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P. Grillo - La falsa inimicizia. Guelfi e ghibellini nell'Italia del Duecento, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto completo del libro di Paolo Grillo "La falsa inimicizia. Guelfi e ghibellini nell'Italia del Duecento".

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 26/04/2024

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Scarica P. Grillo - La falsa inimicizia. Guelfi e ghibellini nell'Italia del Duecento e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! 1 Paolo Grillo – LA FALSA INIMICIZIA GUELFI E GHIBELLINI NELL’ITALIA DEL DUECENTO INTRODUZIONE “Guelfi” e “ghibellini” sono due termini nati negli anni Quaranta del Duecento in Toscana e divennero di uso generale presso i cronisti di tutta Italia diversi decenni dopo. Prima di queste date si parlava – con maggior precisione – di “parte della Chiesa” (pars Ecclesiae) e di “parte dell’Impero” (pars Imperii). È probabile che “guelfi” e “ghibellini” rimandino all’aspra contesa per il controllo della corona imperiale svoltasi fra il 1212 e il 1215 tra Federico II di Svevia, appoggiato da papa Innocenzo III, e Ottone IV di Brunswick. Ottone, infatti, discendeva dal duca Guelfo (Welf) di Baviera. A sua volta Federico apparteneva alla casata di Svevia, il cui castello avito era Weiblingen (“Ghibellino”, in italiano), e con il cui nome, erroneamente, si indicava talvolta tutta la discendenza. Non risulta che i due fronti abbiano mai utilizzato i termini “guelfo” e “ghibellino” per identificarsi. Non sappiamo quindi perché i fiorentini, negli anni Quaranta del XIII secolo, decisero di riesumare queste parole per definire i membri della cittadinanza che parteggiavano per la Chiesa e per l’Impero. Nonostante ciò, è invalsa l’abitudine di utilizzare i termini “guelfo” e “ghibellino” più generalmente, anche per i precedenti secoli XI e XII, per indicare di volta in volta i partigiani dei papi e quelli degli imperatori. Quest’uso, però, è storicamente fuorviante, dato che implicherebbe l’esistenza già in quell’epoca di parti in conflitto organizzate e dotate di un solido retroterra ideologico. Esse invece comparvero soltanto durante le fasi più aspre dello scontro tra Federico II di Svevia e i papi Gregorio IX e Innocenzo IV. Non è vero che all’epoca tutta la vita pubblica si organizzasse attorno a tale polarizzazione. Quest’ultima era invece legata all’interesse di specifici gruppi di potere – talvolta interni al mondo comunale, talvolta estranei – che manipolavano a loro vantaggio il conflitto. All’interno delle mura urbane l’adesione a un’alleanza o all’altra poteva fungere da elemento legittimante per un governo e consolidarlo con la presenza di una forza armata esterna ma “ideologicamente” amica. Non bisogna però pensare a una perenne esasperazione dei contrasti: l’emarginazione o l’espulsione degli avversari mirava nella maggior parte dei casi a una loro successiva riammissione contrattata, che riconoscesse l’egemonia di un determinato schieramento e permetteva talvolta a una moderata cooptazione nel gruppo dirigente di alcuni avversari. Allo stesso modo, nei rapporti intercittadini, vedremo come non fosse affatto vero che le rivalità fra i centri vicini portassero necessariamente all’adesione a schieramenti opposti e che queste contrapposizioni permanessero immutabili nei secoli. CAPITOLO I – LA NASCITA DELLE PARTI (1236-1250) Poteri universali a confronto: l’Impero contro la Chiesa Il 20 marzo 1239, papa Gregorio IX scomunicò l’imperatore e re di Sicilia Federico II, accusato di attentare alla libertà della Chiesa. La cancelleria di Federico II, guidata dal colto Pier delle Vigne, replicò all’atto con grande veemenza, contestando le accuse pontificie e chiamando i sovrani dell’Europa alla ribellione pena il rischio di finire assoggettati alle brame del pontefice. Questi, a sua volta, ad aprile fece circolare una nuova missiva, in cui si accusava Federico di essersi posto al servizio dell’Anticristo. (Federico era stato già scomunicato nel 1227 per essersi rifiutato di partire per la crociata e due anni dopo truppe al soldo del pontefice avevano tentato di invadere il Regno di Sicilia), ma ogni volta i due contendenti si erano rappacificati. Dalla scomunica del 1239 invece non si sarebbe più tornati indietro. Nel maggio del 1241, Gregorio indisse un concilio a Roma per chiamare la Chiesa a 2 raccolta contro l’imperatore, ma la flotta pisana al servizio di Federico intercettò le navi che portavano in Italia i cardinali francesi e li prese prigionieri, facendo così fallire l’iniziativa. Dopo la morte di Gregorio IX, nell’agosto del 1241, e dopo il brevissimo pontificato di Celestino IV, durato soli 17 giorni nel novembre successivo, vi fu un lungo interregno, chiusosi nel giugno del 1243 con l’elezione del genovese Sinibaldo Fieschi, che prese il nome di Innocenzo IV. Per breve tempo vi fu la speranza di una nuova riconciliazione fra papato e Impero. Le trattative fra la curia romana e la corte sveva, però, fallirono e Federico minacciò il papa di farlo imprigionare. Una squadra di navi genovesi riuscì a portare il pontefice in Francia, dove si pose sotto la protezione di re Luigi IX, il Santo. Da Lione, Innocenzo IV lanciò nel luglio 1245 un’invettiva spietata contro Federico, che venne scomunicato nuovamente, dichiarato deposto e chiamato spergiuro ed eretico. L’imperatore reagì nel 1246, radunando in Piemonte un esercito destinato a valicare le Alpi e a marciare su Lione, ma il peggioramento della situazione militare in Lombardia nella lotta contro i comuni capeggiati da Milano gli impedì di distogliere quelle forze del settore. Il conflitto armato era iniziato nel 1236, quando Federico aveva arruolato alcune migliaia di cavalieri pesanti tedeschi ed era sceso in Italia. Le parti dovettero affrontare un’interminabile guerra d’attrito, destinata a prolungarsi per altri 12 anni, fino alla morte dello Svevo, avvenuta il 13 dicembre del 1250. Imponendo dall’alto: la parte dell’Impero Una guerra così lunga era destinata a portare profondi mutamenti anche all’interno delle comunità urbane. La neutralità era impossibile: era necessario schierarsi con una parte o con l’altra e queste scelte potevano determinare conseguenze pesantissime. Le città erano governate a comune, quindi le grandi decisioni politiche erano determinate dalla volontà popolare che si esprimeva nei consigli e nelle assemblee: l’Impero e la Chiesa cominciarono dunque a utilizzare tutte le risorse di cui disponevano per condizionare tali decisioni e per assicurarsi che le famiglie o le organizzazioni a loro favorevoli conquistassero e poi mantenessero saldamente il potere. Opporsi al governo in carica, nei centri dello schieramento filofedericiano, diventava direttamente opporsi all’Impero, sicchè si cadeva nel reato capitale di alto tradimento e di lesa maestà. Nel cosiddetto Liber Augustalis, la raccolta di leggi per il Regno di Sicilia promulgata a Melfi nel 1231, i giuristi al servizio di Federico avevano dato una definizione assai drastica del crimen lesae maiestatis, assimilato al sacrilegio, data la natura divina del potere regio e imperiale. La legge, inoltre, non definiva dettagliatamente in cosa consistesse tale crimine, lasciando ampia discrezionalità ai magistrati nell’individuare i comportamenti punibili, che comportavano la morte, il sequestro dei beni e la messa a margine della società di tutti i parenti più stretti. Gli ufficiali imperiali inviati a governare le città dell’Italia centro-settentrionale non esitarono a dare estesa applicazione a questa normativa