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Paniere domande aperte Storia della Filosofia 2023, Prove d'esame di Storia Della Filosofia

Domande aperte dell'esame di Storia della Filosofia a.a. 2022/2023

Tipologia: Prove d'esame

2020/2021

In vendita dal 21/06/2024

Mariana24
Mariana24 🇮🇹

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Scarica Paniere domande aperte Storia della Filosofia 2023 e più Prove d'esame in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! 1. Si esponga la concezione socratica del sapere di non sapere. Il contributo di Socrate alla filosofia è enorme, sia perché egli ha posto l’esigenza di trovare l’universale, vale a dire il concetto, l’aspetto razionale della realtà, sia per il metodo che egli ha praticato nella ricerca. Questo metodo è costituito da vari elementi caratteristici. Anzitutto esso suppone una situazione di dialogo: per sapere il “che cos’è”, è necessario domandarlo a qualcuno e la domanda non può che collocarsi nell’ambito di un dialogo. In questo modo Socrate personalizza la sua ricerca, coinvolgendo in essa la sua persona e quella del suo interlocutore. Poi è necessario che colui al quale è volta la domanda sia disposto a rispondere. In tutti i dialoghi socratici gli interlocutori di Socrate credono di sapere ciò che egli cerca. Anzi Socrate stesso finge di credere che essi lo sappiano, esercitando nei loro confronti la cosiddetta ironia, cioè una finta ammirazione, il cui carattere fittizio è trasparente e che serve a da un lato a ridimensione il presunto sapere dell’interlocutore e dall’altro a stimolarlo, a sfidarlo ad accettare il dialogo e a sottoporsi, quindi, alla prova che questo costituisce. Il dialogo si configura come un vero esame, in cui Socrate esamina, mette alla prova, il presunto sapere del suo interlocutore. Questi risponde alla domanda del “che cos’è” citando un caso particolare di essa, cioè una singola azione virtuosa. Socrate non è soddisfatto della risposta e la demolisce mediante la confutazione, deducendo da essa conseguenze autocontraddittorie. La confutazione, in Socrate, serve a rilevare l’insufficienza delle risposte particolari e a mostrare la necessità dell’universale. In certi casi, Socrate dapprima accetta la risposta che gli viene data dal suo interlocutore, ma ad un certo punto dichiara di sentire dentro si sé un demone, cioè una specie di essere intermedio tra l’umano e il divino, il quale gli fa intuire l’insufficienza della risposta accettata e lo induce a rifiutarla. Per Socrate il demone ha una funzione sempre e soltanto negativa, quella di vietargli di accettare una determinata tesi ed è in qualche modo connesso con la confutazione. Un altro elemento fondamentale del metodo socratico è il riconoscimento della propria ignoranza: Socrate dichiara di non sapere, non solo all’inizio del dialogo, quando domanda ai suoi interlocutori che cos’è una determinata virtù, ma anche alla fine del dialogo, quando constata che nessuna delle risposte date è soddisfacente e che nemmeno lui è in grado di dare la risposta cercata. La differenza sta nel fatto che all’inizio solo Socrate è consapevole della sua ignoranza, mentre alla fine anche i suoi interlocutori sono stati da lui resi consapevoli di essere ignoranti. Tutti sono ignoranti, solo che Socrate sa di esserlo e gli altri non lo sanno. In un punto Socrate sa più degli altri, precisamente in quando sa di non sapere. Il suo unico sapere è il sapere di non sapere, e questo è il risultato della sua ricerca. 2. Si esponga la concezione socratica della maieutica. Socrate, dichiarando di non sapere, cioè di non essere in grado di dare lui la risposta cercata, paragona se stesso a una levatrice, ricordando che questo era anche il lavoro di sua madre. Come la levatrice non partorisce essa stessa, ma aiuta le altre donne a partorire, così Socrate non trova lui stesso la risposta, cioè non partorisce il vero sapere, ma aiuta gli altri a trovarlo. Questo significa che egli considerava il suo metodo come sterile per sé, ma fecondo per gli altri, nel senso che aiutava gli altri a scoprire la verità. L’arte di aiutare a partorire era detta maieutica, così anche il metodo socratico è stato chiamato in questo modo. 3. Si esponga la concezione socratica della verità. Il concetto socratico di verità è in piena antitesi con il soggettivismo dei sofisti, che sostengono che ognuno può ritenere vero ciò che gli sembra tale. Socrate sostiene che solo nel confronto tra la propria verità e la verità altrui si possa giungere alla conoscenza di una verità universale. Con Socrate si supera la visione limitata del proprio punto di vista è si giunge al concetto del comprendere il punto di vista altrui, attraverso il dialogo. Il proprio punto di vista viene sottoposto a esame e confutazione da parte del proprio interlocutore attraverso uno scambio di domande e risposte. Il dialogo filosofico proposto da Socrate diviene il mezzo per una comune ricerca della verità, che non è più una verità soggettiva, come sostenevano i sofisti, ma bensì una verità universale che si fonda sul consenso di tutti. Il dialogo viene così elevato da Socrate a principio filosofico non solo intellettuale ma anche morale. Questo uso del dialogo come strumento di ricerca della verità universale viene esposto nell'apologia di Socrate. 4. Si esponga la concezione socratica del male. L’indagine dei primi filosofi era rivolta alla natura, sino a comprendere la stessa riflessione morale, con i sofisti l’attenzione era incentrata sulla vita della città, sviluppando le arti che permettevano di diventare dei buoni politici. Socrate spinse questa ricerca più in profondità, occupandosi di ciò che rende l’uomo un valente cittadino, e prima ancora, di ciò che rende l’uomo valente in quanto tale, in quanto uomo. Nell’Alcibiade I, Socrate fa notare ad Alcibiade, il quale ritiene di essere un buon politico, come, per essere un buon politico, per fare il bene della città, sia necessario essere un uomo di valore, cioè fare il bene di se stessi e realizzare la propria perfezione. Ma per rendere migliori se stessi, bisogna conoscere se stessi. Il se stesso, in cui consiste l’uomo, non è il suo corpo, il quale è uno strumento che l’uomo possiede e di cui si serve per vivere, ma la sua anima, cioè la sua più profonda natura, principio stesso della sua vita. Il senso del pensiero di Socrate è che esso corrisponde a quanto noi intendiamo oggi quando distinguiamo ciò che l’uomo ha da ciò che l’uomo è, l’avere dell’essere. L’avere corrisponde a ciò che Socrate avrebbe chiamato i beni esteriori, mentre l’essere corrisponde a ciò che Socrate avrebbe chiamato l’anima. Il bene dell’anima è la virtù: bisogna cercare la virtù, perché solo essa ci può dare la felicità. Tutte le virtù si riducono ad una: al sapere, alla conoscenza del bene. Questa dottrina significa che la virtù presuppone seriamente il sapere, ma anche la virtù è essenzialmente sapere. La conseguenza di questa dottrina è che, chi conosce il bene, automaticamente è virtuoso, agisce bene, mentre chi agisce male, il vizioso, lo fa solo perché non conosce il bene. Nessuno fa il male volontariamente. Chi agisce in tal modo sarebbe insensato, perché non ha senso volere il proprio male. Egli non tiene conto che nell’uomo c’è anche l’incontinenza, cioè l’incapacità di obbedire alla propria ragione e la tendenza ad agire in senso contrario a essa, anteponendo un piacere o un utile immediato a quello che pure si sa essere il proprio bene. La sua posizione è stata giudicata come una forma di intellettualismo etico: sopravvalutazione dell’intelletto, o della ragione, e sottovalutazione di altri fattori dell’agire umano. 5. Si esponga la dottrina platonica delle idee. La dottrina delle idee è esposta in quasi tutti i dialoghi di Platone, ma subisce un’evoluzione da una fase iniziale, corrispondente ai dialoghi ancora socratici, ad una più matura, corrispondete ai dialoghi della maturità, infine ad una crisi e ad una trasformazione, corrispondente ai dialoghi della vecchiaia. Platone riprende la domanda socratica e vi dà anche una risposta: il “che cos’è” è l’idea. Questo termine deriva dal greco, che significa vedere: perciò l’idea è ciò che si vede, l’aspetto visibile, la forma. Si tratta del vedere proprio della mente, dell’intelletto. Perciò l’idea p l’oggetto dell’intelletto, la forma intelligibile. Platone dice che tale essenza, cioè l’idea, è effettivamente conosciuta. La novità interviene nel momento in cui Platone afferma che l’idea non è solo l’essenza, ossia l’elemento unico ed identico, universale, presente in molte realtà particolari, ma essa è anche il modello, l’esemplare perfetto, il paradeigma (modello) delle realtà particolari, e quindi è una realtà essa stessa. Questo passaggio appare chiaro nell’Eutifrone, un dialogo giovanile in cui Platone fa emergere la sua concezione di idea. Illustrando la domanda di Socrate all’indovino Eutifrone, “che cos’è la santità?”, Platone dice che con tale domanda l’uomo non tende a non conoscere singole azioni sante, ma quella tale idea del santo per cui tutte le azioni sante sono sante, per potersene servire come modello, al fine di riconoscere come sante le azioni che le somigliano e come non sante quelle che non le somigliano. È evidente, quindi, che l’idea non è più è più soltanto l’essenza universale, ma è il modello stesso delle azioni sante, cioè una realtà. Questa natura dell’idea come realizzazione perfetta di un determinato carattere posseduto da molte cose in modo imperfetto, risulta più chiara nel Fedone, dove Platone prende come esempio di idea l’uguale. Quando noi diciamo che due realtà sensibili sono uguali, diciamo qualcosa che è vero solo approssimativamente. Tra le realtà sensibili nessuna è perfettamente uguale a un’altra. Dunque esiste un uguale in sé, cioè un uguale perfetto, diverso da tutti gli uguali sensibili, che sono uguali in modo imperfetto, il quale è l’uguale di cui si occupa la matematica, la vera scienza degli uguali. L’idea è condizione sia di perfezione morale che di esatta conoscenza scientifica, cioè di scienza. Quest’ultima caratteristica delle idee è sottolineata da Platone nel Cratilo. In esso Platone afferma che le realtà sensibili cambiano continuamente, non sono mai allo stesso modo, non sono mai identiche a se stesse e che di esse non è possibile avere scienza. Le idee si configurano come realtà universali e immutabili, mentre la superficie della terra rappresenta il mondo delle idee, a cui l’anima ritorna dopo essersi liberata dal corpo. 9. Si esponga la concezione platonica dell'arte. Platone attribuisce un valore formativo all’arte, grazie al suo carattere di suggestione, che fa leva sui sentimenti. Dal punto di vista educativo, Platone distingue diversi tipi di arte, alcuni negativi, altri positivi. È negativa l’epica, perché rappresenta gli dèi e gli eroi nell’atto di piangere e di soffrire, o troppo inclini al riso, o intemperanti e avidi, offrendo un cattivo esempio dal punto di vista morale. Anche la tragedia e la commedia hanno carattere negativo: la prima suscita la compassione e il pianto per le sventure altrui, inducendo l’anima a fare altrettanto; la seconda fa divertire e ridere per le buffonate altrui, inducendo l’anima a comportamenti ridicoli. Tutte le poesie che imitano piaceri amorosi, collera e passioni varie, finiscono per fomentare tali passioni, che invece bisognerebbe disciplinare. Platone è ostile alla poesia in quanto non educativa. È positiva la musica, il canto e la melodia: certe forme di armonia possono essere eccessivamente lamentose e molli, ma altre suscitano fermezza e serenità, perciò sono educative. La musica in genere è positiva quando è ispirata a un senso di bellezza, armonia, euritmia ed eleganza. Le arti figurative, pittura e scultura, sono negative. Sono concepite come imitazione della realtà sensibile; ma poiché quest’ultima è imitazione della realtà intelligibile, cioè delle idee, le arti figurative sono imitazioni di imitazioni, copie di copie, e si allontanano dalla vera realtà. Le arti figurative non ci fanno conoscere alcuna realtà, sono soltanto ingannatrici. Per questo caratteri imitativo, Platone condanna l’arte e propone di bandire artisti e poeti dalla città perfetta descritta nella Repubblica. Platone affermando che l’arte è una specie di potere concesso dagli dèi ai poeti, che trasmette la forza di attrazione ai successivi anelli di una catena. La fonte di tale potere è la Musa stessa, un ente superiore all’uomo, la quale lo trasmette ai poeti ispirandoli, penetrando in essi. La condizione in cui si trova il poeta quando è ispirato dalla Musa è l’entusiasmo, che significa invasamento da parte della divinità. È la divinità che priva i poeti dell’intelletto per poterli usare come suoi tramiti, sicché i bei poemi sono opera più degli dèi che dei poeti. 10. Si esponga la concezione platonica dello Stato. Nel più famoso dialogo politico di Platone, la Repubblica, Platone si domanda, nel primo libro, che cos’è la giustizia e dapprima non sa dare una risposta, mentre poi si avvia a rispondere spostando il tema dal singolo uomo alla città. Per dire che cos’è la giustizia, ossia quando un uomo è giusto, bisogna chiedersi quando è giusta una città, poiché la città è più grande dell’uomo e considerare la città è come leggere un testo in caratteri più grandi. Questa analogia suppone che la città sia una specie di uomo in grande, o che l’uomo sia una specie di città in piccolo, per cui ciò che vale a proposito dell’una vale anche a proposito dell’altro. Secondo Platone la città nasce perché i singoli individui non sono in grado di soddisfare tutti i propri bisogni e quindi sono portati dalla loro stessa natura ad associarsi e a collaborare alla realizzazione di fini comuni. La collaborazione riesce tanto meglio quanto più si fonda sulla distribuzione dei compiti, perché ciascuno riesce a far meglio ciò a cui è più portato. La città risulta formata da categorie di cittadini diverse, ciascuna delle quali svolge un compito particolare. Le categorie individuate da Platone nella Repubblica sono: i produttori, contadini, artigiani, commercianti, che hanno il compito di produrre i beni materiali necessari alla sopravvivenza della città intera; i custodi, o guerrieri, che hanno il compito di assicurare la difesa della città dai nemici esterni e l’ordine al suo interno; i governanti, che hanno il compito di governare, di guidare l’intera città alla realizzazione del suo bene. La città funziona bene e la si può chiamare giusta, quando ciascuna di queste tre categorie svolge bene il proprio compito, perciò la risposta alla domanda che cos’è la giustizia, è che ciascuno svolga bene il proprio compito. È poiché svolgere bene il proprio compito è la sua virtù, si può dire che la giustizia è la somma di tutte le virtù. 11. Si esponga la critica di Aristotele alla filosofia di Platone. La dottrina delle categorie è nata dallo sviluppo della dialettica esposta da Platone nel Sofista. Questa dottrina indusse Aristotele a rifiutare la dottrina delle idee. Aristotele osserva che la dottrina delle idee, ponendo un’idea separata per ciascun genere e ciascuna specie di realtà sensibili, aumenta di molto il numero delle realtà esistenti. Il motivo per cui essa è stata ammessa da Platone, cioè la necessità di dare un oggetto alla scienza, che è conoscenza universale, è valido, ma essa non porta ad ammettere idee separate, bensì porta ad ammettere – afferma Aristotele – dei caratteri universali esistenti nelle stesse realtà sensibili. Questi caratteri universali non devono essere intesi come soggetti, altrimenti si cade in un processo all’infinito e non si riesce a spiegare mai nulla in modo completo. Se le idee fossero separate dalle cose, esse dovrebbero essere sostanze prime, invece sono state ammesse come oggetti di scienza e quindi come realtà universali: ora l’universale o è sostanza seconda o è accidente, quindi non può mai esistere separatamente dalla sostanza prima, che è l’individuo sensibile. Le idee di cui parla Platone non servono a spiegare le cose, sono inutili. Esse non sono né causa dell’essere delle cose, perché sono separate rispetto alle cose, né sono causa del loro divenire, perché sono realtà inerti, non attive, non efficienti. Aristotele critica anche la dottrina platonica delle idee-numeri e dei loro principi. Anzitutto critica la riduzione delle idee a numeri, osservando che i numeri sono quantità, o relazioni, e non sostanza, perciò non possono esistere separati dalle cose. Secondo Aristotele non ha senso ammettere dei numeri diversi da quelli matematici, ma quelli matematici sono quantità, dunque non possono esistere separatamente dalle cose sensibili. I numeri, inoltre, non servono a spiegare le cose. Quanto ai principi delle idee-numeri, cioè l’Uno e la Diade indefinita, Aristotele in parte li critica e in parte li accoglie. Critica l’Uno, osservando che, se esso è inteso come unità di misura, assume tanti significati diversi quanti sono i generi di oggetti da misurare e quindi non può essere il medesimo principio per tutti; se invece è inteso come predicato di tutti gli enti, allora è universale e non è sostanza, cioè non può esistere separatamente dagli altri enti. Inoltre, anche inteso come predicato, assume, come l’essere, una molteplicità di significati, che sono tanti quante le categorie, e perciò non può essere principio unico di tutte le cose. Né ha senso identificarlo con il Bene, perché questo non può essere predicato di tutte le cose, ma solo di alcune. Aristotele critica la Diade, osservando che essa è una quantità, o una relazione, perciò non è sostanza e quindi non può essere principio delle sostanze. Infine critica il fatto di aver posto due principi identici per tutti gli enti e di averli intesi come contrari fra loro. Gli enti non possono avere tutti gli stessi principi, perché rientrano in generi diversi e irriducibili fra loro: i principi possono essere gli stessi solo per analogia, nel senso che in ogni genere ci devono essere principi analoghi, che svolgono le stesse funzioni, ma sono individualmente diversi. Non basta ammettere per ogni genere due principi fra loro contrari, perché i contrari non sono sostanza, in quanto le sostanze non hanno contrari, ma possono essere accolti successivamente in una medesima sostanza. 