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Ospitalità mediatica riassunto, Sintesi del corso di Sociologia Dei Processi Culturali

Riassunto del libro 'Ospitalità mediatica' completo

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 18/03/2023

alessandra-de-belardini
alessandra-de-belardini 🇮🇹

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Scarica Ospitalità mediatica riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia Dei Processi Culturali solo su Docsity! OSPITALITÀ MEDIATICA Questo libro parte dalla premessa che la MIGRAZIONE è un fenomeno storico e naturale, ma la sua definizione è POLITICA, legata al periodo storico e al contesto socio-economico. La definizione di migrazione è influenzata dai media (tradizionali o digitali che siano); i media contribuiscono al processo di costruzione della realtà da parte delle persone, così come alla formazione di immaginari condivisi e rappresentazioni sociali. Suggerendoci cosa e come pensare, i vecchi e nuovi media danno forma al nostro senso comune del mondo: - a volte alimentando la paura dell’altro e legittimando la sua criminalizzazione - altre stimolando la curiosità e l’empatia verso l’altro e l’altrove L’immagine paradigmatica del mondo contemporaneo è senza dubbio quella di una globalizzazione che unisce e divide:  da un lato flussi di idee, immagini, merci e denaro che circolano liberamente;  dall’altro una riaffermazione dei confini nei confronti degli stranieri indesiderati, respinti, criminalizzati. Se nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, eravamo convinti di poter vivere in un mondo senza frontiere, oggi dobbiamo invece prendere atto che c’è una vera e propria “ossessione per i confini” sono infatti stati costruiti in Europa centinaia di chilometri di nuovi confini ufficiali: la barriera che separa la Grecia della Turchia, le recinzioni innalzate da Bulgaria, Serbia, Ungheria, Slovenia e Croazia per bloccare i flussi migratori provenienti dal Sud del Mediterraneo. Le barriere erette e le leggi che ne legittimano l’esistenza hanno una funzione ed un’efficacia più SIMBOLICA che reale e appaiono come delle PERFORMANCE SPETTACOLARIZZATE DEL POTERE. I media danno visibilità, anzi iper-visibilità, al controllo di confine, rendendolo molto più efficace e legittimandolo molto di più talvolta delle misure legislative che lo disciplinano. I media, i politici e il dibattito pubblico tendono a mettere in scena un confine o etichettare una categoria, che cambia con il tempo e il contesto sociopolitico. o Negli anni ’90 il problema erano gli albanesi o poi è stata la volta dei rumeni o poi gli islamici o oggi i rifugiati Imuri solidi eretti lungo i confini degli Stati Uniti, o quelli liquidi creati nel Pacifico o nel Mediterraneo, sono meno significanti nella loro materialità e fisicità rispetto alle narrazioni ideologiche che si sedimentano in essi. Possiamo piuttosto definirli come marcatori di una «geografia morale del mondo» che riproduce la relazione gerarchica tra noi e loro; luoghi di “inclusione differenziale”. Per comprendere le tensioni e contraddizioni relative a quella che abbiamo definito “geografia morale del mondo” è sufficiente uno sguardo al passport index, che compara le possibilità di viaggiare dei vari passaporti del mondo  L’indice ci racconta di tantissimi Paesi in cui è impossibile ottenere un visto per espatriare, poiché quest’ultimo è legato alle relazioni tra gli Stati e ha dunque un VALORE GEOPOLITICO, non legato alla persona. A quelle che vengono definite “migrazioni economiche” si applica una selezione dei candidati secondo tre criteri, che Ambrosini definisce le tre P: i passaporti, i portafogli, le professioni  per quel che riguarda i portafogli e le professioni, basti osservare l’aumento dei governi della UE che autorizzano con favore crescente l’insediamento degli stranieri che si presentano come investitori, sino ad accordare loro direttamente la cittadinanza. In quanto simbolo dello Stato nazione, il passaporto è uno strumento potente che contiene informazioni dettagliate sul viaggiatore, compresi i dati biometrici, la nazionalità, luogo e data di nascita, di residenza, ecc. Noi bianchi, ricchi e privilegiati lo diamo per scontato, mentre per gran parte della popolazione mondiale resta un miraggio. Così, quando la povertà, la mancanza di lavoro, la sovrappopolazione, guerre, carestie, persecuzioni, disastri ambientali – quelli che solitamente le teorie sociologiche considerano fattori di spinta (PUSH FACTORS), espulsivi, operanti nel Paese di origine – spingono gli esseri umani a varcare i confini dello Stato di nascita per raggiungere il Nord del mondo, o l’Occidente, questi scoprono il peso delle loro catene. A questi fattori se ne associano altri – cosiddetti di attrazione (PULL FACTORS), tipici dei sistemi economici più ricchi – quali il benessere e lo stile di vita (consumistico), le maggiori opportunità di lavoro, studio o divertimento, il rispetto dei diritti umani e un sistema di welfare rilevante (MODELLO PUSH-PULL) Fattori che nel discorso comune non vengono considerati “sufficienti” per legittimare un progetto migratorio. Perché nel nostro immaginario sociale, come nell’ordinamento giuridico, prevale lo stereotipo del migrante che scappa dalla miseria o del “povero rifugiato” che l’iconografia pietistica dei media spesso crea, riproduce e rinforza. Che siano i fattori di spinta o di attrazione a prevalere, l’atto migratorio non è mai un mero spostamento individuale da un luogo ad un altro, ma una scelta (libera o forzata che sia) inserita sempre all’interno di un immaginario e di una storia collettiva. REALTÀ MIGRATORIA = include l’atto migratorio ma non si esaurisce in questo, è una costruzione sociale comprensiva del contesto: vale a dire la cornice socio-territoriale e la tessitura culturale in cui nasce e trova esecuzione la decisione migratoria. E quindi ciò che precede l’atto migratorio, quel che ne accompagna lo svolgimento, ciò che connota e conferisce senso agli esiti, compreso il ritorno, temporaneo o definitivo, ai luoghi di partenza Se consideriamo L’IMMAGINARIO MIGRATORIO, definito la scena di rappresentazione individuale e collettiva dell’atto del migrare (come i media rappresentano il fenomeno), ispirato dalla realtà migratoria e in essa simbolicamente collocato, diventa più facile riconoscere nella migrazione un modo di esperire l’esistenza del mondo e nel mondo, una realtà che comprende sia la cultura e l’agency del migrante (spesso negata dai discorsi e dalle politiche