e a perseguire duramente chi si opponeva al loro governo. L’atteggiamento di Federico verso i suoi avversari divenne ancora più duro dopo il 1246, anno in cui l’esasperazione per una guerra sempre più costosa e lunga portò un gruppo di aristocratici meridionali a tentare una rivolta contro l’imperatore. La congiura fallì, la repressione fu spietata. Nel 1248 venne il turno di Firenze, dove Federico volle imporre la sua signoria diretta, nominando per tre anni di seguito il figlio illegittimo Federico di Antiochia quale podestà: a tal fine, spinse i suoi alleati Uberti a cacciare dalla città gli aderenti alla parte guelfa che si opponevano alla nomina. Ne nacque una violentissima battaglia urbana, risolta dall’arrivo dello stesso Federico di Antiochia alla testa di 1600 cavalieri tedeschi. I guelfi furono travolti e obbligati a espatriare, mentre le loro case venivano incendiate e ridotte in rovina. Si noti che all’epica un tale livello di violenza era estraneo alle consuetudini comunali e risultava legato alla presenza diretta dell’imperatore o dei suoi più stretti parenti. Gli ufficiali cittadini sembravano invece più propensi ad assumere un atteggiamento moderato. Operando dal basso: la parte della Chiesa Nel campo della Chiesa, invece, l’attacco agli avversari politici avvenne in forme assai diverse, benchè, nei loro esiti, non meno efficaci. Se nello schieramento imperiale, infatti, l’iniziativa prese avvio dagli ufficiali nominati da Federico alla guida delle città, la Chiesa decise invece di agire, per così dire, dall’interno e non al di sopra della società comunale, persuadendo, più che obbligando i governi cittadini ad assumere uno schieramento a lei 5 Montemerlo, preparando il rientro dei guelfi: i partigiani di Federico II, guidati dalla famiglia Uberti, non furono cacciati dalla città, ma comunque rimasero emarginati dalla vita politica. Insomma, la morte di Federico II trovava un campo imperiale decisamente indebolito dalle defezioni, provato dalle ripetute sconfitte sul campo e ormai privo del supporto finanziario di un Regno di Sicilia estenuato dall’insostenibile pressione fiscale esercitata dallo Svevo. Come talvolta accade, però, la fine della guerra portò conseguenze più favorevoli ai vinti che ai vincitori. Negli anni immediatamente successivi al 1250, infatti, quasi tutte le città filoimperiali rimasero, violente o nolente, sotto il controllo dei vecchi rettori imposti dallo Svevo, mentre quelle della parte della Chiesa conobbero una drammatica stagione di turbolenze, durante la quale, venuto a mancare il collante della lotta contro Federico, i terribili costi delle guerre sostenute finirono col creare una grave instabilità interna ed esterna. La stessa Milano aveva vinto sì la guerra, ma al prezzo di tremendi sacrifici umani e finanziari. Dopo la sconfitta di Cortenuova, per pagare i cittadini che prestavano servizi militare il comune aveva dovuto creare le cosiddette “carte di debito del comune”, ossia dei piccoli fogli di pergamena che contenevano la promessa di saldare successivamente la somma dovuta: il governo, insomma, finanziava la guerra producendo dei “pagherò”. Le carte di debito furono emesse in gran numero e infestarono per decenni l’economia milanese, dato che i titolari cercavano di sbarazzarsi facendole valere come moneta corrente, ma nessuno voleva accettarle. Alla fine fu il comune stesso a ritirarle, incassandole quale pagamento delle tasse, ma gli ultimi esemplari erano ancora in circolazione negli anni Ottanta del Duecento. La fine della guerra non portò sollievo alla grave situazione finanziaria. Nel 1251 e nel 1252, per pagare le spese belliche, si dovettero vendere tutti i beni fondiari del comune. A Milano gli scontri politici si confondevano con quelli religiosi: negli stessi anni, nobili e comunità del contado accusati di aver parteggiato per Federico II furono colpiti da scomunica come eretici e perseguiti dall’inquisizione. Le tensioni esplosero nella primavera del 1252 quando il frate predicatore Pietro da Verona (poi canonizzato come San Pietro Martire) venne assassinato, forse perché ostile alle famiglie aristocratiche in odore di ghibellinismo. Per risolvere l’emergenza, agli inizi del 1253 si chiamò per podestà, con un mandato triennale, un ex-collaboratore di Federico II, Manfredi Lancia, ora in rotta con il nuovo imperatore eletto, Corrado IV. Si trattava forse di una nomina volta a promuovere la riconciliazione interna anche con gli aderenti alla pars Imperii, nell’ottica di una più ampia pacificazione tra le parti politiche e sociali. In questo contesto, era urgente giungere a una pace generale, che stabilizzasse la situazione e mettesse un freno ai ripetuti conflitti sociali e politici, evitando il disgregarsi dell’alleanza che sosteneva il papato. A tal fine si adoperò papa Innocenzo IV durante il suo viaggio di ritorno da Lione a Roma. Il pontefice, infatti, dopo la morte di Federico interruppe la precedente politica di intransigente contrapposizione contro la parte dell’Impero e si adoperò per la riconciliazione tra le fazioni. Già il 7 febbraio 1251 egli scrisse in tal senso ai comuni di Cremona, Pavia, Tortona, Alessandria, Asti, Torino, Vercelli, Bergamo e Padova: questi però erano tutti centri governati dal partito imperiale, per cui, almeno in un primo momento, l’iniziativa di Innocenzo IV fu unilaterale: erano gli esuli suoi sostenitori che dovevano essere riammessi in città. Col peggiorare delle lotte interne, però, l’azione diplomatica del papa allargò il suo raggio e tra la primavera e l’estate egli intervenne a favore dei ghibellini di Genova e di Parma. A dicembre del 1251 diede al patriarca di Ravenna, Filippo da Pistoia, incarico di riconciliare le fazioni in tutta la Romagna, il che portò a una grande pace generale, celebrata nel 1253. La fine della guerra fu spesso l’occasione perché le forze del Popolo, per lo più guidate da mercanti e artigiani, assumessero il potere, o comunque un ruolo politico più rilevante, proponendosi anche come forza di mediazione, in grado di garantire la riconciliazione o quantomeno la convivenza fra le parti politiche schierate con la Chiesa e con l’Impero. Il caso più noto fu indubbiamente quello di Firenze, dove nell’ottobre del 1250 il Popolo cittadino prese le armi e cacciò i rappresentanti di Federico II, per poi richiamare i fuoriusciti antiimperiali. Le grandi famiglie filosveve in un primo momento non furono allontanate e i popolari cercarono di garantire la convivenza delle due fazioni. Il caso fiorentino mostra bene che in queste operazioni di pacificazione si cercava non il superamento della divisione fazionaria, ma semplicemente un modus vivendi il più possibile pacifico tra le due parti, comunque segnato dalla prevalenza di una, quanto meno nell’indirizzare la politica sovracittadina. Evidentemente due o tre lustri di durissima contrapposizione politica, ideologica e militare rendevano impossibile superare in tempi brevi la divisione. In tale situazione, si rendeva necessario un garante che potesse tutelare e imporre il rispetto degli accordi. 