Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

PARADISO, CANTO VIII, Appunti di Italiano

Parafrasi dettagliata con commento e analisi del canto 8 del paradiso. Contiene tutto quello che c’è da sapere per sostenere un ottimo esame.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 15/09/2022

sara-ferrigno-2
sara-ferrigno-2 🇮🇹

4.7

(18)

33 documenti

1 / 16

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica PARADISO, CANTO VIII e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! CANTO VIII Dante sale al cielo di Venere, che è il terzo cielo e che è anche il cielo in cui si proietta la punta del cono d'ombra della terra, per cui dal successivo cielo (il quarto) in poi l'ombra della terra non è più visibile. Infatti questi tre cieli sono in qualche modo meno perfetti degli altri, come se ci fosse ancora qualche traccia dell'imperfezione terrena, che poi si concretizza nel cono d'ombra che si spinge con il suo vertice fino al cielo di Venere. Qualcuno parla di una sorta di Anti-paradiso per stabilire quel gioco di simmetria con l'inferno dove avevamo l'Anti-inferno oppure con il Purgatorio dove avevamo l'Anti-purgatorio, cioè la spiaggia dell'Anti- purgatorio dove avevamo i quattro settori. In realtà, non possiamo tecnicamente parlare di Anti-paradiso, perché non c'è scritto da nessuna parte che ci troviamo in una sorta di Anti-paradiso, anzi Dante dichiara che in cielo per ogni dove è Paradiso, quindi ovunque, nei diversi cieli, malgrado le diverse gradazioni di beatitudine il Paradiso è dappertutto e le anime sono tutte beate. Venere è la dea pagana dell'amore e della bellezza e il cielo di Venere è il cielo in cui si trovano quelle anime che hanno soggiaciuto in vita all'impulso dei sensi, cioè all'impulso erotico e si trovano qui e non in Inferno o in Purgatorio, perché in realtà queste anime seppero poi, ad un certo momento della loro vita, volgere questo impulso carnale, dei sensi, verso un'altra forma d'amore che è la forma più alta d'amore: l'amore di carità, l'amore per Dio. Dante dedica due canti (VIII e IX) a queste anime e questo ci fa capire l'importanza del tema trattato in questi canti. Nel canto VIII il tema che si ripropone è sicuramente quello dell'amore e questo tema ha avuto un peso importantissimo nella sua produzione letteraria. Sappiamo che la Vita nuova è la storia di un amore e noi sappiamo che Dante si trova qui nei cieli del Paradiso guidato dalla donna che è stata cantata nella Vita nuova e che è la donna amata da Dante nella giovinezza fiorentina. Però, ci renderemo conto che il contenuto di questo canto VIII è intensamente politico. Si affronterà questo tema così come lo si era affrontato in tante situazioni e canti delle precedenti cantiche. Quindi, qui ci troviamo di fronte al tema dell'amore e al tema della politica, che sono forse i due motivi più importanti della vita del poeta, naturalmente poi la fede illumina tutto e quindi questi motivi prendono significato, valore, proprio alla luce della fede. Dante in questo canto incontra Carlo Martello (figlio di Carlo II d'Angiò), che Dante aveva avuto modo di conoscere a Firenze nel 1294, quando il giovane principe si era trovato a Firenze perché era andato incontro ai genitori che provenivano da sud dell'Italia e si era trattenuto nella città fiorentina per alcuni giorni. Dante faceva parte in questa occasione della legazione di fiorentini, che era stata inviata proprio per raccogliere il principe e quindi lo aveva conosciuto personalmente e tra i due era nata “un'amicizia” o comunque nacque sicuramente un rapporto di stima reciproca che si fondava su comuni interessi artistici. C'è quindi questa comunanza di valori, di interessi, di passioni per l'arte, per la letteratura. Consideriamo che nel 1294 Dante era il poeta fiorentino più famoso e siamo negli anni dell'esperienza stilnovistica di Dante. Questo riferimento alla vita e alla produzione letteraria di Dante a Firenze è molto importante perché questo canto è tutto tramato di echi