sulla migrazione), sia i flussi comunicativi che interpretano e re-interpretano l’esperienza migratoria. Sotto questa luce, la migrazione appare come un “FATTO SOCIALE TOTALE”, un fenomeno da indagare oltre la funzione economica o demografica perché agisce sulla società nel suo complesso, portando con sé paure, rischi di sfruttamento e di fondamentalismi etnici o religiosi, ma anche dando vita a nuovi movimenti di rivolta, agevolando la creazione di nuovi spazi sociali “transnazionali” e la diffusione di nuove pratiche di “ibridazione” culturale. Castel sottolinea come questo diffuso sentimento di insicurezza sia l’effetto di un dislivello tra un’aspettativa socialmente costruita di protezioni e le capacità effettive, da parte della società, di farle funzionare. Un dislivello amplificato anche dal processo che Castel definisce di “désaffiliation/disassociazione”, ovvero di individualizzazione, dovuta alla rottura dei legami sociali che porta il nuovo “uomo psicologico”, sempre in ansia per le proprie prestazioni, a vivere l’esperienza della propria vulnerabilità senza poter contare sulle protezioni che una volta erano garantite dallo Stato sociale. Nell’attuale società del rischio la sicurezza non è mai data  Han la definisce la “SOCIETÀ DELLA PERFORMANCE”: una società segnata dalla centralità dei consumi e dalla precarietà della condizione lavorativa, dove la “società” si riduce ad una moltitudine di singoli individui costretti a correre sulle sabbie mobili dell’in- certezza. Il neoliberismo scarica infatti le sue contraddizioni sistemiche sull’individuo, forzato ad affrontare con risorse inadeguate i problemi che scaturiscono da un globale deterritorializzato e disorganizzato. Frange della popolazione ormai convinte di essere state lasciate ai margini del percorso, incapaci di controllare il loro futuro in un mondo sempre più segnato dal cambiamento, si percepiscono come categorie sacrificate sull’altare della globalizzazione. Al punto che, nelle relazioni che intrattengono con gli altri gruppi sociali, queste moltitudini mortificate, piuttosto che accogliere la diversità che tali gruppi rappresentano, cercano in essi dei capri espiatori capaci di spiegare la loro sensazione di abbandono. Nelle società in crisi, quando l’ansia sociale diventa difficile da gestire, il capro espiatorio previene il collasso. In questo modo si rafforzano e rinsaldano i LEGAMI INTERNI di una comunità minacciata e si preserva l’ordine, primo e imprescindibile scopo della società. La paura dell’altro si intreccia con la sua criminalizzazione e sempre più spesso con la ricerca di un uomo (o donna) forte che protegga i cittadini dai “barbari”. Un leader capace di rendere l’America di nuovo grande, o di far rinascere l’impero grazie alla Brexit, o di restituire l’Italia agli italiani. Mediante la CRIMINALIZZAZIONE, il governo si auto-giustifica sostenendo la necessità di proteggere i cittadini dalla minaccia di quanti cittadini non sono, dal pericolo degli “anti- cittadini”. Come i senza dimora e i poveri, i trasgressori dei confini sono visti come una minaccia al benessere del corpo sociale. Una volta stabilita la loro indesiderabilità, lo Stato li governa per mezzo di severi controlli ai confini, a cui segue il respingimento, la detenzione e la deportazione forzata. Ridefinire un problema sociale come crimine, e bollarne le vittime come criminali, è una strategia politica tipica di questo impoverimento democratico. Le proteste di strada contro l’accoglienza dei profughi e i decreti di emergenza volti a “bloccare gli sbarchi” sono spesso frutto di una paura legittima dei cittadini, ma amplificata e manipolata da gruppi e partiti della destra xenofoba per capitalizzare consenso elettorale. Lo spiegano bene gli studi sulla relazione tra xenofobia e deregulation (deregolarizzazione aka meno leggi che tutelano I lavoratori), tra paura degli immigrati e andamento del mercato del lavoro  la credenza dell’immigrato concorrente nel welfare e nel mercato del lavoro è particolarmente forte in alcuni Paesi, Italia compresa. A temere di più sono spesso i meno protetti. In altre parole, i più precari nel mercato del lavoro hanno sia la percezione che il numero dei migranti presenti nel proprio Paese sia più alto rispetto a quello effettivo, sia che il loro impatto sull’economia sia negativo, ovvero che questi siano un peso per il welfare. Come a dire che l’arrivo dei migranti ha coinciso con la deregulation del mercato del lavoro, e sono state attribuite ai primi le colpe della seconda. Così, oggi, piuttosto che lottare per far rispettare i diritti dei lavoratori, rilanciare la solidarietà di classe, l’organizzazione sindacale, e le politiche pubbliche, ci limitiamo a demonizzare chi sta peggio di noi e invocare la chiusura dei confini. Una società dove s’indeboliscono i legami sociali viene meno ogni capacità inclusiva e prevale un dispositivo predatorio, ridisegnando una nuova dimensione ideologica a cui si è dato il nome di “POPULISMO PENALE”  si registra una crescita del sistema penale quale strumento di governo della marginalità urbana. Non è tanto la criminalità a essere cambiata, in questo caso, quanto lo sguardo rivolto dalla società su certe illegalità di strada– ossia sulle popolazioni diseredate e disonorate per situazione o per origine che ne sono probabilmente responsabili e sul posto che essere occupano nel contesto urbano – e l’uso che se ne fa in campo politico e mediatico. Giovani disoccupati delle periferie degradate, mendicanti e senzatetto dei quartieri centrali, nomadi e tossicodipendenti alla deriva, immigrati senza permesso di soggiorno hanno così assunto rilevanza nello spazio pubblico, dove la loro presenza è divenuta indesiderabile e i loro comportamenti intollerabili. La POLITICA DELLA PAURA – la paura di un nemico illusorio – pare così essere l’unico strumento rimasto in mano ai politici per garantirsi il potere. D’altra parte, la paura è sempre stata interpretata come un meccanismo per affinare la lealtà e galvanizzare i legami collettivi, e sono molti gli studiosi che sottolineano il ruolo centrale che la paura ha svolto nel promuovere l'ostilità verso gli stranieri e nello stimolare l'integrazione nel moderno Stato-nazione. Hobsbawm scrive che la nazione fu “inventata” per creare coesione sociale in un momento in cui gli imperi stavano lottando per gestire forme concorrenti di pluralismo religioso e culturale. Le nazioni vogliono mantenere la loro particolarità contro ogni istanza di universalizzazione, finendo così per svolgere