6 In alcuni casi, come a Firenze, fu il Popolo in prima persona ad assumersi tale responsabilità, ma più spesso si andò alla ricerca di una figura autorevole, a cui spesso venivano attribuiti a tal fine poteri straordinari. Di conseguenza, forse paradossalmente, la pace ancor più della guerra finiva col favorire le ambizioni di potere di singoli personaggi, che per conseguire i loro obiettivi potevano anche operare spericolati cambiamenti di campo. Il caso più clamoroso di voltafaccia si ebbe nel 1253, quando, Manfredi Lancia, uno dei più fidati e abili collaboratori di Federico, ostile all’ascesa del rivale Oberto Pelavicino quale vicario imperiale in Lombardia, si avvicinò a Milano, della quale divenne podestà e capitano di guerra, proprio mentre il rivale otteneva il medesimo incarico a Piacenza. Specularmente, i milanesi non si fecero alcuno scrupolo di prendere come governante della propria città un uomo che fino a pochi anni prima si era battuto contro di essa. Nei tre anni della sua podesteria straordinaria, il Lancia guidò l’esercito milanese contro i suoi vecchi alleati pavesi e vercellesi, anche se senza ottenere risultati di rilievo. In questo caso, comunque, l’atteggiamento del Lancia non può essere compreso guardando alla sola situazione locale, dato che, a motivarne il cambio di campo furono soprattutto i cattivi rapporti suoi e della sua famiglia con l’erede di Federico II, Corrado IV. Il ritorno della guerra I progetti di pacificazione promossi dal papa, dalle organizzazioni popolari e dai vicari imperiali ebbero nella maggior parte dei casi vita breve. Come abbiamo osservato, nella maggior parte dei comuni si prevedeva che una forza “estranea” ai due schieramenti – fosse essa il Popolo o un signore – avrebbe dovuto mantenere l’equilibrio politico, ma in realtà accadde il contrario: uno dei fronti finì con l’attirare nella sua orbita l’arbitro e con l’approfittare della nuova posizione di forza per conquistare il potere. Nell’Italia settentrionale, in una stagione di scomposizione e di ricomposizione frenetica degli schieramenti e dei rapporti di forze all’interno e all’esterno delle città, la parte imperiale, benchè di fatto sconfitta sul campo, fu quella che si mostrò maggiormente compatta, grazie soprattutto all’opera dei due ex plenipotenziari di Federico II, Oberto Pelavicino e Ezzelino da Romano, che riuscirono a mantenere il controllo delle comunità a loro soggette. Paradossalmente, dunque, nonostante il fallimento del progetto di Federico II e la mancanza sia di un re di Sicilia, sia di un imperatore legittimo, nell’Italia settentrionale, si stava creando un forte consenso nei riguardi dei signori che si proclamavano in qualche forma continuatori dell’esperienza sveva. In questo contesto, Corrado IV, figlio e erede di Federico II, dalla Germania potè riorganizzare rapidamente le file dei seguaci paterni, con i quali intratteneva una fitta corrispondenza. Nell’autunno del 1251 Corrado scese in Italia alla testa di qualche centinaio di cavalieri tedeschi e dopo aver riunito i suoi seguaci settentrionali a Goito, proseguì verso sud, per affermare la sua autorità sul regno di Sicilia. La reazione pontificia alla rapida ripresa della parte imperiale fu veemente e prese la forma di una serie di iniziative armate, pagate dalla curia e comandate da suoi esponenti. Negli stessi anni, si svolse l’offensiva condotta dal cardinale Filippo da Pistoia contro Ezzelino da Romano. Nominato legato generale per la spedizione in Veneto alla fine del 1255, Filippo condusse con grande energia la campagna contro il da Romano. Papa Alessandro IV, dato che Ezzelino era stato bollato come eretico e nemico della Chiesa, concesse addirittura i privilegi dei crociati a chi seguiva Filippo e questi, alla testa di un esercito composto in gran parte da Bolognesi e Veneziani, marciò verso Padova, conquistandola il 20 giugno 1256, dopo un violento assalto che travolse la resistenza ghibellina, e riuscendo poi a resistere a un immediato e altrettanto violento contrattacco ezzeliniano. Insomma, se alla morte di Federico II vi fu la speranza di una pacificazione postbellica costruita sulla base della debolezza della parte imperiale, la breve stagione si chiuse dopo pochi anni. Agli inizi del 1251 le due antiche rivali, Milano e Pavia, avevano concluso una pace che aspirava ad essere di dimensioni regionali. L’azione del Pelavicino e la discesa di Corrado IV misero però termine a queste ambizioni. Il ricostituirsi della potenza degli Svevi sull’Italia meridionale diede infine il colpo di grazia alle ambizioni di pace. I troppi eredi dell’Impero Non è infatti possibile comprendere gli sviluppi politici nell’Italia centro-settentrionale se non si prendono in considerazione i paralleli conflitti che nello stesso arco di tempo scuotevano il Regno di Sicilia. Nel suo testamento, dettato poco prima di morire, Federico II aveva stabilito una precisa linea di successione, che privilegiava il figlio 7 maggiore, Corrado IV, seguito da Enrico “Carlotto”, allora dodicenne, e dal diciottenne Manfredi, figlio dell’amante dell’imperatore, Bianca Lancia d’Agliano, e tardivamente legittimato. Manfredi ricevette però il governo del Principato di Taranto e le contee di Tricarico, Montescaglioso e Gravina. Dato che Corrado all’epoca viveva in Germania, Manfredi ottenne anche il governo del Regno, come vicario. Egli, infatti, era l’unico dei figli di Federico ad aver stabilito un rapporto d’affetto col padre, che lo aveva visto al suo fianco nei giorni della malattia finale e che aveva così inteso privilegiarlo al di là delle rigide leggi che regolavano la successione dei sovrani, che escludevano i figli naturali. Inutile dire che Corrado IV – il quale aveva diligentemente e devotamente servito gli interessi di Federico governando in sua vece la Germania e garantendogli un regolare e continuo afflusso di cavalieri tedeschi per la guerra in Italia – non apprezzò affatto. Si mise alacremente a organizzare la sua discesa nel Meridione e agli inizi del 1252 arrivò via mare nel Regno di Sicilia alla testa di un forte esercito. Enrico “Carlotto” morì all’improvviso, sicchè si diffuse il sospetto che fosse stato strangolato per ordine del fratello maggiore. Manfredi, nonostante si fosse sottomesso pacificamente, venne estromesso dal governo e privato di una parte delle sue contee. Sembrava che Corrado fosse padrone della situazione e si preparasse per una spedizione militare al nord, ma improvvisamente il re morì, il 21 maggio 1254, lasciando quale erede un bimbo di due anni, che era rimasto in Germania, anch’egli di nome Corrado, ma più noto con il soprannome di Corradino. Corrado IV aveva lasciato come tutore di Corradino e reggente in sua vece il nobile tedesco Bertoldo di Hohenburg, un fedele collaboratore di Federico II, ma Manfredi si proclamò autonomamente protettore dell’ignaro nipote e assunse il potere a suo nome. Dopo aver assunto il potere aprì trattative con la Curia per essere legittimato dal papa. In questa operazione, ottenne l’appoggio del cardinale Ottaviano degli Ubaldini, convinto dell’opporunità di un accordo pacifico con il giovane pretendente al trono. Innocenzo IV, però, diffidando di Manfredi, fu contrario ad ogni trattativa e prese le parti del marchese di Hohenburg, sicchè nel Regno scoppiò una guerra civile che vedeva il papa appoggiare un antico collaboratore di Federico II e il nipote dello stesso Federico contro il figlio di quest’ultimo. Il 7 dicembre successivo, papa Innocenzo IV morì e gli succedette il nobile laziale Rinaldo di Jenne, che prese il nome di Alessandro IV. Questi decise di intervenire direttamente nel Meridione, inviandovi un esercito per combattere Manfredi. Affidò però la spedizione militare contro Manfredi al cardinale Ottaviano degli Ubaldini che non aveva dato grande prova di sé nel Settentrione. Ottaviano condusse le operazioni di guerra con una lentezza e dir poco sospetta, per poi accordarsi con il principe di Taranto e abbandonare il Regno senza il consenso del papa, nell’agosto del 1255. A questo punto, Manfredi aveva la strada spianata. Nei due anni successivi