stilnovistici e c'è soprattutto nella scelta lessicale un richiamo a quel mondo, a quell'esperienza giovanile. Anche nei canti del Purgatorio abbiamo fatto riferimento a questo: ci sono infatti dei canti, degli incontri, nel Purgatorio in cui si rievoca l'esperienza stilnovistica, in cui Dante ripercorre quella esperienza e sono soprattutto quei canti in cui Dante incontra gli amici fiorentini della sua giovinezza, a cominciare da Casella (Canto II), Bevacqua (Canto IV), Forese Donati. Sono questi canti quelli in cui Dante propone un tema importante del Purgatorio, che è quello dell'amicizia e che in particolar modo è quell'amicizia che si sostanzia di questi comuni interessi artistico-letterari ed ecco perché ci troviamo adesso, nel Paradiso, in un'atmosfera che ci ricorda molto i canti del Purgatorio, tant'è vero che quello che un po' domina in questo incontro tra Dante e questo principe è un'atmosfera di dolce, soffusa, malinconia. In questo canto Carlo Martello, il principe angioino, è il principe simbolo del sovrano giusto, nobile, retto, che è spinto, nella sua azione di governo, dall'amore per i sudditi, da quello che gli antichi chiamavano la recta deletio, cioè il giusto amore, la giusta propensione per il proprio popolo, per i sudditi. Quindi, Carlo Martello è la figura del principe ideale, del principe secondo Dante, il principe cortese, che coltiva naturalmente i valori più alti dello spirito e che ha propensione nei confronti dei propri sudditi. Di contro alla figura di Carlo Martello, quella del fratello Roberto D'Angiò, re di Napoli. È proprio Carlo Martello che fa riferimento al fratello (non Dante) e lo ammonisce invitandolo a evitare l’esoso fiscalismo, una politica fiscale troppo cruda, troppo aspra, quindi invitandolo ad un governo più giusto, non di rapina nei confronti dei propri sudditi, onde evitare gravissime conseguenze, perché dice Dante, per bocca di Carlo Martello la “mala segnoria sempre accora li popoli suggetti” (vv.23-75), cioè una cattiva signoria, un malgoverno opprime i popoli assoggettati e quindi gli effetti possono essere rovinosi, perché ci può essere poi la rivolta del popolo contro questo malgoverno. Di contro al principe giusto, al modello ideale di principe, che è Carlo D’Angiò, troviamo invece il contraltare del malgoverno, del governo cattivo che qui è incarnato dal fratello di Carlo, Roberto d’Angiò. Capiamo, quindi, che il tema politico è importante, che si esplica non solo attraverso quello che è il modello positivo di governo, ma anche attraverso l'attacco a quello che è il mal governo, ancora un momento di intervento polemico da parte di Dante e soprattutto un momento in cui lo sguardo di Dante è rivolto intensamente verso la terra, ma noi abbiamo detto tante volte che quella poesia del cielo, che secondo De Sanctis e secondo Croce è un pò ingombrante, quella poesia della teologia, in realtà, si salda sempre strettamente con la poesia della terra (giudizio critico di Giovanni Getto) per cui anche nei cieli del Paradiso la terra è intensamente presente sub specie aeternitatis, cioè nella visione di un Dante che dall'alto della pace dei cieli guarda e considera i mali della terra. Queste anime sono le anime di chi ha molto amato in vita e ha sentito molto in vita l'impulso erotico per poi indirizzare altrove questo impulso; da quello detto non risulta che vi sia traccia di ciò in Carlo Martello. Peraltro, nel Canto IX, Dante incontra altri due personaggi e allora questo è un tema importante tanto è vero che questo è il primo canto del Paradiso in cui a parlare sono ben tre anime del cielo, mentre nei canti precedenti è sempre stata soltanto un'anima a parlare, perché nel cielo della Luna era l'anima di Piccarda e nel cielo successivo, quello di Mercurio, era l'anima dell'imperatore (lux feros, cioè la stella che annuncia il giorno, portatrice del giorno). Il fatto che Venere avesse due fisionomie diverse, che sono quella di Venere vespertina, cioè del pianeta che annuncia la sera, e quella