengario I del 911, dove il re permette a ventinove maggiorenti del Novarese, nominativamente indicati, di costruire una fortezza su una loro proprietà a difesa degli Ungari e dai mali Christiani (le fortificazioni private erano giustificate non soltanto contro le scorrerie, ma anche contro il turbamento della sicurezza locale). CON L’OSTILITA’ O CON IL FAVORE DEL RE, FORTEZZE NUOVE ENTRARONO NELLA LIBERA PROPRIETA’ DI SIGNORI LAICI, DI CHIESE E DI COLLETTIVITA’, QUASI FOSSERO UN BENE PRIVATO. CIO’ AVVENNE NONOSTANTE LO SCHIETTO CARATTERE PUBBLICO DELLA FUNZIONE DI UNA FORTEZZA. Il detentore di una fortezza, disponendo di clientele vassallatiche o armando squadre di famuli, finiva per esercitare sul territorio protetto dalla fortezza un tipo di prevalenza sostitutivo di quello spettante agli ufficiali pubblici. Ma la proliferazione delle fortezze non fu soltanto iniziativa di privati e di chiese. In Germania anzi, fu assai spesso iniziativa diretta del potere regio Athena95@2022 contro l’intensificarsi delle aggressioni ungare nella prima metà del X secolo. Queste fortificazioni divennero non di rado nuclei embrionali di future città in regioni che ancora non conoscevano centri urbani. Il conte, o altro governatore, affidava ad ogni singola fortezza a un custode, scegliendolo per lo più fra i propri vassalli, non di rado fra quelli più ricchi: lo poneva a capo di un nucleo di armati e lo remunerava con un beneficio di natura fondiaria. Il conte operava secondo l’esempio dato dal re nei rapporti con i propri ufficiali. Ma come il conte, si radicava in essa patrimonialmente e questo rendeva difficile al re il trasferimento del governo provinciale a persona estranea alla famiglia del defunto, così avveniva che il custode insediato in una fortezza tendesse a farne il fulcro della potenza economica della sua famiglia. Nei cronisti francesi abbiamo testimonianze numerose dell’importanza assunta dalle fortezze di origine comitale nelle lotte interne all’aristocrazia provinciale. Non solo i regni usciti dal quadro carolingio tendevano a disgregarsi in territori comitali, marchionali o ducali, ma ogni comitato o marca rischiava di sciogliersi in una pluralità di castellanie autonome. E anche là dove il governatore provinciale riuscì a mantenere la propria supremazia territoriale, non pochi fra i custodi delle fortezze divennero dinasti, considerando come beneficio ereditario non solo la remunerazione vassallatica ma la fortezza stessa con i suoi poteri militari. Non dissimile dal funzionamento dei castelli comitali, marchionali e ducali fu quello delle fortezze erette in numero crescente dai vescovi potenti, a protezione del vasto patrimonio delle loro chiese. Anche gli abati dei monasteri più famosi, primo fra tutti per influenza religiosa quello del monastero di CLUNY, fondato nel 910 in Borgogna, che disponevano di ricchezze fondiarie sparse attraverso molte regioni. Anche i castelli vescovili e abbaziali erano spesso affidati a custodi che poi finirono per divenire dinasti. Le scorrerie barbariche non fecero altro che provocare uno sviluppo di quelle tendenze all’autonomia che erano insite nella potenza fondiaria dell’aristocrazia militare e ecclesiastica. Cessate le grandi scorrerie, i castelli nella maggior parte dei casi rimasero: anzi, continuarono a moltiplicarsi. La figura giuridica e la posizione politica di queste fortezze furono variamente ambigue e plurivalenti. Le fortezze dei grandi dinasti apparivano per un verso come interne o connesse al tradizionale ordinamento pubblico regio, per altro verso come elementi di potenza patrimoniale di quelle stesse famiglie dinastiche: elementi di natura beneficiaria ma sostanzialmente a tendenza ereditaria. Le fortezze delle chiese potenti erano considerate come parte integrante di un patrimonio allodiale sacro e intangibile: ma la complessa potenza ecclesiastica era tuttavia subordinata al controllo del re e pertanto le fortezze dei prelati dovevano aprirsi anche alle esigenze dei poteri territoriali Athena95@2022 supremi. Esse inoltre divennero strumento di un potere signorile locale, come avvenne per certi custodi di fortezze comitali, marchionali e talvolta anche regie. Non deve sorprendere che fin dall’età carolingia, non solo beni e castelli ma anche poteri, fossero trasmessi dal regno ad alleati ecclesiastici e laici in forma di allodio, cioè di piena proprietà. E’ un tipo di concessione diverso dalla delega funzionariale e anche dalla concessione beneficiaria-feudale. Nella ricerca degli ultimi decenni è stata ridimensionata la funzione tutta difensiva dei castra, per valorizzarne piuttosto la componente di progetto dei poteri locali. L’incastellamento dei secoli IX-XI tende a comporre insieme tutela della produzione agraria e potenzialità signorili: ciò spiega perchè riescano a durare nel tempo i castra che possono contare su terre fertili circostanti, mentre sono abbandonati quelli costruiti per esigenze difensive in terreni impervi. Le famiglie di custodi del castello per farsi obbedire insistono sull’origine pubblica dei loro castelli, dall’altro ne valorizzano il controllo dinastico da generazioni, presentandoli come privati e di famiglia. Questi nuovi distretti di qualità signorile e non circoscrizionale-pubblica sono definite ‘’contee’’ e ‘’marchesati’’ per distinguerli dalle vere precedenti circoscrizioni: comitati e marche. Al di sopra sovrintendevano i re, era re in prima persona l’imperatore: la corona imperiale spettava al re d’Italia perchè era quest’ultimo ad avere la responsabilità della protezione della Chiesa di Roma. Il quadro complessivo europeo risultava estremamente intricato e non era affatto militarmente stabile. La ragione di ciò era bellica. I castelli infatti avevano un primario significato difensivo, ma quando appartenevano a signori di forte tradizione militare, diventavano capisaldi di dominazioni pericolosamente dinamiche. Spesso accadeva che alcuni conti intraprendenti si allargassero militarmente al di là dei confini del loro comitato originario, in luoghi dove interessi patrimoniali della famiglia comitale suggerissero la costruzione di altre fortezze e la distruzione di quelle delle dinastie rivali. Al gioco militare si aggiunse quello dei rapporti giuridici personali, normalmente espressi mediante l’istituto vassallatico-beneficiario: le dinastie più dinamiche si collegavano con il potere regio per riceverne il governo di qualche provincia, per altro verso assumevano obblighi di vassallaggio verso importanti sedi ecclesiastiche, per conseguire la custodia di qualche loro castello, cosa che di fatto allargava la sfera di controllo militare e implicava concessioni di fondi in beneficio. Il risultato di questo processo dissociativo dei regni postcarolingi fu assai vario: entro il regno di Francia si formarono alcuni principati potenti: la contea di Fiandra, il ducato di Normandia, la contea di Bretagna, la contea di Angiò, la contea di Champagne, il ducato di Borgogna, il ducato di Aquitania, la contea di Tolosa. Athena95@2022 Borgogna e di Provenza, riunitisi in un unico regno di Borgogna, conquistato cent’anni dopo dai re tedeschi. I confini delle circoscrizioni in cui si articolavano i regni postcarolingi, perdevano stabilità e diventavano limiti provvisori di potenze politiche in divenire continuo, anzichè demarcazione di semplici distretti amministrativi. Il confine tra il regno di Francia e i regni di Germania e Borgogna rimase formalmente il limite tra il regno dei Franchi e i regni contigui. Qualcosa di simile avvenne anche fra i regni d’Inghilterra e Francia, ma ciò per effetto della conquista del regno inglese operata dal duca di Normandia. Riguardo al regno d’Italia, la nozione di un confine che la distinguesse dai regni di Germania e di Borgogna sopravvisse. Ma la formazione nel secolo XI di un principato a cavallo dei confini tra Italia e Borgogna dimostra quanto ormai divenisse teorico il confine del regno italico: non bastava ad impedire che i grandi dominatori di qua delle Alpi partecipassero alle elezioni tedesche del re. 4.3 Abbiamo considerato la moltiplicazione delle fortezze in una prospettiva di crisi dell’ordinamento pubblico di tradizione carolingia: cioè come sintomo e causa della trasformazione di ogni regno in una pluralità di aree autonome, militarmente controllate dai personaggi più diversi, mediante rapporti di natura vassallatica o per mezzo di giuramenti di fedeltà personale. Ma dobbiamo tentare di cogliere queste varie aree di preponderanza nel loro funzionamento rispetto alle popolazioni in esse inquadrate, cioè come tale funzionamento si rivela nella documentazione a noi pervenuta. Ogni area di protezione, che oggi diremmo politica, presupponeva una forza militare stabile, stretta intorno a un capo o a un ente. L’apprestamento di una fortificazione era il segno visibile della presenza di un nucleo armato. Ma la singola fortificazione non aveva all’inizio un’area dipendente ben definita oltre quella che la costruzione stessa occupava. Una tale area si andò formando nel tempo, in un processo spontaneo. Non ci fu mai un’esatta coincidenza fra il possesso fondiario del signore nella zona e l’area protetta, poichè i fondi signorili raramente costituivano un’area compatta mentre la protezione riguardava il territorio circostante. Se quindi una corte era presente con il suo dominicum e con il suo massaricium in più villaggi, talvolta neppure contigui, l’area protetta dalla fortezza si definiva in modo autonomo rispetto alla configurazione topografica della corte. Da ciò conseguiva che una famiglia di contadini avente in gestione un manso di una corte