eliminò le ultime sacche di resistenza e agli inizi del 1258 poteva dirsi ormai padrone del Regno. Manfredi doveva però ancora giustificare la incoronazione, avvenuto a danno del legittimo erede, il nipote Corradino. Egli fece dunque circolare la notizia che Corradino era morto, lasciando vacante il trono. Probabilmente fu per dare legittimazione al proprio colpo di mano e sottolineare la propria totale continuità, anche ideologica, con il governo di Federico II, che Manfredi assunse subito il patrocinio dell’antica parte dell’Impero, allacciando stretti rapporti con gli antichi fautori del padre. Il progetto lo portò ad agire anche nell’Italia comunale, ben al di fuori della sfera del suo potere. Va infatti ricordato che Federico II, oltre che re di Sicilia, era imperatore e che in questa seconda veste agiva contro le città centro-settentrionali. Manfredi, invece, aveva solo la corona siciliana e a rigore non aveva alcun interesse diretto nei territori a nord del fiume Liri, che segnava il confine settentrionale del Regno. Interessandosi di quanto avveniva nell’Italia comunale, egli rivendicava così l’eredità politica del padre, ma la sua autorità, nello stesso campo ghibellino, doveva fare i conti con un gran numero di rivali. CAPITOLO III – L’ITALIA DI MANFREDI (1258-1265) La battaglia di Cassano d’Adda Mentre Manfredi combatteva per conquistare il trono di Sicilia, la corona imperiale, rimasta vacante, era oggetto di interesse da parte di molti principi europei. Infatti, benchè l’Impero fosse ormai saldamente legato al Regno di Germania, proprio la sua natura universale quale erede dell’Impero Romano faceva sì che il titolare non dovesse per forza essere tedesco. Il papa, alla ricerca di un proprio candidato, scelse un nobile inglese, Riccardo di Cornovaglia, il quale fu eletto nel 1257 e riuscì ad esercitare una certa autorità sulla Germania, dove saltuariamente 10 1262, però, Urbano stabilì che i cittadini dei comuni scomunicati per essersi schierati con Manfredi non potessero più richiedere il pagamento dei loro crediti. Particolarmente interessante fu quello che accadde a Siena. Un certo malcontento verso il re di Sicilia si era diffuso a causa delle ambizioni di conquista che la città aveva verso Grosseto e le regioni circostanti, ambizioni contrastate da Manfredi, il quale voleva mantenere buoni rapporti con i signori della zona. Le decisioni di Urbano IV si aggiunsero a queste tensioni con effetti devastanti. Le grandi famiglie dei banchieri persero affari lucrosissimi in tutta Europa e protestarono violentemente contro i ghibellini, incapaci di tutelarle. Nel 1263 scoppiarono dei disordini, nel corso dei quali un membro del governo fu ucciso. Un folto gruppo di banchieri decise allora di lasciare la città e di schierarsi con il pontefice, ottenendo così l’assoluzione dalla scomunica e il diritto a incassare i propri crediti. Essi si fortificarono nel borgo di Radicofani e da lì ripresero a tessere le loro reti finanziarie – tornate legali – in tutta Europa, anche a vantaggio del papato: Siena era rimasta fino ad allora immune dal fenomeno del fuoriuscitismo, ma il ricatto di Urbano IV aveva dato vita alla Parte Guelfa senese. CAPITOLO IV – RE GUELFI E PAPI GHIBELLINI (1266-1282) La spedizione di Carlo d’Angiò Dopo le grandi vittorie dei suoi alleati in Lombardia e in Toscana, Manfredi, oltre a consolidare il proprio potere sull’Italia settentrionale, aveva assunto un atteggiamento sempre più ostile verso il pontefice, a cui stava cercando di sottrarre con le armi il controllo sulle Marche. Papa Urbano IV era dunque alla ricerca di un appoggio esterno, che potesse aiutarlo a combattere lo Svevo. Nel 1263 lo trovò in Carlo d’Angiò, fratello minore del re di Francia Luigi IX e conte di Provenza. Vantaggio non trascurabile, l’Angiò sin dal 1259 aveva conquistato una piccola testa di ponte in Piemonte, assoggettando la città di Alba e i borghi di Cunero, Mondovì e Savigliano: egli disponeva dunque non solo di una base operativa nella penisola, ma anche di una buona esperienza politica e militare che gli consentiva di muoversi abilmente nel complesso quadro politico italiano. Egli, prima di partire, volle prepararsi la strada intessendo una rete di alleanze in Lombardia e in Emilia Romagna, in modo da agevolare il transito del suo esercito diretto a sud. L’azione diplomatica di Carlo e del papa trovò un terreno agevole in un campo ghibellino profondamente diviso a causa delle rivalità fra i suoi principali esponenti. A Milano, il rapporto tra Martino della Torre e Oberto era rimasto saldo, ma nel novembre del 1263 il leader del Popolo milanese morì e gli subentrò nella carica di fratello Filippo. Questi guardava invece con timore il potere che Oberto esercitava quale comandante dell’esercito milanese e cercava di frenarne il desiderio di espansione verso Bergamo. L’8 dicembre 1263, con un colpo di mano, Filippo denunciò l’alleanza e cacciò da Milano Ubertino da Pellegrino, il podestà nominato da Oberto. Di questa crisi approfittò con abilità Carlo d’Angiò, appoggiato prima da papa Urbano IV e poi, detto la sua morte avvenuta il 2 ottobre 1264, dal suo successore Clemente IV. Nel novembre di quell’anno il mandato quinquennale di Oberto Pelavicino quale capitano di guerra a Milano scadde e non fu rinnovato. A marzo, venne nominato podestà di Milano il nobile provenzale Embaral des Baux. Il 24 maggio 1265 l’Angiò arrivava a Roma. Il fronte ghibellino, pur possente dal punto di vista militare, si sfaldò senza opporre alcuna valida resistenza all’avanzata franco-provenzale. Il 26 febbraio 1266, davanti alla città di Benevento, l’esercito di Manfredi fu disastrosamente sconfitto e il re di Sicilia in persona cadde mentre guidava i suoi uomini in un ultimo, disperato, assalto. Con questo trionfo, Carlo d’Angiò rimaneva padrone del regno di Sicilia. Almeno per il momento. Intermezzo: la pace di Clemente IV La vittoria di Carlo risolveva alcuni problemi per il papato, ma ne poneva altri. Il nuovo re di Sicilia aveva grandi ambizioni e un eventuale protettorato angioino su Roma sarebbe stato forse meno ostile di quello di Manfredi, ma non per questo più gradito al pontefice. Fin dal primo momento, papa Clemente IV e Carlo d’Angiò avevano avuto aspri scontri. Quando il conte di Provenza era giunto a Roma, nel maggio del 1265, aveva scelto quale sua residenza il palazzo apostolico del Laterano. Immediatamente, però, il papa era intervenuto, rivendicando la sua esclusiva titolarità sull’edificio e costringendo Carlo a ripiegare su un ben più modesto alloggio. Dopo la battaglia di 11 Benevento, però, i loro rapporti tornarono a guastarsi. L’esercito angioino, infatti, a corto di viveri e di denaro si era dato al saccheggio sistematico delle campagne e della stessa città di Benevento, che però era un’enclave soggetta al papa all’interno del territorio del Regno di Sicilia. Solo la minaccia della discesa di Corradino di Svevia dalla Germania in Italia tornò ad avvicinare i due, facendo loro accantonare i contrasti. Subito dopo la battaglia di Benevento, Clemente IV lanciò una poderosa offensiva diplomatica nell’Italia centro- settentrionale, cercando di allontanare dal potere gli ultimi alleati di Manfredi in modo pacifico, al fine di rendere inutile un eventuale intervento di Carlo. Carlo d’Angiò era giunto nella regione, deciso a imporre il governo della parte a lui più vicina. Clemente, venuto a sapere che dalla Germania Corradino stava pensando di scendere in Italia, cessò di opporsi all’azione del re, affidandogli l’incarico di “pacificare” (in realtà, assoggettare) la Toscana. Il 