di Venere luciferina, cioè la stella che annuncia il giorno, per gli antichi aveva un significato importante, cioè per gli antichi duplice è l’influsso della stella di Venere: come Venere vespertina sarebbe la portatrice dell’impulso erotico, dell’amore sensuale, come Venere mattutina o luciferina sarebbe portatrice di un altro tipo di amore, che è proprio quell’amore che si traduce nell’armonia della civile convivenza, cioè quell’armonia che dovrebbe governare la società civile. Il primo è l’amore che può indurre al peccato, il secondo è una forma benefica, positiva, di amore e dovrebbe essere quella forma di armonia che regola la società civile. Secondo questa interpretazione, il principe angioino rappresenta la visione di Dante e per questo Dante lo colloca qui, perché è il principe che rappresenta la recta deletio, cioè il giusto amore verso i sudditi che è garanzia di buon governo, la propensione del principe verso i propri sudditi. Questa forma di amore più alta incarnerebbe il principe angioino. Questa è un’interpretazione che è stata data, ma non siamo certi che sia veramente così, però sembra più convincente dell’altra. v.15: la donna mia ch’i’ vidi far più bella = Dante si rende conto di salire non tanto perché lui sia cosciente dell’atto del salire, ma soltanto perché aumenta la luminosità ma anche la bellezza di Beatrice v.6: anastrofe del soggetto le genti antiche che viene messo alla fine del periodo vv.10-11: piglio pigliavano = figura etimologica e poliptoto, più enjambement v.12: vagheggia = termine tipico della poesia stilnovistica come pure amore, la donna mia, far più bella v.14: mi fé assai fede = fé è contenuta in fede, allitterazione del fonema fe vv.16-21: similitudine attraverso la quale Dante ci descrive questa atmosfera bellissima; è un tripudio di luce, ma anche di movimento. Dante si rivolge a questi elementi sensibili, che sono la luce, il movimento, la danza, il canto per renderci la realtà del Paradiso che è una realtà extra-umana che quindi l’uomo ha difficoltà a comprendere fino in fondo, ma questi strumenti sono efficacissimi. Dante si trova davanti il cielo luminosissimo di Venere sullo sfondo del quale si muovono velocemente, con movimento rotatorio, altre luci e dice che questa diversa velocità che lui vede è determinata da una diversa intensità della visione di Dio che ciascuna anima ha, a seconda del proprio grado di beatitudine. Il grado di beatitudine è diverso di cielo in cielo, ma è diverso anche all’interno di uno stesso cielo, per cui all’interno di uno stesso cielo un’anima può vedere più Dio o vedere meno Dio, a secondo dei propri umani meriti v.16: fiamma favilla = allitterazione della f v.17: voce voce = anafora molto forte perché le due parole sono vicine v.19: in essa luce altre lucerne = allitterazione del fonema luce che sta all’interno di lucerne e poi l’elemento della luminosità che si riproduce anche attraverso i suoni, la trama fonica vv.22-27 = altra similitudine; e vediamo qui che al movimento si associa anche il canto. Queste anime sono punti di luce che si muovono rapidissimamente. Dante fa il paragone con venti visibili (i lampi) e venti non visibili (i turbini): nessun turbine e nessun lampo è mai stato più veloce del movimento di queste anime nel farsi incontro a Dante. La velocità del loro movimento è pari al loro spirito di carità, cioè la loro volontà di compiacere Dante in tutto e per tutto, di rispondere alle domande di Dante e di esaudire i suoi desideri, di fare cosa gradita a Dante (la verità si intende in questo senso, nel senso di una predisposizione amorosa, caritatevole nei confronti del poeta). vv.26-27: lasciando il giro (cioè la danza rotatoria) pria cominciato in li alti Serafini = i Serafini sono le più alte intelligenze angeliche, insieme ai Cherubini; i Serafini si trovano nell’Empireo. Questa cosa è apparsa un po' inspiegabile, perché il cielo dell’Empireo è il cielo immobile, non c’è movimento, non c’è traccia di danza, perché le anime tutte quante, gli