signorile potesse dipendere da due signori diversi: uno come proprietario dei fondi, l’altro come signore della fortezza nella cui area di protezione il manso si trovava. Athena95@2022 Gli studiosi distinguono: 1. SIGNORIA FONDIARIA; 2. SIGNORIA TERRITORIALMENTE LOCALE (o signoria di banno, da ‘’ban’’ = ‘’districtus’’ usato per indicare il diritto di comandare per una finalità di ordine pubblico. In età postcarolingia questo banno fu applicato al potere di un qualunque signore che esercitasse sui residenti una protezione coercitiva). Il concetto di banno implicava la sottomissione di uomini giuridicamente liberi: o anche di servi in virtù della loro residenza del servo in area protetta da un dato signore. Vi erano tre tipi di poteri signorili: a. i diritti a censi e prestazioni; b. i poteri connessi con la protezione di un territorio; c. i poteri inerenti al vincolo personale di un signore con i suoi servi e clienti, cioè con la sua familia (l’insieme dei suoi famuli in senso lato). In un diploma di Ottone III del 987 si legge ‘’omnis familia servilis et ingenua’’ con riferimento a due monasteri in cui il re assume la protezione insieme con quella della loro famiglia. Con ingenua si intende libera e sono ingenuili i mansi coltivati da liberi che non hanno gravami accessori che incombono sui servi. Una dipendenza di natura economico-agraria prolungata per più generazioni finiva per incrinare la libertà personale del subordinato introducendolo nella familia signorile, spesso tra i famuli giuridicamente liberi, di condizione semiservile o servile, nella quale il diritto di disporre di se stessi e dei propri figli era gravemente limitato. Ciò tendeva a far sfumare la distinzione fra dipendenza per ragioni economico-fondiarie e subordinazione per vincolo personale. Altro poi interveniva a sfumare la distinzione fra dipendenza fondiaria e dipendenza bannale. I poteri di banno non erano sempre connessi con la definizione di un territorio compatto: ogni grande signore fondiario tendeva ad intensificare i propri diritti sui coltivatori, sviluppando poteri di protezione armata, specialmente quando avesse ottenuto, nel caso delle chiese potenti, un diploma di immunità negativa (gli ufficiali regi non potevano nelle terre immuni. Quella positiva è quando l’immunista era titolare in prima persona della possibilità di amministrare la giustizia e riscuotere le imposte). In tali casi poteva nascere una concorrenza fra il grande signore fondiario coperto dall’immunità e il signore che in quella zona costruiva una signoria territoriale grazie all’incastellamento. Se il banno era un potere di comando a protezione di collettività residenti in un territorio, l’esplicazione del banno signorile doveva necessariamente condurre alla formazione di innumerevoli sfere di potere non soltanto militare, ma anche giurisdizionale. Il Athena95@2022 regno nato dalla conquista germanica aveva assunto nella persona del re e dei suoi delegati la funzione della giustizia e aveva sviluppato forme di sfruttamento giustificate con l’esigenza dell’attività pubblica: multe, confische, dazi. Analogamente avvenne che dopo l’età carolingia il signore di una fortezza, per costruirla e mantenerla efficiente, si valesse del lavoro degli uomini residenti nella zona e finisse per imporre la prestazione d’opera come un corrispettivo permanente per la protezione: ecco un tipo di corvèe del tutto diverso perchè di natura bannale, e non più agricolo. La fortezza esigeva anche un servizio di guardia, e anche questo finì per essere imposto a turno a tutti i residenti della zona, i quali potevano essere chiamati a contribuire alla difesa come pedites, fanti di appoggio al nucleo armato di vassalli operanti come milites, pesantemente armati e a cavallo, e da altri uomini di masnada. Questo gruppo armato permanente consentiva non solo azioni militari vere e proprie ma anche l’esplicazione di una funzione di polizia per la repressione dei crimini: di qui la consuetudine che i procedimenti giudiziari si svolgessero non in un placito di ufficiali delle province, ma in un’adunanza di fedeli del signore locale presieduta dal signore locale, detta anch’essa placito, assistito da esperti del diritto che dovevano poi formulare la sentenza del signore. Questo avvenne anche per le cause civili, riguardanti le controversie patrimoniali perchè anch’esse esigevano quella forza armata di cui il signore poteva disporre. Anche i profitti della giustizia così esercitata spettarono ai signori, i quali inoltre mirarono ad appropriarsi dei dazi e pedaggi e altre simili imposte indirette di origine pubblica. Come ebbe modo di constatare Canuto il Grande, che nel 1027, in occasione dell’incoronazione romana di Corrado II, espose ai principi le lagnanze dei pellegrini e dei mercanti suoi sudditi. I signori locali si procurarono altri proventi con iniziative nuove: la costruzione di mulini, forni, frantoi, con relativo pagamento di tasse. Finalmente si giunse fra i secoli XI e XII, all’esazione di vere e proprie imposte dirette, sotto il nome di TAGLIA, prima in natura poi in denaro. Il sistema antico di annuali imposte dirette entrato in crisi nel VII secolo, si rigenerò attorno al 1100, in concomitanza con la ripresa di un’economia monetaria e in concomitanza, in Italia, con la tendenza delle città comunali a imporre nel territorio dipendente una tassa diretta, detta fodrum rusticale. L’esercizio appunto di questo crescente complesso di diritto bannali sui residenti trovò spesso resistenza in quei grandi signori fondiari che nel territorio di tale signoria possedevano qualche fondo ma non la fortezza e tuttavia esercitavano sui loro contadini una protezione analoga a quella di chi incastellava. —> ne nacquero conflitti che per lo più tendevano a chiudersi con soluzioni di compromesso con ripartizione dei poteri giurisdizionali e delle esazioni. Si produceva in tal modo all’interno del frazionamento territoriale, una più grave disintegrazione di un potere a finalità pubbliche. La disintegrazione poi si complicava ulteriormente Athena95@2022 dove la forza signorile di coazione ha un raggio d’azione troppo limitato: il servo in fuga da un territorio all’altro può trarre profitto dalla concorrenza fra i vari signori e dal loro bisogno di braccia lavorative. La popolazione rurale assume infine coscienza della possibilità di resistere anche mediante una pressione sul potere locale. Ciò è in Italia documentato a Nonantola (nel modenese) dove l’abate, signore delle località, promette che la giustizia non sarà più esercitata con violenza arbitraria, e conferma al suo popolo i diritti goduti nelle successioni dei beni e dell’incolto. Significativa è la disposizione finale, che prevede penalità in caso di inadempienza sia dei sudditi che del signore. Fu la convergenza dei residenti in una stessa località nella difesa delle loro condizioni di vita che contribuì a stingere il cupo colore giuridico della schiavitù, creando in molte regioni un ceto di coltivatori della terra che si continuò a dire servile sotto certi aspetti, ma che spesso confuse in una medesima condizione giuridicamente non libera ancora giuridicamente ma lontana dalle coercizioni della schiavitù, gran parte dei discendenti di schiavi e di liberi. 4.4 La trasformazione dell’ordinamento pubblico in un viluppo di dominazioni territoriali non spense affatto, nei singoli regni postcarolingi, la nozione di una supremazia regia implicante responsabilità generali. La persistenza fu efficace nel regno teutonico, dove le forze militari, trovavano nella mediazione ducale un approssimativo strumento di coordinazione intorno al potere regio, di fronte alle pressioni esercitate a oriente dalle popolazioni estranee alla cultura ecclesiastica. Ma il fondamento dell’ideologia regia fu sempre in quella cultura ecclesiastica che segnava i confini dell’area politica latino-germanica. Soltanto i re ricevevano una particolare consacrazione religiosa che ne ricordava la supremazia, come garanzia di pace in un piano storico provvidenziale: una funzione che è illustrata ad esempio da Aldaberone vescovo di Laon, che ormai vecchio, dedica al re di Francia Roberto il Pio, figlio di Ugo Capeto, un poema dove teorizza la casa terrena di Dio come una gerarchia sociale pacificata, articolata nei tre ordines: 1. oratores (destinati alla preghiera e predicazione); 2. bellatores (nobili chiamati a difendere il popolo e le chiese); 3. laboratores (che nulla possono procurarsi senza dolore). Una società dominata dalla virtù unificatrice del re, a cui si conviene di congiungere in sè la florida imago iuventutis e la matura sapientia. E’ la traduzione di quella ambivalenza del potere del principe che in età carolingia aveva condotto alla celebrazione della sua complessa responsabilità nel disciplinare l’intera popolazione del regno. L’efficacia del nesso ideologico fra il potere regio e l’episcopato potè tradursi in una convergenza politica abbastanza frequente, perchè gli episcopi, non potendo essere trasmessi in Athena95@2022 forma dinastica, offrivano al re larghe possibilità d’intervento nelle successioni episcopali. Pur se talvolta avveniva che la presenza di certe famiglie nelle dignità episcopali di una determinata ragione divenisse tradizionale: questo è il caso di Aldaberico (provincia di Reims). Il re interveniva nelle elezioni episcopali o procedeva lui stesso alla nomina: la scelta cadeva su personaggi almeno apparentemente sicuri e ciò induceva il re a nuova concessioni a danno degli ufficiali pubblici divenuti dinasti. Non si può tuttavia postulare sempre un disegno regio a danno delle dinastie signorili. Il