17 aprile 1267 le truppe angioine entrarono in Firenze, cacciandone i ghibellini e instaurando un regime guelfo, guidato da Carlo stesso, che ottenne la carica di podestà cittadino. Clemente non si era limitato a inviare i suoi uomini a Firenze, ma aveva tentato di ottenere una pacificazione generale di tutta la Toscana senza coinvolgere il re di Sicilia. Una volta presa Firenze, Carlo ottenne facilmente la sottomissione di Lucca, che nel 1267 gli attribuì una podesteria della durata di sei anni; seguirono Prato, Pistoia, Arezzo e altri comuni minori. Poco dopo, l’Angiò si autoplocamò vicario di tutta la Toscana e Clemente IV dovette obtorto collo riconoscerne il dominio sulla regione. Nel Settentrione, l’iniziativa pontificia ebbe invece risultati migliori. Nella regione, i successi ottenuti dall’esercito angioino contro il Pelavicino nell’autunno del 1265 avevano minato il prestigio del marchese. Già nel dicembre successivo la città di Brescia si ribellò al dominio pelaviciniano e chiamò un podestà milanese. Quando arrivarono da sud le notizie della sconfitta di Benevento, l’antico fronte ghibellino collassò definitivamente. Fallimentare in Toscana, l’offensiva diplomatica di Clemente IV ebbe pieno successo nel Settentrione, dove molte città si schierarono con la parte della Chiesa senza accettare il dominio di Carlo d’Angiò. Questo, come vedremo, ebbe una grandissima importanza nell’impedire il pieno consolidamento del potere angioino su tutta la penisola. Ma prima il papa e il re di Sicilia dovevano tornare ad allearsi per affrontare una nuova minaccia, quella di Corradino di Svevia, intenzionato a scendere in Italia per rivendicare la corona del padre Corrado. La spedizione di Corradino Il successo dell’iniziativa diplomatica pontificia nel Settentrione il vittorioso intervento militare di Carlo in Toscana fecero sì che i centri ghibellini superstiti cercassero un nuovo punto di riferimento, per coordinare la propria azione e ricevere soccorsi. Essi guardarono dunque a Corradino di Svevia, l’ultimo discendente maschio di Federico II ancora in vita. L’operazione prese avvio dalla Toscana, soprattutto ad opera di Pisa, che già negli ultimi anni Cinquanta aveva sostenuto i diritti del giovane duca e dunque avere buoni contatti con la corte di Svevia. L’appello degli uomini di Manfredi a Corradino non era così ovvio. Nel 1258, infatti, il piccolo figlio di Corrado IV, di appena sei anni, era stato privato della sua legittima eredità del trono di Sicilia da parte di Manfredi, che ne aveva anche fatto uccidere gli ambasciatori inviati a rivendicarne il trono. Negli anni successivi, anzi, erano stati i guelfi a guardare a Corradino come un possibile alleato. Corradino, comunque, acconsentì. Il giovane principe, comunque, fu abile a comprendere che doveva rivendicare l’eredità dello zio – a cui non doveva legarlo alcun sentimento d’affetto – più che quella del padre e si affrettò a circondarsi dei consiglieri superstiti di Manfredi. Nell’autunno del 1267 Corradino valicò il Brennero. La marcia di Corradino rivela ancora una volta quanto fossero fragili i grandi coordinamenti sovralocali nell’Italia del Duecento. La rete guelfa così laboriosamente intessuta dai legati pontifici nei due anni precedenti si dimostrò addirittura meno motivata e combattiva di quanto non fosse stata quella ghibellina nel 1265-66 contro Carlo d’Angiò. Il giovane principe e la sua scorta poterono avanzare in Italia senza praticamente incontrare opposizione da parte dei comuni della parte della Chiesa, le cui forze pur erano numericamente preponderanti. Corradino a ottobre fu accolto a Verona dai locali signori della Scala, che dopo aver mostrato per un certo periodo amicizia verso il partito pontificio in quell’occasione si riscoprirono radicalmente filoimperiali. A gennaio, questa forza attraversò pacificamente la Lombardia e si portò a Pavia senza incontrare alcuna opposizione. Ad aprile Corradino era a Pisa e le sue forze erano quasi raddoppiate, mentre rivolte a lui favorevoli erano scoppiate in Sicilia e a Lucera, obbligando Carlo d’Angiò a abbandonare la Toscana e rientrare precipitosamente nel Regno. A giugno, dopo aver sconfitto un contingente angioino guidato da Guillaume d’Etendard, l’esercito di Corradino entrò a Siena, per poi 12 raggiungere Roma, dove il 24 luglio fu accolto festosamente da buona parte della popolazione e dal nuovo senatore, Enrico di Castiglia. Papa Clemente IV, rifugiato a Viterbo, fulminò scomuniche e interdetti contro tutti i sostenitori dello Svevo, ma non fu in grado di contrapporgli alcuna efficace opposizione armata. L’avventura di Corradino, è noto, si concluse tragicamente. Il 23 agosto 1268 l’esercito di Carlo d’Angiò intercettò quello del giovane Svevo nella piana di Tagliacozzo, in Abruzzo. Sebbene fossero inferiori per numero, le forze angioine ottennero una vittoria schiacciante. Corradino, dopo una breve fuga, fu catturato, imprigionato e infine condannato a morte. L’Italia angioina La vittoria di Tagliacozzo segnò la definitiva affermazione del potere di Carlo d’Angiò, anche oltre il Meridione d’Italia: le ambizioni del nuovo sovrano, infatti, non si limitavano al solo Regno di Sicilia. Questo nei mesi successivi alla battaglia fu riportato sotto il controllo angioino, con l’eliminazione di tutti i focolai di rivolta accesisi durante la discesa di Corradino, in Puglia e in Sicilia. Carlo potè estendere il proprio potere in Piemonte, assumendo il controllo di Alessandria, Tortona, Acqui e Chieri, e fra Lombardia e Emilia, con la sottomissione di Brescia e di Piacenza. In Toscana, alle città già assoggettate nel 1267, si aggiunse Siena, la principale roccaforte ghibellina, che cedette dopo la battaglia di Colle Val d’Elsa. Senza simili scossoni, anche Pisa, per la quale il commercio con la Sicilia aveva un’importanza fondamentale, fra il 1270 e il 1272 concluse un accordo di amicizia con l’Angiò. La politica di affermazione angioina nell’Italia comunale era contraddistinta da una grande spregiudicatezza che variava a seconda della forza degli interlocutori. Dove prevaleva l’aristocrazia, Carlo la appoggiava, dove invece predominava il Popolo, Carlo ne riconosceva l’organizzazione e le rivendicazioni. Si noti che, almeno nelle grandi città, il regime instaurato da Carlo rispettava buona parte delle prerogative comunali. Introducendo in Italia una prassi transalpina, poi imitata da molti signori successivi, l’Angiò nel momento in cui accettava la dedizione di una comunità stipulava con essa dei dettagli patti di sottomissione, che definivano precisamente i poteri concessi al re e le competenze che restavano alla cittadinanza. Di norma questi accordi, soprattutto in area lombardo-emiliana e in Toscana, lasciavano buoni margini di autonomia alle collettività urbane, anche se riservavano al re la nomina del podestà e dei suoi principali collaboratori. Anche le elite civiche, comunque, ricavavano grandi vantaggi dalla sottomissione. Nell’Italia centro-settentrionale Carlo si presentava dunque come il vero erede di Federico II e di Manfredi e proponeva al complesso, ricco, ma anche conflittuale mondo delle città italiane un disegno politico alternativo, “monarchico”, che a prezzo di una limitazione degli spazi di autogoverno locali offriva (o quantomeno si sperava offrisse) maggiore stabilità politica e l’inserimento in quadri territoriali più vasti. L’offensiva diplomatica del re di Sicilia, però, non mancò di suscitare preoccupazioni fra i suoi stessi alleati. Non tutti, infatti, erano disposti a passare da una semplice alleanza a una piena sottomissione. I