12. Si espongono i lineamenti fondamentali della logica aristotelica. La scienza del pensiero e del linguaggio è la logica, che Aristotele chiama analitica, perché essa analizza, scompone, il pensiero nei suoi elementi. Infatti fu considerata lo strumento di tutte le scienze. In Aristotele la logica è anche strumento delle altre scienze, ma è scienza di per se stessa, cioè scienza del pensiero e del linguaggio, delle realtà e delle loro relazioni, di cui essi sono segni. Le diverse opere di logica trattano i concetti, i giudizi, le proposizioni e i ragionamenti. I ragionamenti possono essere dimostrativi, cioè scientifici, oppure dialettici, oppure eristici. Tutti i concetti, per Aristotele, hanno due caratteristiche: l’estensione è la loro ampiezza, la loro universalità, cioè la capacità di abbracciare in sé altri concetti; la comprensione è la loro determinatezza, la loro capacità di distinguersi da altri concetti. Quanto maggiore è l’estensione di un concetto, tanto minore è la sua comprensione, e viceversa. I concetti che hanno l’estensione massima e la comprensione minima sono le categorie, quelli che hanno l’estensione minima e la comprensione massima sono le specie infime, cioè le specie che non contengono altre specie come loca casi particolari. Nel De interpretatione, Aristotele distingue le voci, i termini per convenzione, in nomi e verbi, gli uni privi dell’indicazione del tempo e gli altri aventi un’indicazione di tempo. Nomi e verbi non sono né veri né falsi. Quando un nome viene messo in relazione con un verbo, cioè è unito ad esso o distinto da esso, si ha una proposizione o discorso rispettivamente affermativa o negativa. Le proposizioni possono essere vere quando uniscono o dividono termini che significano cose realmente unite o realmente divise; sono false quando uniscono o dividono termini che significano cose non realmente unite o non realmente divise. Ci sono anche proposizioni che non né vere né false. Poiché esse hanno ugualmente un significato, sono chiamate discorsi semantici, cioè significanti. Le proposizioni che sono necessariamente vere o false sono chiamate da Aristotele discorsi apofantici, cioè enunciativi, o enunciazioni, o, a livello del pensiero, giudizi. I giudizi differisco tra loro per qualità, nel senso che sono affermativi o negativi. Due giudizi rispettivamente affermativo o negativo, aventi lo stesso soggetto e lo stesso predicato, danno luogo ad una contraddizione. Secondo Aristotele non è possibile che una contraddizione sia vera, cioè che nella realtà uno stesso soggetto sia unito e diviso dallo stesso predicato: si chiama principio di non contraddizione. È necessario che uno dei due giudizi inclusi nella contraddizione sia vero e che l’altro sia falso. Ciò non vuol dire che si sappia quale dei due è vero e quale è falso, ma che tra i due uno è vero e l’altro è falso, cioè che le cose stanno o come dice l’uno o come dice l’altro, e non si dà una terza possibilità: principio del terzo escluso. 13. Si esponga la concezione aristotelica di Dio. La concezione aristotelica di Dio è esposta nel libro XII della Metafisica. Aristotele definisce Dio come atto puro, privo di potenzialità, pienamente realizzato. Egli è la causa scatenante di ogni processo ma anche il suo fine. Secondo Aristotele essendo Dio la causa finale della realtà egli è il motore immobile di ogni movimento. Inoltre sostiene che questa entità divina sia in continua e imperturbabile auto contemplazione, è in ciò consiste la sua suprema beatitudine soddisfazione, da questo deriva la definizione di Dio come pensiero di pensiero. 14. Si esponga la dottrina aristotelica del movimento. Nel criticare i principi posti da Platone, Aristotele aveva rilevato che non basta porre due contrari, ma è necessario ammettere anche un sostrato, un terzo principio, capace di accogliere in sé i due contrari. Nella Fisica egli precisa il carattere di questi principi attraverso il mutamento. Ogniqualvolta si ha un divenire, si nota che una cosa, che prima non aveva un certo carattere, poi lo acquista. Per spiegare questo processo si deve ammettere l’esistenza di 3 principi: la cosa muta, e questo è il sostrato; la mancanza in esso di un certo carattere, cioè la privazione; infine il carattere che è stato acquisito, cioè la forma. Quando il mutamento è compiuto, il sostrato ha acquisito una forma e si comporta come materia. Se poi si considerano le sue fasi, mettendosi in una prospettica dinamica, la materia risulta essere presente già all’inizio come qualcosa che non possiede ancora la forma, ma possiede già la capacità di acquisirla, ossia è in potenza; mentre la forma si presenta al termine come realtà dispiegata, realizzata, ovvero in atto. La potenza è la materia, che può essere informe e può anche essere formata, cioè è capace di accogliere in sé entrambi i contrari; la forma, che è ormai presente e, con la sua presenza, realizza uno degli opposti che la materia era capace di accogliere, escludendo l’altro. Sia materia-privazione-forma, sia potenza-atto, sono presenti in tutte le cose che mutano, perciò sono principi di tutte le cose, anche se non sono conosciuti sempre dalla stessa realtà, ma cambiano per le diverse cose. Aristotele spiega la possibilità del divenire, che per lui è un passaggio dalla potenza all’atto, cioè da quel certo non-essere che è l’essere in potenza a quel certo essere che è l’essere in atto. Per spiegare il divenire questi principi non sono sufficienti. Non è possibile che la materia assuma una forma se non c’è un agente che produce questo passaggio. Questo principio è chiamato “principio del movimento”, o causa motrice, perché mette in movimento il processo. Il mutamento è pienamente intelligibile sono quando se ne scorge il fine a cui è diretto: dunque è necessario ammettere anche un fine di esso, la cosiddetta causa finale. Mentre la causa motrice è una realtà diversa dai principi già menzionati, perché li precede, la causa finale coincide con uno di essi, precisamente con la forma, perché il fine del processo è quello di realizzare la forma. Perciò la forma è anche chiamata entelècheia, parola da lui coniata per indicare il raggiungimento del fine, della perfezione. Anche la materia e la forma servono a spiegare il divenire. Esse possono essere chiamate ugualmente cause: causa materiale e causa formale. In sintesi, per spiegare il divenire, sono necessarie quattro tipi di cause: causa motrice, causa materiale, causa formale e causa finale. 15. Si esponga la concezione aristotelica dell'etica. dell’uomo, che era stata creata integra, e determinando in tutti li uomini che lo hanno ereditato una forte inclinazione a peccare continuamente. L’unico rimedio al peccato è la grazia di Dio. 21. Si esponga il rapporto tra ragione fede secondo Tommaso d'Aquino Secondo Tommaso d’Aquino, la filosofia si fona esclusivamente su conoscenze naturali, quali l’esperienza e la ragione, perciò è del tutto autonoma dalla fede e dalla teologia. Essa può conoscere verità che sono preliminari alla fede purché esse siano interamente accessibili alla ragione. La teologia, invece, si fonda sulla rivelazione, cioè sulle verità soprannaturali, accolte esclusivamente per fede e da queste essa deduce razionalmente le conseguenze che ne derivano, le quali non sono in contrasto con la ragione, ma al di sopra della portata fondativa di questa. Poiché questo rapporto di autonomia e armonia reciproca fra filosofia e teologia è affermato da Tommaso soprattutto nei confronti dei credenti, i quali o negavano l’autonomia dei due ambiti o negavano la loro armonia reciproca, egli si preoccupa di fondarlo su un argomento di fede. Nei confronti dei non credenti non c’è bisogno di dimostrare l’armonia tra ragione e fede, perché a questi è sufficiente proporre una filosofia costruita con argomenti puramente razionali. 22. Si esponga la prova ontologica dell'esistenza di Dio di Anselmo d'Aosta. Attraverso l’opera Proslogium, Anselmo d’Aosta investigò l’esistenza e l’essenza di Dio. Egli afferma che un essere tale è meglio che esista in effetto e non solo nel pensiero, perché se non esiste realmente, ma solo nel pensiero, è evidente che non sarebbe un essere di cui non si possa concepire il maggiore. Dall’esistenza del concetto parve tutta la conclusione della esistenza reale e sotto questo rispetto, l’argomento non fu ammesso da s. Tommaso per la confusione che sembra introdurre fra l’ordine reale e l’ordine ideale, quasi con un’implicita petizione di principio. Ma, se la premessa intende supporre la possibilità dell’essere necessario, quale certamente quello descritto da s. Anselmo, possibilità che gli stessi atei non osano quasi mai negare per il naturale concetto che ne hanno, è logico conchiuderne l’esistenza reale, perché nell’ente necessario della possibilità all’esistenza è legittima l’illazione. 23. Si espongano le prove dell'esistenza di Dio di Tommaso d'Aquino. Per Tommaso la prima nozione che l’intelletto concepisce è la nozione di ente, ossia di qualcosa (quid) che è (est). In questa nozione è possibile distinguere due componenti distinti fra loro, l’essenza, ossia il che cosa, e l’essere, cioè l’atto per cui la cosa è. L’essenza che è l’oggetto della definizione, può essere definita come pura forma, o forma sussistente, il che accade nel cado delle sostanze immateriali, o separate, oppure può essere definita come forma di una materia, il che accade nel caso delle sostanze materiali, o corporee. L’essere, pur essendo realmente distinto dall’essenza, non è un accidente dell’essenza, ma ne è l’atto, ossia la realizzazione perfetta, rispetto a cui l’essenza è soltanto potenza. In base a questa dottrina, egli può concepire Dio come l’Essere stesso sussistente. Tutti gli altri enti non sono per essenza, ma solo perché ricevono l’essere da Dio, dunque sono per partecipazione. Benché l’esistenza di Dio sia contenuta nella sua essenza, essa non ci è già nota, perché noi non abbiamo la conoscenza diretta di tale essenza, perciò Tommaso rifiuta l’argomento del Proslogion di s. Anselmo, in quanto egli suppone che noi conosciamo l’essenza di Dio. Secondo lui è possibile dimostrare l’esistenza di Dio attraverso i mezzi puramente naturali, quali l’esperienza e la ragione. A questo scopo egli ha elaborato le cinque vie, le quali hanno tutte la caratteristica di partire dall’esperienza e sono state dette a posteriori, cioè moventi da ciò che è posteriore a Dio. - La prima via parte dalla constatazione sensibile che qualcosa si muove, applica a questo il principio razionale per cui tutto ciò che si muove è mosso da altro e ne conclude l’esistenza di un motore. Ma non si può andare all’infinito nella serie dei motori mossi da altro, altrimenti il mondo sensibile nel suo complesso sarebbe qualcosa che si muove senza essere mosso da altro. Dunque deve esserci un motore immobile, il quale è ciò che comunemente si chiama Dio. - La seconda via parte dalla constatazione che nella realtà esistono effetti prodotti da cause ed osserva che non tutte le cause possono essere a loro volta effetti, altrimenti il mondo sarebbe un effetto senza causa; né esse possono essere effetto di se stesse, perché ciò che produce un effetto deve esistere prima di questo. Perciò deve esistere una causa che non è effetto di nulla, cioè una causa prima, la quale è comunemente chiamata Dio. - La terza via parte dalla constatazione che le realtà sensibili ora esistono e ora non esistono, sono contingenti, e osserva che non tutto ciò che esiste può essere contingente, altrimenti potrebbe darsi che in un qualche momento non sia esistito nulla, nel qual caso non si spiegherebbe come ora esiste qualcosa. Dunque deve esistere almeno un ente necessario, il quale è ciò che comunemente viene chiamato Dio. - La quarta via parte dalla constatazione che nella realtà sensibile esistono diversi gradi di perfezione e osserva che deve esistere un ente assolutamente perfetto, in riferimento al quale si possono distinguere i gradi meno perfetti: questo ente assolutamente perfetto è ciò che in genere viene chiamato Dio. - La quinta via parte dalla constatazione che nel mondo alcuni enti, pur essendo sprovvisti di intelligenza, agiscono in visti di un fine, pertanto deve esistere un’intelligenza suprema che lo diriga al fine, la quale viene comunemente chiamata Dio. Dimostrata razionalmente l’esistenza di Dio, Tommaso chiarisce quale conoscenza si può avere dalla sua essenza. Anzitutto se ne può avere una conoscenza pre via di rimozione, cioè rimuovendo da Dio tutte le imperfezioni che si riscontrano nelle creature, il che corrisponde alla neoplatonica teologia negativa. Ma poi Dio può essere conosciuto anche per analogia, cioè per mezzo di una teologia razionale positiva, fondata sulla dottrina dell’analogia dell’essere. L’essere, secondo Tommaso, non è univoco, cioè dotato di un unico significato, né equivoco, cioè dotato di significati completamente diversi, bensì analogo, cioìè dotato di significati in parte uguali e in parti diversi. Quasta analogia è sia costituita da un’identitò da rapporto fra termini diversi, per cui, pur essendo l’essere di Dio diverso dall’essere delle creature, tra Dio ed il suo essere c’è lo stesso rapporto che c’è tra le creature e il loro essere; sia costituita da una comune dipendenza di cose diverse da un termine identico, per cui l’essere delle creature dipende dall’essere di Dio. Pertanto l’essere delle creature, pur essendo diverso dall’essere di Dio, ha una certa somiglianza con questo, in quanto l’effetto rassomiglia sempre in una certa misura alla causa. Ciò consente di dire che Dio possiede le perfezioni possedute da certe creature. 24. Si esponga il cosiddetto rasoio di Ockham. Occam è noto per la sua adesione al nominalismo, una dottrina che nega l’esistenza degli universali, riducendoli a puri nomi. Egli ammette tra ordini di termini: quelli scritti, quelli proferiti con la voce e quelli concepiti con la mente. Tutti questi termini sono segni di cose, perché stanno al posto delle cose. Ma i termini mentali sono detti intentiones, perché sono orientamenti dell’anima verso determinate realtà, cioè sono indicazioni di cose. Indicano sempre soltanto enti individuali e sono realtà individuali, cioè atti dell’anima, atti di intendere. Non c’è bisogno di porre nessuna realtà universale, anzi si deve escludere l’esistenza degli universali, perché gli enti non devono essere moltiplicati senza necessità. A causa di questa eliminazione degli universali si è parlato del rasoio di Occam, come se fosse una specie di rasatura dalla realtà di ogni escrescenza superflua, e la posizione di Occam è stata contrapposta come via moderna a quella dei realisti, chiamata via antiqua. 25. Si espongano le varie soluzioni riguardo alla disputa sugli universali. Il commento di Borghezio alla traduzione in latino dell'Isagoge di Porfirio, introduzione allo studio delle categorie logiche di Aristotele, dà vita alla disputa sugli universali. I termini universali di genere e specie della tradizione platonica e aristotelica, hanno una realtà sostanziale oppure esistono solo nella mente dell'uomo come concetti puri, ricavati mediante astrazione? Ammesso che abbiano una realtà sostanziale, esistono nei singoli enti come loro essenza reale, oppure anteriori e separati da essi? I numerosi contributi alla disputa possono fondamentalmente dividersi in due soluzioni fondamentali: soluzione realistica: gli universali esistono come realtà sostanziali soluzione nominalistica: esistono solo i singoli enti individuali. Queste due soluzioni possono essere a loro volta divise in due tendenze, estrema e moderata: realismo estremo: soluzione di tipo platonico, si sostiene la realtà sostanziale dell'universale anteriore e separata dagli enti individuali, come idea perfetta nella mente divina. Realismo moderato: soluzione di tipo aristotelica, gli universali esistono in re, ma non prima è separatamente dagli enti individuali. Nominalismo moderato o concettualismo: viene affermata la non esistenza dell'universale nelle cose ma solo nella mente dell'uomo come concetto, che la mente umana estrae dagli enti individuali simili. Nominalismo estremo: nessun universale può esistere in re, e nemmeno ante rem. Gli universali non esistono nemmeno nella mente dell'uomo. L'unica cosa reale è il singolo individuo, mentre l'universale si riduce a un mero flatus vocis. Vi è anche una soluzione eclettica di compromesso, sostenuta da Alberto magno e Tommaso d'Aquino, secondo la quale gli universali sono sia ante rem, perché esistenti nella mente di Dio, sia in re, perché costituiscono l'essenza che Dio ha inserito nelle cose durante l'atto della creazione. Esistono anche post rem, in quanto la mente umana è in grado di astrarre gli universali dalle cose individuali, trasformandoli in immagini mentali che diventano segni convenzionali. 26. Si esponga la concezione dell'uomo e della vita del Rinascimento. Al contrario del medioevo, in cui l'uomo era considerato come un granello di sabbia nell'ordine cosmico, compiuto è perfetto, perché progettato da Dio, l'uomo del Rinascimento si considera artefice di se stesso. Egli ritiene di essere in grado di plasmare la propria funzione nel mondo. “homo faber ipsius fortunae” è la frase che sta alla base dell'antropologia rinascimentale, presa in prestito dal mondo classico. Per gli scrittori del Rinascimento la caratteristica che distingue l'uomo dagli altri esseri e proprio la sua capacità di forgiare il proprio destino. Proprio la fiducia nell'uomo sarà un elemento caratteristico della civiltà del Rinascimento. L'uomo virtuoso è capace di superare gli ostacoli che si contrappongono ai traguardi che vuole raggiungere. 