re cercava alleanze OVUNQUE. In Italia, ad esempio, già dal tempo di Ottone I, il potere regio cercò di arginare la sfera di espansione della potenza temporale dei vescovi, favorendo personaggi laici fedeli con la donazione di corti e la concessione della giurisdizione comitale: da Ottone fu favorita la famiglia longobarda dei Canossa. IL GIOCO POLITICO ERA MOLTO SERRATO FRA IL RE, LE FAMIGLIE POTENTI E I VESCOVI. Che gli enti ecclesiastici vi partecipassero volenterosamente si può spiegare quando si consideri la forza che privilegiava quegli enti e ne sollecitava il dinamismo: una capacità di organizzazione che investiva anche la sfera economica. Di qui la contraddizione apparente fra le prospettive in cui gli studiosi collocano la presenza e l’efficienza delle chiese in età postcarolingia: 1. chi le rappresenta sotto il dominio dei laici; 2. chi ne addita i progressi squisitamente politici, preannuncio delle concezioni ierocratiche emergenti nel movimento riformatore dell’XI secolo. L’accrescimento del loro peso politico era tutt’uno con il loro coinvolgimento sempre più immediato nelle dissociazioni e riassociazioni dei poteri di coercizione militare e giurisdizionale. Assumeva però anche l’aspetto di un asservimento totale: poichè l’aristocrazia militare promuoveva e insieme sfruttava la sfera d’azione degli enti ecclesiastici. L’importanza del vescovo nella protezione civile e militare della città si può far risalire alla crisi dell’impero romano nel secolo V. Più tardi, il disegno carolingio di una restaurazione religiosa e civile della cristianità occidentale condusse ad approfondire la simbiosi fra regnum e sacerdotium, ma mirò in pari tempo a distinguere l’ordinamento pubblico da quello ecclesiastico, pur sottomettendoli entrambi alla supremazia regia e impiegando i vescovi e chierici colti sia in corte regia sia nella vigilanza esercitata sui conti. Eppure fu proprio nell’età carolingia che la crescente influenza dell’episcopato e delle grandi abbazie, restaurati nelle loro strutture culturali e nella consapevolezza delle proprie responsabilità religiose, manifestarono i primi segni di quegli sviluppi che avrebbero condotto all’autonomia politica di molti enti Athena95@2022 ecclesiastici e all’incorporazione di molte città nella giurisdizione temporale dei vescovi. L’influenza di vescovi e abati sui Carolingi determinò l’espansione dell’istituto dell’immunità a profitto delle chiese importanti e delle aree facenti parte dei loro patrimoni fondiari: aree presenti nel mondo rurale ma anche nelle città. (anomalia: anche se la città non era nella sua interezza patrimonio del vescovo, era sostanzialmente tutta considerata base immunitaria del potere vescovile). Dentro le città che erano sedi di vescovo e ospitavano i monasteri influenti, nacquero aree immuni dalla giurisdizione comitale, destinate a costituire il punto di partenza per l’affermazione di una signoria temporale sull’intera città o su gran parte di essa. A ciò contribuì non di rado la concessione regia al vescovo di proventi pubblici delle città, i telonea (tasse sul trasporto delle merci e sulla vendita) e i diritti di mercato, le donazioni delle mura cittadine, l’assegnazione al vescovo del potere coercitivo (districtus) su tutta l’area cittadina. Addirittura avvenne a volte che il re gli conferisse la giurisdizione pubblica su interi comitati, nei quali la figura del conte scompariva del tutto o assumeva il carattere di un funzionario della chiesa vescovile. Se il comitato assegnato alla chiesa aveva per capoluogo la città stessa che era sede del vescovo, egli per lo più distingueva la città con le sue adiacenze, provvedendo al governo dell’una e dell’altro con funzionari diversi. FURONO VARIE LE VIE ATTRAVERSO CUI IL VESCOVO DIVENNE SIGNORE TEMPORALE in forme giuridicamente riconosciute dal re e orientate verso esatte definizioni: signore in un senso meno uniforme di quello sperimentato in età merovingia, quando anche il suo gruppo parentale traeva profitto dalla sua potenza. Ma ciò che più interessa è il divario con cui in età postcarolingia il potere temporale del vescovo fu percepito ed esercitato nelle città rispetto ai diritti signorili acquisiti nelle campagne. MONDO RURALE —> la signoria ecclesiastica o laica era troppo intrisa di rapporti con il lavoro della terra e di vincoli personali, perchè l’autorità del signore non apparisse come un potere padronale più che pubblico; CITTA’ —> Il maggiore agglomeramento e la natura più libera delle attività economiche esercitate impedivano che il signore si atteggiasse a padrone dei suoi sottoposti. Si trova un indizio di questo nei diplomi regi. In un diploma emesso da Berengario I nel 904 a favore della chiesa vescovile di Bergamo, si conferisce al vescovo la potestas su torri, mura e porte della città, ma si precisa che la restaurazione delle difese militari deve avvenire ovunque ciò apparirà necessario al vescovo e ai suoi concives. Il riferimento al concives dimostra che il vescovo appare, nella coscienza dei contemporanei, come un membro della collettività cittadina, come il ‘’primo cittadino’’ di una collettività capace di partecipare alla formazione di una volontà politica nelle deliberazioni concernenti i più vitali interessi della città. Caso di Cremona: i cremonesi, nel corso di una secolare tensione con la chiesa vescovile, dotata fin dall’età carolingia del diritto di esigere l’imposta pubblica da chi approdava Athena95@2022 4.5 4.5 La trasformazione profonda che le strutture del potere subirono nella transizione dall’alto al basso medioevo seguì in Occidente una sua logica interna: quella di un’aristocrazia militare ed ecclesiastica che, dopo qualche secolo di difficile funzionamento entro un sistema politico regio, finì col riplasmare il sistema medesimo a propria immagine, rompendo il territorio in sfere molteplici di dominazione a base fondiaria. Ma questo sviluppo potè realizzarsi solo all’interno del quadro generale di evoluzione delle condizioni di vita delle popolazioni (mondo dei laboratores). Le fonti a disposizione degli studiosi che intendono penetrare nel fondo degli strati sociali più vasti sono molto povere. La prima difficoltà è nel ricostruire l’ambiente fisico in cui i laboratores vivevano. Nessun dubbio che in Occidente le foreste fossero più estese e fitte, e i centri urbani più scarsi e più miseri. Ma quali mutamenti le migrazioni germaniche avevano determinato nel paesaggio delle regioni dominate da Roma? Una certa degradazione era già in corso in età imperiale romana, come effetto della crisi della piccola proprietà contadina dovuta all’espansione dei latifondi. Quando poi l’organizzazione romana delle opere pubbliche e la cura per le vie di comunicazione lasciarono il posto alla rozzezza delle dominazioni germaniche, la degradazione territoriale divenne generale e profonda. Foreste e paludi progredirono anche per effetto di una decadenza demografica che si aggravò per la penetrazione violenta dei nuovi dominatori e per la peste che nel VI secolo devastò la Gallia. E’ vero che le invasioni rappresentarono anche un’immissione di nuovi abitanti, ma questi erano avvezzi ad un tipo di economia in cui l’incolto aveva un posto molto grande sia per la caccia sia per l’allevamento brado dei maiali. Successivamente, quando subirono l’influenza delle tradizioni agrarie locali, anche i possessori germanici dovettero apprezzare un tipo di economia che si imperniava soprattutto sulla coltivazione: quindi la divisione in lotti delle selve dapprima godute in comune e la loro trasformazione in poderi. Intanto una maggiore sicurezza di vita consentiva una graduale ripresa demografica, stimolo all’incremento della produzione: un incremento reso possibile dall’espansione del coltivo mediante il DISSODAMENTO, destinato ad assumere, dopo il 1000, dimensioni non mai vedute nella storia europea, con un arretramento delle grandi aree forestali che mutò per sempre il volto dell’Europa centro-occidentale. E’ vero che proprio dal secolo VIII in poi ci fu nuovamente espansione dei grandi patrimoni fondiari, ma il sistema curtense e la crescente importanza del massaricium in ogni azienda signorile consentirono al contadino dipendente una libertà di gestione del podere affidatogli, non molto minore di quella di cui godeva il piccolo allodiero. Una stessa famiglia rimaneva sullo stesso podere a tempo indeterminato con Athena95@2022 livelli (contratti) per lo più rinnovati ad ogni scadenza. Lo sviluppo demografico fece si che il manso affidato ad un capofamiglia e passato ai suoi figli, dopo una generazione tendesse a frazionarsi fra i fratelli e i discendenti: una riprova del radicarsi delle famiglie contadine in terre determinate, pur quando non le possedessero in allodio (proprietà). Questa crescente responsabilità che i laboratores assumevano all’interno dei grandi patrimoni signorili si accompagnò a una capacità di iniziativa dei signori. I quali, se tendevano ad alleggerire le proprie responsabilità di conduzione diretta, intervennero d’altra parte nel promuovere spostamenti di gruppi di famiglie contadine verso centri di riordinamento agrario: villaggi in cui l’area occupata dalle dimore degli uomini e dagli orti era circondata da uno spazio incolto destinato ai seminativi, e questo era circondato da uno spazio incolto di uso comune. Questa tripartizione era tutt’altro che nuova nelle civiltà agrarie tradizionali e risaliva ad età protostoriche. Con le dominazioni germaniche sovrappostesi ai territori romani e con le posteriori scorrerie saracene, vichinghe e ungare nell’impero carolingio si accentuò la tendenza ai raggruppamenti