due diversi atteggiamenti emersero in modo esplicito durante una grande assemblea dei comuni aderenti alla parte della Chiesa tenutasi nell’autunno del 1269 a Cremona, quando soltanto un piccolo gruppo di città si disse disposto a concedere a Carlo una piena “signoria e dominazione” (e peraltro, anche fra queste, ben poche lo fecero effettivamente), mentre la maggior parte si dichiarò soltanto amica e alleata dell’ingombrante sovrano. Ancora una volta, fu la Lombardia il luogo in cui tensioni interne al campo guelfo esplosero più acute. Qui, i della Torre di Milano continuavano a mostrarsi insofferenti a qualsiasi limitazione delle loro ambizioni di supremazia regionale. Il loro dominio sui comuni vicini si era fatto via via più oppressivo ed eroso, per cui alcune città come Brescia e Alessandria, pur continuando ad aderire al campo guelfo, nel 1270 decisero di ribellarsi ai della Torre e assoggettarsi a Carlo d’Angiò. Nel caso di Brescia, questo portò a una vera guerra aperta tra guelfi angioini e guelfi torriani, conclusasi solo nel 1273, quando i due contendenti si resero conto che il conflitto andava a solo favore dei loro nemici comuni, come Guglielmo VII di Monferrato. Inoltre, Carlo non poteva accontentare tutti. I diversi centri che componevano il suo dominio o gli erano alleati o avevano interessi divergenti e operavano in concorrenza fra loro. La presenza di tutte queste rivalità e contraddizioni portò Carlo ad esasperare la politica fazionaria e il sostegno ai partiti guelfi più intransigenti, basata sul fatto che una continua minaccia militare ghibellina esterna avrebbe spinto i gruppi dirigenti locali a mantenere buoni rapporti con il principe angioino. Egli, dunque, a differenza del papa, non si presentò quasi mai nelle vesti del principe pacificatore, quanto piuttosto in quelle del capoparte. Nelle città 15 marche, dove solo dopo quattro anni di duri combattimenti (1282-1285) riuscirono a piegare la resistenza del leader ghibellino Guido da Montefeltro. Solo l’imperatore eletto, Rodolfo d’Asburgo, forse scorgendo un’opportunità di recuperare un ruolo di rilievo in Italia, tentò di intervenire attivamente nella caotica situazione lombarda. La sua azione, difficile da ricostruire a causa della scarsa documentazione rimasta, non sembra però essere stata particolarmente coerente e Rodolfo fallì nel suo tentativo di ritagliarsi uno spazio autonomo di azione, non riuscendo a influenzare a suo favore la situazione in Lombardia. L’arcivescovo e il marchese Un primo riscontro del rimescolamento di fronti che avvenne in Italia negli anni Ottante del Duecento si può avere ancora una volta in Lombardia. Qui, come abbiamo visto, nel 1277 l’arcivescovo Ottone Visconti aveva sconfitto i suoi rivali “guelfi” della Torre e si era impadronito del potere a Milano. Sebbene fossero entrati in città sulla base di un programma di riconciliazione e pacificazione, gli aristocratici vincitori si affrettarono ad assumere il controllo del governo comunale, imponendogli una forte connotazione di parte: gli organismi di Popolo furono estromessi dal potere e le cariche pubbliche occupate da esponenti della nuova fazione dominante. Tale atteggiamento portò però a una violenta ripresa dell’opposizione politica, rapidamente coagulatasi attorno a uno dei della Torre superstiti, Cassone, che dal 1278 iniziò da Lodi a effettuare una serie di devastanti incursioni contro il territorio milanese, senza che le forze degli “intrinseci” riuscissero a opporsi efficacemente. Il partito aristocratico cercò allora l’alleanza e l’appoggio militare del marchese Guglielmo VII di Monferrato, dandogli l’incarico militare di “capitano della città”. L’ingresso di Guglielmo VII a Milano sanciva la piena adesione della città a un più ampio schieramento ghibellino, che faceva capo, in ultima istanza, a Alfonso X. Nel 1281 Cassone della Torre venne sconfitto e ucciso in battaglia, il che diede a Guglielmo VII l’occasione per assumere i pieni poteri su Milano. La mossa suscitò però la violenta reazione dei popolari e delle famiglie aristocratiche più moderate: queste forze si raccolsero attorno all’arcivescovo Ottone che, a sua volta preoccupato per le ambizioni dell’alleato-rivale, sullo scorcio del 1282 si mise alla testa di un tumulto in seguito al quale gli ufficiali di Guglielmo furono cacciati dalla città. Guglielmo però non rinunciò mai all’ambizione di tornare a Milano. Nel 1285 erano pronti a scontrarsi due schieramenti formati solo sulla base delle ambizioni di supremazia locale, prescindendo posizioni ideologiche pregresse. Contro un possibile ritorno a Milano del marchese di Monferrato, infatti, l’arcivescovo Ottone aveva ribaltato la sua precedente politica di alleanze e si era avvicinato alle città guelfe della Lombardia orientale. Il nuovo schieramento fu sancito dalla chiamata dei nuovi podestà di Milano, tutti provenienti dai centri prima nemici, come Lodi, Brescia e Parma. Si crearono così due blocchi geograficamente compatti: uno a ovest di Milano, capeggiato da Guglielmo VII, che includeva oltre alle terre del Monferrato stesso anche Como, Pavia, Novara, Vercelli, Alba, Alessandria e Tortona, e uno a est che vedeva affiancate Milano, Brescia, Cremona e Piacenza con l’appoggio di Lodi e di Parma. Il 15 maggio 1285, mentre i due eserciti erano schierati presso la fortezza di Castelseprio, pronti per lo scontro finale, gli uomini del Visconti e quelli dei della Torre cominciarono a fraternizzare fra loro, rendendo impossibile la battaglia e obbligando i loro leader a trovare un accordo. Le avventure di un podestà in un’epoca di ambiguità Nel corso del Duecento quasi tutti i comuni italiani (con l’eccezione di Roma e Venezia) avevano adottato una forma di governo particolare, dove quello che oggi chiameremmo il “potere esecutivo” era affidato a una persona esterna alla città, il “podestà forestiero”, che doveva garantire imparzialità e autonomia rispetto ai gruppi di pressioni interni. Fra coloro che ottennero questi incarichi, alcuni cominciarono a distinguersi per abilità e competenza e furono ripetutamente chiamati da un gran numero di centri urbani, costruendo così delle vere carriere podestarili. Queste figure però si muovevano all’interno delle reti di alleanze preesistenti e con il consolidarsi dei due schieramenti si vennero a creare un “circuito guelfo” e un “circuito ghibellino”, separati fra loro, all’interno dei quali si muoveva il personale politico che aderiva all’una o all’altra parte. Due battaglie e molte incertezze: la Meloria e Campaldino In Toscana le suddivisioni sembravano nettissime. Le guelfe Firenze, Lucca, Prato, Pistoia e Siena si contrapponevano con forze soverchianti all’asse ghibellino composto da Pisa e da Arezzo. 