angeli tutti quanti, sono seduti sui loro seggi, quindi c’è l’immobilità della pace nel cielo decimo, nell’Empireo e pertanto non si capisce bene quale danza avrebbero lasciato, effettuata nel cielo dagli altri Serafini se questo cielo è l’Empireo. Forse Dante non si riferisce all’Empireo quando dice il cielo degli alti Serafini, cioè delle intelligenze angeliche più alte. Non sappiamo se si riferisce nemmeno al Primo mobile, c’è quindi un’incongruenza v.31: inizio del discorso dell’anima di Carlo Martello che esordisce con termini propri del dolce Stilnovo; questa scelta lessicale ci introduce in quest’atmosfera di un incontro che ci rimanda alla vita giovanile di Dante, all’esperienza stilnovistica che per Dante è stata tanto importante e che Dante porta con sé in questo viaggio anche in Paradiso. Naturalmente Dante già dall’Inferno ha mostrato di aver rivisto questa sua esperienza, di averla sottoposta ad una nuova lettura. Dante non ha mai rinnegato quell’esperienza giovanile, ma in una dimensione diversa che è quella del viaggio ultramondano la rivisita alla luce della fede ritrovata. vv.31-39: termini stilnovistici 🡪 piacer, ti gioi, d’amor, piacerti, dolce v.34: Noi ci volgiam coi Principi celesti = secondo la visione astronomica, astrologica e teologica dantesca, ciascuno di questi cieli è contrassegnato da un pianeta (il terzo dal pianeta di Venere, il secondo da Mercurio, il primo dalla Luna) e ciascuno di questi cieli è presieduto da un’intelligenza angelica e sono proprio le intelligenze angeliche che sono le intelligenze motrici del cielo. Nel terzo cielo le intelligenze angeliche sono quelle dei Principati v.35: d’un giro e d’un girare e d’una sete = giro e girare è figura etimologica che accosta il sostantivo giro al verbo girare; triplice ripetizione della specificazione d’un, d’un, d’una. Questo verso sottolinea la perfetta concordia di queste anime, che è la concordia di tutte le anime del Paradiso, che si muovono addirittura con uno stesso movimento rotatorio e con uno stesso ritmo, cioè sono perfettamente all’unisono come sono perfettamente all’unisono nel desiderio che esse hanno di Dio. Il movimento rotatorio è determinato proprio dal desiderio che le anime hanno di Dio v.37: il corsivo è il titolo della prima canzone dantesca del Convivio che Dante poi commenta nel secondo trattato del Convivio. Quest’anima quindi cita un verso di Dante e su questo poggia l’interpretazione data, cioè l’incontro di Dante con il principe Carlo Martello, il rapporto affettuoso che si generò tra i due, si sostanzia di quelle che sono le attività più alte dello spirito, cioè di comuni interessi intellettuali ed artistici. Quest’anima quindi mostra di conoscere la canzone dantesca, mostra di conoscere Dante e di apprezzarlo e gli fa onore in qualche modo qui citando il verso di questa canzone dove Dante canta l’amore per una donna che non è però più la donna della Vita nuova (Beatrice) ma che è l’emblema della filosofia. v.37: Voi che con la sola forza del vostro intelletto/con la vostra intelligenza fate muovere il terzo cielo = Dante qui si rivolge alle intelligenze angeliche che presiedono il terzo cielo. Secondo la cosmologia medievale ciascuno dei nove cieli concentrici (prima dell’Empireo) è presieduto da intelligenze angeliche. Il terzo cielo è quello preceduto dai Principati, anche se al tempo di questa canzone dantesca in realtà Dante considerava come intelligenze angeliche del terzo cielo i Troni. Comunque sia, nell’assetto della Commedia i Principati presiedono il terzo cielo. Voi che con il vostro solo intelletto il terzo ciel generate il movimento del terzo cielo 🡪 sappiamo che il movimento viene impresso dal Motore Immobile, che è Dio, nell’Empireo e viene trasmesso alle intelligenze angeliche che lo trasmettono ai cieli e i cieli si muovono per il desiderio che essi hanno di Dio. vv.38-39: d’amor … piacerti … dolce = termini della poesia dello Stilnovo. Soprattutto in questo canto, nell’incipit, ci troviamo in