in villaggi e alla loro collocazione in luoghi sicuri, spesso elevati e su questa spontaneità di sviluppi si innestò l’interesse dei grandi proprietari a promuovere raggruppamenti che agevolassero la formazione di spazi agrari più organici. La proliferazione delle fortificazioni fu in certe regioni anche una risposta a esigenze di organizzazione dei raggruppamenti promossi dalle iniziative signorili. Tutto ciò, se è vero per le aree di ascendenza romana, è ancora più vero per quegli spazi d’Europa centrale dove per la prima volta l’espansione dei Franchi introdusse forme di proprietà fiscale e signorile complesse ed estese. Una particolare efficacia ebbero la moltiplicazione delle comunità monastiche. Spesso fondate in aree incolte le trasformavano secondo il modello della Gallia franca, usando per il dissodamento la mano d’opera servile. Le corti fiscali, le signorie vescovili e le abbazie potenti, furono a loro volta di esempio all’aristocrazia militare di qualunque origine fosse, indigena o franca, per l’occupazione di spazi forestali fin allora considerati come terra di nessuno e per un loro sfruttamento non limitato alla caccia ma anche all’agricoltura. La trasformazione del paesaggio e dell’economia nell’Europa latino- germanica non si limitò al riordinamento agrario, all’espansione del coltivo. E’ VERO CHE L’IMPERO CAROLINGIO RAPPRESENTO’ IN MODO EMINENTE UN MONDO DI GUERRIERI, CHIERICI E MONACI E CONTADINI IN UN’ORIZZONTE DI VITA RURALE. EPPURE PROPRIO NELL’IMPERO CAROLINGIO, PERSINO NELLA GERMANIA DELLE FORESTE E DELLE RADURE COMPAIONO INDIZI DI UN POSSIBILE SVILUPPO DIVERSO. Nella stessa età delle incursioni vichinghe, manifestano la loro attività lungo le coste del Mare del Nord villaggi commerciali in cui i mercanti si spingono Athena95@2022 in tutte le direzioni: porti ed empori privi di stabilità ma destinati a sopravvivere e a diventare città. (Arras, Gand). Oggetto di questo commercio erano le pellicce del Nord, vino di Parigi, grano di Franconia, sale, armi, schiavi. Si va così preannunciando un’area destinata al più intenso sviluppo cittadino e gravitante sulla Manica e sul mare del Nord. Intanto permangono gli scambi suggeriti dai lunghissimi solchi della Loira e del Reno e dai loro affluenti, che contribuirono a tenere in vita le città antiche. Si delineano in Germania alcune vie di traffico con conseguente accrescimento dei punti d’incontro dei negotiatores. Gravi guasti subiscono dal VIII al X secolo le città della Gallia meridionale per le scorrerie saracene provenienti dalla penisola iberica. E’ NEL REGNO DEI LONGOBARDI CHE I SEGNI DI ATTIVITA’ COMMERCIALE SONO PIU’ PROMETTENTI. Qui un ceto mercantile notevole è attestato dalle norme militari di Astolfo ed è alimentato nella valle del Po dalla ricca rete delle comunicazioni fluviali e dalle relazioni con i territori di ascendenza bizantina: celebri i mercanti di Comacchio, i Veneti gravitanti sul sistema insulare di Rialto. I patti stipulati dal dux veneticorum con i Carolingi sono testimonianza non solo di autonomia politica di fronte a Bisanzio, ma anche dell’espansione del commercio fluviale e marittimo che interessa i mercati cittadini della pianura padana e le loro relazioni con i paesi dell’Adriatico, dell’Italia e dell’Oriente; un commercio dove il sale, è affiancato da merci preziose come pelli e stoffe orientali, protetto dai privilegi concessi da Bisanzio e difeso sul mare da una flotta veneta armata. E’ interessante constatare che dal IX secolo in poi il commercio sul Po non è più in mano esclusiva di mercanti provenienti dalla costa adriatica (es. cremonesi). Quanto ai mercati, ha particolare rilievo Pavia, dove le più ricche chiese monastiche e vescovili del regno si procurano case per tenervi i magazzini in cui raccogliere prodotti provenienti dalle curtes ecclesiastiche e venderli ai mercanti. Pavia si trovava presso la strada Francigena o Romea che collegava il mondo franco e anglosassone con Roma (meta dei pellegrinaggi). I mercanti non mancavano: sia forestieri, sia residenti nella città e organizzati dal potere regio. Nè mancano a Milano. Il risveglio mercantile delle città del regno diviene generale in età postcarolingia e contribuisce a spiegare come nel XI secolo le città sul Tirreno (Pisa, Genova) si impegnarono con le flotte in azioni contro i Saraceni insediati in Corsica e Sardegna. Fra le attività mercantili assumono un particolare rilievo le vecchie città del regno italico perchè trovandosi ai margini di quella labile Europa costruita dai Franchi sono in grado di sviluppare relazioni vivaci con tutto il mondo mediterraneo, a cominciare dalle città bizantine d’Italia. Oltre ai centri che si coordinano nella laguna veneta attorno a Rialto, acquistano una funzione notevole le città di Gaeta, Napoli, Amalfi: i loro mercanti frequentano Costantinopoli, Roma e Pavia e Bari (capoluogo della dominazione bizantina). Athena95@2022 d’Aniane e la sviluppò ulteriormente con sistematica lettura della Bibbia, culto di tutti i santi, dovizia di canti corali e processioni. L’anima di quella vita sovraccarica di cerimonie era nel gusto per il decoro dei libri liturgici e degli ornamenti, ed era nella volontà di realizzare una comunità perfetta per la sua interna armonia. Non ultimo ornamento della numerosa comunità di Cluny fu la cultura letteraria di non pochi suoi membri in una prospettiva di edificazione morale. Significativi sono gli scritti dell’abate Oddone, successore di Bernone, per la sua insistenza nel contrapporre alla perversità dilagante nel mondo la stirpe dei buoni e nell’individuare fra questi il più ristretto gruppo dei viri spirituales, viri perfecti (possono essere anche laici che vivono nel mondo. L’espansione di ordini che realizzavano su più sedi un’interpretazione della regola di Benedetto accentuava una tendenza alla circolazione monastica e al confronto di esperienze culturali) liberi da desideri carnali: sono i monaci che si sottopongono a una disciplina comune; e sono quei pochi che, pur vivendo nel secolo, mantengono in sè una purezza monastica (come san Geraldo). Che Oddone, dopo secoli di attenzione agiografica, abbia osato narrare vita e miracoli di un laico, ma che di questo laico abbia celebrato con particolare rilievo virtù proprie dell’ascesi monastica, ecco una sintesi singolare di prospettive spirituali legate al passato e di orientamento preannunzianti una cultura più ricca e aperta. Ma era una sintesi conforme alla realtà dell’abbazia di Cluny: saggia amministratrice di ricchezze che le donazioni pie andavano moltiplicando, risoluta nel difendersi con fortezze e clientele di fronte a quella stessa aristocrazia da cui i suoi monaci e abati si reclutavano, e in pari tempo modello in Europa di vita ascetica e pietà religiosa. Un modello largamente ammirato fin dai tempi di Oddone e del suo successore Maiolo, l’uno e l’altro venerati come santi. In quel generale disordine delle istituzioni, l’irradiazione della civiltà di Cluny si espresse sia con innumerevoli imitazioni spontanee delle sue peculiari consuetudini, sia con affiliazioni. All’interno del vastissimo movimento monastico orientato secondo il modello cluniacense nacque una vera e propria organizzazione monastica, la prima grande congregazione di cenobi che la cristianità abbia conosciuto. Durante il lungo abbaziato di Odilone, il successore di Maiolo, (fine X secolo) l’abbazia era ormai al centro dell’attenzione religiosa e politica d’Europa. Odilone fu in relazione con i personaggi più autorevoli del tempo, nel regno di Francia e nell’impero e viaggiò instancabilmente in giro per l’Europa da un monastero all’altro. Fu proprio lui ad istituire il 2 novembre come giorno per celebrare tutti i defunti. Egli fu simbolo di una spiritualità aristocratica. Parallelamente alla sua operosità si svolse quella di Guglielmo di Volpiano (nel Canavese) offerto monaco dai suoi parenti e fattosi poi discepolo di Maiolo a Cluny. Odilone e Guglielmo diventarono amici indissolubiles. La molteplice attività svolta da Guglielmo per riformare e fondare monasteri è Athena95@2022 avvenuta sotto influenza cluniacense, pur senza assumere il tipo di organizzazione a tendenza centralizzatrice. In una di queste abbazie riformate da Guglielmo, il monastero della Trinità in Fecamp, divenne abate per mezzo secolo un suo discepolo, Giovanni di Fecamp i cui scritti ebbero grande fortuna. La presenza di simili abati in contesti severamente riformatori conferisce all’ascesi monastica un tono nuovo: rivela nelle elites culturali processi evolutivi destinati a grande fecondità il giorno in cui il laicato vorrà costruire, nelle corti e nelle adunanze aristocratiche, un proprio linguaggio prezioso. L’irradiazione cluniacense aveva intanto raggiunto da tempo i monasteri di Roma e prossimi a Roma. L’abate Ugo del monastero di Farfa, monastero che aveva conosciuto nei decenni anteriori una crisi di dimensioni inaudite, affidò la riforma della comunità monastica ad Odilone di Cluny e a un Guglielmo, identificabile con l’indissolubile amico di Odilone. Ma l’ambiente di Farfa rivela una sua peculiare cultura proprio nella figura di Ugo. Egli aveva comperato la carica abbaziale, ma, simoniaco pentito, per riparare la colpa si era proposto di risollevare il monastero dalle sue condizioni spirituali e temporali. (Nel medioevo la povertà di un monastero era sintomo di crisi morale; la ricchezza invece prova che le preghiere dei monaci erano state ascoltate). Al riordinamento del patrimonio si accompagnò l’impegno di ricondurre i monaci alla disciplina e ad essi dedicò il racconto di quanto era avvenuto, la Constructio