27. Si esponga la concezione Machiavelliana della fortuna. Machiavelli definisce fortuna l'elemento non calcolabile non prevedibile della vita degli uomini e degli Stati. Per quanto il principe possa essere preparato vi è comunque un cono d'ombra della ragione umana, una possibilità incalcolabile che non può essere sondato dalla ragione. Questo elemento può essere dovuto alle decisioni delle forze avversarie attuali o potenziali. Per questa ragione una fondamentale virtù dell'uomo di Stato è la prudenza. Egli deve predisporre tutti i possibili ripari. Un altro fattore che può determinare l'imprevedibile è il temperamento o il carattere con cui gli uomini di Stato affrontano le cose. A seconda che usino l'irruenza o la cautela possono fallire o avere successo, a seconda della congruenza tra la loro reazione è le circostanze che si presentano. Perciò ogni evento storico è uno scontro tra virtù fortuna, il risultato di un confronto tra nesso determinato di virtù soggettiva e condizioni oggettive. 28. Si esponga la concezione Macchiavelliana della politica. Nel Principe Machiavelli concentra la sua attenzione sulla nuova forma di organizzazione politica nata nell’Italia del suo tempo, cioè il principato, per descrivere come i principati, da lui chiamati Stati, nascono, si mantengono e periscono. Già in questa formulazione del tema si può notare la sua considerazione dello Stato come singolo individuo, dotato di vita propria. Tale impressione è confermata dal fatto che egli applica allo Stato le leggi che a suo giudizio valgono per la vita degli individui, cioè quelle per cui ogni individuo tende soprattutto ad auto conservarsi, cioè a sopravvivere, e il suo unico fine non è la felicità, o il bene, ma semplicemente l’esistenza, la sicurezza. La stessa visione pessimistica vale per gli Stati, i quali non hanno come fine il bene comune dei cittadini, o il vivere bene di ciascuno, ma la conservazione di sé attraverso l’ordine interno e la pace all’esterno, cioè il semplice sopravvivere. Per questo motivo la politica diventa del tutto autonoma dall’etica, cioè non si preoccupa più, come nell’antichità e nel Medioevo, di ciò che è bene o male, ma solo di ciò che giova o nuove alla conservazione del potere: in vista di tale fine sono leciti tutti i mezzi, compresi l’inganno, la violenza e la frode, nonché l’uso strumentale della religione. È certo che Machiavelli non considerava il principato come la forma ideale di Stato, e che egli ne analizzò il funzionamento nel Principe soprattutto allo scopo di indicare una via per la realizzazione di un unico principato italiano capace di liberare l’Italia dalla dominazione straniera iniziatasi proprio durante la sua vita. Nei Discorsi sopra la ritenere di avere assicurato la prima delle due verità essenziali alla religione cristiana, cioè l’immortalità dell’anima. In realtà, l’argomento cartesiano dimostra solo l’immaterialità dell’io, ovvero l’anima, cioè la sua capacità di svolgere un’attività immateriale, quale è il pensiero: ciò che risulta indubitabile, è solo l’esistenza del proprio pensiero. La sostanzialità dell’anima è solo un’illazione che Cartesio compie a partire dalla constatazione che il pensiero è concepibile anche indipendentemente dal corpo e dal mondo, cioè dalla constatazione che il pensiero è oggetto di un’idea chiara e distinta. Che poi alla chiarezza e alla distinzione di un’idea debba corrispondere anche la sua verità, è solo un presupposto derivante dall’assunzione del metodo matematico quale criterio di verità. Solo nella matematica le idee chiare e distinte sono anche vere, e la chiarezza e la distinzione costituiscono l’evidenza, cioè la prima regola del metodo matematico. Cartesio, non solo non si accorge di questo, ma pretende di ricavare dall’indubitabilità del pensiero proprio la garanzia della validità della prima regola del metodo: subito dopo osserva che, se la chiarezza con cui si vede che per pensare bisogna esistere, è sufficiente ad assicurare la verità dell’affermazione penso, dunque esisto, allora ogni idea chiara e distinta deve essere anche vera. L’esistenza del pensiero è vera perché è indubitabile, non perché è oggetto di un’idea chiara e distinta, ed il fatto che essa sia anche un’idea chiara e distinta non autorizza affatto a pensare che tutte le idee chiare e distinte siano anche vere. La seconda tesi metafisica essenziale alla religione cristiana che Cartesio ritiene di dimostrare a partire dal subbio metodico, è l’esistenza di Dio. Cartesio considera l’esistenza di Dio come più certa di qualsiasi cosa. La considera come la garanzia della verità di tutte le idee chiare e distinte. Queste infatti sono vere proprio perché ci vengono da Dio, il quale, essendo perfetto, deve essere anche verace, e dunque non può avere messo in noi idee false. Le idee chiare e distinte che sono poi le idee della matematica, sono state date da Dio alla nostra ragione nel momento in cui chi ha creati, cioè sono idee innate e queste sole sono vere. Tutte le altre idee che noi abbiamo, le idee oscure e confuse, ci vengono dal mondo esterno, e sono idee avventizie, oppure sono state create da noi, cioè sono idee fittizie, e dunque non hanno nessuna garanzia di verità. 33. si esponga la concezione hobbesiana del linguaggio. La concezione hobbesiana del linguaggio parte dal concetto di idee, considerate hobbes corpi materiali della realtà, designate dai nomi. Questi ultimi sono segni, che non hanno un legame oggettivo o necessario con la realtà, ma sono collegati ad essa in maniera arbitrale e convenzionale. Le rappresentazioni, anche se entità completamente autonomi dagli oggetti, non possono prescindere dal legame con essi, al contrario di nomi che sono un'imposizione arbitraria che non hanno alcun rapporto con le cose. 34. Si esponga la concezione hobbesiana dello Stato. Secondo Hobbes sullo Stato è un corpo artificiale, nato da una convenzione dei singoli membri che delegano la tutela dei propri diritti naturali al nuovo organismo collettivo, per garantire la pace e la vita. Per Hobbes lo Stato può essere definito un dio mortale in grado di garantire pace è conservazione della vita ai propri membri. Al sovrano deve essere dato potere assoluto (sciolto da vincoli) pertanto ad esso sono sottomessi il Parlamento e il clero. Dunque egli risolve i contrasti Stato-Chiesa, sostenendo la posizione di supremazia del sovrano temporale. Ai membri del corpo collettivo spetta rispettare le leggi stabilite tramite auctoritas, in quanto queste leggi sono buone e giuste perché il potere che le ha viste è forte e valido. Secondo Hobbes lo Stato si regge su tre regole: bisogna cercare la pace bisogna rinunciare al diritto su tutto bisogna rispettare i patti sottoscritti queste tre regole nella visione hobbesiana sono alla base del concetto di giustizia e di legge positiva. L'assolutismo dello Stato monarchico concepito da Hobbes, e bilanciato con una maggiore libertà legata alla sfera privata dei sudditi. 35. Si esponga la concezione hobbesiana dello stato di natura. La concezione Hobbesiana dello stato di natura vede l'uomo, non come un animale politico e socievole (concezione aristotelica), ma come un essere interessato solo alla propria conservazione, interessato a perseguire il piacere è fuggire il dolore. Dunque lo stato di natura dalla visione di Hobbes è caratterizzato da una guerra di tutti contro tutti, in cui ogni uomo al lupo per l'altro uomo. In questo caso a trionfare è la natura egoistica dell'uomo, perché ci troviamo in assenza di un potere in grado di limitare la natura umana. Nello stato di natura l'uomo vive in continuo pericolo di morte violenta. Per sfuggire a questa situazione di precarietà gli uomini decidono di affidarsi a un corpo collettivo artificiale che lo Stato. 36. Si esponga la concezione pascaliana della conoscenza. Pascal distingue due forme di sapere, uno basato sull'autorità e uno basato sulla ragione. In ambito storico, geografico, linguistico e teologico è necessario rifarsi al principio di autorità del sapere. Mentre per le scienze che si basano sui sensi, come la matematica, la geometria, la fisica, ecc..., L'unico criterio per giungere alla verità deve essere quello della ragione, che ha il compito di far perfezionare la conoscenza che l'uomo ha di se stesso e del mondo. Tuttavia la ragione dell'uomo è pur sempre la ragione di un essere finito che non sarà mai in grado di cogliere l'infinito. Per questa ragione secondo Pascal si rende necessario l'intervento di un'altra facoltà che possa essere in grado di cogliere l'infinito. Pascal contrappone lo spirito geometrico allo spirito di finezza. Solo attraverso il secondo è possibile cogliere l'infinito, cioè quei principi primi, come spazio, tempo e movimento che non possono essere dimostrati ma vengono comunque compresi dall'uomo. 37. Si esponga la concezione pascaliane dell'esistenza umana La concezione dell’uomo si riassume nell’affermazione che l’uomo si trova in posizione intermedia tra i due infinti che sono caratteristici della natura, cioè l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Pascal si chiede cos’è l’uomo nella natura: un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, un che di mezzo tra il tutto e il nulla. Nel fatto di essere un nulla rispetto all’infinito consiste la miseria dell’uomo, cioè la sua debolezza, la sua incapacità di resistere alle passioni, la sua stessa incapacità di conoscere. A questo proposito Pascal fa valere le argomentazioni a favore dello scetticismo: le opinioni degli uomini sono tutte relative, lo stesso concetto di giustizia muta continuamente, a seconda dei tempi e dei luoghi. In quanto dotato di pensiero, l’uomo è incomparabilmente al di sopra di tutte le realtà materiali, ed in questo consiste la sua grandezza. L’uomo non è che una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che l’intero universo si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d’acqua bastano ad ucciderlo. Ma, quando pure l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, sa la superiorità che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non ne sa nulla. In questa contrapposizione tra la corporeità, che relega l’uomo ai più bassi livelli del creato, e la spiritualità, che lo innalza ai livelli più alti, ritorna chiaramente l’eco del dualismo cartesiano tra corpo e anima, res extensa e res cogitans. Un’altra famosa riflessione relativamente alla condizione dell’uomo, è quella riguardante il divertimento. Gli uomini cercano il divertimento, ossia le distrazioni, i piaceri, per dimenticare la propria miseria; ma in realtà il divertimento è la loro più grande miseria, perché appunto li distrae, cioè li distoglie dalla considerazione di ciò che realmente essi sono e in tal modo li svia dalla salvezza. 38. Si esponga la concezione pascaliane della fede Una famosa riflessione, contenuta nei Pensieri, relativa alla condizione dell’uomo, è quella riguardante il divertimento. Gli uomini cercano il divertimento, ossia le distrazioni, i piaceri, per dimenticare la propria miseria; ma in realtà il divertimento è la loro più grande miseria, perché appunto li distrae, cioè li distoglie dalla considerazione di ciò che realmente essi sono e in tal modo li svia dalla salvezza. L’alternativa al divertimento è la religione, vissuta da Pascal in un modo particolare, strettamente connesso alla sua concezione di Dio. 39. Si esponga la concezione spinoziana della conoscenza. Nel Tractatus de intellectus emendatione Spinoza presuppone la concezione della beatitudine e indica la via attraverso cui realizzarla. L’opera è stata chiamata il “suo discorso sul metodo”, ma il fine del metodo spinoziano è il conseguimento della beatitudine, cioè della felicità stessa dell’uomo. Tutti gli altri beni, quali il piacere dei sensi, la ricchezza, gli onori, pur non essendo in sé cattivi, non riescono mai a dare la felicità e dunque non sono veri beni, perché l’uomo aspira ad una felicità eterna e infinita, che gli può venire solo dalla conoscenza e dall’amore di una realtà eterna e infinita, quale è Dio, cioè l’unione della mente con la totalità della natura, perché in essa l’uomo realizza la massima perfezione del proprio essere. Per giungere a ciò è necessario compiere l’emendazione, cioè la correzione, la purificazione dell’intelletto da ogni errore e da ogni passione che possa fargli velo, in modo che possa intendere perfettamente. L’emendazione dell’intelletto consiste nell’elevarsi al grado più alto di conoscenza, superando tutti quelli inferiori, che sono causa di errori e causa delle passioni. I gradi di conoscenza, o modi della percezione, sono quattro: 1. La percezione ottenuta attraverso notizie fornite da altri o segni arbitrari; 2. La percezione risultante da esperienza vaga; 3. La percezione inadeguata dell’essenza, ottenuta attraverso un’altra cosa, per esempio quando si inferisce la causa a partire dall’effetto; 4. La percezione adeguata dall’essenza di una cosa, ottenuta direttamente o attraverso la sua causa prossima. Solo nel quarto grado si raggiunge la felicità. Quest’ultima forma di conoscenza consiste nella visione diretta dell’essenza di una cosa, cioè nell’intuizione intellettuale, ottenuta separando un’idea vera da tutte le altre idee false, in modo da avere una conoscenza chiara e distinta, e riconducendo tutte le idee all’unità, cioè all’idea della causa di tutte le cose, che è l’idea di Dio, ovvero deducendole tutte da questa. In tal modo si scopre l’ordine fisso ed eterno di tutte le cose, cioè si vede ciascuna cosa sotto il suo aspetto eterno. Secondo Spinoza, l’attività conoscitiva della mente umana può essere di tre generi: 1. Opinione o immaginazione: è una conoscenza lacunosa e confusa, derivata da idee inadeguate. Questa conoscenza si fonda sulle singole cose che ci sono rappresentate dai sensi o trasmesse dalla memoria. In questo genere di conoscenza le cose vengono viste come finite e contingenti, e non come modi della sostanza divina; 2. Ragione: è una conoscenza chiara e distinta, con la quale abbiamo le nozioni comuni e le idee adeguate delle proprietà delle cose. Questa conoscenza è necessariamente vera, adeguata e perfetta, perché contempla le cose non come contingenti ma come necessarie, e fa conoscere l’essenza eterna e infinita di Dio; 3. Intuizione: è una conoscenza che procede dall’idea adeguata dell’essenza formale di alcuni attributi di Dio alla conoscenza adeguata della essenza delle cose. Questa conoscenza sotto l’aspetto dell’eternità è il più alto appagamento della mente, e da essa nasce l’amore intellettuale di Dio. 40. Si esponga la concezione spinoziana delle passioni. L’Ethica di Spinoza ha come scopo la formulazione di una morale, cioè di una dottrina che insegni come ci si deve comportare per giungere alla felicità. All’etica propriamente detta sono dedicate le ultime tre parti dell’opera, che trattano delle passioni, della condizione in cui l’uomo si trova quando ne è schiavo e di quella in cui si trova quando se ne libera: in quest’ultima è riposta la felicità. Alla base di tutte le passioni c’è la tendenza dell’uomo a conservare il proprio essere, a potenziarlo e a perfezionarlo. Tale tendenza è detta conatus, sforzo, e viene identificata con l’essenza stessa delle cose. Ad essa nell’uomo si accompagna sempre un’idea, che può essere oscura e confusa, quindi inadeguata, oppure chiara e distinta, cioè adeguata. Quando il conatus è accompagnato da un’idea oscura e confusa dà luogo a un appetito, cioè ad una passione; quando invece esso si accompagna a un’idea chiara e distinta dà luogo alla volontà, e la passione scompare. Il modo per liberarsi, dunque, dalle passioni consiste nell’avere un’idea chiara e distinta circa lo sforzo di conservare e potenziare il proprio essere, cioè nel sapere come fare per ottenere questo risultato, così che il superamento delle passioni è dato dalla conoscenza. Spinoza inaugura in questo modo una vera e propria meccanica delle passioni, che vengono ricondotte a due fondamentali, la gioia e il dolore, prodotte rispettivamente dall’incontro con qualcosa che potenzia o depotenzia il proprio essere. Dalla gioia e dal dolore nascono l’amore e l’odio, che sono rispettivamente una gioia e un dolore accompagnati dall’idea di una causa esterna e, allo stesso modo, derivano poi tutti gli altri sentimenti. Per essere felici è necessario non essere asserviti alle passioni, perché queste, per il fatto di accompagnarsi a un’idea inadeguata, non consentono all’uomo di potenziare veramente il proprio essere, che può essere potenziato solo dalla conoscenza e dall’amore di Dio, quale si ottiene attraverso l’intelletto. Di qui l’utilità di liberarsi delle passioni mediante la conoscenza, anzitutto prendendo coscienza di esse, cioè sostituendo ad un’idea inadeguata un’idea adeguata, per mezzo della ragione. Esercitare la ragione riconoscendo l’ordine autentico della realtà, significa realizzare l’autentico potenziamento del proprio essere e quindi fare anche il proprio utile. In (complessa) di qualcosa che le sostiene e le tiene unite, cioè di un sostrato comune alle varie qualità: questa è l’idea della sostanza. Poiché questo sostrato non viene mai percepito da noi, esso rimane oscuro: la sostanza per Locke è un sostrato oscuro, cioè esistente, ma inconoscibile, a cui corrisponde un’idea complessa, la quale è a sua volta oscura e confusa, mentre le idee semplici delle singole qualità sono idee chiare e distinte. Per Locke dunque noi non conosciamo mai le essenze reali delle cose, le forme delle sostanze, e ciò che esprimiamo nelle definizioni delle sostanze sono solo delle essenze nominali, cioè significanti dei nomi stessi, necessari per identificare le sostanze, cioè per dire di che sorta sono. Anche le idee dei modi e delle relazioni, quando si riferiscono a cose esistenti fuori di noi, non sono mai chiare e distinte, ma hanno continuamente bisogno di essere verificate attraverso l’esperienza, perciò le scienze della natura hanno un valore solo sperimentale, non un valore assoluto, perché le loro conclusioni, per essere valide, devono essere confermate mediante esperimenti. Solo le idee di relazioni a noi perfettamente note che esistono solo nella nostra mente, o quelle stabilite dalle leggi morali, che sono rivelate da Dio o fatte dagli uomini, possono essere conosciute con assoluta chiarezza, per mezzo dell’intuizione, o per mezzo della dimostrazione, e pertanto solo la matematica e la morale sono scienze dotate di necessità assoluta. Oggetto di intuizione, secondo Locke, è anche la nostra esistenza, perché l’idea che abbiamo di noi stessi come esseri intelligenti implica immediatamente anche il fatto che noi esistiamo. L’identità della persona umana dipende dalla coscienza che essa ha di sé, e la permanenza di tale identità dipende non dal suo essere una sostanza, perché la sostanza è inconoscibile, ma dalla permanenza della sua coscienza, cioè dalla memoria. L’esistenza di Dio, ha bisogno di una dimostrazione che Locke svolge servendosi dell’idea di causalità, cioè dell’idea, a suo avviso oggetto di intuizione, che il puro nulla non può produrre alcunché di reale, dalla quale deriva che la realtà deve essere stata prodotta da un ente sommamente reale, cioè Dio. Quanto all’esistenza degli altri corpi, essa è garantita dalla sensazione. Nulla può garantire l’esistenza di altri spiriti, che pertanto non è oggetto di conoscenza, ma soltanto di opinione. In tal modo Locke ritiene di avere stabilito i limiti della nostra conoscenza, chiarendo in quali campi è possibile avere certezze assolute e in quali invece ciò non è possibile e assicurando così ciò che gli stava più a cuore, cioè la possibilità di avere certezze nell’etica, nella politica e nella religione. 