16 Mar Tirreno, sul quale da decenni Genova e Pisa si contendevano l’egemonia e, in particolare, il controllo sulla Sardegna e sulla Corsica. I due comuni erano entrambi ghibellini. Pisa era sempre stata schierata col fronte imperiale e una parte “guelfa”, favorevole soprattutto al dialogo con gli Angiò, era nata soltanto negli anni Settanta, dopo la vittoria angioina a Tagliacozzo, attorno alla locale famiglia Visconti (da non confondersi con gli omonimi milanesi) e al conte Ugolino della Gherardesca: essi rappresentavano comunque una parte minoritaria, ancorchè vivace e violenta, del gruppo dirigente urbano. A sua volta Genova dal 1270 si trovava sotto l’egemonia delle due consorterie nobiliari dei Doria e degli Spinola, che avevano fatto schierare la città nel fronte imperiale e, con l’appoggio del Popolo, avevano emarginato le loro rivali guelfe dei Grimaldi e dei Fieschi. In teoria, dunque, i due centri appartenevano allo stesso fronte, ma la loro inimicizia nella aveva a che fare con il quadro politico italiano. Essa nasceva dalla rivalità commerciale sui grandi mercati del Mediterraneo, un affare su grande scala, di dimensioni ben più vaste rispetto ai conflitti regionali che travagliavano la penisola. I Vespri siciliani e la successiva guerra fra Angiò e Aragona sconvolsero tutto il quadro geopolitico del Mediterraneo occidentale e portarono allo scoppio della guerra aperta fra Genova e Pisa. Esasperata dai colpi subiti dalle sue linee di rifornimento marittime, la squadra toscana accettò la battaglia, che si combattè il 6 agosto 1284 sulle secche della Meloria, non lontano da Livorno e dal porto costruito poco lontano dai pisani (Porto Pisano, appunto). I Genovesi, più numerosi e meglio schierati, con il sole alle spalle ad ostacolare la visuale dei nemici, ottennero una vittoria schiacciante. Pisa, però, non capitolò di fronte alla disfatta. Il suo governo, al costo di condannare migliaia di cittadini a una dura prigionia nella città nemica, rifiutò di accettare le durissime condizioni di pace proposte dagli avversari e continuò la guerra. A questo punto, il quadro diplomatico si complicò. Pur teoricamente ghibellino, il governo genovese non ebbe alcuno scrupolo ad aprire trattative con le città guelfe nemiche di Pisa, al fine di aggredire la rivale da tutti i lati. Il 12 ottobre 1284 venne conclusa un’alleanza tra Genova, Firenze, Lucca e altri centri minori, che prevedeva un attacco a tenaglia, dal mare e da terra, contro Pisa. I pisani decisero di ribaltare il quadro delle alleanze e il 18 ottobre nominarono loro podestà per dieci anni il conte Ugolino della Gherardesca, guelfo militante e da tempo alleato di Firenze, che non tardò ad intavolare trattative con i suoi vecchi amici. Il risultato fu che Firenze si smarcò immediatamente dall’alleanza contro Pisa. Mentre continuava la tenace resistenza di Pisa, un altro fronte si aprì nella Toscana occidentale. Nel 1285, ad Arezzo, il Popolo aveva preso il potere, imponendo un governo “largo”, nel quale prevalevano le corporazioni di mestiere. Trovatisi emarginati, gli aristocratici, sia guelfi sia ghibellini, si coalizzarono contro i popolari e nel 1287 riuscirono a rientrare in armi in città e imporre nuovamente la loro supremazia. Il vescovo Guglielmo degli Ubertini, però, a questo punto prese la leadership delle famiglie ghibelline, cacciò da Arezzo i membri della parte della Chiesa e si fece nominare signore. Firenze ormai da vent’anni aveva adottato la fedeltà al papa e agli Angiò come elemento identitario, dunque la sua propaganda cominciò a martellare, presentando le due grandi spedizioni organizzate contro Arezzo nel 1288 e nel 1289 come guerre “guelfe”, tanto che la battaglia di Campaldino, combattuta l’11 giugno 1289, fu presentata come la rivincita rispetto a quella di Montaperti, persa quasi 30 anni prima. La battaglia di Campaldino, è noto, terminò con una schiacciante vittoria dei fiorentini. Fu una grande vittoria, ma come quella della Meloria non concluse la guerra, che si promulgò ancora per due anni. Tentativi di pace e consolidamento delle fazioni Paradossalmente, proprio mentre il ruolo delle ideologie guelfa e ghibellina come strumenti di coordinamento sovralocale mostrava tutti i suoi limiti, la contrapposizione interna alle città raggiungeva livelli di sistematicità e di esasperazione prima sconosciuti. Una delle ragioni della crisi delle istituzioni comunali a fine Duecento fu l’affermarsi, fallimentare, dell’idea che i conflitti, invece di venir di volta in volta moderati e regolati dalle autorità pubbliche, andassero eliminati alla radice, imponendo alla popolazione un assoluto conformismo politico, etico e religioso. Nel collasso dei grandi sistemi di alleanze su scala nazionale, furono paradossalmente proprio i fuoriusciti a mantenere in vita alcune tradizionali reti di rapporti, attraverso la ricerca di aiuti e amicizie che consentissero loro di rientrare nella città di origine. 17 In questo clima, dopo lo scoppio della guerra del Vespro, le iniziative volte a ricomporre i conflitti interni alle città furono sempre più rare e di minor efficacia. Gli ultimi tentativi di far convivere le fazioni erano stati compiuti da papa Niccolò III, che aveva intrapreso una grande campagna di pacificazione nell’Italia centrale, al fine di consolidarvi l’autorità della Chiesa: già alla fine degli anni Settanta del secolo, infatti, la crisi del predominio angioino aveva permesso una ripresa delle trattative finalizzate alla riconciliazione delle parti nell’Italia centrale. Alla base di questi insuccessi non era soltanto gli odi reciproci, consolidati da quasi mezzo secolo di conflitti, ma anche il fatto che l’uso sistematico del bando smuoveva colossali interessi economici, dato che i beni di chi lasciava la città passavano sotto il controllo del comune o, talvolta, delle organizzazioni di parte. In un primo momento, poteva accadere che le terre dei fuoriusciti fossero devastate o lasciate incolte, affinchè servissero da monito a chi pensava di schierarsi con la fazione sbagliata. Col diffondersi dei provvedimenti di espulsione e la durata sempre più lunga degli esili, però, ci si rese conto che in tal modo la città si privava di redditi importanti. Prevalse dunque l’idea di limitarsi alla distruzione delle case urbane, simboli del potere degli sconfitti, mentre gli altri beni fondiari venivano espropriati e riutilizzati. La demolizione delle dimore dei principali esponenti delle famiglie espulse conservava comunque un grande valore simbolico. Insomma, la base intesa come riconciliazione delle fazioni, senza strumenti coercitivi destinati a mantenerla, era destinata a durare poco, dato che una parte della cittadinanza si era avvantaggiata dall’esito dei conflitti ed era intenzionata a conservare le ricchezze e i privilegi così ottenuti. Se si voleva provare a risolvere la caotica situazione politica italiana era necessario cambiare l’approccio. Il nuovo pontefice, Bonifacio VIII, dunque, avrebbe aderito all’idea affermatasi nella maggior parte dei comuni: l’unica forma di pace attuabile sarebbe stata quella imposta da un vincitore. CAPITOLO VI – IL PAPA E IL POETA Bonifacio VIII Sullo scorcio del Duecento, anche i pontefici paiono essersi disinteressati della politica nell’Italia comunale. Papa Martino IV, alleato di ferro della casa angioina, dedicò gran parte delle sue energie a difendere la causa di Carlo II d’Angiò contro Pietro e Federico di Aragona nella guerra per il possesso della Sicilia, mentre, come è noto, il suo successore Celestino V (1294) era un mistico eremita, ultraottantenne, strappato alla guida della sua congregazione da un conclave paralizzato da oltre due anni dalle divisioni interne e incapace di convergere su un candidato politicamente più connotato. La situazione, però, era destinata a cambiare rapidamente. Il 13 dicembre 1294, con una decisione clamorosa, Celestino V abdicò e ritornò semplicemente frate Pietro da Morrone. Pochi giorni dopo, il 24 dicembre, veniva eletto nuovo papa l’ambiziosissimo cardinale Benedetto Caetani, che prese il nome di Bonifacio VIII. Dopo essere diventato pontefice mise le risorse della Chiesa a disposizione degli interessi privati della sua famiglia, un atteggiamento che raggiunse il culmine nel 1297 con la proclamazione di una crociata contro i suoi rivali della stirpe dei Colonna. È indubbio che Bonifacio avesse anche una grande capacità di governo e la dote (rara nei pontefici) di comprendere la