monasterii Farfensis, la Destructio, la Relatio sul suo proposito riformatore. Il racconto è scritto con lucida coscienza del mutamento avvenuto in Italia nelle strutture politico-militari fra il IX e il X secolo: venuta meno la disciplina militare del regno carolingio, fu aperta la via alle distruzioni compiute dai Saraceni, che costrinsero gli abati di dotarsi di militari propri, premessa alla violenta degenerazione interna. Il vigore del racconto e la chiarezza con cui è additato il contrasto fra le esigenze istituzionali e la forza degli eventi, ci conducono a un clima culturale lontano dal perenne colloquio religioso di Giovanni di Fecamp: non trepidi suspiria, ma volontà di capire il mondo nelle sue contraddizioni e di operare fra gli uomini mettendo a frutto la propria superiorità intellettuale. I diversi orientamenti della cultura e della sensibilità dei gruppi elitari non rimanevano nettamente distinti. In una stessa istituzione potevano anche alternarsi o sfumare gli uni negli altri: così avvenne nel monastero di S. Michele della Chiusa, dove gli influssi cluniacensi si incontrarono con quelli eremitici e crearono un tipo di spiritualità che univa la grandezza solenne propria dei monasteri più ricchi e la volontà di penitenza, conforme al modello della perfezione eremitica. Appunto il movimento eremitico, che cominciò a svilupparsi in Italia fra il X e il XI secolo ebbe il suo fulcro dinamico nelle sperimentazioni di Romualdo di Ravenna: la più chiara testimonianza della Athena95@2022 diversificazione qualitativa di cui le esperienze religiose furono capaci nei gruppi aristocratici dell’età che vide l’espansione di Cluny. La tradizione eremitica non si era mai spenta nella cristianità, e nell’Occidente si era solitamente manifestata come occasionale concessione fatta dall’abate a qualche cenobita virtuoso di lasciare il monastero per sperimentare una penitenza più severa in solitudine. Ora, con Romualdo, la ricerca dell’eremo non era più postulata solo per monaci già esperti ma era direttamente proposta a tutte le anime forti come la forma autentica del monachesimo. Essa era da realizzare in colonie autonome di anacoreti, secondo il modello egiziano interpretato alla luce dell’insegnamento di Giovanni Cassiano. La cultura antica fu usata per esprimere un bisogno nuovo di opposizione eroica al tradimento del messaggio cristiano e alle deviazioni o al grigiore di vita dei cenobi. Era soprattutto bisogno di piccoli nuclei di uomini inquieti, reclutati dalle aristocrazie. Romualdo apparteneva ad una grande e bellicosa famiglia ravennate e nei suoi eremi vissero personaggi illustri, come Pietro Orseolo I, doge di Venezia, il suo compagno Gradenigo. Avevano ripudiato la violenza esteriore di cui l’ambizione dei potenti si nutriva, ma ne conservavano la tensione verso mete destinate alle anime privilegiate nella fortezza morale e nella capacità di affrontare il dolore e la morte, e nell’intensità della fede che li univa. Da questa esperienza nacque, nel terzo decennio del XI secolo, la piccola colonia di Camaldoli nell’Aretino, che influì anche sui Vallombrosani sorti come cenobiti in Toscana, ma con una tensione polemica che si espresse nella lotta per la riforma del clero. Di quella stessa esperienza romualdina si nutrì PIER DAMIANI, il più vigoroso scrittore del XI secolo, retore a Ravenna, poi eremita a Fonte Avellana, ai confini tra Marche e Umbria, e fondatore di eremi sull’Appennino, a imitazione di Romualdo e infine vescovo cardinale a Ostia, contro la sua volontà e collaboratore del papato. Nessuna formula può esprimere la ricchezza di atteggiamenti della forte personalità di Pier Damiani, fustigatore di vescovi e monaci, avversario di ogni mediocrità, diplomatico accorto. Ma in questa ricchezza di manifestazioni intellettuali, letterarie, pratiche, il motivo centrale rimane romualdino: un’inquietudine spirituale violenta, il gusto per l’inventiva profetica, il bisogno di un’assolutezza di cui sentirsi travolto. L’onnipotenza di Dio che gli appare capace di infrangere la realtà stessa di ciò che è già stato, lo esalta e lo rende insolente contro i nuovi teologi che pretendono di scrutare la natura di Dio. Lo rende insolente anche contro se stesso: un Pier Damiani retore e loico (logico) contro la sua volontà. In quella età rifioriva infatti la dialettica come metodo di discussione razionale. Il gusto per l’argomentazione logica, che in età Carolingia aveva animato l’opera di Giovanni Scoto, si manifestò nella scuola cattedrale di Reims che attirò il più celebre fra i dotti dell’epoca: Gerberto d’Aurillac che a Reims divenne maestro di dialettica, Athena95@2022 patriarcato di Costantinopoli ma dotata di larga autonomia, che si espresse anche nell’introduzione di una liturgia in lingua slava: l’introduzione fu possibile grazie ai missionari bizantini, che offrirono i mezzi anche grafici - la scrittura GLAGOLITICA (anche questo te lo chiede!!!!!!!!!!!!), per la traduzione delle formule liturgiche greche e dei testi sacri. L’INSERIMENTO DEL MONDO BULGARO NELL’AREA CULTURALE BIZANTINA FU TANTO PROFONDO DA OFFRIRE AI PRINCIPI BULGARI GLI STRUMENTI IDEOLOGICI PER UN’EFFICACE CONCORRENZA POLITICA CON BISANZIO PER IL DOMINIO SUI BALCANI. (Impararono a fondare la loro autorità sul principio religioso e pretesero lo stesso titolo di basileus) Questa pretesa fu di Simeone I il Grande, figlio di Boris, il quale condusse alla sua massima estensione la dominazione bulgara e, educato a Costantinopoli, incise fortemente sulla trasformazione della società bulgara entro il nuovo inquadramento religioso. (secoli IX e X). Ciò avvenne con una rapidità tale da alimentare il bogomilismo (cristianesimo eterodosso riconducibile all’eresia pauliciana) e altre simili forme di esasperata opposizione morale evangelica al dominio del male nel mondo e nelle istituzioni ecclesiastiche: una protesta sociale venata, nel bogomilismo, di avversioni di carattere etnico ed espressa in una teologia dualistica (contrapposizione bene/male, luce/tenebre). Il proselitismo dei bogomìli fu notevole anche fuori dal mondo bulgaro ed ebbe ripercussioni in più parti d’Europa. Ma nel secolo X l’intero problema bulgaro tormentò la dinastia imperiale macedone, finchè Basilio II sopraffece la potenza dei Bulgari. L’attività politico-missionaria di Bisanzio non si limitò ai popoli di più immediato interesse per l’esistenza dell’impero: i missionari che diedero una liturgia slava al mondo bulgaro erano discepoli di due personaggi di Tessalonica eminenti per cultura e relazioni politiche, i fratelli Cirillo e Metodio che l’imperatore Michele III aveva mandato a evangelizzare gli Slavi nel regno di Moravia, in concorrenza con i missionari dell’impero carolingio. Fu allora che i due fratelli inventarono l’alfabeto glagolitico (dallo slavo ‘’glagolu’’= suono, parola. Alfabeto elaborato sulla base del greco corsivo agevolò la comunicazione evangelica ma diventò anche strumento di uso comune per i ceti alfabetizzati per via della sua duttilità. Il cirillico è una la evoluzione divenuta prevalente.) Prima della missione morava, Costantino era stato mandato presso i Cazàri, popolo turco stanziatosi a nord del Caucaso. Ma è significativo che ora l’impero associasse all’ampiezza di orizzonti della diplomazia bizantina un’attività religiosa volta ad attrarre popoli tanto lontani nell’area di civiltà avente suo fulcro in Costantinopoli. La sollecitazione politica, in questa occasione, potè venire dalla necessità di trovare alleati contro l’espansione e le imprese dei principi vareghi che nell’860 calarono con una flotta su Costantinopoli: l’imperatore dovette Athena95@2022 tornare per liberare la capitale dall’assedio. La diplomazia bizantina cercava di instaurare con i Vareghi una buona amicizia e in quella direzione, per impulso del patriarca Fozio, l’impero svolse un’attività missionaria che rivelò subito buone prospettive di successo. La progressiva conversione dei popoli del principato di Kiev trovò il suo simbolo nel battesimo della reggente Olga, alla metà del X secolo nel nome di Elena (nome della madre di Costantino). Dopo quel battesimo ci furono reazioni molto vivaci nel paese e nella dinastia stessa, e solo alla fine del X secolo la chiesa russa cominciò ad organizzarsi secondo il modello bizantino, largamente attingendo dall’esperienza bulgara. Il metropolita di Kiev dipendeva dal patriarca di Costantinopoli: TUTTA LA CHIESA RUSSA CREBBE IN UN’ATMOSFERA RELIGIOSA BIZANTINA. Quando il principato di Kiev si andò articolando in principati minori e conobbe continue lotte di successione, l’idea unitaria in quella grande formazione politica rimase viva grazie all’organizzazione ecclesiastica, culminante nel metropolita di Kiev. Era un mondo economicamente vivace, imperniato su città commerciali, spesso fluviali, che spesso condizionavano il potere del principe residente in esse e operante in connubio con l’aristocrazia militare dei boiari. Nel corso del XI secolo l’impero entrò in crisi: fra i bizantinisti è assai vivo il dibattito sulle ragioni della crisi intervenuta dopo una così felice opera di restaurazione come era stata quella iniziata da Michele III e compiuta sotto la successiva dinastia macedone: 1. adattamento ideologico all’autonomia dottrinale raggiunta attraverso la lotta delle immagini dall’organismo ecclesiastico; 2. irradiazione religiosa e culturale dell’ortodossia greca e del suo supporto imperiale; 3. riconquista delle regioni a sud del Danubio; 4. conquista della Puglia. MA LE IMPRESE DEGLI IMPERATORI MACEDONI AVEVANO RICHIESTO UN ACCENTRAMENTO DELLE FORZE MILITARI A FINI OFFENSIVI, CON