44. Si esponga la concezione lockhiana dello stato di natura. Nella sua dottrina politica Locke parte, come Hobbes, dall’esame dello stato di natura, che definisce uno stato di libertà perfetta di ordinare le proprie azioni, di disporre delle proprietà e delle persone come meglio si ritiene, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere il permesso a nessuno e senza dipendere dalla volontà di nessuno. Lo stato di natura non è fondato sull’anarchia, come affermava Hobbes, ma è retto dalla legge naturale, che vincola tutti gli uomini e che ha alla propria base la ragione. Tale legge pone come limite alla libertà assoluta l’arrecare danno alla libertà altrui. Tra i diritti fondamentali dell’uomo, accanto a quello della libertà, vi sono quello della vita e quello della proprietà, che sono inalienabili e irrinunciabili, perché si fondano sulla ragione. Tuttavia lo stato di natura comporta degli inconvenienti, per evitare i quali gli uomini, medianti il contratto sociale, hanno costituito lo stato. Ma per Locke lo stato, al contrario di quanto affermava Hobbes, non comporta da parte dei cittadini la rinunzia ai diritti dati loro dalla natura. Esso ha anzi proprio il compito di tutelare questi diritti, e l’autorità ne risponde di fronte alla comunità. Esistono perciò dei limiti ben precisi al potere legislativo e a quello esecutivo, che in ogni caso devono essere separati tra loro. Quando l’autorità esce dai limiti della legge, diventando tirannide e non rispondendo più ai fini per i quali è stata creata, il popolo ha il diritto di abbatterla. 45. Si esponga la concezione lockiana della religione. L’ultima importante opera di Locke, La ragionevolezza del cristianesimo, sostiene che il cristianesimo è una religione ragionevole, cioè non contraria alla ragione. Ciò non significa che i suoi contenuti siano tutti razionali, cioè dimostrabili dalla ragione, perché anzi essi sono al di sopra delle capacità conoscitive della ragione, e neppure che siano irrazionali, cioè contrari alla ragione, perché si fondano su una rivelazione proveniente da una fonte degna di credito, Dio stesso, del quale la ragione può dimostrare l’esistenza e la credibilità. Nella religione cristiana, secondo Locke, non c’è nulla di irrazionale e comunque, se qualcosa di irrazionale vi fosse, nessuno sarebbe tenuto a credervi. Il cristianesimo consiste essenzialmente nel messaggio di salvezza annunciato da Cristo e, dovendo essere compreso da tutti gli uomini, anche dai più semplici, non ha bisogno di complicate spiegazioni teologiche. In accordo con la sua dottrina politica, Locke proclama la necessità della tolleranza religiosa, come fatto necessario alla convivenza civile. Egli afferma inoltre la reciproca indipendenza e separazione tra lo stato e la Chiesa, che devono agire rispettivamente in due sfere estranee l’una all’altra: quella religiosa e quella materiale. 46. Si esponga la concezione lockiana dello stato. Il pensiero politico di Locke ha fatto di lui il fondatore del liberalismo moderno. Nel primo dei due Trattati sul governo, Locke polemizza contro la dottrina paternalistica dello scrittore filo-assolutista Rober Filmer, il quale in un’opera intitolata Patriarcha aveva sostenuto che la società politica deve essere organizzata come una famiglia i cui membri sono disuguali per natura e devono obbedire al padre che gode su di essi di poteri assoluti. Allo stesso modo, argomentava Filmer, nella società politica i sudditi devono essere sottomessi al monarca che, discendendo per via ereditaria da Adamo, riceve la sua autorità da Dio stesso, il quale l’avrebbe concessa al primo patriarca e a tutti i suoi legittimi successori, e quindi regna per diritto divino. A questo paternalismo Locke ribatte che Adamo non ricevette affatto da Dio un’autorità assoluta su tutti gli uomini, che gli uomini sono per natura tutti uguali e quindi nemmeno il padre possiede pieni poteri sulla sua famiglia, e infine che l’autorità politica si basa non sul diritto divino, ma sul consenso di tutti. Nel secondo Trattato sul governo, Locke polemizza con Hobbes, sostenendo che per natura gli uomini sono animati da tendenze socievoli, cioè tendono a vivere in pace e ad aiutarsi reciprocamente, aspirando ciascuno alla massima libertà e procurandosi ciascuno, attraverso il proprio lavoro, una certa proprietà. La vita, la libertà e la proprietà fanno parte dei diritti naturali, che non possono essere alienati a nessuna autorità. In particolare il diritto di proprietà si fonda sul lavoro. È vero che all’inizio Dio mise tutta la terra a disposizione di tutti gli uomini, ma è anche vero che ciascuno di questi, lavorando una parte della terra, l’ha trasformata, cioè vi ha introdotto il proprio lavoro, del quale ciascuno è proprietario come è proprietario della sua persona, e con ciò l’ha fatta propria. È facile riconoscere in questa concezione l’etica propria della nuova classe borghese, quella dei proprietari terrieri della classe media, artefice in Inghilterra della rivoluzione contro l’assolutismo degli Stuart. Poiché gli uomini a volte si allontanano dall’autentico stato di natura, minacciando la proprietà, la libertà e la stessa vita di altri uomini, si rende necessaria un’autorità che impedisca tutto questo, ovvero si deve dar vita alla società politica, passando dallo stato di natura civile. Quest’ultimo non è la negazione del primo, bensì la sua continuazione, anzi la sua tutela: l’autorità viene instaurata mediante un contratto, il contratto sociale, che è espressione del consenso di tutti i cittadini. Con il contratto sociale gli uomini non rinunciano a nessuno dei propri diritti naturali, ma rinunciano solo a difenderli personalmente, affidandoli ad un sovrano. Questi si impegna pertanto a rispettare anzitutto la vita e soprattutto la libertà dei suoi sudditi, astenendosi da ogni intervento nella loro vita privata, e poi anche a difendere le loro proprietà. Il contratto deve essere garantito da una costituzione, vincolante sia per il sovrano che per i sudditi, la quale sancisca anche la divisione dei poteri, cioè la distinzione tra il potere legislativo, affidato al parlamento, il potere esecutivo, affidato al sovrano, e il potere federativo, cioè di far rispettare i patti, affidato ugualmente al sovrano o ai suoi rappresentanti. L’insieme di tali poteri forma lo Stato, il quale rimani distinto dalla società civile e non deve interferire nella vita privata dei cittadini, rispettando la libertà di religione, la libertà di opinione e di associazione politica e la libertà di iniziativa economica, cioè quelle che poi saranno chiamate le libertà civili. Qualora lo Stato violi qualcuna di queste libertà, i cittadini hanno il diritto di resistergli, cioè di ribellarsi. Questa teoria è nota come liberalismo politico. Poiché in seguito all’introduzione della moneta, la proprietà può essere accresciuta in misura illimitata mediante l’acquisto del lavoro altrui, senza fare alcun danno agli altri, lo Stato non deve porre limiti alle iniziative economiche dei cittadini ma lasciare che queste si sviluppino liberamente, attraverso lo sfruttamento intensivo della terra, la colonizzazione ed eventualmente anche la schiavitù. 47. Si esponga la concezione leibniziana della monade. Nella posteriore Monadologia Leibniz chiama le sostanze semplici con il nome di monadi, cioè unità. Tali sostanze, come le idee platoniche, essendo immateriali, ed essendo diverse l’una dall’altra, non possono differire che per forma e perciò si dispongono in un ordine gerarchico che ricorda molto quello delle idee-numeri del platonismo antico e del neoplatonismo. Per chiarire la natura delle monadi, Leibniz le riconduce alle anime, concepite aristotelicamente come forme che sono principi di vita. Ma sono monadi anche le forme sostanziali dei corpi inorganici, le quali sono ugualmente principi attivi, cioè centri di forza. Le monadi, essendo immateriali, non sono soggette né a generazione né a corruzione, ma possono venire all’essere solo per creazione, e cessare di essere solo per annichilazione, ossia per un intervento divino. Esse non sono soggette ad alterazione e a mutamenti subiti dall’esterno, ma hanno il principio del proprio mutamento solo all’interno, cioè sono principi intrinsecamente attivi. La loro attività è costituita dalla percezione, che è un’attività conoscitiva, e dall’appetizione, che è la tendenza a passare da una percezione all’altra. Questa attività percettiva non è necessariamente accompagnata da coscienza, ma può essere anche inconscia. Sono le percezioni inconsce, le piccole percezioni, o percezioni oscure, cioè le percezioni che, prese singolarmente, non raggiungono la soglia della coscienza, mentre producono una percezione cosciente quando si sommano insieme in grande quantità. Un grado superiore di percezione è costituito dalle percezioni chiare, ma confuse, cioè dalle sensazioni coscienti, dalla memoria, dall’immaginazione, che costituiscono le anime degli animali. Il grado più alto di percezione è dato dalle percezioni chiare e distinte, o appercezioni, cioè dalla conoscenza delle verità necessarie, detta anche ragione, che costituisce le anime degli uomini, cioè egli spiriti. Tra i vari tipi di monadi esistono differenze di grado, precisamente nel grado di chiarezza e distinzione che è proprio dell’attività percettiva di cui le monadi sono costituite, perciò si può dire che essi si dispongono secondo un ordine gerarchico, ovvero una serie continua. 48. Si esponga la dottrina leibeniziana dell'armonia prestabilita. La soluzione di tutti i problemi è indicata anche da Leibniz in Dio. Egli dimostra l’esistenza di Dio, per mezzo di tre argomenti: 1. Esistono realtà contingenti, espresse dalle verità di fatto, le quali possono essere e non essere; queste hanno la ragione sufficiente del loro essere non in sé, altrimenti sarebbero necessarie, ma in altro, cioè in una realtà che non può essere anch’essa contingente, altrimenti avrebbe a sua volta la sua ragione d’essere in altro, ma deve essere necessaria. Questa realtà necessaria è Dio, il quale in tal modo è causa dell’esistenza delle realtà contingenti. Si tratta di una nuova versione della classica prova a posteriori, cioè basata sull’esperienza, nella quale il divenire è interpretato cime segno di contingenza. 2. Esistono delle essenze eterne, espresse dalle verità di ragione, le quali sono soltanto possibili, cioè pensabili, ma proprio per questo esigono un intelletto eterno che le pensi, il quale non può essere che l’intelletto divino. Dio dunque è il luogo delle essenze eterne, ovvero delle idee eterne delle cose. 3. Infine Leibniz riformula anche l’argomento a priori, osservando che l’idea di Dio implica la sua possibilità, ma questa a sua volta implica necessariamente l’esistenza di Dio, perché nient’altro potrebbe far passare Dio dalla possibilità all’esistenza, se non Dio stesso. Se Dio ha in sé la ragione della sua esistenza, qualora Egli sia possibile, sarà anche realmente esistente, anzi sarà addirittura necessario. Qui l’essenza di Dio è considerata nei termini di un possibile, che però si distingue da tutte le altre essenze per il fatto di includere in sé l’esistenza. Una volta dimostrata l’esistenza di Dio, è risolto il problema metafisico fondamentale, quello che Leibniz formula nei Principi della natura e della grazia, cioè: <<perché mai esiste qualche cosa anziché nulla?>>. La risposta è la dottrina della creazione: Dio, nella cui mente sono contenuto infiniti mondi possibili, ha liberamente deciso di conferire ad uno di questi mondi l’esistenza, facendone il mondo decadere, ma gli uomini hanno la possibilità di evitarlo. Per questo è importante che si rifletta sui confronti che si sono fatti circa i tempi primi e gli ultimi delle nazioni antiche e moderne. Il processo storico non può avere, per la sua razionalità, cause meccaniche: ciò che agisce nella storia è l’iniziativa dell’uomo. Esiste però una forza che non è riconducibile all’iniziativa umana, e che spinge gli uomini a creare nuove forme di vita e di civiltà. Questa forza non è il caso o il fato, ma la provvidenza divina, che è una divina mente legislatrice, la quale delle passioni degli uomini, tutti attenuti alle loro private utilità, per le quali vivrebbero da fiere bestie dentro le solitudini, ne ha fatto gli ordini civili per i quali vivono in una umana società. Gli uomini sentono la presenza della provvidenza divina, sia in modo confuso che chiaro, e perciò avvertono il punto di arrivo della loro storia. Ma quest’ordine provvidenziale non toglie loro il libero arbitrio, e perciò la storia delle nazioni nel tempo può non adeguarsi alla storia ideale eterna. 50. Si esponga la critica humiana al principio di causalità. Celebre è rimasta la critica di Hume all’idea della causalità, ossia alla connessione che si stabilisce, in questione di fatto, tra le idee di due cose particolari, per esempio tra l’idea del fuoco e l’idea del fumo, in base alla quale la prima cosa è considerata causa e la seconda effetto. Hume osserva che, trattandosi di una questione di fatto, la connessione deve essere ricavata dall’esperienza, ma l’esperienza attesta semplicemente la contiguità spaziale tra le cose, rappresentata dalle idee, per esempio il fatto che, ogniqualvolta c’è del fumo, non lontano da esso c’è anche del fuoco, e la successione temporale tra esse, per esempio il fatto che prima c’è del fuoco e poi c’è il fumo; l’esperienza non attesta, invece, la connessione necessaria tra le due cose: non è contraddittorio che ci possa essere del fumo senza fuoco, o del fuoco senza fumo. Si noti che la formulazione della legge di causalità data da Hume è diversa da quella del principio di ragion sufficiente data da Leibniz: l’osservazione fatta da Hume si riferisce infatti alla connessione tra due eventi determinanti, oggetto entrambi di esperienza, per esempio il fumo e il fuoco, mentre il principio formulato da Leibniz sostiene la necessità di ogni evento, per esempio il fumo, abbia una causa, qualunque essa sia: la scoperta di quale sia tale causa spetta alla fisica, mentre l’affermazione della sua esistenza spetta alla metafisica, e non è detto che la critica dell’una valga anche come critica dell’altra. Va detto che Hume considera il principio metafisico di causalità come una semplice generalizzazione della legge fisica, ottenuta per mezzo dell’induzione, quindi esclude che esso abbia un valore veramente universale, così come esclude l’esistenza di qualsiasi idea universale. Stabilito che la connessione di causalità non risulta dall’esperienza, a Hume rimane da spiegare come mai una semplice contiguità spaziale, o una successione temporale tra due eventi, venga invece scambiata per una vera e propria connessione causale, cioè tale per cui il primo evento è considerato causa reale del secondo. La spiegazione che lui dà è l’abitudine: poiché noi siamo abituati a vedere che, ogniqualvolta c’è del fumo, c’è anche del fuoco, crediamo che il fuoco sia effettivamente causa del fumo. È l’abitudine a suscitare in noi la credenza nella connessione causale. La fisica, a differenza della matematica, è fondata su una semplice credenza, quindi le sue leggi non hanno un valore necessario, ma solo un valore probabile. In ciò Hume si stacca dalla concezione moderna, e illuministica, della scienza, avvicinandosi a quella che sarà la concezione della scienza del Novecento. La credenza di cui Hume parla non è una effettiva conoscenza, cioè un’impressione, perché non deriva dall’esperienza, ma e solo un sentimento, una specie di istinto. Tuttavia essa è forte e vivace come se fosse un’impressione, ed è naturale, cioè appartiene per natura a tutti gli uomini. Essa è la fonte di ogni certezza ed è ciò che costituisce più propriamente la natura umana, ossia ciò che accomuna tra loro tutti gli uomini, distinguendoli dagli altri esseri viventi. Con questa dottrina Hume ha realizzato il suo progetto giovanile, quello di costruire una scienza della natura umana, basata sull’indagine sperimentale dei fenomeni. 