un’atmosfera che ci riporta indietro a quella sorta di filo rosso della cantica precedente, che è quello degli incontri giovanili, cioè gli incontri di Dante con gli amici della gioventù nelle cornici o nella spiaggia dell’Antipurgatorio e quegli incontri erano pervasi di una dolce malinconia ed ecco che questa atmosfera sembra ricrearsi anche qui Parafrasi vv.40-75: Dopo che i miei occhi si furono rivolti alla mia donna in atteggiamento di riverenza ed essa li aveva fatti appagati e sicuri con il suo assenso (nel senso che Dante poteva parlare) si rivolsero (gli occhi) all’anima luminosa che si era offerta prima così tanto e “Deh, chi siete?” fu la mia voce impressa di profondo affetto/trasporto (la domanda di Dante rivolta a quest’anima è piena di sentimento e di trasporto, anche se Dante non ha riconosciuto Carlo Martello che aveva conosciuto a Firenze diversi anni prima). E come io vedo farsi lei maggiore per grandezza (quanta) e maggiore per luce (quale) per la nuova gioia (di avermi incontrato) che andò a unirsi, quando io proferii le mie parole, alla sua gioia di anima paradisiaca (Dante ci sta dicendo che quando lui parla, vede quest’anima farsi maggiore, in quanto a grandezza, e luminosa: è come se l’anima diventasse più grande e più luminosa, perché le parole di Dante generano in quest’anima allegria, una gioia v.72: di Carlo e di Ridolfo = Carlo I d’Angiò, che è il nonno di Carlo Martello e Rodolfo d’Asburgo, che è il padre della moglie Clemenza. Da questi due sovrani capostipiti sarebbero discesi, attraverso Carlo Martello, i sovrani di quella terra Palermo = metonimia per palermitani; si riferisce all’insurrezione del Vespro (cosiddetta perché il Vespro è la sera, il momento conclusivo della giornata; era infatti la sera del lunedì di Pasqua del 1282 quando un soldato francese importunò una donna siciliana, intervenne il marito di lei che uccise il francese con un pugnale e di qui l’insofferenza per questi dominatori che era già forte e palpabile si diffonde un po' ovunque e sii ha un’insurrezione armata). Qui il dito è puntato contro il malgoverno: le rivolte, dice Carlo Martello, sono le conseguenze inevitabili di una cattiva politica, di un governo vessatorio, perché il malgoverno opprime i popoli assoggettati, li sfianca, spingendoli addirittura alla ribellione. Questo è l’atto di accusa che il principe Carlo Martello, rivolge peraltro contro la sua stessa dinastia, come si evince dai versi successivi, quando punto il dito contro il fratello, Roberto I d’Angiò. Roberto, dal 1309 in poi succede al padre Carlo d’Angiò e quindi diventa re di Napoli. Roberto d’Angiò è il re al cui esame si sottopone Francesco Petrarca prima di essere insignito dell’alloro poetico. È un sovrano coltissimo: era famoso per la sua grandissima cultura, per la sua grande sapienza, filosofica, letteraria e artistica. Dante dimostra però di averne un pessimo giudizio. Parafrasi vv.76-96: E se mio fratello prevedesse questo, eviterebbe fin d’ora (già fuggirìa) l’avida povertà della Catalogna, affinché non gli arrecasse un danno, perché veramente bisogna da parte sua o da parte di altri fare in modo che sulla sua barca già gravata dal peso del fisco (cioè, delle tasse) non si ponga un carico ancora più grande. La natura di Roberto (La sua natura) che da una natura generosa discese avara (parca) avrebbe bisogno di tali ministri (oppure altra interpretazione: di tale milizia mercenaria) che non si curassero di accumulare tesori nei propri forzieri (sta dicendo chiaramente che il sovrano è di per sé avaro, tant’è vero che dice che la natura di Roberto d’Angiò è una natura avara che è discesa da una natura generosa, che è quella del padre, Carlo II d’Angiò, dal quale sarebbe nato insomma un figlio avaro, per cui essendo lui già avaro avrebbe avuto bisogno di circondarsi di ben altra gente che non le milizie mercenarie, per le quali c’è bisogno di tanti denari, o di ministri così avidi)”. Segue il dubbio di Dante (ma com’è possibile che da un seme dolce, come quello di Carlo II d’Angiò nasca un frutto amaro, cioè un figlio che non segue le orme del padre?) 