LARGO IMPIEGO DI MERCENARI, E AVEVA ACUITO LE ESIGENZE FISCALI E LE TENSIONI FRA IL POTERE IMPERIALE, UN’ARISTOCRAZIA BUROCRATICA E UN’ARISTOCRAZIA MILITARE. Certo è che l’impero non fu in grado di resistere all’avanzata turca (seconda metà dell’XI secolo), ne riuscì a impedire la conquista dell’Italia meridionale da parte dei Normanni. La dinastia dei Comneni, che resse l’impero dalla fine del XI alla fine del XII, recuperò il controllo di varie zone costiere dell’Asia Minore. Ma l’impero, ridotto quasi soltanto al blocco balcanico e travagliato all’interno dal problema bulgaro e dal proselitismo di Athena95@2022 bogomìli e pauliciani, non potè opporre all’intraprendenza degli occidentali forze economiche e militari in grado di sostenere la concorrenza. Rilevante rimase l’attività culturale, ma non più in grado di esercitare con l’efficacia di un tempo la funzione di fulcro di una potenza di aspirazioni universali. Fulcro di queste aspirazioni essa era stata nei secoli prima e dopo la lotta fra iconoclasti e inconodùli: lo sviluppo missionario aveva trovato in Fozio il suo primo grande propulsore, giunto alla dignità patriarcale dopo una carriera nell’amministrazione dell’impero, accompagnata da una vastissima attività di studio: un sapere in cui teologia e retorica si aprivano a una lettura dei classici antichi e si prolungavano in una curiosità di sapore umanistico. Erano gli anni in cui nella medesima capitale insegnava filosofia Leone il Matematico, la cui fama raggiunse la corte califfale di Bagdad; e intorno a Leone fu riorganizzato l’insegnamento pubblico superiore. L’orientamento enciclopedico prevalse sotto gli imperatori macedoni, alcuni dei quali non solo protessero le lettere ma le coltivarono con opere proprie. Fu il caso di Leone VI il Sapiente, discepolo di Fozio, e di suo figlio Costantino VII Porfirogenito (nomi indimenticabili), che scrisse di geografia politica, arte diplomatica e narrò la vita dell’avo Basilio. Quest’opera di recupero del passato si trasformò nell’XI secolo in un più ardito umanesimo: il suo massimo rappresentante fu Michele Psello, che celebrò così tanto Platone da destare qualche pericoloso sospetto di non perfetta ortodossia. Da questi sospetti si liberò, ma non fu così per il suo discepolo Giovanni Italo che l’imperatore Alessio I fece condannare. (I Comneni furono molto risulti sia nel comandare che nel disputare dialetticamente). DAL IX AL XI SECOLO SI PUO’ NOTARE UN PARALLELISMO FRA ORIENTE CRISTIANO E OCCIDENTE NELL’EVOLUZIONE CULTURALE VERSO UN UMANESIMO SEMPRE PIU’ APERTO: Il mondo bizantino mostrò sempre una certa superiorità intellettuale che rifletteva lo splendore della grande capitale ormai soffocata da troppi problemi di sopravvivenza. L’occidente invece aveva ben più vasto respiro politico, e cessate le incursioni saracene e vichinghe, non conosceva problemi di sopravvivenza. La circolazione di uomini e idee divenne in occidente più proficua di quanto fosse nell’area balcanica. Ciò ebbe i suoi riflessi anche sulle istituzioni ecclesiastiche. Di queste l’oriente non conobbe degenerazioni simili a quelle dell’occidente, ma in occidente le correnti culturali seppero porsi il problema della degenerazione e finirono col conquistare nel secolo XI la sede romana, usandola per una nuovissima ristrutturazione gerarchica di respiro europeo. L’oriente bizantino si irrigidì di fronte alle nuove fortune di Roma, non più contenute dalla concezione teocratica degli imperatori di Costantinopoli. A metà del XI secolo, l’anima della resistenza bizantina agli sviluppi dell’idea papale romana fu Michele Cerulario, patriarca di Athena95@2022 cristiano, come ben attestato nell’epoca di Gerberto d’Aurillac (papa Silvestro II). Difficoltà all’espansione intellettuale fu creata in Spagna dall’intolleranza malikita degli Almoravidi, ma con gli Almohadi il clima politico-culturale migliorò fino all’espressione del pensiero del cordovano Averroè. La dinastia Abbaside a Baghdad dal X secolo cadde sotto la tutela degli emiri sciiti di origine iranica. Se ne liberarono un secolo dopo ma caddero di nuovo sotto una nuova tutela, quella della dinastia turca dei Selgiuchidi, sunniti. Questi estesero il dominio all’Afghanistan e altri territori dell’Asia Centrale, spingendosi fino al Gange. DA TUTTA LA COMPLESSA VICENDA DELLE FORMAZIONI POLITICHE ISLAMICHE RISULTA CONSTANTEMENTE CONFERMATA L’EFFICIENZA NEL GARANTIRE LA FIORITURA ECONOMICA E CULTURALE, MA IN PARI TEMPO RISULTA L’INCAPACITA’ DI QUEGLI APPARATI DI RESISTERE ALL’URTO DEI NOMADI OGNI VOLTA CHE LE LORO AGGRESIONI TROVINO UNA COPERTURA IDEOLOGICA ISLAMICA. (COPERTURA IDEOLOGICA CHE MIRA ALL’INTEGRAZIONE DELLA MOBILITA’ PROPRIA DEI GRUPPI TRIBALI E LA LORO FORZA DI CONTESTAZIONE ETNICO-SOCIALE CON UNA ISPIRAZIONE MISSIONARIA DI VALORE UNIFICANTE). => Ai vertici dei gruppi nomadi circolava molta cultura Il lento e irrequieto sviluppo dell’Occidente cristiano si ritrova accerchiato protetto dal florido mondo islamico e da quello bizantino. 5.2 La presenza del papato romano e del regno imperiale tedesco nel processo di stabilizzazione di Slavi, Magiari e Scandinavi La protezione di Bisanzio non copriva i confini immediati della cristianità occidentale, che se li dovette difendere da sé a volta a volta con armi, diplomazia o predicazione religiosa. Spesso ci furono casi di concorrenza con Bisanzio per attrarre queste popolazioni entro il rispettivo inquadramento ecclesiastico. I loro principi si trovavano spesso in condizione di incertezza nel passaggio dal politeismo al cristianesimo. • Principe blugaro Boris I si mise in contatto con il pontefice romano mentre era in corso l’evangelizzazione bizantina => Bisanzio a seguito di ciò accettò che la liturgia si svolgesse in lingua slava Athena95@2022 • Principessa Olga di Kiev, dopo essersi fatta battezzare secondo rito bizantino, si rivolse al re tedesco Ottone I pesr farsi mandare un vescovo dall’Occidente Nei vari casi, l’attrazione per i centri ecclesiastici più prossimi finì per prevalere. (Bizantini: serbi, bulgari; Romani: sloveni, croati) Quando il regno della grande Moravia - sempre incerto nella scelta del rito - si disgregò, la Moravia propriamente detta cadde in mano dei Magiari mentre i dinasti sorti in Boemia, dove la popolazione era ancora in molta parte politeista, cercarono riparo dagli Ungari, nella subordinazione politica al regno teutonico e favorirono l’attività evangelizzatrice germanica. Seguirono ribellioni slave contro l’ordine tedesco fino a che Ottone I li sottomise, concedendo loro il titolo ducale sempre nell’ambito del regno teutonico. Pochi anni dopo il duca di Boemia collaborò alla vittoria di Ottone sugli Ungari. Fu allora che in Boemia fu organizzata una gerarchia ecclesiastica di rito latino, con la creazione della diocesi di Praga che diventava l’avamposto della cristianità occidentale, suscettibile di ulteriori allargamenti orientali. Senonché dal’Oder alla Vistola si erano stanziate popolazioni slave condotte dai Piasti, dinastia con precisa volontà di autonomia organizzativa. Questa fu da loro affermata con forza attraverso un dialogo diretto con Roma, alla quale veniva “donata” nel 990 la dominazione polacca nel suo significato politico. I Piasti infatti tolsero alla dominazione boema la Slesia e Cracovia, che divenne loro capitale dopo un secolo. Non fu tuttavia possibile per i Piasti ignorare la funzione imperiale conquistata dai re tedeschi. Ottone I aveva fondato una nuova sede politica a Magdeburgo in Sassonia, la cui provincia si sarebbe dovuta estendere fino area dell’Oder. Nell’anno 1000 si arrivò alla soluzione concordata da Boleslao I il Grande, princeps poloniae, da Papa Silvestro II e l’imperatore Ottone III, il quale si recò personalmente a Gniezno per l’elezione di tale sede a metropoli ecclesiastica. Boleslao fu onorato con il titolo di cooperator imperii, così Ottone III riconosceva la pienezza dell’autonomia raggiunta dai Piasti di fronte al regno tedesco. Il giovane imperatore si era recato a Gniezno per venerare le reliquie di Sant’Adalberto, che era stato un nobile boemo educato a Magdeburg e consacrato vescovo di Praga dal metropolita di Magonza (costui fu guida spirituale di Ottone III). Le reliquie del santo furono riscattate da Boleslao. Da cui si capisce come il culto di Sant’Adalberto legasse i due sovrani; quel santo che era legato a Magonza, Roma e Praga e che aveva predicato in Polonia e sui territori baltici, diveniva perfetto simbolo di questo nuovo legame. Di fianco alla nascita di nuove comunità religiose si accostavano formazioni politiche emergenti dall’incontro di popolazioni a struttura tribale e dominazioni territoriali stabilizzate nell’orizzonte della cristianità. I nuclei Athena95@2022 emergenti combinavano le forze militari con le articolazioni ecclesiastiche : i vescovi erano portatori di di un’idea di organizzazione civile fondata su quadri territoriali e su una gerarchia di funzionari. Forme gerarchiche del tutto nuove per genti provenienti da forme tribali e che rivelarono subito una forte instabilità. Da quando nel 1076 la Polonia dei Piasti assunse il titolo regio si assistette ad un progressivo frazionamento dei territori (causa ereditarietà che spettava ad ogni nobile maschio e ai matrimoni con altre dinastie). Fra i secoli XII e XIII, alla vigilia dell’invasione mongola, l’immenso spazio slavo cristianizzato si presentava dunque diviso in una moltitudine di principati raggruppati intorno a Cracovia e a Kiev. Negli stessi secoli gli ungari transitarono verso un assetto analogo. Essi giunsero in Pannonia che era sotto l’influenza di Bàvari, Moravi e