51. Si esponga la concezione humiana della morale. L’intento di Hume, nel progettare una scienza dell’uomo, non era solo di spiegare i fenomeni psichici, ma anche quello di costruire una morale, che per lui rappresentava la parte più importante di tutta la filosofia, in quanto condizione della convivenza sociale. Nell’ambito della morale, esposta nel terzo libro del Trattato sulla natura umana e ripresa poi nelle Ricerche sui principi della morale, egli svolge anzitutto un’analisi delle passioni. Le passioni sono caratteristiche, come la credenza, della natura umana, e sono impressioni derivanti non dall’esperienza, ma da altre impressioni. Esse possono derivarne direttamente, come il piacere e il dolore, o indirettamente, attraverso altre passioni, come l’amore e l’odio, l’orgoglio e l’umiltà. La stessa volontà non è altro che una passione, la quale nasce dall’impressione che noi abbiamo di produrre qualche movimento del corpo o qualche idea della mente. Come tale, essa è libera solo nel senso che non è soggetta a coazioni esterne, non nel senso che sia arbitraria, cioè casuale: per Hume, infatti, il libero arbitrio è identico al caso. In quanto prodotte dalle impressioni, le passioni non dipendono in nessun modo dalla ragione e la ragione dunque è del tutto impotente a orientare le azioni umani. La ragione può dire soltanto come una cosa è, non come deve essere, perciò non può né suscitare una passione, né opporsi alla passione: solo un’altra passione può fare questo. La ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire ed obbedire ad esse. Di conseguenza, l’etica, cioè la morale, non può assolutamente fondarsi sulla ragione. Per questa sua dottrina Hume è stato considerato da alcuni filosofi del Novecento l’autore di una legge, detta appunto legge di Hume, secondo la quale è vietato dedurre da proposizioni descrittive, cioè esprimenti una conoscenza, proposizioni prescrittive, cioè esprimenti un comando, ovvero una norma, e quindi l’etica non può fondarsi su nessuna conoscenza, il mondo della conoscenza e quello dell’azione essendo completamente divisi l’uno dall’altro. In realtà Hume osservò semplicemente che è scorretto, dal punto di vista logico, passare da proposizioni formulate col verbo essere a proposizioni formulate con il verbo dovere, perché ciò costituisce un passaggio ad un genere diverso. Per Hume la morale si fonde sul sentimento morale, cioè sulla propensione, propria della natura umana, a provare un senso di compiacimento, e quindi di approvazione, di fronte alle azioni virtuose, ed un senso di ripugnanza, e quindi di disapprovazione, di fronte alle azioni malvagie. Si tratta di un sentimento disinteressato, che ci spinge ad agire moralmente. In realtà, una delle passioni caratteristiche della natura umana è la simpatia, inteso in senso letterale, cioè come disposizione a condividere le passioni altrui, e quindi benevolenza verso gli altri. L’uomo infatti, per Hume, è per natura socievole, contrariamente a quanto affermava Hobbes, quindi desidera l’approvazione degli altri e ne teme la disapprovazione. Sulla base di questi sentimenti si può costruire un’etica che assegni come fine alle azioni il maggior utile possibile per il maggior numero possibile di persone. 52. Si esponga la concezione humiana della religione. L’atteggiamento di Hume nei confronti della religione è alquanto critico, da quanto ne risulta dalla sua Storia della religione naturale e poi dai suoi Dialoghi sulla religione naturale. Come l’etica, anche la religione non ha per Hume alcun fondamento razionale: tutti i tentativi di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio, a suo avviso, non sono validi, perché si fondano sull’estensione dell’idea di causalità al di là dell’esperienza, il che non è ammissibile. In tal modo Hume rifiuta anche le posizioni del deismo del suo tempo, cioè la validità razionale della religione naturale. Anche la religione, come l’etica, si fonda unicamente sui sentimenti: in particolare essa si fonda sul sentimento di terrore provato dagli uomini primitivi di fronte a certi fenomeni naturali, che li indusse a immaginare l’esistenza di esseri simili a loro, gli dei, responsabili di tali fenomeni. Nacque così prima il politeismo, che è la più antica forma di religione, e da esso derivò il monoteismo, che tuttavia ha conservato tracce del politeismo nel culto dei santi e nella credenza negli angeli e nei demoni. Tuttavia Hume non condivide nemmeno l’ateismo dei liberi pensatori, perché afferma che un popolo privo di religione non può esistere, o, se esiste, è in tutto simile ad un popolo di bruti. 53. Si espongano i lineamenti fondamentali dell'illuminismo. Prende il nome di illuminismo il movimento di pensiero che, sviluppatosi in Europa tra la fine del Seicento e quella del Settecento, intende estendere la critica razionale a tutta la realtà, sottoporre ai lumi della ragione tutta l’esperienza umana. L’illuminismo non si presenta come un movimento unitario, con un suo specifico pensiero filosofico e scientifico, quanto come un’atmosfera che accomuna tutti i pensatori del secolo. Gli illuministi hanno una fiducia illimitata nella ragione, nel significato di fiducia nelle capacità di revisionare criticamente tutta la vita dell’uomo. Ritengono necessario lottare contro ogni oscurantismo medioevale, contro ogni pregiudizio e consuetudine, contro l’accettazione passiva di ogni tradizione derivata dall’autorità. Sotto questo denominatore comune si sviluppano una serie di indirizzi di pensiero che vanno dall’empirismo al razionalismo in senso stretto, dal materialismo all’idealismo e al senismo. Il pensiero illuministico, pur nella varietà dei suoi indirizzi e sviluppi, presenta alcune caratteristiche fondamentali, comuni a tutta l’Europa: - I problemi religiosi non hanno fondamento nella ragione, perché non possono essere affrontati con i dati forniti dall’esperienza. Perciò non sono problemi filosofici, ma superstizioni. Rifiutate perciò le religioni positive, alcuni illuministi hanno un atteggiamento di carattere deistico, perché riconoscono una religione naturale, altri invece sostengono l’ateismo, negando ogni forma di trascendenza. - Il passato, inteso come insieme di tradizioni, deve essere rifiutato, perché unica guida alla ragione deve essere la ragione stessa: il sapere tramandato dal passato va sottoposto al vaglio critico della ragione. - Bisogna ricercare una filosofia nuova, non fondata sulle costruzioni metafisiche del passato, tutte a carattere dogmatico. Infatti i problemi metafisici non hanno rilevanza filosofica, perché, come quelli religiosi, non possono essere affrontati con i dati dell’esperienza. - Bisogna diffondere al massimo e con ogni mezzo la cultura, perché questo è il modo migliore per debellare le superstizioni e l’oscurantismo. L’Inghilterra fu la terra d’origine dell’Illuminismo. In essa nacque il deismo, che giocò un grande ruolo nel pensiero illuministico. Locke e Hume si possono considerare i padri dell’Illuminismo, per la loro filosofia di carattere antimetafisico e per la loro politica di carattere liberale. Oltre a Locke e a Hume, tutta una schiera di altri pensatori propone le dottrine che, prese nel loro insieme, costituiscono il patrimonio filosofico dell’Illuminismo. I principali illuministi inglesi, oltre i filosofi appena citati, furono Smith e Reid. Benché il pensiero illuministico abbia le sue origini in Inghilterra, è tutta via la Francia la nazione in cui esso ha un maggiore sviluppo e diffusione. Nella cultura francese, ancora impregnata di razionalismo cartesiano, trovano una larga eco e una profonda diffusione le opere di Locke, Newton e dei deisti. L’illuminismo francese non fu, dal punto di vista strettamente filosofico, molto originale; si deve tuttavia ad esso l’elaborazione del problema storico, con una precisa distinzione tra storia e tradizione. L’importanza e l’originalità degli illuministi francesi stanno nella forza polemica, nella fiducia di poter sostituire a una società travagliata da problemi economici, politici, sociali e religiosi, una società ordinata razionalmente, nel vigore con il quale condussero la lotta. Così trasformarono il loro pensiero in un’arma per la borghesia, tesa alla conquista del potere, e diedero al movimento illuministico quell’aspetto che avrebbe condotto alla Rivoluzione. 54. Si esponga la concezione rousseauiana della disuguaglianza tra gli uomini. Nel primo dei due Discorsi critti per l’Accademia di Digione, Rousseau presenta già quello che sarà il presunto fondamentale di tutto il suo pensiero, cioè la tesi che l’uomo è naturalmente buono e soltanto le istituzioni lo rendono malvagio. Da ciò la sua critica contro la scienza e le arti, che corrompono i costumi e sono solo strumenti di dominio nelle mani dei tiranni, e contro l’intera civiltà. Alla condizione dell’uomo nella civiltà, Rousseau oppone l’uomo nello stato di natura, cioè l’uomo primitivo, il buon selvaggio, considerato del tutto innocente, perché non ancora contaminato dai vizi, frutto della società e del progresso. Rousseau non crede all’esistenza reale, cioè storica, dello stato di natura, ma ne parla solo come di una semplice ipotesi, necessaria per spiegare la natura dell’uomo e la sua corruzione attuale. Egli inoltre non sostiene che l’uomo primitivo sia veramente buono, cioè virtuoso, ma soltanto che non è né buono né cattivo, cioè è innocente, come può esserlo chi segue soltanto il suo istinto. L’istinto è amore di sé, ma non esclude l’amore per gli altri, come invece l’amor proprio, l’egoismo, che però sorge solo in uno stadio successivo dello sviluppo dell’umanità ad opera del progresso. Rousseau condivide con Hobbes la nozione di natura come una condizione primitiva, contrapposta a quella di cultura, e in ciò professa una nozione di natura opposta a quella aristotelica, per la quale invece la natura dell’uomo coincide con la cultura, cioè con il massimo sviluppo; Rousseau sua argomentazione, perciò non si tratta di sostenere o meno l’effettiva esistenza storica di questa dimensione originaria dell’uomo naturale. 59. Si esponga la concezione rousseauiana dell'educazione. Dopo aver prospettato, nel Contratto sociale, le condizioni politiche per la realizzazione piena della natura umana nell’ambito della società, nell’Émile Rousseau indica le condizioni necessarie per tale realizzazione nell’ambito del singolo individuo, qualora esse non siano possibili a livello dell’intera società. Tali condizioni si riassumono nell’educazione, anzi un tipo di educazione particolare, quella che poi sarà detta educazione negativa, perché consistente nel lasciare la natura libera di svilupparsi, evitando qualsiasi intervento di tipo costrittivo. La filosofia dell’educazione, cioè la pedagogia, è pertanto in Rousseau l’analogo, per l’individuo, di ciò che è la filosofia della politica per l’intera società e in questo senso l’Émile, oltre ad essere una delle opere più importanti della pedagogia moderna, è anche un momento essenziale della filosofia di Rousseau. Anche nell’Émile l’uomo è per natura buono, o almeno innocente, perciò l’educazione deve cercare di non interferire nella libera e spontanea espressione della natura. Ciò significa che il fanciullo deve essere lasciato libero dai maestri, perché sua unica maestra deve essere la natura; non deve essere forzato ad apprendere alcunché, quindi non deve essere mandato a scuola; deve imparare da solo ciò che gli è necessario per vivere, seguendo liberamente il proprio istinto. L’istinto, chiamato da Rousseau anche sentimento, è considerato fondamentalmente buono. Uno dei principi fondamentali espressi dal filosofo nell’Émile è che bisogna trattare il fanciullo da fanciullo, non da adulto, lasciandogli tutto il tempo di crescere, senza pretendere in alcun modo di accelerare la sua maturazione. Il quarto capitolo dell’Émile contiene quella che Roussea ha chiamato la Professione di fede del Vicario Savoiardo, cioè il suo pensiero rispetto alla religione, che egli espone fingendo di riportare lo scritto di un parroco della Savoia. Si tratta di una forma di religione naturale, ovvero di deismo, in sui si ammettono l’esistenza di Dio, la creazione, la Provvidenza, la spiritualità e l’immortalità dell’anima, l’esistenza di un ordine finalistico nella natura, ma si negano tutti gli aspetti sovrannaturali della religione cristiana, cioè non solo la rivelazione, le profezie, i miracoli, l’istituzione della Chiesa, i sacramenti, ma anche e soprattutto i misteri del peccato originale e della redenzione. Rousseau non crede nel peccato originale, perché ritiene che l’uomo per natura sia innocente e che solo la società lo corrompe; né crede alla necessità di una redenzione, perché l’uomo può realizzare pienamente la sua natura attraverso la democrazia, ove questa sia possibile, oppure attraverso l’educazione negativa. Egli poneva alla base della religione il sentimento, facoltà spontanea e naturale, che ci assicura dell’esistenza di Dio, della sua benevolenza verso l’uomo, dell’immortalità dell’anima, della felicità futura, di tutti i contenuti della religione naturale, i quali non sono dimostrabili dalla ragione. Attraverso il sentimento Rousseau giustificava anche un certo amore degli uomini verso Dio e l’amore degli uomini tra loro, a cui a suo avviso si riduce una religione come il cristianesimo. 60. si espongono i lineamenti fondamentali della concezione kantiana della conoscenza. Kant tra il 1765 e il 1767 fu in corrispondenza con Lambert, da cui apprese la necessità di distinguere tra la materia e la forma della conoscenza. Di tutto ciò probabilmente è documento la Dissertazione Sulla forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile, che segna l’inizio della fase costruttiva del pensiero kantiano, anche se ciò che egli si accinge a costruire è una teoria critica, nel senso di esame critico della conoscenza umana, al fine di stabilirne il valore e i limiti. La Dissertazione parte dal presupposto che vi siano due mondi del tutto distinti tra loro, quello sensibile, oggetto della sensibilità, e quello intelligibile, oggetto dell’intelletto. La sensibilità è una facoltà puramente passiva, cioè è la capacità di essere affetti, o modificati, dalle cose esterne, e ci fa conoscere non le cose, ma le affezioni, o modificazioni, che le cose producono sui nostri sensi. Essa dunque non ha per oggetto le cose come realmente sono, ma le cose come appaiono a noi, cioè il fenomeno. Kant usa il termine fenomeno in un senso diverso da quello in cui lo usava Aristotele, cioè non come manifestazione della realtà stessa attraverso l’esperienza, ma come mera apparenza, diversa dalla realtà. L’intelletto, invece, è la facoltà di pensare il mondo intelligibile, cioè di riferire i propri concetti a oggetti non sensibili, i quali costituiscono la vera realtà. Quest’ultima è detta noumeno, che significa realtà pensata. La vera realtà non è quella che appare ai sensi, ma quella che viene pensata dall’intelletto, e tra l’una e l’altra non vi è passaggio, cioè per conoscere la realtà intelligibile non si può passare attraverso la conoscenza di quella sensibile. Nella Dissertazione del 1770 però Kant non spiega come si giunga a conoscere la realtà intelligibile. La scoperta originale contenuta nella Dissertazione è la spiegazione di come si giunge a conoscere, e a conoscere scientificamente, cioè in modo sicuro, controllabile, incontestabile, la realtà sensibile. Quest’ultima era l’oggetto della fisica newtoniana, cioè della fisica-matematica, della cui scientificità Kant era assolutamente convinto. Ciò che ci permette di avere una conoscenza scientifica della realtà sensibile, è il fatto che le nostre sensazioni sono rese possibili da due condizioni, le quali non sono a loro volta ricavate dalle sensazioni, cioè sono a priori, vale a dire anteriori ad esse, ossia lo spazio e il tempo. Come tali, queste condizioni non dipendono dalle sensazioni, cioè non sono soggettive, non variano da soggetto a soggetto, ma sono universali e necessarie, cioè uguali per tutti, e in questo senso sono oggettive. Lo spazio è la condizione delle sensazioni esterne, come risulta dal fatto che non possiamo percepire un oggetto fuori di noi senza collocarlo in un determinato punto dello spazio, e il tempo è la condizione delle sensazioni sia esterne che interne, come risulta dal fatto che non possiamo percepire nessun oggetto, né fuori di noi né dentro di noi, senza collocarlo in un determinato momento del tempo. Kant chiama le sensazioni materia della conoscenza sensibile e lo spazio e il tempo forme di essa. Egli precisa che queste forme sono oggetto di conoscenza immediata, cioè sono intuizioni, ma si tratta di intuizioni pure, cioè non contaminate dalle sensazioni, perché le precedono, cioè sono indipendenti da ogni sensazione. La prova che noi abbiamo l’intuizione pura dello spazio e del tempo è fornita dalle scienze matematiche, cioè rispettivamente dalla geometria, che è scienza dei rapporti spaziali e prescinde dall’esperienza, e dall’aritmetica, che è scienza dei rapporti numerici, cioè implicanti il contare, vale a dire la successione temporale, e ugualmente prescinde dall’esperienza. 