🡪 Poiché (Però ch’) io credo che la profonda gioia che il tuo parlare infonde in me, o mio signore, tu la veda là dove ogni bene ha termine e inizio (cioè, che tu la veda nella mente di Dio) così come la vedo io, mi è ancora più gradita (Dante sta facendo una lunga perifrasi in cui dice che: “dal momento che la gioia profonda che è in me io sono certo che tu la vedi nella mente di Dio, così come la vedo io, questa gioia mia mi è ancora più gradita, perché so che tu la vedi nella mente di Dio”) e anche questo ho caro, perché tu comprendi tutto questo guardando nella mente di Dio. Tu m’hai fatto lieto finora (Dante è molto più contento, perché sa che la sua contentezza perviene all’anima, in quanto l’anima la vede in Dio) e adesso chiariscimi una cosa poiché parlando tu mi hai spinto a dubitare di come possa derivare da un seme dolce un frutto amaro”. v.76: prevedesse = perché il viaggio Dante lo compie nel 1300, mentre Roberto d’Angiò al tempo del viaggio non è ancora il re di Napoli, per questo Dante dice che se lui potesse prevedere quello che accadrà nel suo regno, quando lui ne diventerà sovrano, cioè tra 9 anni, si comporterebbe già da subito in modo diverso, cioè si comporterebbe a non essere avido v.77: l’avara povertà di Catalogna = la povertà è definita “avara”, cioè avida, perché gli avari si credono sempre poveri. La Catalogna è una regione della Spagna e i catalani andavano famosi, evidentemente per la loro avarizia, così come da noi i genovesi. Allora l’avara povertà di Catalogna potrebbe essere un modo di dire (Roberto eviterebbe l’avidità tipica di un catalano). C’è però un’altra interpretazione, per cui invece questa Catalogna si spiegherebbe nel modo seguente: “già da ora eviterebbe l’avidità dei ministri catalani/si guarderebbe dall’avidità dei suoi ministri”. Già Roberto è avido e inoltre lo sono pure i ministri di cui si circonda. Ci sono delle prove per questa seconda interpretazione, perché Roberto d’Angiò si trovò in Spagna per riscattare con una forte somma di denaro il padre Carlo d’Angiò, che era stato fatto prigioniero da Alfonso di Aragona, il re della Catalogna. Roberto riscattò il padre e fu in questa occasione che lui strinse amicizia con notabili del regno catalano che poi lo seguirono in Italia e che divennero probabilmente anche i suoi ministri e questi catalani erano ministri esosi, avidissimi che mal consigliarono il re Roberto v.78: già = fin d’ora, perché nella finzione letteraria siamo nel 1300, mentre Roberto d’Angiò avrebbe prese il potere nel 1309, nove anni più tardi vv.79-80: ché veramente proveder bisogna per lui = anastrofe 🡪 ché veramente bisogna proveder per lui; per lui = compl. d’agente, da lui, da parte sua vv.80-81: sì ch’a sua barca carcata più di carco non si pogna = anastrofe 🡪 non si ponga più di carco a sua barca carcata v.82: larga parca = aggettivi antitetici vicini nel verso; larga = generosa, parca = parsimoniosa in senso esagerato, cioè avara vv.79-81: metafora dello Stato come barca, ricorrente in Dante; Carlo Martello punta il dito contro il fratello e denuncia l’esoso fiscalismo del regno di Napoli, la politica a suo dire di rapina nei confronti dei sudditi portata avanti dal sovrano insieme ai suoi ministri, se è vero che questa Catalogna si riferisce proprio ai ministri. Era veramente tirchio Roberto d’Angiò, come ce lo rappresenta Dante? Veramente non ne abbiamo la certezza, anche se Dante ne fa un pessimo uomo, un sovrano che impose al popolo un fiscalismo di rapina vera e propria, che oppresse i suoi sudditi, un sovrano assetato di denaro. In realtà, alcune fonti del tempo sembrano concordare con Dante (evidentemente Dante si è rifatto anche a queste fonti), però la critica contemporanea non giudica male questo sovrano v.83: avrìa mestier di tal milizia = questo verso potrebbe suffragare la seconda delle due interpretazioni che abbiamo dato del v.77, secondo la quale non