Bulgari in contrasto tra loro. Gli Ungari vi entrarono sotto la guida del principe Arpad, quando nel 955 a Lechfeld furono sconfitti da Ottone I da popolo principalmente aggressivo e guerriero si fecero più organizzati, a difesa del proprio territorio. Ammiravano il modello imperiale tedesco e si imparentarono con la dinastia sassone intorno al 1001. Stefano I (“il Santo”) si fece incoronare re di Ungheria in intesa con Papa Silvestro II e Ottone III e creò, in accordo on Roma, un’autonoma gerarchia ecclesiastica. La dominazione ungara di spinse sino in Transilvania e in Slovacchia, arrivando anche a contendere i territori croato-dalmati a Venezia. Valacchi: un miscuglio di genti contadine di lingua latina aldilà del Danubio, politicamente sommerse nel corso dei successivi secoli di invasioni Più singolari appare la vicenda delle genti scandinave dopo le grandi avventure di Vichinghi e Vareghi. Certo i Vichinghi stanziatisi in Irlanda, Inghilterra e Francia settentrionale furono gradatamente assimilati e i Vareghi di Kiev entrarono nell’orbita religiosa bizantina. Ma nei paesi scandinavi le missioni provenienti da altri paesi conobbero una vicenda difficilissima. Il centro di irradiazione - per iniziativa di Ludovico il Pio e Roma - era stato individuato in Amburgo, a cui fu dato il titolo metropolitico benché non avesse vescovi suffraganei (= si definiscono suffraganee le diocesi interne ad un arcidiocesi). I modesti successi ottenuti in Danimarca e Svezia furono presto annullati dalle scorrerie vichinghe, Amburgo venne distrutta e successivamente associata, relativamente al titolo metropolitico, a Brema. Nel X secolo l’ascesa della dinastia sassone al trono tedesco favorì la ripresa di Amburgo-Brema e nuove missioni riuscirono a fondare in Danimarca alcuni vescovadi suffraganei. Verso l’anno 1000 alcuni missionari anglosassoni si spinsero in Danimarca, Islanda e Norvegia. Le missioni religiose si complicavano con le iniziative dei principi alla ricerca di alleanze Athena95@2022 frenando le tendenze all’esenzione, riordinavano collegi canonicali e combattevano la simonia. Questo recupero dell’ordine avveniva in nome della LIBERTAS ECCLESIAE, cioè libertà di funzionamento da ogni interferenza di interessi esterni agli enti religiosi. In questa attività in vescovi trovavano conforto nei monasteri riformatori. I movimenti riformatori però avevano bisogno di un VERTICE. I progressi dell’esenzione monastica dall’autorità vescovile favorivano un collegamento più diretto con Roma. Ma finché la chiesa di Roma subiva l’egemonia dell’aristocrazia cittadina, non era possibile tradurre questo collegamento in una riforma unitaria. Toccò all’imperatore OTTONE I intervenire come protettore della chiesa di Roma. Egli convocò sinodi per deporre papi indegni, impose i propri candidati ed esigette dal popolo romano il giuramento ad eleggere i papi in concordia con l’imperatore. Gli interventi procurarono alla chiesa di Roma un papa di larghe vedute: SILVESTRO II (al tempo di Ottone III). Ma gli interventi imperiali divennero risolutivi solo nel 1046 quando ENRICO III, successore di Corrado II, depose tre papi romani concorrenti fra loro, convocando due sinodi nel Lazio. Fece così eleggere papa un vescovo tedesco: CLEMENTE II. Seguirono altri vescovi tedeschi, tutti convinti nella loro lotta contro la SIMONIA. *SIMONIA= termine tratto dal Nuovo Testamento in cui Simon Mago pretendeva di acquistare per denaro dagli apostoli il dono dello Spirito. In due concili del VI sec veniva già condannata la compravendita di uffici sacri e il commercio di assoluzioni, indulgenze, consacrazioni. L’ intervento imperiale fu allora interpretato come parte di un disegno provvidenziale (anche da Pier Damiani). Esso consentì al movimento riformatore di impadronirsi della sede papale. L’azione della chiesa di Roma assunse rilievo a partire dal pontificato di LEONE IX (1049-1054), di una nobile famiglia dell’Alsazia. Egli si impegnò in viaggio per l’Italia, nei regni di Germania e Francia per promuovere personalmente la convocazione di sinodi con intenti riformatori. Cominciarono allora anche DIBATTITI TEOLOGICI soprattutto in relazione all’intransigenza dottrinaria di UMBERTO DI SILVA CANDIDA. Egli era un monaco lorenese che Leone IX volle presso di sé a Roma. Egli credeva che la simonia non fosse solo da punire con la deposizione ma anche causa di nullità di tutti gli atti sacramentali compiuti dal colpevole. Quindi anche le ordinazioni sacerdotali non simoniache effettuate da un vescovo che aveva acquistato il suo ufficio erano nulle. Questa posizione ricordava il RIGORISMO DONATISTA del IV sec. *un’altra corrente di pensiero sopravvissuta fino alla riforma e all’accordo di Sutri del 1111 è stata il GELASIANESIMO. Papa Gelasio alla fine del V sec Athena95@2022 aveva affermato la superiorità spirituale della chiesa sull’autorità civile. Egli teorizzò la distinzione netta fra le due sfere di potere. Nei secoli successivi entrò in contrasto con la consuetudine vescovile di assommare i due poteri. Ma il rigorismo prospettava altrettanti problemi al funzionamento delle strutture ecclesiastiche, togliendo certezza giuridica e sacramentale agli atti dei sacerdoti. PIER DAMIANI infatti polemizzò con queste posizioni estreme (pur se rigido nel combattere la simonia e altre deviazioni). ENRICO III scomparve nel 1056 e gli succedette il figlio ENRICO IV. I riformatori nella chiesa di Roma riuscirono a impedire che l’aristocrazia tornasse ad imporsi. A questo scopo si appoggiarono al duca di Lorena GOFFREDO IL BARBUTO, divenuto marchese di Toscana dopo il matrimonio con BEATRICE DI LORENA, vedova del marchese di Toscana Bonifacio di Canossa. Elessero papa il fratello di Goffredo, di orientamento riformatore: STEFANO IX (1057 al 1058). Fu in quel periodo che Pier Damiani divenne vescovo-cardinale della sede suburbicaria di Ostia. Ma alla MORTE DI STEFANO IX l’aristocrazia romana elesse un papa di suo gradimento fra i vescovi-cardinali delle sedi suburbicarie. Gli altri vescovi suburbicari non lo riconobbero ed elessero, d’accordo con l’influente monaco ILDEBRANDO, il vescovo di Firenze NICCOLO’ II (1059-1061). Gli ultimi avvenimenti suggerirono ai riformatori la determinazione di norme per l’elezione papale. Da qui il celebre decreto emanato in una sinodo romana da Niccolò II nel 1059. Il decreto costituì un COLLEGIO DI CARDINALI a cui dal XII sec fu riservata l’ESCLUSIVITA’ nell’elezione papale. In aggiunta potevano partecipare i cardinali preti e i cardinali diaconi (cioè i gruppi più eminenti del clero di Roma) e infine tutto il clero e il popolo della città. *CARDINALI= da non confondere con metropoliti ed arcivescovi. Sono titolari delle CHIESE CARDINE di Roma. Quindi non c’erano solo cardinali-vescovi ma anche cardinali-diaconi e cardinali-chierici. Dall’XI sec fino alla chiesa moderna la titolarità di quelle chiese cardine dà diritto alla presenza nel collegio elettorale del papa. Il papa eletto dall’aristocrazia (parallelamente a Niccolò II) fu eliminato mediante la FORZA MILITARE dei NORMANNI, provenienti dalla Francia settentrionale e insediatisi al sud Italia. Dalle spinte riformatrici nacque la PATARIA. *PATARIA= movimento di ispirazione pauperistica nato a Milano nell’XI sec in seguito alla predicazione del diacono Arialdo. Si espanse in area lombardo- emiliana. Patarini, termine forse derivato dal volgare patee, significava cenciaioli. Polemizzò contro la dispersione del patrimonio ecclesiastico. Si scatenò poi contro l’alto clero concubinario e simoniaco, cercando un raccordo con il gruppo riformatore a Roma. Il papato fu così costretto a destreggiarsi fra missioni pacificatrici e rapporti di alleanza. Ma dopo la morte Athena95@2022 di Niccolò II si pose a Roma il problema di moderare gli ardenti spiriti antisimoniaci dei monaci vallombrosani contro il vescovo di Firenze. In poco più di un decennio la chiesa di Roma era diventata un vero e proprio CENTRO DI POTERE, sempre più disciplinato intorno alla figura del PONTEFICE ROMANO, solennizzato dalla dottrina del PRIMATO DI PIETRO. Tale potere costituiva il vertice di un grande schieramento riformatore contro i prelati colpiti nei loro interessi e vescovi riformatori moderati. Il radicalismo romano mise questi ultimi nelle condizioni di allearsi con gruppi politici laici. La LOTTA si scatenò anche con l’IMPERO. In virtù della sua ispirazione universale, della sua forza politica e dell’incidenza culturale di monaci e prelati riformatori, esso poté richiamare il papato a farsi coscienza delle proprie responsabilità. Ma ormai l’orientamento della chiesa era quello di un’INDIPENDENZA da ogni POTERE SECOLARE. La lotta contro la simonia divenne una più radicale polemica CONTRO L’INTERVENTO DEI LAICI nell’ordinamento ecclesiastico. Si era convinti che essi fossero responsabili della corruzione, poiché avevano interessi da proteggere. Allora il potere regio si vide tolto il controllo della chiesa romana. Ma gli fu anche tolta la FEDELTA’ DEI VESCOVI, il più robusto fondamento rimastogli dopo la crisi postcarolingia, e la possibilità di eleggerli. Molti vescovi ne rimasero offesi, poiché il regno li aveva arricchiti di poteri e giurisdizioni. Il duplice schieramento divenne palese dopo Niccolò II, con papa ALESSANDRO II (1061-1073), amico dei patarini e vescovo di Lucca. Fu eletto dai cardinali-vescovi e contrastato dall’aristocrazia romana, che si accordò con la corte tedesca e l’episcopato lombardo per una scelta diversa. Lo SCISMA PAPALE durò qualche anno, fino a che la corte tedesca non decise di schierarsi in favore di Alessandro II. Emerse l’esigenza