61. Si esponga la critica di Kant alla prova ontologica dell'esistenza di Dio. Nella dialettica trascendentale Kant tende a porre in evidenza il carattere illusorio dei giudizi trascendenti. In altre parole vuole dimostrare l’impossibilità della metafisica, che è un’illusione, perché noi non possiamo estendere la nostra conoscenza oltre la realtà fenomenica. La ragione umana tende a ricercare e ad affermare la realtà nella totalità ed assolutezza dell’esperienza, che non è mai oggetto dell’esperienza stessa, cioè tende alla metafisica, a cogliere in noumeno, al di là del mondo sensibile. Poiché non è soddisfatta dall’esperienza, la ragione, per cercare di cogliere il noumeno, si avvale di tre idee, che sono concetti ai quali non corrisponde alcun oggetto nel mondo fenomenico, ma che sono imposti dalla ragione stessa. Esse sono: - L’IDEA PSICOLOGICA: riguarda l’anima, cioè la conoscenza assoluta e perfetta del soggetto pensante, e dà luogo alla scienza della psicologia razionale. - L’IDEA COSMOLOGICA: riguarda il mondo, cioè la conoscenza assoluto e perfetta dell’esperienza esterna, e dà luogo alla scienza della cosmologia razionale. Ma nel campo cosmologico la ragione si trova di fronte a 4 antinomie. In ciascuna di esse la tesi e l’antitesi sono ugualmente sostenbili, dando luogo a problemi insolubili. Le antinomie sono: 1. TESI: il mondo ha avuto un inizio nel tempo ed è limitato nello spazio. ANTITESI: il mondo è eterno e infinito. 2. TESI: ogni sostanza composta nel mondo consta parti semplici. ANTITESI: il mondo è divisibile all’infinito. 3. TESI: accanto alla causalità naturale vi è una causalità libera ANTITESI: non vi è nessuna libertà, ma tutto nel mondo accade secondo le leggi della natura. 4. TESI: il mondo dipende da un’essenza assolutamente necessaria. ANTITESI: non esiste nessuna essenza assolutamente necessaria, nel mondo o fuori del mondo, come sua causa prima. - L’IDEA TEOLOGICA: riguarda Dio, cioè la conoscenza assoluta e perfetta di ogni realtà possibile, fenomenica o meno, e dà luogo alla scienza della teologia razionale. Ma le possibili prove dell’esistenza di Dio, che in pratica si ridicono a tre, non sono per nulla conclusive e pertanto non hanno alcun valore. La prova fisico-teologica può dimostrare al massimo l’esistenza di un artefice del mondo, di un ordinatore, non di creatore. La prova ontologica non ha valore, in quanto l’esistenza di ogni oggetto è affermabile solo per via sintetica, attraverso l’esperienza, mentre Dio esce dal campo dell’esperienza. La prova cosmologica quella ontologica, in quanto pretende di passare dal concetto di causa prima alla realtà di questa causa, mentre essa rimane nell’ambito dei concetti. 62. Si espongono i lineamenti fondamentali della concezione Kantiana della morale. Nella Critica della ragion pratica Kant mostra per il problema morale un interesse non minore di quello che aveva dimostrato per il problema della conoscenza. Poiché ogni regola di azione è un prodotto della ragione, che prescrive l’azione, Kant chiama Critica della ragion pratica l’opera nella quale affronta il problema morale. Nel campo etico, alla base di ogni volontà di azione, vi è un qualcosa che si configura come un comando, un imperativo, cioè una regola contraddistinta dal dover essere. Se la ragione determinasse interamente la volontà, avremmo sempre delle leggi morali, ma poiché la volontà può essere spinta ad agire anche da impulsi sensibili, si hanno due tipi di imperativi: 1. GLI IMPERATIVI IPOTETICI: spingono ad agire solo per il raggiungimento di uno scopo determinato. Essi sono soggettivi e particolari, e non costituiscono delle leggi, ma delle prescrizioni pratiche, che servono per ottenere un risultato. 2. L’IMPERATIVO CATEGORICO: chiamato anche legge morale, è valido in sé stesso. Esso è una regola a priori, universale e necessaria, con carattere di oggettività, che riguarda solo la volontà dell’uomo, indipendentemente dal fatto che, per mezzo di essa, si raggiungano determinati obiettivi. La legge morale, proprio perché indipendente da impulsi e da scopi soggettivi, si configura come dovere, come comando interiore dettato solo dalla ragione. L’imperativo categorico è una legge formale, che non riguarda l’argomento, ma la forma del volere, che non prescrive che cosa si debba volere, ma come lo si debba volere. Pertanto Kant enuncia tre formule dell’imperativo categorico, di cui la prima è quella fondamentale, mentre le altre due ne costituiscono un approfondimento. 1. Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale. 2. Opera in modo da trattare l’umanità, in te e negli altri, sempre e nello stesso tempo come fine e non mai come mezzo. 3. Opera in modo che la tua volontà possa essere considerata come istituente una legislazione universale. La prima legge comanda di operare razionalmente, in modo universale, cioè valido per tutti. La seconda legge afferma il valore assoluto della persona, come entità razionale. La terza afferma che l’uomo, in quanto essere razionale, è autore della stessa legge universale, alla quale deve ubbidire: la sua volontà diventa principio razionale di azione. Così egli non è più soggetto agli impulsi sensibili, ma soltanto alla sua ragione: perciò la volontà morale ha come caratteristica l’autonomia. L’uomo pertanto, mentre è soggetto a un rigoroso determinismo causale nella sua appartenenza alla sfera sensibile, è del tutto libero e autonomo nella sfera intelligibile, cioè come essere razionale. Per agire moralmente occorre una volontà libera, che sia sorgente spontanea di atti morali. Lo scopo finale dell’azione morale è il sommo bene: il sommo bene è il fine supremo necessario di una volontà determinata moralmente, un suo vero oggetto, assegnato dalla ragione a tutti gli essere razionali. Il sommo bene consiste nell’unione tra la felicità e la virtù, o meglio nella felicità in proporzione del tutto conveniente con la virtù, cioè proporzionata al valore della persona. Ma il sommo bene presuppone l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. Infatti solo un’esistenza umana infinita permette all’uomo un progresso infinito verso la santità, nella quale la volontà si conforma in maniera perfetta alla legge morale. La santità, che rende inutile l’imperativo, è propria solo di Dio. Inoltre, solo un essere divino è in grado di produrre quella perfetta proporzionalità tra felicità e virtù che costituisce il sommo bene. Pertanto Kant pone alla base della legge morale i tre postulati dell’immortalità dell’anima, della libertà e dell’esistenza di Dio. I tre postulati della ragion pratica riconoscono come realtà quel mondo del trascendente del quale la ha una funzione critica, cioè negativa, ma è essa stessa scienza, cioè conoscenza dell’Assoluto. Essa coincide con la metafisica, perché è la scienza della struttura concettuale della realtà, cioè dei suoi principi e delle sue leggi, sia nel senso dell’ontologia tradizionale, cioè come scienza dell’essere nella sua totalità, sia in quello della teologia tradizionale, perché l’essere di cui essa tratta è l’Assoluto, cioè il divino. La logica-metafisica hegeliana tratta di un Assoluto che non è trascendente rispetto a nessun’altra realtà, perché è esso l’unica vera realtà. Hegel stesso ha definito la sua logica come l’esposizione di Dio com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito. All’esposizione della logica Hegel espone e critica tre posizioni del pensiero rispetto all’oggettività: 1. La vecchia metafisica, cioè la metafisica moderna prekantiana; 2. La critica a tale metafisica, rappresentata dall’empirismo e da Kant; 3. Il sapere immediato, cioè il pensiero di Jacobi e ogni forma di intuizionismo. Alla vecchia metafisica Hegel riconosce il merito di avere affermato la capacità del pensiero di conoscere la vera verità, cioè l’Assoluto, ma le rimprovera di avere concepito quest’ultimo come distinto dal pensiero, cioè come anima, mondo e Dio, oggetti trascendenti e astratti. Tra le dimostrazioni tradizionali dell’esistenza di Dio, Hegel accetta la prova ontologica, quella che ricava l’esistenza di Dio dalla sua essenza, cioè dall’idea di io, proprio perché fondata sull’identità di pensiero di essere. 69. Si esponga la concezione hegeliana dello stato. La prima istituzioni in cui si realizza l’eticità, cioè la sintesi di legge e valore morale, è la famiglia. Questa è una società naturale, un semplice contratto giuridico e un’istituzione, cioè una creazione dello spirito, dotata di un grande valore morale. La famiglia è destinata a disgregarsi quando i suoi membri, fattisi adulti, formano a loro volta nuove famiglie, tra le quali si instaura un diverso tipo di rapporti, che non sono più in armonia, ma in conflittualità, e che sono fondamentalmente i rapporti economici. Si forma così la società civile, la seconda istituzione in cui si realizza l’eticità. La società civile è il sistema dei bisogni, cioè l’organizzazione razionale di tutte le attività volte al soddisfacimento dei bisogni degli uomini: attività economiche, quali produzione e scambio delle merci, ma anche amministrazione della giustizia e organizzazione della polizia, in quanto necessarie al bisogno di ordine e di sicurezza. La società civile è la società dei privati, ossia di coloro che operano per fini particolari, quali sono appunto i fini economici, che in quanto particolari sono necessariamente in conflitto tra di loro. Il mezzo con cui, nella società civile, l’individuo appaga i suoi bisogni è, secondo Hegel, da un la proprietà, cioè il capitale, e dall’altro l’attività, cioè il lavoro: il rapporto tra questi due mezzi è stato analizzato dall’economia politica. Dalla diversa distribuzione del capitale e dalla necessaria divisione del lavoro consegue un’inevitabile disuguaglianza economica tra i cittadini, che si oppone alla loro uguaglianza giuridica. Pretendere l’uguaglianza economica in nome di quella giuridica è un vuoto intellettualismo, che scambia il dover essere per il reale e il razionale. Gli interessi delle diverse parti vanno invece composti in una totalità organica, che sarà realizzata dallo Stato. La società civile comprende diversi stati, intesi nel senso di ceti sociali, cioè gli agricoltori, che sono il ceto fondato sulla proprietà della terra, gli industriali, che sono il ceto fondato sul lavoro, e i funzionari, che sono l’unico ceto il cui interesse privato coincide con il servizio alla comunità. Questi stati collaborano tra di loro, perciò non devono essere confusi con le classi sociali, capitalisti e operai, che sono invece in lotta tra di loro. L’istituzione nella quale si compongono i conflitti che caratterizzano la società civile, e dove quindi l’interesse particolare viene a coincidere con quello universale, è lo Stato. Questo è la realizzazione più alta dell’etica, ovvero la realtà dell’idea etica – lo spirito etico che si pensa e si conosce, e compie ciò che sa e in quanto lo sa. Per Hegel lo Stato, in quanto comprende tutte le famiglie, cioè l’intera società civile, e le organizza in un’unica istituzione, viene ad essere la totalità della vita etica, cioè dello spirito oggettivo, e pertanto viene a coincidere con la società politica, cioè con l’insieme dei cittadini che operano in vista di un fine comune. Si noti che la nozione di Stato non coincide con quella di società politica, perché lo Stato è una realtà tipicamente moderna, mentre la società politica è esistita anche nell’antichità e nel Medioevo. L’identificazione tra le due nozioni è una caratteristica peculiare della posizione Hegeliana. È evidente che, in una siffatta concezione dello Stato, l’individuo realizza se stesso come uomo solo nello Stato, perciò è totalmente subordinato a questo, nel senso che la sua stessa perfezione morale consiste nell’obbedire alle leggi dello Stato e nel collaborare organicamente alla realizzazione del bene comune, che è essenzialmente il bene dello Stato, cioè la sua conservazione, il suo buon funzionamento. A questo devono collaborare gli stati intesi come ceti: naturalmente il ceto che meglio serve il bene dello Stato è quello dei funzionari. La costituzione migliore dello Stato è la monarchia costituzionale, intesa però in senso diverso da quello liberale, perché essa prevede come fondamentale, oltre al potere legislativo, affidato ai rappresentanti degli stati, e al potere esecutivo, affidato al governo, soprattutto il potere sovrano, esercitato dal monarca. Questi è una persona non giuridica, ma reale, nella quale lo Stato interno è incarnato. Hegel pensava ad una costituzione come quella del regno di Prussia, cioè una costituzione di tipo autoritario. 70. Si esponga la concezione hegeliana di reale e razionale. L’Assoluto che realizza la sua libertà, cioè la sua consapevolezza di sé, nell’aspetto esteriormente oggettivo, vale a dire nei rapporti tra i diversi individui, nella società, è lo spirito oggettivo: una realtà visibile, che si esprime nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi di un popolo, e che tuttavia è una realtà spirituale, perché non si lascia ridurre alla natura, ma ha una sua storia. Lo spirito oggettivo è una realtà razionale e il compito della filosofia dello spirito oggettivo è comprendere questa razionalità, di coglierla dispiegata nella realtà storica, in particolare nella realtà del proprio tempo. Alla filosofia dello spirito oggettivo Hegel ha dedicato una delle sue opere più importanti, I lineamenti di filosofia del diritto. Nella prefazione a quest’opera Hegel ha affermato che la filosofia, poiché è lo scandaglio del razionale, appunto perciò è la comprensione del presente e del reale, anzi è addirittura il proprio tempo appreso col pensiero. Ciò significa che la filosofia non solo deve cogliere il significato della propria epoca, ma deve spiegarlo, giustificarlo, comprenderne la razionalità. Nella stessa prefazione Hegel ha formulato la sua famosa affermazione: ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale, la quale non significa che tutto ciò che esiste è razionale, ma che la sostanza dell’esistente, cioè i suoi aspetti più profondi e necessari, per esempio le istituzioni, lo Stato, sono razionali, nel senso che hanno una loro precisa ragione d’essere, e che la vera razionalità, per esempio la vera giustizia, non può essere solo un ideale a cui tendere, ma è qualcosa che prima o dopo si realizza e, se non si realizzerà mai, non ha alcun valore, cioè non è nemmeno razionale. Questa filosofia è l’espressione di una riconciliazione con la realtà. Hegel stesso dichiara che riconoscere la ragione con la rosa, nella croce del presente, e quindi godere di questa – tale riconoscimento razionale è la riconciliazione con la realtà, che la filosofia consente a quelli che hanno avvertito, una volta, l’esigenza di comprendere. Tuttavia afferma anche che la filosofia comprende il proprio tempo dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione, perché la filosofia è come la “nottola di Minerva”, cioè la civetta, che inizia il suo volo sul far del crepuscolo. Il che può significare che, quando un’epoca è stata pienamente compresa dalla filosofia, essa è giunta al suo tramonto. 71. Si esponga la concezione hegeliana della storia. Lo spirito oggettivo si realizza nella storia, che è costituita dalla vita interna degli Stati e dai rapporti esterni tra essi. Perciò è possibile, secondo Hegel, una spiegazione razionale della storia, cioè una vera e propria filosofia della storia, e a questa egli ha dedicato le famose Lezioni sulla filosofia della storia. Nell’introduzione, intitolata La Ragione nella storia del mondo, Hegel afferma che la ragione governa il mondo, proprio perché la storia è opera dello spirito oggettivo, cioè dello stesso Assoluto, il quale non può agire che in modo razionale. La storia è un processo razionale, cioè un necessario progresso, un progresso dialettico, comprendente dei momenti negativi. Questi sono ciò che comunemente chiamiamo il male, ma si tratta di un male solo apparente, perché in realtà anch’esso giova alla realizzazione di un bene maggiore. I rapporti esterni tra gli Stati non possono essere regolati, secondo Hegel, da un diritto internazionale, fondato sul diritto naturale, perché non esiste altro diritto che quello interno allo Stato: essi non possono che essere decisi dalla guerra, e per cui in sostanza lo Stato che prevale su di un altro attraverso la guerra è anche lo Stato che ha ragione, mentre quello che soccombe è lo Stato che ha torto. Poiché la storia è razionale, chi storicamente prevale sugli altri è anche colui che razionalmente doveva prevalere. Questo è sottinteso alla dichiarazione di Hegel, secondo cui la storia del mondo è il giudizio universale, ossia la storia è l’unico tribunale che può stabilire chi ha ragione e chi ha torto. Tutto ciò è provato dal fatto che il vero protagonista della storia del mondo è lo Spirito del mondo, cioè l’Assoluto stesso, il quale si incarna volta per volta nei singoli popoli, formando in ciascuno lo Spirito del popolo, cioè il soggetto che esprime la civiltà, il costume, il contributo di ciascun popolo alla storia del mondo. in ogni epoca della storia c’è un popolo che domina, anche attraverso la guerra, su tutti gli altri: ciò significa che in quell’epoca lo Spirito del mondo si è incarnato nello Spirito di quel popolo. Quando questo popolo avrà compiuto la sua missione, cioè sarà giunto al suo declino, allora lo Spirito del mondo lo abbandonerà e si incarnerà in un altro popolo, e così via, in un processo sempre progressivo, dove chi prevale è sempre il migliore di chi soccombe. In tale concezione della storia gli individui hanno una funzione del tutto subalterna: essi, in particolare le loro passioni, cioè i moventi delle loro azioni, sono soltanto dei mezzi per la realizzazione di altri fini, cioè dei fini propri dello Spirito del popolo e, dello Spirito del mondo. alcuni individui non fanno che conservare il costume del proprio popolo, e questi sono la maggior parte, mentre altri, pochi, lo trasformano, facendo progredire la storia del mondo; questi sono, secondo Hegel, gli individui cosmico- storici, cioè i grandi eroi. Tutti contribuiscono a realizzare fini ad esse estranei, secondo un disegno superiore che si serve di loro anche calpestando i loro fini particolari. A questo proposito Hegel parla di una specie di astuzia della Ragione che, governando il mondo, si serve astutamente delle passioni degli individui per realizzare i propri fini. Poiché lo Spirito del mondo, cioè lo Spirito oggettivo, è coscienza di sé che si esprime nella libertà, il fine della storia del modno non può che essere la piena realizzazione della libertà, e pertanto i singoli momenti di essa saranno altrettante tappe, o gradi, della realizzazione della libertà. Le grandi tappe di questa storia, cioè le grandi epoche del mondo, sono per Hegel tre: 1. IL MONDO ORIENTALE: formato a sua volta dall’antica civiltà cinese, poi indiana, quindi persiana, è caratterizzato dal fatto che in esso soltanto un individuo è libero, cioè il monarca, il despota: esso è il regno del dispotismo, in cui la libertà non esiste, perché il monarca stesso, essendo l’unico libero, agisce in modo arbitrario e dunque è schiavo delle sue passioni. 