le stesse funzioni che una volta erano svolte dalle religioni: basti pensare ai monumenti, alle feste nazionali e alle ritualità per celebrarle, alla sacralità della bandiera o dell’inno. Sostituendosi alla religione, lo Stato nazione rende sacri anche i rituali e i simboli di frontiera, al punto che il superamento “illegale” dei confini è configurato come violazione e reato perseguibile per legge. Migrante o immigrato è lo straniero proveniente da paesi classificati come poveri, che associamo ad una condizione di supposta deprivazione, di inferiorità sociale e politica, di esigenza di controllo da parte delle autorità dei paesi riceventi. I confini regolano lo spostamento degli individui in base a una modalità di pensiero classista e razzista. La selezione sociale dei viaggiatori inizia molto prima che arrivino alla frontiera: è insita nella classificazione tra paesi sicuri e nazioni “sospette”, e dipende poi dalla ricchezza delle singole persone che aspirano a viaggiare  Il Paese di nascita e la classe di appartenenza di ciascuno segnano una delle più grandi disuguaglianze dei nostri giorni. Stiamo assistendo all’emergere di un mondo dove la mobilità fa riferimento al rango più elevato tra i valori che danno prestigio, e la stessa libertà di movimento, diventa il principale fattore di stratificazione sociale. Le rotte del Mediterraneo disegnano un mondo diviso tra “turisti” e “vagabondi”,che come sostiene Bauman, rappresentano l’uno l’alter ego dell’altro, con la differenza che il vagabondo è legato con catene doppie alla territorialità, umiliato dall’obbligo di dover restare fermo, a fronte dell'ostentata libertà di movimento degli altri. Vagabondo è colui da bandire, da gestire come vita di scarto, criminalizzandolo chiedendone l’esclusione, l’esilio o l’incarcerazione. Lo stesso processo di deterritorializzazione e uniformazione globale messo in atto dai media non corrisponde necessariamente ad una universale società più ospitale e pacifica. Anzi, i media contribuiscono nel demarcare i confini sotto molti punti di vista, sia nella realtà concreta della vita quotidiana, sia nell’immaginario sociale che la precede: lo fanno etichettando lo straniero come diverso, alimentando la paura e i discorsi di odio, riproducendo stereotipi razzisti, legittimando politiche di emergenza e securitizzazione. I media a volte promuovono una cittadinanza cosmopolita, altre volte reiterano infelici stereotipi sul diverso che incitano alla discriminazione e legittimano la costruzione di muri. I media incoraggiano quel processo di ADIAFORIZZAZIONE verso l’altro e l’altrove, Un processo di anestetizzazione morale e deresponsabilizzazione verso le sorti dei più vulnerabili, che rispecchia la chiusura tipica di questo triste tempo. CAPITOLO 2: Il ruolo dei mezzi di comunicazione nei processi di costruzione simbolica e sociale della realtà si è andato sempre più espandendo, parallelamente al procedere della globalizzazione e all’affermazione dei media digitali. I media non solo ci consentono di ampliare la gamma di conoscenze e informazioni sulla realtà sociale e sul mondo, ma facilitano l’interiorizzazione di norme, valori, aspettative e credenze della società, svolgendo una funzione di socializzazione, a fianco delle agenzie più tradizionali, quali la famiglia, la scuola o il gruppo dei pari. Minore è l'esperienza diretta o di prima mano che abbiamo di un fenomeno o di un contesto, maggiore sarà la nostra dipendenza dai media per ottenere in- formazioni e interpretazioni su di esso. Lungi dall’essere meri canali i media, infatti, sono essi stessi comunicatori o soggetti emittenti, producono discorso pubblico attraverso i processi di notiziabilità o newsmaking, nei quali si realizza la trasformazione dei fatti in notizie, se ne decide la salienza e li si organizza in modo cognitivo, secondo una serie di significati. Come evidenziato dai teorici dell’agenda setting un tratto peculiare del ruolo dei media nella costruzione del discorso pubblico è costituito dal loro potere di determinare e ordinare gerarchicamente la presenza dei temi nell’agenda pubblica, e di influenzare così la costruzione dell’agenda degli individui, la loro scelta dei temi intorno ai quali pensare o farsi un’idea. L’assunto fondamentale di questa teoria è che i media spingono la nostra attenzione su determinate questioni, ci suggeriscono ciò a cui dovremmo pensare, ciò che dovremmo sapere.  ad abbracciare quella che percepiscono come l’opinione pubblica dominante (attingendo alla copertura mediale e all’esperienza personale)  oppure a tacere per evitare l’ostracismo e la riprovazione sociale Quando l’individuo sceglie di difendere la propria posizione, percepita come minoritaria, attraverso il silenzio, quell’opinione scompare dal radar dei media e dall’arena della sfera pubblica, aumentando la percezione collettiva di quale sia l’opinione della maggioranza e generando, in un processo a spirale, il silenzio di chi si crede in minoranza. Un processo a spirale nel quale i media svolgono un ruolo importante nella percezione del clima di opinione maggioritario, dando spazio a una posizione piuttosto che a un’altra, sotto- rappresentando le minoranze e le loro idee e posizioni. Sebbene i media tradizionali (i cosiddetti media verticali o legacy media) siano ancora i mezzi di informazione principali per una larga parte dei cittadini italiani, ora i punti di accesso all’informazione sono aumentati. Se nel passato pochi e potenti network dominavano l’intero sistema, oggi gli individui possono contare su un’offerta che ricomprende al suo interno i legacy media (Tv, giornali, radio), gli online news outlet, i social media. Ciò che contraddistingue i media digitali o orizzontali è principalmente il minor controllo che essi esercitano sull’ingresso delle notizie nel sistema audiovisivo  la rete si basa sul libero accesso a messaggi incontrollati che incoraggia la produzione di una diffusione di massa indistinta di informazioni. Nell’era digitale si è così venuto a creare un meccanismo di minore attendibilità a favore di una maggiore diversità. I processi di DISINTERMEDIAZIONE NEL CAMPO COMUNICATIVO, favoriti dalla digitalizzazione, hanno intercettato una diffusa esigenza di partecipazione e protagonismo della società civile che ha bypassato le forze politiche e i media tradizionali. A tutti (o molti) è data oggi la possibilità di essere emittenti, opinion leader, influencer di cerchie di destinatari più o meno estese. L’ipotesi avanzata da alcuni autori è che la centralità dei social