da parte del papa di stringere alleanze politiche, per poter esercitare un potere stabile sull’edificio ecclesiastico. Era proprio da queste alleanze, infatti, che la cerchia riformatrice aveva tratto la possibilità di sopravvivere. Assunsero un significato politico anche i COLLEGAMENTI MISSIONARI con i popoli alla periferia della cristianità (dalla Scandinavia all’Europa centro-orientale), i COLLEGAMENTI RELIGIOSI con le forze patariniche e con quelle che nella penisola iberica lottavano per la riconquista cristiana. La simbiosi politico-ecclesiastica, tanto respinta dai riformatori come offesa alla libertas ecclesiae, fu così rivalutata. Ad Alessandro II successe ILDEBRANDO, con il nome di GREGORIO VII (1073-1085). Egli sviluppò ampiamente quest’ambivalenza del potere. Sospese sospetti di simonia e concubinato, esigette obbedienza alle convocazioni, scomunicò prelati e sacerdoti colpevoli, recò offesa a tanti interessi e consuetudini. Per fare questo fu necessario il sostegno di amicizie Athena95@2022 Essa poi veniva considerata proprietà delle chiese, sacra e inscindibile. Nel XII sec si chiariva all’interno dei regni un ASSETTO FEUDALE. Ma da cosa deriva la fortuna di questo assetto? Occorre prima ricordare l’evoluzione del BENEFICIO. Esso era nato come retribuzione di un servizio, nella forma di godimento precario di beni terrieri. Si applicava alla sfera militare, dove i vassalli prestavano servizio come MILITES al proprio SENIOR. Ma poi si finì per rendere primario il ruolo del beneficio, commisurando le prestazioni offerte all’entità del beneficio assegnato. Era possibile che lo stesso miles giurasse fedeltà a più signori. Il beneficio manifestò presto la tendenza a diventare EREDITARIO per le connessioni che il vincolo personale ed economico creava tra le famiglie del signore e del vassallo. Tuttavia quest’ultimo non aveva tanta libertà di disporre del suo beneficio come del suo patrimonio allodiale. Il processo di PATRIMONIALIZZAZIONE del beneficio (o feudo) fu lento. Nell’XI sec c’erano ancora molti contrasti fra seniores e milites in Lombardia, tanto che CORRADO II intervenne nel 1037 per placarsi con l’EDICTUM DE BENEFICIIS. È l’atto fondante dell’ereditarietà dei feudi. Nel famoso CAPITOLARE DI QUIERZY SUR OISE dell’877, invece, Carlo il Calvo intendeva solo stabilire un diritto di provvisorio controllo dei benefici da parte del figlio di un vassallo morto in guerra. Questo valeva fino al ritorno del re e a una formale nuova investitura. L’intervento di Corrado II si spiega con il suo interesse a stabilire un rapporto con i milites. Parallelamente si allargò il rapporto vassallatico-beneficiario alla SFERA POLITICA. Gli ufficiali pubblici iniziarono ad essere remunerati, come i vassalli, con beni del fisco e castelli, diventando essi stessi vassalli del re a partire dall’età carolingia. I milites richiedevano l’ereditarietà del beneficio per le stesse ragioni per cui gli ufficiali preposti alle circoscrizioni diventavano dinasti. Si trattava in entrambi i casi di una TENDENZA ALL’AUTONOMIA: un’autonomia ECONOMICA da parte del miles e POLITICA da parte dell’ufficiale pubblico e dei custodi dei castelli. A questo processo si affiancò in età postcarolingia la prassi regia di concedere beni in ALLODIO a favore delle chiese più autorevoli. Si creò inoltre la consuetudine dei grandi proprietari di creare signorie locali di BANNO, il più forte simbolo di autonomia. Dunque in età postcarolingia due furono le vie attraverso cui si chiarirono le autonomie sul piano giuridico: • La graduale PATRIMONIALIZZAZIONE del beneficio vassallatico • La cessione di poteri in forma ALLODIALE Dall’XI al XII sec l’ISTITUTO FEUDALE raggiunse un solido EQUILIBRIO: la patrimonialità del beneficio era ormai garantita ma lo era anche la Athena95@2022 subordinazione vassallatica al senior. In questo modo fu l’assetto più capace di esprimere l’autonomia e di conciliare i vari interessi: da una parte garantiva la LIBERTA’ della signoria o del principato nel suo funzionamento e dall’altra evitava l’ISOLAMENTO dei milites e dei signori in una guerra di tutti contro tutti (che si generava spesso con il frazionamento allodiale). Questa efficacia incentivò il moltiplicarsi dei vincoli vassallatici e il ricorso al FEUDO OBLATO: un ALLODIO, costituito da beni fondiari e fortezze, che il titolare cedeva in proprietà ad uno più potente. Quest’ultimo a sua volta glielo restituiva sotto forma di feudo con i connessi obblighi vassallatici. Colui che precedentemente possedeva il feudo limitava così la sua libertà, ma al tempo stesso godeva di una PROTEZIONE e una LEGITTIMAZIONE. Ma con questi espedienti l’Europa non si pacificò, poiché i collegamenti si potevano usare per propria difesa ma anche per estendere gli schieramenti bellici offensivi. Le OFFESE BELLICHE assunsero forme giuridicamente definite di ostilità iniziate e concluse con atti formali. Dallo sviluppo feudale fu interessata tutta l’area di ascendenza carolingia, in particolare gli antichi regni franchi della NEUSTRIA e dell’AUSTRASIA. Infatti questi ultimi già sperimentavano dal VII sec il rapporto vassallatico nella sfera militare. Le consuetudini feudo-vassallatiche, però, furono rielaborate soprattutto nelle cosiddette città “lombarde” nel XII sec come attestano i Libri feudorum. DAI FEUDI SENZA POTERE AI FEUDI SIGNORIA Dal XII sec iniziò ad essere proposto sul piano intellettuale un insieme di rapporti vassallatico-beneficiari fortemente GERARCHIZZATO, ereditato in età moderna. Ma questo modello si realizzò solo nei territori influenzati dall’Europa franca, cioè Inghilterra, Italia Meridionale e nei regni latini d’oriente. Nell’Europa franca invece fu molto più accidentato. Quindi la PIRAMIDE FEUDALE non spiega i funzionamenti politici di gran parte dell’Europa continentale. La piramide ha vari DIFETTI: suggerisce che anche persone non impegnate in una fedeltà armata (come servi, contadini, vescovi e abati) avessero una funzione vassallatica; suggerisce che tutti i poteri derivassero da una DELEGA DALL’ALTO, cioè dal re, e il che è falso. La maggior parte delle signorie di banno si era formata DAL BASSO per la spontanea intraprendenza dei protagonisti, dovuta ai castelli e alla loro capacità di protezione. Il frazionamento dell’Europa carolingia inoltre non si limitò alla trasformazione delle precedenti circoscrizioni franche in feudi. La geografia politica dei secoli centrali del medioevo, invece, è ben più sminuzzata e non deriva da deleghe del potere regio. Quest’ultimo al massimo poteva tenere inquadrate formalmente le signorie locali. Athena95@2022 Dal XII sec i vassalli potevano contare sia sulla resa economica del feudo ma anche sulla giurisdizione che esercitavano nei confronti di coloro che lo abitavano. Quando un beneficio aveva quest’ultimo contenuto di comando era spesso definito FEUDUM RECTUM ET NOBILE, cioè feudo di signoria. Così i giuristi e i poteri di tradizione pubblica iniziarono a vedere nei rapporti vassallatico-beneficiari un correttivo del frazionamento signorile. Da qui il frequente ricorso al FEUDO OBLATO (fief de reprise in francese). Con questo molti signori di banno legittimavano le egemonie territoriali dei loro avi. Insomma il medioevo è piramidale solo negli ultimi secoli, quando le fedeltà militari non servivano più come surrogati degli eserciti di popolo ma per conferire una parvenza di ordine ai poteri spontanei. (fine dell’approfondimento) Nell’XI sec il sistema vassallatico ebbe successo grazie ai NORMANNI della Francia del nord. La Normandia rappresentava il modello più efficiente della FEUDALITA’. Essa aveva sperimentato l’incontro di due tradizioni di fedeltà guerriere: una radicata nella vecchia Neustria solennizzata dal vassallaggio; un’altra derivata dall’influenza vichinga. In Normandia lo schema territoriale carolingio sopravvisse meglio rispetto alle altre regioni. Ciò avvenne grazie all’instaurazione di poteri vicecomitali nelle circoscrizioni carolinge, affidati a personaggi di fiducia del conte residente a ROUEN (Senna inferiore) perlopiù di origine vichinga. Il vigore militare del capo dei conquistatori, ROLLONE, e dei suoi fedeli divenne un vigore nel controllo territoriale. Fra il X e l’XI sec i re anglosassoni discendenti da ALFREDO IL GRANDE di Wessex dovettero fronteggiare le nuove invasioni scandinave in Inghilterra. Si appoggiarono allora al DUCATO DI NORMANDIA imparentandosi con i discendenti di Rollone. Scomparso l’impero anglo- scandinavo del danese Canuto il Grande, la dinastia anglosassone recuperò la corona d’Inghilterra con EDOARDO IL CONFESSORE (dal 1043 al 1066), figlio di una normanna ed educato in Normandia. Fu il preludio della rivendicazione del trono da parte del duca di Normandia GUGLIELMO IL CONQUISTATORE alla morte, senza discendenti, del cugino Edoardo. La successione fu molto contrastata. (L’elezione in Inghilterra procedeva da compromessi fra prestigio e diritti della casa regnante. L’eventuale designazione era dichiarata dal re defunto e volontà dei grandi, ecclesiastici e laici, espressa attraverso elezione formale nell’assemblea dei liberi. Così avvenivano le elezioni in ogni altro regno di ascendenza germanica.) Guglielmo organizzò una flotta e si appropriò del regno, ma ribellioni, devastazioni e confische continuarono per anni. L’aristocrazia anglo-danese fu sconvolta e prevalse l’elemento normanno e della cultura francese. Le istituzioni pubbliche rimasero in parte quelle anglosassoni, ma con più fermo controllo dei distretti provinciali, cioè le CONTEE (shires). In tutto il regno il
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