sarebbe un modo di dire “l’avidità di Catalogna”, ma farebbe riferimento a quei ministri che lui avrebbe portato con sé in Italia. Questi versi sono un punto di svolta del Canto, perché Carlo Martello sta dicendo che suo fratello ha una natura avara, pur essendo stato generato da un padre generoso; da qui a poco inizia quel discorso dottrinale sulla influenza degli astri, dei cieli, che naturalmente sono dominati dagli angeli v.87: perifrasi per indicare Dio che viene indicato come il luogo dove ogni bene ha termine e inizio v.88: veggia … vegg’io = veggia … veggo (io) 🡪 poliptoto (il primo è congiuntivo presente, il secondo indicativo presente) v.92: a dubitar m’hai mosso = anastrofe 🡪 m’hai mosso a dubitar v.93: iperbato 🡪 come può essere amaro di dolce seme v.96: terra’ … tieni = poliptoto Parafrasi vv.97-126: Questo dissi a lui ed egli mi rispose: “Se io posso mostrarti la verità a ciò che tu adesso domandi, offrirai il volto così come adesso volti le spalle (‘l dosso; se uno non vede una certa verità è come se gli mostrasse le spalle; mostrare il volto vuol dire comprendere la verità). Dio che è il bene che tutto il regno del Paradiso che tu percorri (scandi) fa volgere e appaga della sua luce fa sì che la sua provvidenza si faccia virtù in questi corpi celesti (cioè, nei cieli; la provvidenza è all’origine di tutto) e non solo le nature umane sono determinate (provedute) in quanto al loro essere (aggiunta necessaria) nella mente di Dio che è perfetta in sé stessa, ma esse nature insieme con i loro fini (se interpreto salute come fini, vuol dire che questi fini sono buoni, sono salute/salvezza per l’uomo. Qui il discorso si fa teologico, filosofico: Dante sta dicendo che la provvidenza divina, che muove i cieli rotanti e li appaga della sua luce, fa in modo che la provvidenza stessa diventi virtù nei cieli; quindi, ogni cielo possiede una virtù che è voluta, determinata e impressa in questo cielo dalla provvidenza stessa e tutti gli esseri umani siamo determinati dalla mente di Dio, che è perfetta e quindi non può sbagliare; non soltanto in quanto al nostro essere, alle nostre inclinazioni naturali, alla nostra indole, ma anche in quanto al fine verso il quale siamo diretti. Quindi, sia la nostra indole, sia il fine per il quale la nostra indole è portata sono buoni): per cui qualunque cosa quest’arco (l’arco della provvidenza divina) scocca, cade indirizzato verso un fine determinato, così come una cosa diretta verso il suo bersaglio (quindi, Dio è come un arco che scocca le sue frecce, le frecce siamo noi con le nostre inclinazioni, la nostra natura, e non può mai fallire il bersaglio, cioè siamo tutti bravi, buoni, le nostre inclinazioni e i fini sono buoni e quindi com’è tanto disordine?). Se non fosse così, il cielo che tu percorri (cioè, in questo caso il cielo di Venere) produrrebbe sì i suoi effetti, che non sarebbero effetti positivi, ma sarebbero solo effetti rovinosi (ruine); e ciò non può v.119: offici = parola latina, da officium v.122-123: esser diverse convien di vostri effetti le radici = anastrofe 🡪 convien esser diverse; le radici è il soggetto che viene messo in fondo alla frase vv.124-125: per ch’un nasce Solone e altro Serse, altro Melchisedech = sono tutte antonomasie, per cui si utilizza un nome proprio per indicare una caratteristica generale, quindi un’attitudine in questo caso: nascere Solone vuol dire nascere per fare il legislatore, un altro nasce Serse, cioè per fare l’imperatore, il capo militare, il condottiero, un altro nasce Melchisedech, cioè per fare il sacerdote vv.125-126: e altro quello che, volando per l’aere, il figlio perse = perifrasi per Dedalo Parafrasi vv.127-148: (si arriva alla spiegazione ai vv.127-129; se noi siamo nati tutti provvisti di inclinazioni naturali positive, che ci spingono a svolgere diversi compiti, a farlo bene perché i nostri fini sono anche positivi, com’è che ci sia chi si comporta male?) La risposta 🡪 La virtù dei cieli rotanti (La circular natura, cioè quella virtù