2. IL MONDO GRECO-ROMANO: è caratterizzato dal fatto che in esso alcuni individui sono liberi, sebbene non tutti dato che esiste la schiavitù, ma ciò è sufficiente a realizzare un’autentica libertà. Solo che la libertà, specialmente presso i Greci, è essenzialmente una libertà bella, cioè immediata, esprimentesi nella bellezza sensibile, e quindi anche nell’armonia, immediata, tra individuo e Stato e tra uomo e divinità. 3. La vera libertà, la libertà completa, si realizza solo nel MONDO CRISTIANO-GERMANICO, caratterizzato dal fatto che in esso tutti gli individui sono liberi. Naturalmente si tratta di una libertà soltanto interiore, perché almeno nei primi secoli la schiavitù permane: ma il cristianesimo porta tutti gli uomini, sia greci che barbari, sia liberi che schiavi, alla consapevolezza di essere ugualmente figli di Dio, e con ciò scopre la vera libertà. Questa libertà si sviluppa poi attraverso una scissione nei rapporti tra l’uomo e Dio, corrispondente al dominio Chiesa cattolica nel Medioevo, ma poi si afferma definitivamente nella riforma realizzata dai popoli germanici, in cui Dio è concepito non più come estraneo all’uomo, ma come presente nella sua interiorità. 72. Si esponga la concezione hegeliana della religione. La religione ha attirato l’attenzione di Hegel già dai suoi primi scritti. La religione ha per oggetto l’Assoluto, cioè Dio, conosciuto però nella forma della rappresentazione. Questa non è il semplice sentimento, al quale la religione non si riduce, anche se essa presuppone il sentimento, in particolare il sentimento di devozione. La rappresentazione è pensiero, cioè conoscenza, ma una conoscenza in cui l’oggetto non è ancora concepito come identico al soggetto, ma è pensato come altro, cioè come trascendente. Per questo, nella religione, l’Assoluto è rappresentato come Dio, il quale significa un Assoluto diverso dall’uomo. La rappresentazione religiosa cerca di colmare questa separazione tra l’uomo e Dio attraverso il culto, dove la comunità, che è il vero soggetto della religione, cerca di congiungersi con Dio, cioè di interiorizzarlo. Anche la religione si sviluppa nella storia in forme diverse, che rappresentano ciascuna un progresso rispetto alla precedente. La prima di tali forme è la religione naturale, proprio dell’antico Oriente, dove Dio viene rappresentato come natura o come sostanza, cioè come realtà impersonale. Ad essa segue una seconda fase, chiamata da Hegel della religione determinata o finita, comprendente la religione ebraica, o del sublime, quella greca, o della bellezza, e quella romana, o della finalità politica, dove Dio è rappresentato come individualità personale. La terza fase è quella della religione compiuta o rivelata, costituita dal cristianesimo. Questa è la religione perfetta, in cui Dio è stato concepito per la prima volta come spirito. Caratteristica è l’interpretazione che Hegel dà del cristianesimo, considerato come la religione vera, cioè quella che esprime per mezzo dei suoi dogmi altrettante verità sull’Assoluto, le quali però possono essere riespresse in termini razionali, cioè nei termini propri della stessa filosofia hegeliana. Il dogma della Trinità esprime il processo intrinseco a Dio stesso concepito come assoluta attività, cioè il passaggio dalla pura soggettività (il Padre), alla sua oggettivazione divina (il Figlio), all’unione di entrambe (lo Spirito Santo). pessimismo schopenhaueriano. Certo, nell’amore l’individuo può illudersi di attingere il piacere e la felicità, ma in verità esso si rende schiavo della passione attraverso la quale la Volontà si serve di lui per perpetuare nel tempo e nello spazio la vita e le sue forme. E quantunque possa dapprima sembrare che nell’amore l’individuo rinunci al proprio egoismo in vista di un ideale più elevato, in realtà l’abnegazione di cui nell’amore egli dà prova scaturisce dalla stessa radice dalla quale nascono tutti gli altri istinti, cioè dalla Volontà. Altresì la storia, che è la risultante dell’agire degli individui, non può essere che il regno degli egoismi, delle lotte e delle illusioni perenni a cui l’umanità è inevitabilmente destinata. Essa è cieca fatalità. Pretendere che in essa abbia luogo la manifestazione e la realizzazione dello Spirito, del Razionale e dell’Universale, è per il filosofo la più assurda delle follie. Alle celebrazioni illuministiche e idealistiche delle sorti magnifiche e progressive, Schopenhauer contrappone il pessimismo più beffardo e disincantato. 77. Si esponga la concezione schopenhaueriana della conoscenza. Contro l’idealismo Schopenhauer tiene fermo il criticismo trascendentale di Kant, dichiarando l’impossibilità di andare oltre la conoscenza dei fenomeni e di cogliere la cosa in sé. Dato originario e immediato del conoscere è infatti la rappresentazione. Il realismo – o materialismo – mira a oltrepassarla mediante il principio di causalità, pensandola come effetto sul soggetto di una realtà oggettiva esterna. L’idealismo, invece, presume di dedurre l’oggetto come prodotto dell’attività del soggetto, rifiutando così di ammettere una cosa in sé conoscibile. Schopenhauer respinge entrambe le soluzioni: non è possibile uscire dal soggetto e attingere conoscitivamente la realtà in sé, come vuole il realismo, ma non è possibile nemmeno eliminarla al modo dell’idealismo, cioè considerandola come se essa fosse una produzione del soggetto. Per il filosofo non è consentito al conoscere umano di uscire dalla fenomenicità, cioè dall’apparenza. La conoscenza è sempre e soltanto conoscenza dei fenomeni, di apparenze, e in questo senso il mondo è una mia rappresentazione: la conoscenza del mondo è la conoscenza di un’apparenza risultante dalla relazione tra soggetto e oggetto. Per Schopenhauer si tratta allora di determinare le condizioni di tale apparenza, e per farlo è indispensabile risalire alle funzioni conoscitive del soggetto. Schopenhauer apporta modifiche sostanziali alla gnoseologia kantiana, introducendo nell’impostazione trascendentale considerazioni di ordine fisiologico. Sensibilità e intelletto non sono più, come in Kant, due funzioni conoscitive di natura radicalmente diversa, l’una intuitiva, l’altra discorsiva, non rappresentano più due ceppi distinti del nostro conoscere, ma vengono decisamente avvicinate. Rifacendosi alle dottrine dei fisiologi francesi, Schopenhauer spiega loro la differenza in termini fisiologici. La sensibilità, con le sue forme dello spazio e del tempo, può essere spiegata come una funzione dei nervi afferenti. Benchè riconducibili a funzioni fisiologiche, spazio e tempo svolgono una funzione a priori, quella di essere forme generali dell’esperienza fenomenica. La loro unione dà come risultato la materia, intesa come condizione e non come oggetto d’esperienza, cioè come possibilità dell’esistenza simultanea e della durata. L’intelletto, con la sua categoria della causalità, è spiegabile mediante le funzioni dell’intera massa cerebrale. La conoscenza che esso produce, cioè il collegamento dell’effetto con la causa, è di carattere essenzialmente intuitivo, immediato, dunque analogo al conoscere sensibile, tanto è vero che Schopenhauer attribuisce la facoltà dell’intelletto anche agli animali. La facoltà conoscitiva che distingue l’uomo dall’animale è la ragione. Essa è la capacità di formare rappresentazioni di rappresentazioni, cioè concetti, e di connetterli o distinguerli discorsivamente in proposizioni e ragionamenti. Schopenhauer si oppose all’uso del concetto di ragione come facoltà delle idee, o come facoltà dell’Assoluto. Delle connessioni di causalità, che l’intelletto coglie intuitivamente, e che caratterizzano la struttura del mondo in quanto rappresentazione, la ragione ha una conoscenza riflessa e mediata. Essa è espresso nel principio di ragione sufficiente, che costituisce il fondamento logico di tutta la conoscenza scientifica. Tale principio può essere applicato a quattro ambiti diversi, nei quali esso assume quattro forme: 1. In quanto applicato ai processi naturali, esso consente di rendere ragione della causalità fisica, ed è principio della ragione sufficiente del divenire, e su di esso si basano le scienze naturali. 2. In quanto è applicato all’ambito del conoscere razionale e delle sue forme logiche, esso è principium rationis sufficientis cognoscendi. 3. In quanto si applica ai rapporti fra le parti dello spazio e del tempo, e dunque degli enti aritmetici e geometrici, è principium rationis sufficientis essendi, e sta a fondamento delle matematiche. 4. In quanto rende ragione dei motivi dell’agire, è principium rationis sufficientis agendi, e sta a fondamento delle scienze morali. Ma concetti e ragionamenti, prodotti astratti della ragione, dunque estranei al tempo e allo spazio, sono sempre calati in contesti empirico-individuali, entro i quali essi vengono espressi tramite le rappresentazioni sensibili delle parole che formano il linguaggio. La parola è pertanto l’espressione e il segno tangibile del concetto, mediante il quale la ragione astratta viene congiunta con le condizioni sensibili dello spazio e del tempo. Il linguaggio è lo strumento della ragione mediante il quale essa si fa istitutrice della civiltà e del sapere scientifico, delle arti e della letteratura, dei costumi morali e dei sistemi politici. La ragione è al tempo stesso anche la fonte inevitabile degli errori, delle illusioni, delle menzogne e dei dogmi che travagliano la vita dell’umanità. Nemmeno la conoscenza della ragione, essendo mero strumento di calcolo e astrazione, consente di andare oltre l’ambito dei fenomeni, ossia delle apparenze, e quindi di fuoriuscire dal mondo come rappresentazione. 78. Si esponga la concezione kierkegaardiana della vita religiosa Per Kierkegaard la religione è essenzialmente fede, fede pura, non riducibile ad una filosofia e anzi del tutto indipendente da qualsiasi filosofia. La religione è per lui certezza immediata, non risultante da alcun ragionamento. Kierkegaard polemizza contro la critica storica della religione, praticata dalla scuola teologica di Tubinga, ritenendo del tutto irrilevante, ai fini della fede, l’accertamento della verità storica della rivelazione ed anche la precisazione dei suoi contenuti, perché la fede dipende esclusivamente da un atto di libertà, cioè da una libera scelta, qualunque sia il giudizio della critica storica. Ma egli polemizza soprattutto contro la considerazione speculativa della religione, cioè contro la concezione hegeliana, che pretendeva di spiegare la religione per mezzo della filosofia, di risolvere nel concetto le contraddizioni dell’esistenza umana. La religione è essenzialmente paradosso, cioè rifiuto della razionalità, rifiuto della speculazione, perché essa appartiene al livello di esistenza, mentre la speculazione astrae dall’esistenza, è incapace di coglierla. Una categoria che esprime bene la concezione kierkegaardiana della religione è quella della verità. Per il filosofo la verità della religione è una verità soggettiva, dove quest’ultimo termine non indica un limite, un carattere di relatività, ma esprime lo stretto legame della verità con il soggetto esistente, cioè con la vita del singolo uomo. Alla religione non interessa una verità oggettiva, cioè impersonale, astratta, priva di rapporti con l’esistenza concreta, con la vita. Essa annuncia una verità che ci coinvolge come soggetti, che dà un senso alla nostra vita, che ci promette la salvezza. Tale verità non è mai separata dalla passione, ma anzi la richiede. Essa è una verità vissuta interiormente, nell’intimità della propria coscienza, a tu per tu con Dio. Nella Postilla conclusiva non scientifica Kierkegaard rivaluta l’impiego etico rispetto ad Aut-Aut. Mentre nell’opera più giovanile l’etica veniva contrapposta alla religione, in quella più matura essa è considerata come un momento indispensabile della religione stessa, a condizione che sia intesa non come impiego del singolo di fronte agli altri, cioè alla società, ma come impegno del singolo di fronte a Dio. Per il filosofo il rapporto con Dio non deve seguire, ma precedere, quello con gli altri. Naturalmente si tratta di un’etica della pura intenzione, del tutto interiore. Quello che conta per Kierkegaard è l’intenzione, che dipende esclusivamente dalla nostra libera scelta, non il risultato delle nostre azioni, che dipende dalle circostanze. Infine il filosofo tiene a precisare che la religione di cui egli parla non è una religione qualsiasi, in cui sia sufficiente credere soltanto in un Dio, cioè in un Assoluto trascendente. La religione che ci può dare la salvezza è, per lui, soltanto il cristianesimo, perciò la fede che essa richiede non è da intendersi genericamente come fede di Dio, ma è precisamente la fede di Gesù Cristo, nel Dio che si è fatto uomo per riscattare l’uomo dal peccato. In questo senso la sua filosofia si può considerare una filosofia specificamente cristiana, con indubbie venature di tipo fideistico e protestante. 79. Si esponga la concezione kierkegaardiana della vita estetica La prima e importante opera di Kierkegaard è Aut-Aut, che indica la sua opposizione ad Hegel. Mentre la filosofia hegeliana media tutte le opposizioni, ci sono nella vita delle opposizioni che non possono essere mediate, cioè risolte in una sintesi, ma rimangono tali e impongono una scelta, o a favore di una possibilità, oppure a favore di quella opposta. Di questo tipo è l’opposizione tra vita estetica e vita etica. Per vita estetica Kierkegaard intende la vita dedita al piacere dei senti, alla ricerca di ciò che è interessante, vissuta tutta per il godimento del singolo istante, senza alcuna preoccupazione per il futuro. La figura del suo protagonista, cioè dell’esteta, è incarnata esemplarmente dal don Giovanni dell’omonima opera musicata da Mozart, un personaggio che seduce migliaia di donne senza riuscire ad amarne veramente nessuna, teso unicamente al godimento dell’attimo presente. Anche il fatto che don Giovanni sia stato immortalato dalla musica, contribuisce a farne il simbolo della sensualità. L’esteta, secondo il filosofo, sceglie quel tipo di vita soprattutto per sfuggire alla noia, ma il fatto che egli non riesca mai a fissare l’oggetto della sua passione, cioè a trovare qualche cosa che lo soddisfi veramente fino in fondo, ha come conseguenza di nuovo la noia, una noia insuperabile, destinata inevitabilmente a trasformarsi in disperazione. Ecco allora prospettarsi la possibilità di una vita completamente diversa, la quale tuttavia non è una conseguenza necessaria della precedente, ma può essere abbracciata solo attraverso una libera scelta: la vita etica. 80. Si esponga la concezione kierkegaardiana della decisione La tesi di laurea di Kierkegaard, Il concetto di Ironia, contiene le prime indicazioni di quello che sarà il suo pensiero e in particolare dà inizio al suo distacco da Hegel. L’ironia socratica era già stata oggetto dell’attenzione dei romantici, che l’avevano interpretata come relativizzazione del finito e quindi apertura all’infinito, cioè come una specie di punto di vista divino. Tale interpretazione era stata poi criticata da Hegel, per il quale l’ironia socratica non possiede affatto questo significato, ma è l’espressione di una dialettica puramente soggettiva, cioè svolgentesi soltanto tra persone, che dissolve dall’interno il dato immediato, senza fornire alcuna ulteriore indicazione positiva. Kierkegaard condivide la critica di Hegel all’ironia romantica, riconosce con lui che l’ironia socratica è un atteggiamento essenzialmente negativo, espressione del sapere di non sapere, ma ne afferma anche il valore come critica della realtà finita e come esigenza di una realtà ideale. L’ironia socratica è la negatività infinita, ma come tale implica in sé una compossibilità totale, quella dell’inifinitezza intera della soggettività. Essa è negatività infinita perché nega tutto, ma al tempo stesso nega in virtù di qualcosa di superiore, che tuttavia essa non conosce. L’ironia è una determinazione della soggettività, anzi è la prima e la più astratta determinazione della soggettività, perché in essa il soggetto è libero dallo stato di costrizione in cui lo tiene la realtà, anche se è libero soltanto in negativo, perché non c’è nulla che lo tenga. Ma nell’ironia il principio del nuovo, in virtù del quale si nega la realtà data, è presente come possibilità. Questo principio nuovo è una soggettività infinita, di cui la soggettività finita esprime appunto, per mezzo dell’ironia, la possibilità. La categoria della soggettività, cioè del soggetto finito, vale a dire l’uomo, l’individuo umano, colui che in seguito sarà detto il singolo. Questi nega la realtà data, cioè ne rivela la finitezza, l’inadeguatezza rispetto all’idea, ovvero all’Assoluto. Ma in tale negazione è contenuta la possibilità di una soggettività infinita, cioè di un Assoluto inteso anch’egli come singolo, vale a dire Dio, il Dio personale del cristianesimo. Il rapporto tra l’uomo e Dio è tuttavia concepito in termini di pura libertà, di semplice possibilità, che sono altrettante categorie fondamentali del pensiero del filosofo. Ciò significa che l’uomo non si rapporta a Dio necessariamente, ma liberamente, cioè può farlo e anche non farlo, perché questa è per lui una semplice possibilità. In quest’ultima dottrina è già racchiusa la critica a Hegel. A questi allude Kierkegaard nella conclusione dell’opera, dove dichiara: la scienza è entrata oggi in possesso di un risultato troppo colossale per essere in regola; la competenza nei misteri non solo del genere umano, ma persino delle divinità viene offerta a così buon mercato da risultare completamente sospetta. Ciò significa che la filosofia del Hegel pretende di spiegare tutto, di razionalizzare gli stessi misteri della fede, il che è impossibile all’uomo. Contro tale pretesa bisogna far valore l’ironia, cioè la critica, anche se questa non offre una spiegazione alternativa, ma solo una possibilità. La possibilità a cui il filoso allude è quella della fede, che non è una spiegazione razionale, cioè tale da mostrare la necessità del suo oggetto, ma non è nemmeno l’impossibile, cioè l’irrazionale, l’assurdo. 