media nell’arena pubblica ridimensioni il potere di agenda dei media tradizionali e quindi la loro capacità di controllare e prevedere, insieme alle istituzioni politiche, il processo di costruzione di una rappresentazione egemone su fatti di grande rilevanza politica  L’evoluzione del confronto sui social media, infatti, favorirebbe processi di NETWORKED FRAMING, in grado di influenzare sia i media tradizionali sia il posizionamento dei principali leader politici. I media offrono tuttavia un potenziale strumento di sperimentazione di nuove forme di partecipazione democratica, di presa di parola plurale anche da parte di voci alternative, di minoranze e di azioni individuali  L’indebolimento dei media tradizionali nel ruolo di intermediari conseguente all’affermazione del web, prima, e dei social media, poi, ha moltiplicato le occasioni di interazione tra politici e cittadini, e tra cittadini e cittadini. Bisogna evidenziare però che la realizzazione di campagne di diffamazione o la messa in circolazione di informazioni tendenziose e distorte, sono diventate ormai attività facili e immediate da realizzare potenzialmente per chiunque. Gli utenti della rete tendono a frequentare prevalentemente spazi online che riflettono il loro sistema di credenze, agevolando la formazione di gruppi polarizzati che condividono valori e interessi comuni, costituendo una sfera pubblica sempre più frammentata in spazi separati denominati CYBER-GHETTI Si parla di CHIUSURA COGNITIVA aka di una maggiore disponibilità a consumare e diffondere solo contenuti che sostengono il proprio punto di vista, aumentando il rischio dell’estremizzazione delle opinioni e alla formazione delle cosiddette ECHO CHAMBERS o camere di risonanza, nelle quali viene convalidato in modo continuo lo stesso punto di vista. Il consumatore digitale verrebbe spinto a rifiutare la possibilità di dialogo con chi la pensa in modo diverso, alla ricerca di gratificazione per la propria posizione, in un ambiente favorevole e chiuso ad ogni corrente di pensiero opposta, che porta con sé il rischio di estremismi. Ad alimentare questo processo di frammentazione e polarizzazione contribuiscono gli algoritmi che governano i social network, in quanto ci espongono solo ai contenuti verso i quali abbiamo mostrato interesse al fine di rendere positiva la nostra esperienza sulla piattaforma. Sunstein parla a questo proposito della formazione di NICHE AUDIENCES aka nicchie di pubblico frammentate che favoriscono la diffusione di MICRO-CLIMI DI OPINIONE negando spazi di discussione e confronto tra gli utenti. Un fenomeno posto all’origine di un possibile indebolimento della democrazia che vede proprio nel dialogo tra le parti uno dei suoi tratti peculiari. La dinamica della frammentazione e della polarizzazione rischia, inoltre, di favorire la diffusione delle cosiddette FAKE NEWS, notizie false e ingannevoli che si propagano e si rafforzano sul web; la loro diffusione è stata notevolmente incrementata dai processi di globalizzazione e di digitalizzazione: oggi risulta più facile far circolare false notizie, che trovano proprio nelle echo chambers un luogo privilegiato, complice il rapporto di fiducia che lega la comunità di utenti che vi partecipa, che porta a condividere e diffondere ogni contenuto senza verificare, così come a difenderlo di fronte a contestazioni da parte di soggetti esterni, come: - i fact-checkers = sono coloro che controllano la veridicitá delle info - debunkers = sono coloro che smentiscono le info false Infine, una delle conseguenze possibili della diffusione di echo chambers e fake news è il fenomeno dell’HATE SPEECH: persone che hanno medesime idee possono esaltarsi a vicenda, e finire per promuovere campagne di odio nei confronti di gruppi avversari  è evidente che il fenomeno dell’hate speech non è nato con Internet e i social media, ma senza dubbio oggi trova in questi canali comunicativi un’ampia diffusione Diversamente dall’hate speech offline, studiato fino agli anni ‘90, legato a una “dimensione collettiva del rancore”, una dimensione ideologica, condizionata più dalle pressioni e dalle rivendicazioni dei gruppi (sociali, politici, ‘etnici’) che dall’iniziativa dei singoli, negli ultimi anni sembra essersi imposta sulla scena un’aggressività verbale individuale e individualizzata: veloce, priva di sovrastrutture, più difficile da prevedere e mediare. Un’aggressività individuale ma capace di fare rete, di aggregare online. Un fenomeno capace in incanalare una rabbia presente nella vita della collettività e scaricarla nei confronti di categorie specifiche, primi fra tutti gli immigrati e richiedenti asilo. Rispetto al potere di agenda, i temi sul fenomeno migratorio trasformati in notizie e resi salienti negli ultimi anni sono stati soprattutto: - i fatti di cronaca - le notizie clamorose - gli eventi drammatici - le derive patologiche Nei primi due decenni del nuovo millennio quando si è parlato di immigrati, lo sguardo dell’opinione pubblica si è rivolto prevalentemente a Lampedusa e ad altri porti di attracco degli sbarchi, ai naufragi nel mediterraneo alle notizie di disagio, sfruttamento e conflitto sociale nei campi di pomodori e negli agrumeti del Mezzogiorno, e a casi efferati di cronaca nera che hanno avuto come protagonisti uomini di origine immigrata. La varietà e la ricchezza del fenomeno migratorio non riescono a trovare spazio nell’informazione a mezzo stampa e televisiva, nonostante le numerose esperienze di integrazione e il rilevante apporto sociale ed economico che i migranti assicurano al Paese. Gli sbarchi sulle coste italiane, vera e propria icona mediale dell’intero fenomeno migratorio degli ultimi anni, hanno finito per occultare il vero volto dell’immigrazione: persone stabilmente e strutturalmente inserite nel tessuto economico e sociale italiano nella veste di lavoratori, imprenditori, contribuenti, studenti  Un’immigrazione molto più silenziosa, meno visibile, che balza meno all’occhio rispetto agli arrivi sui barconi, numericamente più esigui, ma con un impatto mediatico molto più forte. È rilevabile un gap tra: o l’immigrazione reale, quella che possiamo leggere attraverso le statistiche sugli stranieri presenti nel nostro Paese o la cosiddetta IMMIGRAZIONE MEDIATICA, vale a dire ciò che del fenomeno migratorio appare e viene raccontato dai media e che finisce per alimentare una percezione parziale e distorta di esso. L’immigrazione raccontata dai media ci restituisce un fenomeno in costante e drammatico aumento, in prevalenza costituito da giovani uomini, soprattutto rifugiati e immigrati irregolari, provenienti in gran parte dall’Africa e dal Medio Oriente, di religione musulmana (e quindi sospettati di terrorismo), accusati di rubare il lavoro agli italiani.  Gli immigrati irregolari sono l’8,7 della popolazione straniera complessiva presente in Italia, dunque la maggior parte degli stranieri è regolarmente soggiornante in Italia.  Da un punto di vista contributivo produce un impatto positivo sul sistema di welfare italiano, in particolare su quello pensionistico: le tasse e i contributi sono pagate anche dai lavoratori stranieri.  Inoltre, i lavoratori stranieri si concentrano in prevalenza nelle professioni delle cosiddette 5 P (precarie, pesanti, pericolose, poco pagate, penalizzate socialmente), scarsamente ambite dagli italiani, svolgendo un enorme quantità di lavori utili e indispensabili per la crescita del paese. In Italia negli ultimi due anni si è assistito a una contrazione delle domande di asilo e un aumento dei dinieghi delle richieste. La rappresentazione mediatica dei rifugiati come di schiere di diseredati che si dirigono in massa verso il Nord del mondo è lontana dalla realtà dei dati. Tra i 10 Paesi più coinvolti nell’accoglienza compare un solo Paese dell’UE, la Germania. In parte sono i profughi stessi a voler rimanere vicini a “casa”, nella speranza di ritornare indietro o per la mancanza di Il Covid-19, nel linguaggio giornalistico, ha fagocitato il tema migrazioni e lo ha trasformato a sua immagine, senza alterarne il valore negativo. Nell’ultimo rapporto dell’Associazione Carta di Roma vengono individuate due cornici emergenziali prevalenti:  il rilancio della rappresentazione e del racconto degli stranieri come minaccia dell’invasione  la rappresentazione di migranti, immigrati e rifugiati come minaccia di diffusione di malattie che fa rimbalzare la paura del clandestino-untore. L’ansia e la paura generate dalla crisi sociale ed economica trovano espressione nella radicalizzazione dell’intolleranza online, in particolare contro il tema già polarizzato dell’immigrazione, offrendo nuove argomentazioni a supporto dei nazionalismi e sovranismi. Se, all’inizio della pandemia, quando il racconto mediatico lo descriveva ancora come un fenomeno relegato principalmente alla Cina, è prevalso un sentimento sinofobo, col progredire della sua diffusione il bacino degli untori si è ampliato e migranti e rifugiati sono divenuti l’untore prediletto degli hater online, facilitati, quando puntano il dito, dal fatto che il loro bersaglio non abbia una voce per difendersi. La pandemia da Covid-19 ha pertanto rafforzato il trend di securitizzazione dei confini e di ripiegamento sulla sovranità nazionale, nello sforzo di proteggere il gruppo degli inclusi (i cittadini nazionali) dagli outsider, migranti e rifugiati, percepiti come una minaccia per il benessere nazionale. Si può affermare che il giornalismo stesso risulta responsabile, seppure spesso in modo involontario e non intenzionale, nella propagazione di contenuti di RAZZISMO SIMBOLICO, ovvero nella creazione di un’atmosfera sociale di ostilità e di rifiuto nei confronti di individui e di gruppi minoritari, a cui risultano associati pregiudizi e stereotipi fortemente negativi L’immigrazione come “invasione” è una delle cornici narrative comuni del discorso sull’immigrazione anche nei social network  discorsi che fanno un ampio utilizzo di fake news, di notizie infondate, statistiche o dati alterati, della lacunosità delle fonti di riferimento la cui rapidità di diffusione viene amplificata dal fenomeno delle echo chambers, le bolle di risonanza dalle quali gli utenti faticano a fuggire perché vi trovano la conferma ai loro pregiudizi, e quindi vi si trovano perfettamente a proprio agio. Dati emersi mostrano una preoccupante correlazione tra il linguaggio dei politici (sempre più caratterizzato da toni intolleranti e discriminatori) con l’aumento dei tweet razzisti e xenofobi di odio  Il discorso di odio non è più soltanto uno strumento con cui alcune forze politiche tentano di capitalizzare il consenso elettorale, ma sembra ormai diventato un modo di fare comunicazione (e discussione) politica, nel quale alcuni attori si trovano più a loro agio di altri, ma con cui tutti devono ormai fare i conti. Le ricerche realizzate evidenziano il passaggio dalla dimensione anonima e nascosta dell’hater alla sua dimensione “pubblica”, visibile, una schiera di hater quasi orgogliosi del proprio odiare  una rottura degli argini tra individuale e collettivo, pubblico e privato, registri bassi e registri medi della comunicazione, che ha creato progressivamente un’assuefazione sia nel produrre hate speech, sia nel diffonderlo, ascoltarlo e leggerlo. Un’aggressività sempre meno ostacolata da stigma e riprovazione sociale. Anzi, proprio le istituzioni che avrebbero dovuto fungere da argini (o avere un ruolo di mediazione) si sono fatte spesso loro stesse cassa di risonanza, nel caso dei partiti e dei rappresentanti delle istituzioni, legittimando l’azione dell’hater; sebbene la maggior parte dei politici non ricorra agli insulti e all’hate speech propriamente detto, l’aggressività di alcuni loro messaggi tradisce inequivocabilmente sentimenti di disprezzo o di ostilità. Si assiste così a un processo di normalizzazione e istituzionalizzazione del linguaggio discriminatorio che avvelena il discorso pubblico online  una normalizzazione dell’odio che porta con sé anche il rischio di una escalation delle pratiche discriminatorie. Il discorso pubblico sulle migrazioni costruito e amplificato dai media: - condiziona il pensiero e l’interpretazione che i cittadini hanno della realtà - influenza la rappresentazione sociale - trasforma gli allarmismi in realtà oggettive I messaggi costruiti e veicolati dalle televisioni, dai giornali, dalla radio, dai social network negli ultimi dieci anni hanno contribuito ad organizzare una percezione negativa del fenomeno. In diversi studi viene evidenziata una sovrastima del fenomeno migratorio che può essere correlata:  sia a un problema di scarsa informazione  paura e atteggiamenti di chiusura nascono anche da una conoscenza parziale o errata della realtà  sia alle visioni del mondo o al frame interpretativo con cui si guarda al fenomeno. L’atteggiamento fortemente negativo verso l’immigrazione potrebbe essere la causa di una sovrastima degli immigrati presenti nella società, così come potrebbe esserne la conseguenza  chi ritiene che gli immigrati siano “troppi” potrebbe essere indotto a maturare un sentimento di ostilità verso gli stessi immigrati. Lo scarto tra realtà e percezione è più basso al crescere del capitale culturale ed economico degli intervistati, ed è maggiore nei grandi centri urbani, dove si concentra maggiormente la presenza di persone immigrate. Vi è una passività e spersonalizzazione dei migranti, a tal punto che i cittadini registrano il fenomeno migratorio come un problema a livello di sistema Paese, ma poi nella vita “reale” difficilmente ne sperimentano davvero effetti negativi Il sovradimensionamento del fenomeno migratorio e delle sue conseguenze negative associato a un atteggiamento ostile nei confronti degli immigrati rende necessaria:  un’informazione più corretta e completa da parte dei media e dei politici  l’adozione di politiche di integrazione e coesione sociale verso tutte le fasce più fragili della popolazione, per farle uscire da una condizione di vulnerabilità e quindi dalla ricerca concitata dei responsabili della propria condizione, che li porta a trasformare il migrante in un capro espiatori. SOVRANISMO PSICHICO = intendendo un senso generalizzato e dolente della perdita della sovranità nazionale, accompagnato da un aumento della paura dell’“altro”, a cominciare dagli immigrati Considerazioni che suggeriscono di riflettere sulla necessità, per superare gli stereotipi e contrastare il clima di odio, di mettere al centro della narrazione mediatica la voce del migrante, la sua storia, riconoscendo l’altro come persona e non come categoria. Lo sviluppo di una rappresentazione più completa e plurale del fenomeno migratorio, libera da immagini stereotipate e pregiudizievoli, chiama in gioco tutti i soggetti coinvolti nel processo di comunicazione: produttori, distributori e riceventi delle immagini e delle narrazioni che quotidianamente raccontano il mondo. Chi ha la responsabilità di raccontare e veicolare i discorsi lo deve fare in modo completo e plurale, senza mettere a repentaglio la dignità di chi viene rappresentato, né stravolgere il significato degli eventi per ignoranza o per interesse. Una cattiva rappresentazione non è solo quella errata e fondata sulla disinformazione, ma anche quella che sceglie di raccontare la storia di qualcun altro senza considerare il suo punto di vista, raccontare cioè solo una parte della storia, senza ascoltarne i protagonisti. CAPITOLO 3: Settembre 2015 = le immagini di AYLAN KURDI, il bimbo siriano di 3 anni ritratto morto sulla spiaggia turca di Bodrum, dai social media hanno conquistato le prime pagine di tutti i giornali europei, provocando un’onda emotiva che ha spinto cittadini e politici ad accogliere più benevolmente milioni di siriani in fuga Foto che testimoniano il tragico epilogo di un disperato viaggio, uno dei tanti finiti in tragedia nel Mediterraneo, ma che, a differenza di tante altre, hanno suscitato stupore, rabbia, pietà. Diventando così, anche grazie all’esaltazione mediatica collettiva, icone universali, immagini di ogni diversità e di ogni ingiustizia fondata sull’ineguaglianza, mutando (almeno per un breve tempo) la percezione del migrante nell’opinione pubblica europea. Per quanto, infatti, alcune ricerche dimostrino che l’“EFFETTO AYLAN” ha avuto durata limitata, la foto del bimbo morto ha cambiato la cronaca giornalistica in senso più favorevole e simpatetico verso gli immigrati. Di certo la fotografia è stata un elemento chiave nella creazione di una sensibilità e una cultura dei diritti umani. Da sempre foto e video ci hanno reso testimoni della sofferenza umana e delle condizioni in cui versano gli “altri” lontani da “noi”. I media hanno ampliato il nostro spazio di azione quotidiano, la consapevolezza di vivere in un mondo diseguale e l’urgenza morale di agire. La mediatizzazione della sofferenza messa in atto dalle organizzazioni umanitarie ha contribuito alla creazione di una COSCIENZA DEI DIRITTI UMANI, favorendo al contempo la crescita di un impegno umanitario senza frontiere. L’identificazione simpatetica non preesiste alla rappresentazione della sofferenza, bensì si sviluppa alla luce di questa, che viene performata attraverso i media affinché chiunque possa assistervi nel ruolo di potenziale benefattore. Analizzando il legame tra narrazione della sofferenza e discorso umanitario, Kurasawa lo articola in quattro “icone”: - la personificazione - la massificazione - il salvataggio - la cura l’irregolarità delle traversate e ad un più generale sentimento di approvazione e rispetto verso i soccorritori in mare, militari o civili che fossero. In questo periodo aka 2014-2016 i principali media mantengono l’informazione dentro i confini della tolleranza  alla fine del 2016 ha inizio una nuova fase, tutt’ora in corso, che si caratterizza, invece, per una svolta comunicativa espressa da un sentimento di crescente ostilità e denuncia verso le Ong impegnate nel Mediterraneo, sospettate di collusione con i trafficanti di uomini sulle rotte migratorie tra Libia e Italia, che ha finito per incrinare la semantica del soccorso umanitario di tipo pietistico/paternalistico e RAFFORZARE IL FRAME DI STAMPO SECURITARIO. In questa seconda fase, il controllo delle frontiere è divenuto progressivamente prioritario rispetto alla stessa salvezza delle vite umane. Nel racconto e nelle immagini veicolate dai media, i soccorritori umanitari sono divenuti complici di trafficanti e scafisti, e, pertanto, non viene più evocato nello spettatore un sentimento di empatia nei loro confronti, bensì di sospetto e giudizio moralmente negativo. Una svolta comunicativa che ha contribuito a legittimare politiche migratorie più restrittive e il rafforzamento della militarizzazione dei confini. All’origine di questo cambiamento di frame vi sono le accuse di collusione delle Ong con i trafficanti di uomini sulle rotte migratorie tra Libia e Italia  si sottolinea il ruolo di pull factor ricoperto dalle navi di soccorso nel Mediterraneo, perché, pur senza volerlo, favoriscono la pianificazione del traffico di esseri umani, aiutano i criminali a raggiungere i loro obiettivi col minimo sforzo e rafforzano il loro modello di business. Un susseguirsi di fughe di notizie che scatena un vortice mediatico alimentato anche da malintesi, fake news o “post-verità” che produce, nel giro di pochi mesi, un rovesciamento semantico rispetto alla narrazione precedente: le morti in mare sarebbero da imputare alla presenza delle navi umanitarie che si spingono troppo vicino alle coste libiche. Il risultato è la costruzione di un’immagine negativa delle operazioni delle Ong, di un frame del sospetto e della criminalizzazione delle navi umanitarie. Nelle immagini veicolate dai media:  da un lato permane la compassione per i migranti, vittime di un traffico di esseri umani nel quale diventano complici i loro stessi soccorritori  dall’altro lato, guadagna spazio e salienza nel discorso pubblico mediatico e politico il tema del contrasto al traffico degli esseri umani e, in particolare, la possibilità di un accordo tra governo italiano e libico per fermare le partenze L’apertura di un fascicolo d’indagine conoscitivo sull’attività di queste ONG in mare genera reazioni divergenti, che vanno dai toni rassicuranti di chi sottolinea l’assenza di reato a quelli allarmistici. Luca Donadel il 6 marzo 2017 posta un video dalla sua pagina Facebook intitolato la verità sui migranti  il giovane racconta, con un linguaggio semplice ed efficace, che le Ong vanno a salvare i naufraghi in prossimità delle coste libiche e li portano in Italia, e non in porti più vicini (Tunisia o Malta), perché hanno un interesse ad alimentare il cosiddetto business dei migranti. Lo racconta come un “SERVIZIO TAXI”, finanziato prevalentemente con i soldi dei contribuenti italiani che: - fa risparmiare gli scafisti - agevola i trafficanti - riempie le tasche delle cooperative impegnate nel business dell’accoglienza Nel video non c’è una sola immagine di soccorso in mare, di migranti, operatori, barconi, gommoni o navi. L’unica immagine che ritrae immigrati è una foto di ospiti di una struttura di accoglienza che protestano per la scarsa qualità del vitto, e che il giovane mostra a conferma della sua tesi del business dell’accoglienza. I riflettori sono puntati non sulle vite da salvare in mare, bensì sulla collusione tra soccorritori e smugglers, rafforzando il frame del border control di stampo securitario, riportando il confine a poche miglia dalle coste italiane. Una svolta comunicativa che ha determinato uno slittamento della criminalizzazione dei migranti sui soccorritori e, più in generale, sulla solidarietà, attraverso un rinnovato occultamento delle ragioni alla base delle migrazioni forzate. A questo attacco mediatico le Ong hanno reagito in maniera tempestiva e corale, attraverso conferenze stampa, pubblicazione di post e video su siti web e social network, rilascio di interviste e dichiarazioni, interventi in trasmissioni televisive. I portavoce del mondo umanitario hanno denunciato la manipolazione mediatica in atto, evidenziando che l’azione umanitaria non è causa della crisi nel Mediterraneo, ma una risposta ad essa, poiché se non ci fossero persone che rischiano di morire in mare le navi umanitarie non ci sarebbero. È una polemica strumentale che nasconde le vere responsabilità di istituzioni e politiche. Se ci fossero canali legali e sicuri per raggiungere l’Europa, le persone in fuga non prenderebbero il mare e si ridurrebbe drasticamente il business dei trafficanti. 2017 = siglato l’accordo tra governo italiano e libico per fermare le partenze, detto anche Memorandum d’intesa (MoU) e legittimato il blocco dei soccorsi nel Mediterraneo attraverso il varo di un Codice di condotta delle Ong voluto dal governo Gentiloni. Di questo stesso periodo è il sequestro della NAVE IUVENTA, dell’Ong tedesca Jugend Rettet, per favoreggiamento dell’immigrazione illegale  in questo caso la forza (e il potere) del frame del sospetto sull’operato delle navi umanitarie appare in tutta la sua evidenza in un documento video, prodotto dalla Polizia di Stato. Protagonisti del video sono alcuni membri dell’equipaggio della nave, ritratti (da una certa distanza) durante operazioni in mare in situazioni di contatto con altre imbarcazioni dove si presume la presenza di trafficanti libici. Sequestro che ha inaugurato l’epoca della retorica dei #portichiusi del governo Conte- Di Maio-Salvini, e dei decreti sicurezza in cui si criminalizza l’ingresso e lo sbarco in acque italiane delle navi umanitarie. Vi è un cambio di clima politico, l’allucinante volontà di pensare che sia tutto finto, il cinismo razzista fondato su stereotipi duri da scardinare = tutto finto aka le immagini di bambini morti, persone vive per miracolo in seguito a un naufragio 2019 = la salita come ministro dell’interno di Lamorgese, al posto di salvini, ha abbassato l’attenzione mediatica nei confronti degli sbarchi, contribuendo in parte a distendere quel clima ostile nei confronti di quanti salvano vite in mare. Per quanto gli arrivi irregolari dei migranti siano aumentati, il cambio di governo ha rilassato il tono ansiogeno da emergenza permanente utilizzato negli anni precedenti I dati evidenziano infatti che la presenza delle Ong non incide in misura significativa sul numero di migranti che partono da quelle coste, dal momento che a raggiungere l’Italia non è solo chi parte dalla Libia, ma anche chi si imbarca da Tunisia, Algeria, Egitto, e persino Grecia o Turchia. Nel passaggio da un frame all’altro la paura ha prevalso sulla compassione:  fino a quando l’umanitarismo fa leva sulla pietà e l’assistenza per alleviare le ferite delle crisi che avvengono “a casa loro” tende a prevalere la nostra indole che si basa sulla compassione.  nel momento in cui l’intervento umanitario si svolge “a casa nostra” prevale la nostra indifferenza verso il richiamo morale ad alleviare le sofferenze altrui, se non un vero e proprio “razzismo democratico” che alimenta campagne mediatiche di “degradazione a non-persona” dei migranti nonché dubbi e minacce verso quei “taxi del mare”, accusati di fare affari con i trafficanti di uomini. CAPITOLO 4: La comunicazione in tema di immigrazione in Italia è un ambiente ancora saturo di rappresentazioni stereotipate, luoghi comuni, semplificazioni e omissioni: discorsi che privilegiano la spettacolarizzazione all’approfondimento. Silverstone identifica la virtù su cui fondare la Mediapolis nell’OSPITALITÀ MEDIATICA intesa non solo come presupposto della libertà di pensiero, ma anche come impegno all’ascolto dell’altro  il focus è sull’emittente e non sul destinatario del messaggio I media dovrebbero agire come “agenti di ospitalità”, rieducando il pubblico all’empatia e alla comprensione, spiegando il contesto e promuovendo un pensiero critico e inclusivo che stimoli la solidarietà. 2008 = Carta di Roma, concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti, a firma del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana  un codice che invita i professionisti dell’informazione a utilizzare termini giuridicamente appropriati, evitando diffusioni di informazioni imprecise, sommarie o distorte; ad approfondire gli argomenti trattati, avvalendosi dell’aiuto di esperti e diversificando le fonti Il consiglio rivolto agli operatori dell’informazione è di contestualizzare le notizie, di raccontare i luoghi di provenienza, le ragioni delle partenze, la cronaca dei viaggi, fornire ai lettori e agli ascoltatori il maggior numero di strumenti per riuscire a leggere le realtà e le persone con cui si entra in contatto. Molta attenzione viene posta, anche, al rischio dell’“ETNICIZZAZIONE” DELLE NOTIZIE, invitando i giornalisti a selezionare, tra le varie caratteristiche proprie di una persona coinvolta in un fatto di cronaca, solo quelle veramente pertinenti a capire cosa sia successo, per non favorire associazioni automatiche tra nazionalità e fatti criminosi o di degrado sociale che finiscono per veicolare e rafforzare stereotipi nei confronti degli stranieri Quando si parla di abbattimento di stereotipi e pregiudizi sociali o di decostruzione dei luoghi comuni, il pensiero va alle CAMPAGNE DI COMUNICAZIONE SOCIALE, che si propone di aumentare il livello di consapevolezza e coscienza dei cittadini su temi sociali, di rafforzare atteggiamenti e comportamenti socialmente positivi e modificare quelli negativi. Nel passato ci si illudeva di risolvere con la segregazione il problema posto da tutti coloro che non erano accettati nel corpo sociale: schiavi, eretici, ebrei, pazzi  la segregazione, cioè l’isolamento spaziale, ha avuto così nei secoli lo scopo di rendere visibile e di perpetuare l’estraneazione dei diversi Oggi l’esclusione sociale e politica passa attraverso la condanna all’immobilità. A sigillare questa separazione contribuiscono le stesse immagini tra smesse dai media che, quando si tratta di migranti e rifugiati, ci fanno vedere solo una massa indistinta e anonima, oscura e minacciosa, senza storie personali né nomi propri... In questo modo, i media diventano complici di questa “zoologizzazione degli umani”, che dipinge con tinte mostruose quanti sembrano incompatibili con la nostra idea di stanzialità. Ridefinire un problema sociale come crimine, e bollarne le vittime come criminali, fa parte di una strategia politica per autorizzare interventi di forza su comportamenti che prima non erano considerati “reato”. Trasformando così in criminali non solo quanti sono costretti ad attraversare i confini in maniera irregolare, ma anche quanti sono in qualche modo coinvolti con la complessità e la tragicità di questo fenomeno. Crimini, che non sono quelli commessi “contro l’umanità” ma quelli commessi per “eccesso di umanità”, per quel senso di ospitalità e giustizia che non ci permette di guardare altrove mentre un essere innocente brutalmente muore. Mediante la criminalizzazione della solidarietà il governo si auto-giustifica sostenendo la necessità di proteggere i cittadini dalla minaccia di quanti cittadini non sono, dal pericolo degli “anti-cittadini”. Come i senza dimora e i poveri, i trasgressori dei confini sono visti come una minaccia al benessere del corpo sociale. Una volta stabilita la loro indesiderabilità, lo Stato li governa per mezzo di severi controlli ai confini, a cui segue la detenzione e la deportazione forzata. I media svolgono un ruolo fondamentale sia nel processo di criminalizzazione, che vede i cittadini come vittime degli stranieri, sia in quello che Malkki definisce «PROCESSO DI PROFUGHIZZAZIONE», che mira a far interiorizzare il ruolo di vittima, privando così gli “ospiti” della loro agency, così come della loro identità e dignità  si tratta di un processo che tende a plasmare la vita del profugo affinché adegui la sua storia e il proprio modo di vita, compreso lo stesso aspetto fisico, alle aspettative convenzionali, ovvero agli stereotipi del “povero rifugiato”. Un rifugiato sorridente, pulito, benvestito e attraente appare come una contraddizione in termini, perché non rispetta la parte a lui assegnata. Bisogna rimettere in discussione l’idea occidentale di “sviluppo”, reagire all’occidentalizzazione del mondo  per farlo è necessario prendere coscienza di come hanno agito e ancora agiscono i colonialismi e post-colonialismi sulle divisioni di ordine economico, sociale e culturale che hanno disegnato un Nord e un Sud del pianeta. Ritenendo dunque legittimo lasciare gli stranieri fuori dalla porta, preferiamo ignorarne l’esistenza, evitarne l’incontro, sfuggirne lo sguardo. Ma dimentichiamo che non ci può es- sere umanità senza ospitalità. Lo straniero costituisce un’ambivalenza cognitiva che lo Stato ha storicamente tentato di risolvere:  attraverso una strategia antropofagica tesa a “divorarlo” assimilandolo  attraverso una strategia antropogenica rigettandolo, scacciandolo oltre le frontiere o escludendolo da ogni contatto con i cittadini Hannah Arendt nel 1943, con il suo Noi Profughi, denuncia che se continuiamo a intendere e praticare l’ospitalità come mera accoglienza solo verso chi è meritevole, come tolleranza verso chi ha bisogno ma deve dimostrarsi legittimo o utile, allora la politica dell’ospitalità si configura come un esercizio di potere, in quanto rende manifesta la superiorità dell’ospitante sull’ospitato. Il cosmopolitismo si trova nei gesti dell’ospitalità. Se lo vediamo come parte dell’impulso verso la socialità e di un ideale che emerge dal cuore della coscienza critica, allora possiamo affermare che potenzialmente il cosmopolitismo è in tutti noi. A modellare il cosmopolitismo contribuisce la mediapolis in cui ci immergiamo ogni giorno, che rende l’altro, lo straniero, sempre presente di fronte a noi. È necessario rinnovare il cosmopolitismo attraverso una democrazia che garantisca il “diritto ospitale” e che attribuisca a ciascun individuo la cittadinanza del mondo, ritenendo irrilevanti le distinzioni etniche, politiche, religiose, linguistiche o culturali  piuttosto che continuare a erigere barriere che impediscano la circolazione delle persone avrebbe più senso sforzarsi di convergere su un governo o coordinamento delle migrazioni, dando vita a una istituzione sovranazionale che possa gestire frazioni della sovranità degli Stati in ambiti connessi con le migrazioni. Il primo presupposto per entrare in relazione con l’altro è riconoscerlo, anche se a volte non siamo in grado di comprenderlo. Rispettando il suo diritto a essere diverso, non riconducibile alla nostra scala di valori, al nostro metro di lettura e di conoscenza.
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