complessità del mondo cittadino italiano. Le ambizioni di Bonifacio ne animavano la volontà di ridisegnare complessivamente la mappa politica della penisola, portandole tranquillità e ordine. Si trattava di un progetto egemonico, propedeutico a una più generale pacificazione del Mediterraneo cristiano al fine di organizzare una crociata per la riconquista della Terrasanta, definitivamente perduta dopo la caduta di San Giovanni d’Acri, di cui i Mamelucchi egiziani si erano sanguinosamente impossessati il 18 maggio 1291, senza che l’occidente latino, scosso dai suoi conflitti interni, avesse portato alcun soccorso. Vescovi, crociate e fazioni È indubbio che Bonifacio seppe comprendere come la persistente conflittualità civile che tormentava le città italiane gli fornisse un’eccellente giustificazione per intervenire nella loro politica interna e condizionarla a suo favore. Bonifacio decise di sostenere le fazioni a lui fedeli nelle singole città, perché essere potessero costituire governi stabili. L’iniziativa, però, non si risolveva schematicamente nel sostegno ai guelfi contro i ghibellini. Il papa 20 Nella primavera del 1302 si formò dunque in Lombardia una vasta coalizione che si riprometteva di cacciare da Milano Matteo Visconti. Essa riuniva le città di Piacenza, Cremona, Lodi, Vercelli e Novara, il marchese Giovanni I di Monferrato e i della Torre. Agli inizi di giugno, l’esercito coalizzato entrò nel contado di Milano e prima che Matteo Visconti potesse affrontarlo in battaglia la popolazione milanese – esasperata dalla crescente pressione fiscale dovuta alle spese militari – insorse contro di lui, rendendo impossibile ogni difesa. Matteo e suo figlio Galeazzo presero la via dell’esilio e a Milano si ricostruì un comune autonomo, mentre i della Torre venivano invitati a rientrare. La caduta di Milano sembrò così segnare il trionfo del progetto di Bonifacio: quasi tutta l’Italia settentrionale si era allineata sulle sue posizioni e gli resistevano solo poche città, come Verona, Mantova e Brescia. Le gravi difficoltà del fronte avverso a Bonifacio si ripercuotevano anche sulla Toscana, come dimostra il “convegno di San Godenzo”, ossia un contratto con il quale a giugno i principali esponenti dei Cerchi e alcuni loro amici, fra cui lo stesso Dante, cercarono di prolungare la resistenza degli Ubaldini di fronte alla controffensiva fiorentina promettendo di rifondere loro tutti i danni che avessero subito in guerra. Il contesto politico e militare, però, era ormai completamente a loro avverso e di conseguenza poco dopo gli esuli fiorentini si dispersero. 1303: la rapida crisi di un progetto A cavallo fra il 1302 e il 1303, però, la drammatica situazione del fronte avverso a Bonifacio migliorò, soprattutto grazie ai cambiamenti del quadro internazionale. I rapporti fra il pontefice e re Filippo il Bello di Francia andavano infatti rapidamente peggiorando, con l’emanazione della bolla Unam Sanctam, nel novembre del 1302, la convocazione degli stati generali di Francia e la successiva scomunica del sovrano, nell’aprile del 1303. Nello stesso periodo si ebbe anche un brusco cambiamento nella politica settentrionale, con conseguenze che si riverberarono in tutta Italia. Sullo scorcio del 1302 si consumò infatti la frattura fra Alberto Scotti, signore di Piacenza, e i della Torre. Essi erano stati inizialmente alleati contro Matteo Visconti, ma il secondo, desiderando emanciparsi dalla tutela politica del primo, nel novembre del 1302 cacciarono da Milano il podestà Bernardino Scotti e lo sostituirono con il cremonese Pino Vernazza. La situazione precipitò rapidamente e lo Scotti assunse un atteggiamento esplicitamente minaccioso, chiamando a Piacenza l’esule Matteo Visconti. Nello stesso periodo, anche a Bologna, il clima politico mutò nuovamente e bruscamente. Nei primi mesi del 1303, infatti, Carlo di Valois, di ritorno da una fallimentare spedizione siciliana, fu inviato in Romagna quale legato pontificio. Il governo di Bologna, temendo che il francese tentasse un colpo di mano sulla città, ordinò subito una stretta repressiva contro coloro che erano sospettati di essere suoi sostenitori e contro i partigiani di Bonifacio, che furono emarginati dalla vita pubblica. Le preoccupazioni dei “neri” non erano immotivate: a primavera, il blocco “bianco” aprì con decisione le ostilità. Papi “bianchi” e guelfi “neri” Furono sufficienti pochi mesi, però, perché il quadro cambiasse ancora. Il 7 settembre 1303, il messo del re di Francia Guglielmo di Nogaret e Sciarra Colonna, esponente della famiglia contro cui Bonifacio aveva bandito la crociata, piombarono di sorpresa su Anagni con un piccolo reparto di armati e catturarono il papa, che ivi risiedeva. L’episodio è tanto noto quanto sopravvalutato, perché in meno di tre giorni la situazione si ribaltò, quando la popolazione di Anagni prese le armi e mise in fuga gli aggressori, liberando il pontefice, che fu portato in trionfo a Roma. Egli avrebbe potuto riprendere la lotta contro il re di Francia, ma circa un mese dopo, l’11 ottobre, morì. Il suo successore, il domenicano Benedetto XI, benchè eletto dopo soli 10 giorni in sostanziale continuità con l’azione di Bonifacio, non ne condivideva appieno le scelte nel quadro della politica italiana. Benedetto XI si era legato strettamente ai Cerchi, il cui aiuto aveva richiesto per gestire le finanze della Curia, e Niccolò da Prato aveva il mandato preciso di farli ritornare in Firenze, a danno dei vecchi alleati di Bonifacio VIII. Insomma, ancora una volta le scelte pratiche ignoravano la coerenza ideologica: Benedetto XI era stato eletto per proseguire la politica di Bonifacio VIII, ma il suo inviato operava per rovesciare il governo fiorentino imposto da quest’ultimo. Per abbattere il regime guelfo “nero”, il rappresentante pontificio favoriva in teoria i “bianchi”, ma questi si erano ormai da due anni legati strettamente agli esuli ghibellini. La battaglia, impropriamente detta della Lastra (che in realtà fu solo la località in cui gli attaccanti si radunarono prima di avanzare) era terminata con un’irrimediabile disfatta. 21 Nel 1310, dopo sessant’anni d’assenza, un imperatore eletto si affacciò di nuovo nella penisola, con l’ambizione di riportarla sotto il suo dominio. Alla discesa di Enrico VII, che giungeva con l’appoggio di papa Clemente V e la benevola compiacenza del re di Napoli Roberto d’Angiò, le carte si rimescolarono ancora. Contro l’imperatore, rivendicando a tal fine l’etichetta di “guelfi”, si schierarono quei centri dove ancora prevaleva il partito fedele alla memoria di Bonifacio, come Firenze, Bologna e Padova, ostili a Clemente V e a Enrico. Con quest’ultimo, in una composita alleanza “ghibellina”, stavano famiglie e città di antica fedeltà imperiale, come Verona e i della Scala, i guelfi “bianchi” ostili al partito bonifaciano esuli dai comuni toscani e emiliani e molti esponenti del fronte “nero” convinti che fosse meglio cambiare campo. Anche questi gruppi, nei tre anni di permanenza italiana di Enrico (1310-1313) subirono un gran numero di cambiamenti e di mescolamenti. La partizione delle società urbane fra “guelfi” e “ghibellini” perdurò almeno fino alle guerre d’Italia, ma si trattava ormai di nomi tradizionali, che non evocavano più alcuna posizione significativa sotto il profilo ideologico. I “guelfi” e i “ghibellini” del Tre e del Quattrocento, per non parlare dei loro tardi epigoni risorgimentali, non avevano praticamente più nulla da spartire con le originarie “parte della Chiesa” e “parte dell’Impero”.
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