81. Si esponga la concezione kierkegaardiana dell'angoscia Il carattere della possibilità, che contrassegna l’esistenza del singolo, suscita nell’uomo l’angoscia. L’angoscia è il sentimento che si prova di fronte all’ignoto, cioè quando non si sa che cosa accadrà, quando si ha l’impressione di essere di fronte al nulla. Poiché questa è la condizione dell’uomo nell’esistenza, cioè la pura possibilità, la possibilità di tutto e insieme anche di nulla, l’angoscia è il sentimento che esprime più adeguatamente la condizione dell’uomo. Kierkegaard scrive: <<L’angoscia si può paragonare alla vertigine… essa è la vertigine della libertà>>, cioè il sentimento che si prova guardando giù, in quel vuoto che è conosciuto dalle infinite possibilità di scelta che costituiscono la nostra libertà. L’angoscia è, per il filosofo, la condizione che precede la scelta e, poiché quest’ultima può portare tanto al peccato quanto alla salvezza, cioè è rischio, pericolo, la percezione di tale pericolo genera angoscia. L’angoscia è la possibilità della libertà, perché può sfociare nella fede, e quindi portare alla salvezza. e non come attività sensibile, e perciò resta nell’ambito della teoria e non concepisce gli uomini nei loro rapporti sociali, nelle loro attuali condizioni di vita, che ne hanno fatto ciò che sono. Resta cioè fermo all’individuo isolato, all’astrazione uomo, e non giunge agli uomini realmente esistenti ed operanti. Inoltre, contrariamente a Feuerbach, Marx sostiene che lo spostamento dall’infinito al finito dell’inizio della filosofia non determina la scomparsa della dialettica, che è una legge immanente della materia: in altre parole, la contraddizione è la forza interiore del mondo umano nella sua evoluzione. il metodo dialettico hegeliano, che si reggeva sulla testa, ora viene rimesso a reggersi sui piedi, e così trova una fisionomia del tutto ragionevole. Il divenire del mondo umano si inserisce in una concezione dialettica dell’universo: esiste una dinamicità interna alla materia, che porta all’esclusione di ogni assolutismo metafisico. Perciò, la realtà del mondo e della storia è l’unica realtà esistente, ma non si può spiegare in maniera definitiva tutta la materia e tutta la storia con una formula metafisica. Infine, Marx accetta da Feuerbach il concetto dell’alienazione religiosa, ma lo approfondisce per scoprirne le cause. Feuerbach non si accorge, dice Marx, che il sentimento religioso è un prodotto sociale, e che l’individuo astratto, che egli analizza, appartiene ad una forma sociale determinata. La conclusione è che l’uomo sente la necessità di rifugiarsi nell’illusione religiosa in quanto è soggetto all’alienazione economica. L’uomo è vittima del lavoro alienato, la cui realizzazione si presenta come annullamento in modo tale che l’operaio viene annullato fino a morire di fame, è vittima del denaro e perciò è costretto a rinunziare alla propria umanità. 86. Si esponga la concezione marxiana della storia. Marx elabora una filosofia, precisamente una filosofia della storia, quando afferma, nell’Ideologia tedesca, che gli uomini si distinguono dagli altri animali per il fatto che essi producono i propri mezzi di sussistenza, e che quindi la loro vita, il loro stesso essere, dipende dalle condizioni materiali di tale produzione, più precisamente dal modo di produzione. Quest’ultimo varia col variare delle condizioni materiali della produzione e con lo sviluppo delle forze produttive derivante dalla divisione del lavoro. Nella storia si è determinata la divisione tra lavoro agricolo, svolto in campagna, e lavoro commerciale, svolto in città, poi la distinzione tra lavoro commerciale e lavoro industriale, e così via. A ciascuno di questi stadi corrisponde un diverso modo di organizzare la proprietà: anzitutto la proprietà tribale, la quale non è altro che un’estensione della proprietà familiare; poi quella delle comunità antiche, caratterizzate dal modo di produzione schiavistico e quindi dalla contrapposizione tra liberi e schiavi; poi quella della società feudale medievale, caratterizzata dalla contrapposizione tra nobili e contadini; infine quella della società industriale moderna, caratterizzata dalla contrapposizione tra borghesia e proletariato. In ciascuna di queste fasi storiche l’intera vita umana, quindi anche le attività spirituali, sono determinate dalle condizioni materiali di vita, cioè dal particolare modo di produzione caratteristico di quella fase. Quando le attività spirituali credono di essere indipendenti dalle condizioni materiali, si ha l’ideologia, cioè la falsa coscienza, vale a dire una coscienza che crede di essere indipendente, mentre non lo è. Questo perché, afferma Marx, <<non è la coscienza che determina la vita, ma è la vita (materiale) che determina la coscienza>>. Tale visione della storia è stata chiamata materialismo storico, perché pone alla base della realtà non la pura materia, cioè la natura, come faceva Fauerbach, ma la vita materiale degli uomini quale si realizza nella storia, cioè il modo in essi producono i propri mezzi di sussistenza. Marx non si ferma alla descrizione della storia passata, ma, rilevando nella fase storica presente al suo tempo, cioè nella società capitalistica, una serie di contraddizioni, determinate dall’alienazione del lavoro, predice la necessità di un superamento della società capitalistica e l’instaurazione della società comunista, caratterizzata dall’assenza della divisione del lavoro, e dunque dell’eliminazione dell’alienazione e delle stesse classi sociali. Egli anzi ha cura di precisare che il comunismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente. La storia il tal modo viene ad essere un processo orientato ad un fine, l’instaurazione appunto del comunismo, dovuto non a motivi di carattere ideale, o morale, ma al movimento stesso in atto della storia. Quest’ultimo non è un movimento meccanico, ma un movimento pratico, prodotto cioè dall’azione umana e precisamente una rivoluzione, cioè un rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti. 87. Si esponga la concezione marxiana del plusvalore Nello studio dell’economia politica Marx parte dal pensiero di David Ricardo, il quale sosteneva che prodotti e denaro non sono altro che lavoro accumulato. Utilizzando pienamente l’eredità hegeliana, Marx usa un metodo storicistico, cosicchè l’economia politica diventa una scienza storica, che spiega concretamente lo sviluppo della produzione. Egli prende in esame soprattutto la formazione economico-sociale del capitalismo. Il valore di un prodotto consiste esclusivamente nel lavoro impiegato a produrlo e, più precisamente, nelle ore di lavoro che esso richiede. Per questo il lavoratore dovrebbe ricevere come retribuzione l’intero valore del prodotto, coincidente con il valore del suo lavoro. Ma l’imprenditore retribuisce il lavoro al disotto del suo valore e si trattiene la differenza, che costituisce il suo profitto e che Marx chiama plus-valore. In questo modo si spiega la formazione del capitale, il quale non è altro che un insieme di lavoro non retribuito. Più precisamente, il lavoratore vende all’imprenditore, come una merce, la sua forza-lavoro ad un determinato valore, che costituisce il salario giornaliero. Egli produce, in alcune ore di lavoro, una determinata quantità di merce, il cui valore corrisponde al salario. Ma l’operaio lavora tutta la giornata producendo altra merce: il suo lavoro nelle altre ore costituisce il plus-lavoro non retribuito. Ne nasce un plus-valore a completo vantaggio dell’imprenditore. Questo meccanismo non è legato all’onestà o meno del singolo imprenditore, ma è insito nei rapporti di produzione che si fondano sull’acquisto della forza-lavoro come merce. Perciò può essere abolito solo abolendo il sistema capitalistico di produzione. 88. Si espongono i lineamenti fondamentali del positivismo. Col termine di positivismo si vuole indicare una corrente filosofica diffusasi in Francia, Germania, Inghilterra e Italia nella seconda metà dell’Ottocento, la quale concepisce la filosofia come un sapere positivo, cioè come un sapere che deve attenersi esclusivamente ai fatti, ai dati accertati scientificamente, escludendo come costruzione fantastica tutto ciò che on si lasca ricondurre ad essi. Il termine positivismo fu usato soprattutto da August Comte, considerato il fondatore della corrente. Nelle sue opere, positivismo significa anzitutto reale, cioè l’opposto di fittizio o fantastico, o misterioso; poi significa certo, cioè osservabile, controllabile sperimentalmente in modo da sottrarsi ad ogni dubbio; significa utile, cioè utilizzabile a vantaggio dell’uomo, soprattutto attraverso il dominio della natura; infine significa organico, cioè collegabile in un insieme dotato di unità, di sistematicità. L’unica conoscenza veramente positiva, secondo il positivismo, è la scienza, fondata sull’osservazione empirica e sulla verifica sperimentale, il cui modello è costituito dalla fisica-matematica. Il positivismo non esclude necessariamente il valore di altre attività umane, quali l’arte, o la religione, ma attribuisce validità conoscitiva esclusivamente alla scienza. La stessa filosofica non è che una generalizzazione dei principi, delle leggi e dei risultati della scienza, cioè è una specie di scienza universale, o di summa delle varie scienze. A causa di questa assolutizzazione della scienza il positivismo viene considerato comunemente come una forma di scientismo. Il positivismo è stato visto da alcuni come una continuazione dell’Illuminismo, al quale si riallaccia per la valorizzazione della scienza e per la critica alla religione ed alla metafisica in quanto pretendano di essere conoscenze, nonchè per la concezione della storia come progresso sia conoscitivo sia morale. Secondo il positivismo lo sviluppo dell’umanità è caratterizzato da un continuo incremento della conoscenza della natura dell’uomo, dovuto essenzialmente alla scienza, il quale porta all’abbandono della religione e della metafisica ed alla loro sostituzione con la scienza stessa. Tale progresso è anche un continuo miglioramento delle condizioni di vita sociale e dello stesso comportamento morale degli uomini. Come per l’Illuminismo, anche per il positivismo la scienza è al servizio dell’umanità e consente di riformare la società, conferendole un assetto semplice più razionale, cioè giusto e buono. Il positivismo dell’Ottocento ha il vantaggio di poter fare riferimento a un complesso di scienze più sviluppate, soprattutto nel campo della biologia, e comprendenti, accanto alle scienze della natura, le nascenti scienze dell’uomo, cioè l’antropologia, la psicologia e la sociologia. Proprio questo enorme sviluppo della conoscenza scientifica offrirà al positivismo l’impressione che la scienza possa abbracciare ogni aspetto della realtà, sia naturale sia umana, sostituendo qualsiasi alta forma di conoscenza, e che essa sia un sapere assoluto, cioè pieno, esaustivo e definitivo. 89. Si esponga la concezione comtiana della storia. La dottrina più famosa di Comte, quella che egli stesso considerava la sua scoperta più importante e che risale all’opera giovanile, è la cosiddetta legge dei tre stadi. Essa è da lui posta alla base del Corso di filosofia positiva e regge l’intera sua filosofia. In base a questa legge lo spirito umano, nel suo complesso come nelle sue singole manifestazioni, nell’intera umanità come nel singolo individuo, si sviluppa attraverso tre stadi: quello teologico o fittizio, quello metafisico o astratto, e quello scientifico o positivo. Nello stadio teologico, che per il singolo individuo corrisponde all’infanzia e per l’umanità corrisponde all’intera storia precedente la Rivoluzione francese, gli uomini cercano le cause prima dei fenomeni e le individuano in agenti soprannaturali, che sono prima i feticci, poi i molti dei delle religioni politeistiche ed infine l’unico Dio delle religioni monoteistiche. Nello stadio metafisico, che per il singolo individuo corrisponde alla giovinezza mentre per l’umanità corrisponde al periodo iniziatosi con la Rivoluzione francese, gli uomini cercano ancora le cause prime, ma le individuano in principi astratti, quali ad esempio la Natura. Infine, nello stadio positivo, che il per il singolo corrisponde alla maturità mentre per l’umanità corrisponde all’epoca iniziata dalla stessa filosofia comtiana, gli uomini non cercano più le cause prime, ma si attengono i fatti e cercano di stabilirne soltanto le leggi interne, cioè i comportamenti costanti, per mezzo dell’osservazione e del ragionamento. Appunto dallo stadio positivo prende il nome la filosofia positiva, la quale spiega l’intera realtà attraverso conoscenze di tipo scientifico, abbandonando ogni punto di vista teologico e metafisico, anche se riconosce la necessitò di questi nelle fasi che precedono il raggiungimento dello stadio positivo. Secondo Comte, una volta che l’umanità abbia raggiunto quest’ultimo stadio, la religione e la metafisica tradizionali perdono qualunque valore conoscitivo, essendo completamente sostituite in tale funzione dalla scienza, anche se la religione continua ad esistere per soddisfare un’esigenza puramente sentimentale. Questa è la concezione della realtà che egli stesso ha denominato positivismo. 90. Si esponga la concezione comtiana della scienza. Anche le singole scienze si sviluppano secondo la legge dei tre stadi, ma nello sviluppo complessivo dello spirito umano, ciascuna di esse giunge in un momento diverso allo stadio positivo, cioè a configurarsi come vera e propria scienza. L’ordine, cioè la successione, con cui le singole scienze raggiungono lo stadio positivo, dipende dalla semplicità del loro oggetto, che è al tempo stesso la sua generalità: giungono per prima a tale stadio le scienze che hanno l’oggetto più complesso, cioè più particolare. La scienza che si è sviluppata per prima è la matematica, scienza delle pure relazioni logiche applicate alle grandezze, la quale è giunta al suo stadio positivo, cioè ad essere vera e propria scienza, già con gli antichi Greci. In età moderna si è sviluppata invece l’astronomia, ad opera di Keplero, Copernico, Galilei e Newton. Questa è diventata vera scienza dal momento in cui ha assunto come suo modello la matematica ed è pervenuta al suo culmine con la legge della gravitazione universale. Successivamente si è sviluppata la fisica, intesa nel senso particolare di fisica terrestre inorganica, la quale comprende una statica, scienza dell’equilibrio tra le forze, e una dinamica, scienza dei movimenti prodotti dalle forze. Anche la fisica ha raggiunto lo stadio positivo grazie al ricorso della matematica, compiuto da scienziati come Pascal, Newton, Papin. Un ramo particolare della fisica terrestre inorganica, quello cioè che studia gli elementi dei corpi, è la chimica, che è pervenuta anch’essa allo stadio positivo grazie al ricorso della matematica. La scienza che si è sviluppata per ultima è la biologia, che pure fa parte della fisica terrestre, ma ne costituisce la parte organica, cioè concernente gli essere viventi. Anch’essa comprende una statica, o anatomia, che è lo studio delle parti degli organismi viventi, ed una dinamica, o fisiologica, che è lo studio del funzionamento degli organismi. 91. Si esponga la concezione comtiana della società. Una scienza che secondo Comte non è si è ancora sviluppata, ma che è indispensabile per completare il raggiungimento, da parte dell’umanità, dello stadio positivo, è la sociologia. Anche questa è da lui considerata come una parte della fisica, precisamente come quella parte della fisica organica che studia l’uomo ed i suoi comportamenti nella società; perciò è chiamata fisica sociale. Ciò significa che anche a sociologia deve comportarsi come tutte le altre scienze, cioè deve assumere come modello la matematica e deve scoprire le leggi interne ai fenomeni, vale a dire le costanti dei comportamenti umani. Anche la sociologia comprende una statica, la statica sociale, che studia le strutture permanenti della società, ed una dinamica, la dinamica sociale, che studia i mutamenti, cioè lo sviluppo storico, della società. Nell’ambito della statica sociale, Comte afferma la naturale socievolezza dell’uomo e attribuisce particolare valore alla famiglia e alla proprietà, che considera condizioni indispensabili alla sopravvivenza della società. A proposito della famiglia, egli insiste sulla sua necessaria indissolubilità, opponendosi vivamente al divorzio, nonché sulla necessaria subordinazione della donna all’uomo e dei figli ai genitori. Comte si oppone sia alla libertà illimitata, che considera un principio non scientifico, sia all’uguaglianza, che considera causa di anarchia, cioè di disordine sociale, perché porta ad attribuire qualsiasi funzione a qualsiasi individuo. Nell’ambito della dinamica sociale, Comte costruisce una vera e propria filosofia della storia, affermando che nell’antichità e nel Medioevo l’umanità è vissuta nello stadio teologico, in cui il potere materiale era gestito esclusivamente dai militari e quello spirituale
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