che imprime in noi le inclinazioni naturali) che è come un suggello/sigillo che si imprime nella nostra materia mortale (quindi, che imprime le attitudini in noi) svolge bene il suo compito, ma non distingue l’una casa dall’altra (cioè, non distingue una famiglia dall’altra e quindi queste influenze giungono a noi indipendentemente dalla famiglia nella quale noi siamo nati; pertanto, può accadere che essendo noi nati in una famiglia di regnanti, essendo quindi per discendenza destinati a fare il re, a governare, come nel caso di Roberto d’Angiò, non avendo noi l’inclinazione naturale per regnare, ma per fare qualcosa d’altro, essendo costretti invece a fare il re, in quel compito facciamo una cattiva prova di noi stessi; quindi, è colpa dell’uomo che piega le inclinazioni naturali a fare qualcosa per cui non è portato). Quindi, ne deriva che Esaù si distingue fin dal ventre materno (per seme) da Giacobbe (che era il suo gemello; Esaù e Giacobbe sono i gemelli biblici che fin dal concepimento sono molti diversi; non si spiegherebbe, se non ci fossero le influenze astrali, il fatto che due gemelli possono essere molto diversi: perché ciascuno ha ricevuto una determinata influenza); e Romolo (Quirino) nasce da un uomo del popolo (vil padre) che la sua paternità si attribuisce a Marte (tant’è vero che i romani dicevano che Romolo era figlio di Marte). I figli (Natura generata, in quanto figli siamo nature generate dai nostri padri) svolgerebbe sempre il proprio cammino di vita identico a quello dei padri (generanti) se non fosse superiore (se non vincesse) alla genetica la provvidenza divina attraverso le influenze celesti (noi possiamo nascere da un padre fatto in qualsivoglia modo, ma se il cielo dal quale siamo influenzati ci porta in un’altra direzione non è importante da quale padre siamo nati, sarà un padre vile come quello di Romolo, ma diventeremo dei grandi, se quella è l’influenza che abbiamo ricevuta). Ora quello che tu avevi dietro le spalle e che non capivi ti è davanti, ma affinché tu sappia che mi piace trattenermi con te voglio che tu ti adorni/serva di un’aggiunta/di un’ulteriore considerazione (corollario). Il dito di Dante, per bocca di Carlo Martello, è puntato, ancora una volta, contro la terra, sull’uomo, a indicare che solo l’uomo è la fonte della propria sciagura e quindi non ci sono responsabilità divine, cioè non sono le influenze astrali che ci fanno fare male le cose, ma siamo noi 🡪 Sempre la natura se trova la sorte (fortuna, cioè la condizione ambientale) discordante da sé, come ogni altro seme fuori del terreno che gli è proprio, fa una cattiva prova. E se gli uomini laggiù, sulla terra, ponessero mente all’inclinazione naturale (fondamento) che la natura pone in ognuno di noi, seguendo quel fondamento/quell’inclinazione (lui) avrebbe buone sempre le persone. Ma voi (cioè, gli uomini; avversativa in posizione rilevata, ad inizio del verso) fate volgere con la forza (torcete, il verbo è forte) uno tale che sarebbe nato per cingersi con la spada (fate diventare prete uno che è nato per fare il guerriero) e fate re uno tale che è nato per fare il predicatore (qui il riferimento sembra proprio diretto a Roberto d’Angiò, perché era un uomo coltissimo, esperto di teologia e quindi sarebbe stato portato di più a fare il teologo, l’uomo di chiesa, sicuramente, che non il re; questo crede Dante ed è un fatto che era veramente un grandissimo maestro di teologia e molto esperto di filosofia ):per cui il vostro cammino è fuori dalla retta via. vv.127-128: ch’è suggello alla cera mortal = metafora 🡪 l’influenza astrale è come un sigillo che viene impresso nella cera: lo stesso fa la virtù dei cieli rotanti vv.133-134: generata … generanti = poliptoto v.138: un corollario voglio che t’ammanti = anastrofe 🡪 voglio che t’ammanti un corollario vv.139-140: se fortuna trova discorde a sé = anastrofe 🡪 se trova fortuna discorde da sé vv.142-143: ponesse … pone = poliptoto
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved