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Parafrasi Canto II Divina Commedia, Versioni di Letteratura Italiana

Parafrasi Canto II Divina Commedia

Tipologia: Versioni

2022/2023

Caricato il 19/05/2024

luisa-ermenegildo-3
luisa-ermenegildo-3 🇮🇹

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Anteprima parziale del testo

Scarica Parafrasi Canto II Divina Commedia e più Versioni in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! INTRODUZIONE AL CANTO II Il secondo canto, che contiene all'inizio l'invocazione alle Muse e la definizione dell'argomento (vv. 1-19), è come un secondo prologo («capitulum adhuc proemiale», lo disse Pietro), ma dedicato all'ingresso all'inferno, e svolge un secondo tema centrale e preliminare al poema. Lasciata la grande scena simbolica dove si svolge il cammin di nostra vita, ci troviamo ora in una oscura costa, in un'ora serale in cui l'oscurità già prelude al mondo di tenebra in cui si sta per entrare. E il pellegrino, solo con se stesso di fronte alla guerra che lo attende, affronta un nuovo timore e un nuovo impedimento. Come e perché, con quali forze potrà egli affrontare un simile compito? Questo interno, profondo timore, che si traduce in ansiosa domanda (v. 31), e la luminosa risposta che esso ottiene, del gratuito intervento celeste che soccorre alla sua insufficienza, formano appunto tutto l'argomento del canto. Dante fonda qui - risolvendola in una figurazione drammatica - la ragione stessa che regge tutta l'invenzione del poema, viaggio predisposto dalla provvidenza divina, ed è quindi questa una pagina di capitale importanza. La forza poetica che si sprigiona dalle due figure del canto - l'uomo in preda allo sgomento e al senso della propria indegnità nell'aere bruno e nell'oscura costa, e la donna dagli occhi lucenti (la donna della giovinezza) che viene in suo soccorso dal cielo, mandata dall'alto e non da altro mossa che dalla forza di amore - è di quelle che si fondano sopra una ben lunga storia. Il problema che qui si pone è alla base stessa del viaggio (e del poema): come può essere un semplice mortale, e per di più peccatore, degno di tale impresa, già concessa ai due uomini - Enea e Paolo - che ebbero il compito di restaurare nell'umanità l'ordine politico e quello religioso? Dante non ha a questo nessun titolo, e mai - né qui né altrove nella Commedia - si celebrerà un suo qualunque diritto a tale missione. La risposta di Virgilio alla domanda (me degno a ciò né io né altri 'l crede) non è infatti - ed è qui il punto - che Dante sia in qualche modo degno, ma che qualcuno si è mosso in suo favore per amore (amor mi mos-se), spinto a sua volta da una divina pietà: Donna è gentil nel ciel che si compiange... La gratuità di tale avvenimento è palese, e fondata su una profonda verità teologica. Ma ad essa corrisponde una ben determinata realtà della vita di Dante. C'è infatti alla fine un titolo che Dante rivendica a questo straordinario intervento. Come già con Virgilio (vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore), così ora con Beatrice (ché non soccorri quei che t'amò tanto): e cioè il suo stesso amore. Quelle realtà dunque che hanno attratto e guidato la sua vita fin dalla giovinezza, sono le medesime che ora, giustamente, vengono mandate dal cielo in suo soccorso, e lo portano in salvo. La grande forza di storia personale che investe tutto il canto - con lo straordinario, esplicito appello a tutto il tempo della Vita Nuova che qui rivive con l'antico, e più forte, incanto - è il primo esempio di questa irripetibile arte dantesca a doppio registro, in cui sempre ci imbatteremo, dove le vie di Firenze si incrociano con le vie del cielo, il linguaggio di Isaia traspare nel volgare toscano, e Enea e san Paolo fanno da controfigure al poeta della Vita Nuova. Tutto il canto è costruito in modo che il luogo oscuro dove si trovano Dante e Virgilio - e dove si svolge il dramma del timore - fa come da cornice alla scena centrale della comparsa di Beatrice e dello sfondo celeste da cui ella proviene. Il timore è messo in fuga da quella apparizione, che porta con sé il ricordo potente di un altro tempo della vita: i precisi rinvii alla Vita Nuova non sono infatti i resi dui di una poesia ancora immatura, ma il cosciente richiamo a quel periodo giovanile in cui Dante seguiva fedelmente il diritto orientamento del cuore (si veda Purg-XXX 122-3) e che ora gli permette di ritrovare - dietro alla stessa guida - la strada smarrita. Ma su questa storia fondamentale, che domina il canto, s'innesta, con un breve ma fondamentale accenno, la solenne funzione pubblica che Dante si assume. I due nomi emblematici di Enea e di Paolo, di cui egli ripete l'impresa, danno fin dall'inizio una dimensione storica e civile a questa vicenda di salvezza, preannunciando il secondo significato del viaggio. Se l'uno ebbe il compito di preparare l'impero di Roma, e l'altro di «confortare» la fede cristiana ai suoi inizi - le due grandi realtà stabilite da Dio per guidare la vita dell'uomo sulla terra -, certamente anche questo terzo viaggio sarà in qualche modo ordinato a quelle due realtà. Altro qui non se ne dice, ma è quanto basta per intonare la Commedia sul registro epico che le è proprio, e che la distanzia in modo deciso, come ad ogni passo sarà dato riconoscere, da qualsiasi testo di carattere comunque privato. Analogamente, del resto, come Dante non va per sé solo, ma per tutti, così Beatrice, che pur si muove per il suo amore a soccorrere quei che l'amò tanto, non va per sé, ma mandata dall'alto: è infatti la stessa Vergine Maria - non nominata, se non per la sua pietà - che occupa il vertice del canto. Sono questi segni - questi nomi tra i maggiori della terra e del cielo, che pur sembrano qui esattamente al loro posto - a caratterizzare, nella sua unicità, la Divina Commedia, che intende coinvolgere, come l'autore stesso ci dirà alla fine (cfr. Par. XXV 1-2), tutta la storia, celeste e terrestre insieme, e tutto questo con la naturalezza con cui si narra l'incontro con un amico. Ma la curva del canto si chiude - seguendo una norma interna quasi di parabola che il lettore impara ben presto a riconoscere - inclinando da quei vertici, della storia e della teologia, ad una delle più semplici e consuete immagini che l'occhio dell'uomo possa contemplare: la straordinaria similitudine dei fioretti, da tutti celebrata, che conclude il canto, ne riepiloga di fatto, nella sua apparente piccolezza, tutta l'altissima sto- ria: il timore dell'uomo dalle deboli forze (di mia virtude stanca) e il conforto che scende da Dio e lo trasforma. È impossibile quindi isolare - in questa stretta e profonda trama - la bellezza della figurazione di Beatrice, o dell'ultima immagine, dall'insieme del canto. Quella bellezza celeste risponde a quell'oscuro timore (m'apparecchiava a sostener la guerra) e lo risolve in ardire; e quel paragone esprime, nella sua perfetta sequenza, il mutamento profondo e decisivo dell'uomo, e la sua ragione, che tutto il canto Il dubbio qui espresso, e la sua soluzione, sono l'argomento del canto, che è di fatto ancora prologo all'azione. - La mia virtù...: il mio personale valore, le mie capacità. La parola mantiene il senso latino "virtus". Il significato si deduce dal contesto, quasi dicesse: son io capace di tanto? (cfr. oltre v.32: io non Enëa, io no Paulo sono.) Il dubbio di Dante-si noti-è tutto imperniato sulla propria personale debolezza. - S'ell'è possente...: virtù è soggetto prolettico ripreso dal pron. ella: guarda se la mia virtù è all'altezza di ciò (cfr. Rime XC 50:"guarda la vita mia quanto ella è dura"); possente: che ha la possibilità, la capacità di far qualcosa; cfr. Par. XIX 55 e XXIII 47. - A l'alto passo tu mi fidi: tu mi affidi, mi consegni a questo difficile, arduo cammino (indica l'eccezionalità dell'impresa, che è quella stessa, come dirà subito dopo, di Enea e di Paolo); passo con valore di passaggio difficile (come a I 26) si ritrova più volte nel poema, in particolare, con lo stesso aggettivo, a XXVI 132: poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo, frase con la quale Ulisse indica l'ingresso nell'oceano. - Tu dici...(vv. 13-15): tu racconti nella tua Eneide che il padre (parente è latinismo, cfr. I 68) di Silvio, Enea, andò ancora in vita (corruttibile ancora) e col corpo (sensibilmente) nel mondo dell'aldilà. È l'argomento del VI dell’Eneide, dove Enea si reca agli inferi per conoscere il proprio destino di fondatore di Roma. Nell'intenzione di Virgilio, questo viaggio era una specie di investitura sacra per l'eroe padre del futuro impero di Augusto. Tutto questo è presente sullo sfondo delle parole di Dante, come si precisa poi (16-21). Si osservi che mentre Dante credeva alla realtà storica di Enea, il Tu dici presenta la sua discesa agli inferi come un racconto poetico ("tu dici: cioè immagini poeticamente": Benvenuto) che assume tuttavia valore di realtà, non diversamente da quello di Dante, personaggio storico assunto a protagonista di un evento che è sì finzione letteraria, ma presentata come reale. corruttibile ancora, ad immortale secolo andò, e fu sensibilmente. 15 Però, se l'avversario d'ogne male cortese i fu, pensando l'alto effetto ch'uscir dovea di lui e 'l chi e 'l quale 18 non pare indegno ad omo d'intelletto; - Immortale secolo: l'eterno mondo dell'aldilà; secolo indicava corso di tempo indeterminato, e si usava per indicare il tempo storico in genere, e quindi il mondo. Qui il secolo immortale, eterno, è contrapposto al secolo mortale, finito; e indica l'aldilà. - Se l'avversario d'ogne male...: se Dio, nemico di ogni male (Ps. 5, 5-7), fu particolarmente generoso verso di lui (i vale "gli", forma arcaica), pensando al grande effetto che da lui doveva derivare (l'impero romano), sia nella sua essenza sia nella sua qualità... (e 'l chi e 'l quale è forma scolastica-"et quis et qualis"- che indicava appunto l'essenza e la qualità di qualcosa); tutta la frase fa da soggetto al verso successivo: ciò non sembra indegno ecc. Il passo è controverso. Si indica l'interpretazione più semplice, accolta da tutti gli antichi, e che corrisponde con precisione alla sintassi del testo. Ricordiamo solo che pensando è riferito dalla maggior parte dei moderni a omo del v.19, e non a l’avversario d'ogne male del v.16 (cioè Dio); il che impone una inutile forzatura sintattica, mentre è tipicamente dantesco indicare in Dio il pensiero che predispone gli eventi dall'eternità (cfr. Conv. IV, IV 9-11 e V 3-4, e Par. XXXIII 3); in questa seconda ipotesi dunque, il senso della frase sarebbe che a Enea fu concessa la discesa agli inferi da parte di Dio proprio in virtù del suo volere e del disegno divino, ossia in considerazione (pensando) del suo compito futuro, piuttosto che trattarsi di una riflessione (pensata) dai posteri a conti fatti. - Non pare indegno...: ciò non sembra ingiusto (ciò sembra ben giusto, per litote) a un uomo dotato d'intelletto, cioè di capacità di intendere. Altri propongono di costruire: “non pare, ad omo, indegno d'intelletto", cioè "non suscettibile di comprensione intellettuale", anche appellandosi a Par. IV 41-2: però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d'intelletto degno. Quest'ultima sfumatura di significato non trova appoggio negli antichi, e non corrisponde al vero senso del testo, che è la contrapposizione con Dante (cfr. vv. 31-3: Ma io. Perché venirvi?... me degno a ciò né io né altri ‘l crede). ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero ne l'empireo ciel per padre eletto: 21 la quale e 'l quale, a voler dir lo vero, fu stabilita per lo loco santo - Ch’e fu…: poiché egli (Enea) fu scelto, predestinato per tale compito storico (eletto) nel cielo Empireo stesso (il cielo di pura luce dove risiede Dio), come padre della gloriosa Roma. È questa l'idea cardine di tutta la concezione storica di Dante, che vede nell'impero romano l'autorità predisposta da Dio stesso al governo del mondo (cfr. nota al v.22). Questo tema di fondo, che con quello parallelo della Chiesa definisce i pilastri dell'ordine terreno su cui si basa la Commedia, è sin dall'inizio del poema annunciato con decisione. - La quale e'l quale: Roma e il suo impero. - A voler dir lo vero: il valore di questa precisazione è stato a lungo discusso; accogliamo senza incertezze la spiegazione del Nardi e del Barbi (già presente nel commento di Benvenuto) per cui essa si riferisce all'opinione-che fu anche di Dante stesso in un tempo anteriore al Convivio (cfr. Mon. II, I 2-3) - secondo la quale l'impero romano sarebbe stato fondato sulla forza, e non sul diritto (cfr. Conv. IV, IV 8-12, dove tale opinione è esposta e confutata). Qui si allude chiaramente alla concezione provvidenziale, da Dante fermamente sostenuta in tutte le sue opere, per cui Dio stesso "stabilì" fin dall'eternità l'impero romano alla guida del mondo, in vista della Chiesa di Cristo che avrebbe trovato in esso lo spazio storico per nascere e svilupparsi. - Fu stabilita...: fu dall'eternità stabilità a capo del mondo perché vi potesse sorgere la sede del successore di san Pietro, il papa (cioè la sede della Chiesa cristiana). u' siede il successor del maggior Piero. 24 Per quest'andata onde li dai tu vanto, intese cose che furon cagione di sua vittoria e del papale ammanto. 27 Andovvi poi lo Vas d'elezïone, - Maggior Piero: Piero (forma toscana di Pietro) indica il papa per antonomasia; il maggior Piero è quindi san Pietro, il più grande per dignità fra tutti gli altri. Altrove Dante chiama il papa egualmente successor Petri (Purg. XIX 99). - Onde li dai tu vanto: della quale tu nel tuo poema gli dai l'onore. - Intese cose...: gli furono dette cose (dall'ombra di Anchise, suo padre) che lo incoraggiarono alla vittoria su Turno, re dei Rutuli, dalla quale alla fine "seguì l'effetto che poco avanti si legge, cioè...l'autorità papale" (Boccaccio). - Papale ammanto: il manto, cioè la veste pontificale, era come il simbolo del papato, ed è qui usato a significarlo. Il gran manto indica di per sé la veste papale anche in XIX 69: sappi ch'i' fui vestito del gran manto, e in Purg. XIX 104. - Andovvi poi: questo non è un fatto letterario, ma riconosciuto come reale. San Paolo stesso testimonia la sua andata nell'aldilà, al terzo cielo (2 Cor. 12, 2-4), andata alla quale Dante si riferisce in un altro momento essenziale del poema, la salita al paradiso (Par. I 74-5). I due grandi viaggi - l'uno agli inferi, l'altro al cielo - vengono così a racchiudere tutta l'esperienza che Dante compirà nella Commedia. - lo Vas d'elezione: san Paolo, così chiamato ("vas electionis") in Act. Ap. 9, 15. Come spiega Benvenuto, l'espressione deriva dall'urna nella quale il corriere portava il messaggio dell'elezione; così Paolo portava e predicava l'elezione, "cioè la volontà del Signore". Di lui non si specifica, come per Enea, se fu sensibilmente, cioè con il corpo, in quanto Paolo stesso lascia la cosa incerta ("non so se col corpo o fuori dal corpo, Dio lo sa": 2 Cor. 12, 3), motivo che Dante riprenderà puntualmente nel luogo sopra citato del Paradiso. Alle soglie del poema, egli vuol richiamare solennemente i due momenti centrali della storia del mondo, di cui l’Eneide e la Bibbia sono appunto i testimoni. Di altri veri o presunti viaggi nell'aldilà, pur noti nella letteratura, Dante tace, li ignora totalmente. Solo questi due esistono per lui, in quanto il loro valore stava in una funzione pubblica verso tutta l'umanità, qual è quella che egli riconosce a se stesso, e che in un certo senso riassume le altre due. per recarne conforto a quella fede ch'è principio a la via di salvazione. 30 Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede? Io non Enëa, io non Paulo sono; me degno a ciò né io né altri 'l crede. 33 Per che, se del venire io m'abbandono, - Per recarne conforto: per portare di là conforto alla fede, cioè per consolidare in tutti gli uomini la fede-allora ai suoi inizi-: che fu uno dei compiti di Paolo. - Ch'è principio...: che è il principio obbligato della salvezza ("senza la fede è impossibile esser graditi a Dio": Hebr. 11, 6; cfr. Mon. II, VII 4: "nessun...senza la fede può salvarsi", e Par. XIX 103-4: A questo regno / non salì mai chi non credette 'n Cristo); ma che tuttavia non è tutto, come indica-con la consueta precisione teologica- la parola “principio”. - Ma io, perché venirvi? questo drammatico Ma io porta finalmente alla luce l'interno dubbio, dopo la lunga premessa dei vv.10-30. Quei due, grandi e privilegiati fra gli uomini, avevano una missione da compiere per tutta l'umanità. Ma io? - o chi 'l concede? la domanda è duplice: perché, con quale compito o missione (giacché è chiaro che solo in vista di uno speciale compito sono andati gli altri due), e chi è l'autorità che concede il privilegio? In questa domanda si cela già il presentimento di un alto compito e di uno speciale intervento divino, che solo nel Paradiso verrà apertamente dichiarato. - Io non Enëa, io non Paulo sono: grandissimo verso, che ha tutta la forza emblematica dei versi chiave della Commedia. I due nomi propri, non a caso evitati prima (i due personaggi sono stati indicati con perifrasi: di Silvïo il parente, lo Vas d'elezïone), prendono un potente rilievo, carichi di tutta la loro storia provvidenziale, per cui ognuno dei 2 è segno di tutto un mondo (il mondo pagano culminante nell'impero, e quello cristiano espresso nella Chiesa). Di fronte a loro appare l'umile cristiano impedisce-e che è il senso della propria indegnità (v.33); ed ecco la risposta, che non gli dice, si osservi bene, che egli sia in qualche modo degno, ma che la bontà divina si è mossa gratuitamente a farlo tale. - Ti solve: la desinenza in -e della 2^ persona del cong. Presente è normale nell’uso fiorentino del ‘200 per i ferbi in -ere, -ire ed è usata nel poema in rima anche per quelli in -are. - Nel primo punto...: nel primo momento in cui provai dolore per te, cioè conobbi la tua condizione. - Dùolve: è perfetto arcaico di "dolere"-al latino "doluit"-poi sostituito da dolse per analogia con i perfetti in -si. - Io era...: si apre con questo verso un nuovo scenario, e appare per la prima volta Beatrice, colei che sempre porta con sé il segno e il richiamo del divino nella vita di Dante. La luce che inonda questi versi, che irraggia lo splendore di un altro mondo in quella oscura costa, è la risposta, sul piano figurativo, alle angosce di prima; il v.55 sembra mettere in fuga da solo ogni ombra e ogni timore. Ritornano qui con Beatrice nel verso di Dante-dopo tanti anni-i modi e gli accenti della Vita Nuova (cfr. i vv.55- 7), ma usati ora con la consapevolezza matura di chi, dopo l'esperienza delle Rime petrose, delle canzoni morali e dottrinali, del Convivio, si rifà a quel passato per riprenderne l'atteggiamento interiore - quell'intenzione pura che seguiva nella bellezza l'orma del divino (Purg. XXX 121-3), e che ora gli consente di ripartire e di abbandonare l'oscurità e l'errore. Tali modi quindi hanno un valore emblematico di riepilogo di una storia, proprio come Beatrice stessa, che è sì quella di allora, ma anche qualcosa di ben altro, figura centrale della grazia divina nella vita di Dante. - Sospesi: nel limbo dantesco, dove si trova Virgilio (cfr. oltre, canto IV), gli spiriti vivono, pur nell'inferno, in uno stato intermedio tra peccatori e salvati, in quanto sono, come dice Benvenuto, "senza pena e senza speranza" (sol di tanto offesi / che sanza speme vivremo in disio: IV 41-2); di qui l'immagine della sospensione, come in una bilancia, a esprimere uno stato eternamente incompiuto, che Dante usa ugualmente in IV 45 (per il riscontro dell'immagine con un passo di Bonaventura, cfr. la nota ivi). e donna mi chiamò beata e bella, tal che di comandare io la richiesi. 54 Lucevan li occhi suoi più che la stella; e cominciommi a dir soave e piana, • beata e bella: questa coppia di aggettivi affini o dittologica (come più oltre soave e piana) è di tipico gusto stilnovistico; la differenza fra i 2 significati è sempre una sfumatura, quasi una variazione sul tema. Fin dalla prima battuta, Beatrice porta con sé il ricordo e l'aura stessa della Vita Nuova. • tal che...: tale nell'aspetto, per quella bellezza e beatitudine che da lei spirava, che non potei altro che chiederle di comandare. • Lucevan...: gia abbiamo detto della forza vincitrice di questo verso luminoso: gli occhi, elemento primario di tutto lo Stil Novo, tornato nella Commedia, fino agli ultimi canti, con valore diverso ed eminente, in quanto in essi splende la luce di Dio. • la stella: singolare per il plurale: le stelle in generale. Tale uso è documentato da Dante stesso: cfr. Vita Nuova XXIII, Donna Pietosa 50 e Conv. III, Amor che ne la mente 80 (in tutti e due i luoghi, si ritrova nella dichiarazione in prosa la forma "le stelle"). Cfr. anche Cavalcanti, Rime XLVI 2: "più che la stella / bella, al mi' parere". • soave e piana:tutti gli antichi riferiscono questi aggettivi al parlare della scienza divina, cioè al valore simbolico di Beatrice:"poiché il parlare divino è soave e semplice ('suavis et planus')" (Benvenuto); e piano è preso nel senso di "chiaro" e "aperto". Questa dittologia, con leggere variazioni, è peraltro ritrovabile nelle rime di Dante e degli stilnovisti (cfr. Dante, Rime LXIX 10:"co gli atti suoi quella benigna e piana"; Lapo Gianni, Rime XII 23:"ma fie negli occhi suoi umil'e piana"; ecc.), dove il piana vuol dire "dolce", "benevola", e in questo senso è inteso da tutti i moderni. Tuttavia, come Beatrice è sì quell di prima, ma insieme figura di una realtà che la trascende, così anche il suo parlare è sì sempre quello, ma può ben darsi che quel modo dolce e semplice si sollevi ad indicare il parlare proprio di Dio, che non è quello orgoglioso e difficile dell'uomo. con angelica voce, in sua favella: 57 "O anima cortese mantoana, di cui la fama ancor nel mondo dura, e durerà quanto 'l mondo lontana, 60 l'amico mio, e non de la ventura, - in sua favella:nel parlare; va riferito a soave e piane e a con angelica voce: era tale nel suo parlare. - "O anima cortese...:il discorso comincia secondo lo schema retorico classico, con la "captatio benevolentiae", cioè con le lodi all'interlocutore per ottenerne il consenso. Tuttavia questo "topos" viene qui ad assumere un particolare valore di gratuita gentilezza, verso chi si trova in posizione tanto inferiore, in quanto a Beatrice non era in alcun modo necessario conquistarsi l'accondiscenza di Virgilio (cfr. 54). Si osservi il dolce andamento musicale del verso, che dà il tono a tutto il parlare di Beatrice. - quanto 'l mondo lontana:durerà lontana nel tempo (lontana è predicativo) quanto durerà il mondo (cfr. Aen. I 607-9:«...Finché al mare scorreranno i fiumi, finché le ombre copriranno il dorso dei monti, finché il cielo avrà stelle, il tuo nome, le tue lodi, i tuoi pregi in me resteranno»). - l'amico mio, e non de la ventura:amico vero, e non quelli che mutano secondo la fortuna, e quindi amano questa, più che l'amico. È il tema dell'amore disinteressato, centrale nella Vita Nuova, e che ha vasti riscontri sia tra gli antichi (cfr. soprattutto il De amicitia di Cicerone) sia tra gli autori medievali (Abelardo). Per un riscontro puntuale con testi ben noti a Dante, si veda Ovidio, Tristia I 5, 33-4:«Siete appena 2 o 3 voi che mi restate amici: gli altri erano compagni della buona sorte ("Fortunae"), non miei», e Brunetto Latini, nel Favolello 72-3:«ch' amico di ventura / come rota si gira». Questa interpretazione, già proposta da Benvenuto, è più convinciente dell'altra tradizionale, che intende mio e della ventura come genitivi soggettivi (amato da me, e non dalla fortuna che lo perseguita), sia per i richiami evidenti ai testi citati, sia soprattutto per il senso corrispondente alla situazione di Dante, che si salva proprio per quell'amore (cfr. v.104), e che in tutta la scena si appella alla Vita Nuova, mentre non si trova in tale stato per colpa della fortuna, ma del proprio errore. ne la diserta piaggia è impedito sì nel cammin, che vòlt' è per paura; 63 e temo che non sia già sì smarrito, ch'io mi sia tardi al soccorso levata, per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito. 66 Or movi, e con la tua parola ornata - è impedito...paura (62-63): è bloccato nel suo cammino a tal punto, che si è volto indietro per la paura. - e temo...ch'io mi sia tardi...(64-65):tutta la terzina esprime trepidazione, quel timore che è tipico dell'amore (è l'amore infatti che muove Beatrice, v.72); posta al centro del discrorso di Beatrice, è forse la più rilevante connotazione della sua umanità femminile, evidentemente fuori dal simbolo, e anche dalla sua realtà ormai oltre l'umano (come beata dovrebbe saper bene, infatti, che non è troppo tardi); se vi accostiamo il premuroso attacco (O anima cortese...) e la motivazione el tutto personale del v.69 (sì ch'i' ne sia consolata), ne risulta in pochi cenni una ben determinata persona umana, con quel tratto delicato e schivo che sarà proprio di tutte le giovani donne dantesche. Beatrice, come Virgilio, appare come realtà storica prima che come figura. - smarrito:per la perdita della diritta via (I 3). - ornata:quell'ornamento, che è bellezza, rende efficace la parola. È questo il valore profondo dell'arte poetica, che ha la virtù di muovere il cuore umano. e con ciò c'ha mestieri al suo campare, l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata. 69 I' son Beatrice che ti faccio andare; vegno del loco ove tornar disio; - e con ciò ch'ha mestieri:con ciò che è necessario (è di mestiere) alla sua salvezza (al suo scampare da quell'impedimento); cioè con l'aiuto che gli darai per il cammino da intraprendere. - l'aiuta:aiutalo, imperativo. - I' son Beatrice...:il nome-così importante nella vita di Dante, quel nome che già annuncia la funzione di chi lo porta-è pronunciato solo alla fine, quando la persona è già delineata nel suo aspetto esteriore e nei movimenti dell'animo. È il nome della fanciulla amata nella giovinezza, per cui Dante compose il giovanile "libello" della Vita Nuova, raccogliendo la maggior parte delle rime scritte per lei in un racconto che vuol celebrare appunto un rinnovamento della sua vita-e della sua poesia-dovuto alla forza elevatrice dell'amore disinteressato (si veda D. De Robertis, Il libro della "Vita Nuova", Firenze 1970, cap. V). Essa è personaggio ben storico, non meno di Virgilio (di lei ci informa già Pietro di Dante: "in realtà, una nobildonna di nome Beatrice, insigne per costumi e per bellezza, nata nella famiglia dei Portinari, visse al tempo dell'autore nella città di Firenze"). Beatrice Portinari, coetanea di Dante (Vita Nuova II 2), morì giovanissima nel 1290, come egli stesso narra. A questa persona, che già rappresentò per lui il richiamo sensibile alle realtà ultrasensibili (Vita Nuova XXVI), Dante affida nel poema la propria salvezza, raffigurando in lei ciò che conduce l'uomo, oltre i limiti posti dalla natura, alla beatitudine eterna, e cioè-in largo senso-la grazia divina o, come i più intendono, la scienza delle cose divine. Essa è dunque, come Virgilio, una figura, cioè insieme realtà storica e simbolo, alla maniera delle realtà dell'Antico Testamento (cfr. Conv. II, I 6- 8). Pur rappresentando, come apparirà in modo indubbio alla fine del Purgatorio, una realtà che la trascende, Beatrice non cessa mai di essere se stessa, suscitando nell'animo di Dante lo stesso tremore e commozione dei giorni fiorentini, proprio come Virgilio suscita il grido d'amore nel gran diserto. In questo modo, che lega l'evento terreno a quello divino, risiede la grande forza dell'invenzione di Dante. precisi richiami scritturali, in base ai quali va dunque intesa: non mi tange (non mi tocca) traduce Sap. 3, 1: «Le anime dei giusti sono nella mano di Dio, e non li tocca ("tanget") il tormento della morte»; così la fiamma...non m'assale del v.93: «Quando camminerai nel fuoco, non arderai, e la fiamma non ti brucerà» (Is. 43, 2). In nessun modo l'inferno può dunque recar danno a Beatrice, e non è quindi per lei temibile. Ma al di sopra del senso logico, questa terzina, come già il v.71, isola e distacca la figura di Beatrice nell'immutabile serenità di un mondo infinitamente lontano. che la vostra miseria non mi tange, né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale. 93 Donna è gentil nel ciel che si compiange di questo 'mpedimento ov'io ti mando, sì che duro giudicio là sù frange. 96 Questa chiese Lucia in suo dimando - Donna è gentil:la risposta alla richiesta esplicita di Virgilio poteva finire al v.93. Ma Beatrice risponde ora alla più profonda domanda che quelle parole includevano (cfr. nota al v.84). La donna, di cui qui non si fa il nome, è la Vergine Maria, che soccorre precorrendo la richiesta, come si dirà in Par. XXXIII 16-8 (e la chiusa del poema risponderà così al suo principio). Il nome di Maria, come quello di Cristo e di Dio, è sempre taciuto nell' Inferno, ma l'identificazione è indubbia. Sia perché essa è l'unica creatura che possa infrangere un decreto divino (v.96), sia per l'autorità con cui dispone degli altri beati (v.97). L'indicazione degli antichi, che vedevano in questa donna la grazia "preveniente"-cioè quella data gratuitamente da Dio all'uomo, prevedendo i suoi meriti-e in Lucia la grazia illuminante, può restar valida sul piano allegorico, senza togliere nulla alla realtà di questi due personaggi. Che si tratta di 3 persone reali, apparirà chiaro al v.124. Si osservi che Maria, come Lucia (v.98) e Beatrice, e come sarà Bernardo, è legata alla storia personale interiore di Dante (Par. XXIII 88-90), elemento diremmo obbligatorio dei personaggi chiave in tutta la tessitura del poema. - si compiange:si duole, provando compassione. - 'mpedimento:richiama il v.62: ne la diserta piaggia è impedito. Indica ostacolo insormontabile. - duro giudicio...:infrange la severa sentenza divina; la misericordia di Maria è dunque più forte della giustizia di Dio. Tutta l'espressione è forse di origine biblica (cfr. Prov. 25, 15: «una lingua dolce rompe ogni durezza») e la frase appare linguisticamente tra le più dense e potenti del canto: il solo "compiangersi" di lei basta a "infrangere" la ferrea legge celeste. - chiese...in suo dimando:chiamò presso di sé; espressione ridondante, che fu forse di uso comune (Vandelli). e disse: – Or ha bisogno il tuo fedele di te, e io a te lo raccomando –. 99 Lucia, nimica di ciascun crudele, si mosse, e venne al loco dov'i' era, che mi sedea con l'antica Rachele. 102 - Lucia:la santa martite siracusana, accecata e uccisa sotto la persecuzione di Diocleziano, e venerata come protettrice della vista, probabilmente grazie al suo nome: «Il nome "Lucia" deriva da "luce"» è scritto infatti nella Legenda aurea. La maggior parte dei commentatori antichi ha riconosciuto in lei la grazia illuminante, e in Maria quella preveniente. Dei vari significati allegorici proposti, questo ci sembra il più rispondente (oltre che al nome, sempre essenziale per Dante: si pensi a Beatrice, cfr. Vita Nuova XIII 4) al senso complessivo di questa scena celeste, che sta tutto nel muoversi dell'amore divino-la grazia appunto, in teologia-in aiuto dell'uomo. Dante sceglie Lucia perché legato a lei da particolare devozione, come testimonia il figlio Jacopo (cfr. v.98: il tuo fededle; e si è anche pensato che la ragione biografica fosse la malattia degli occhi di cui egli stesso parla in Conv. III, IX 15), ma anche perché la santa protettrice della vista ben si addice a raffigurare la luce della grazia che apre gli occhi accecati dell'uomo. Le 2 ragioni, come sempre nella Commedia, sono strettamente unite. Lucia tornerà in aiuto a Dante, sempre come gratuito e decisivo soccorso, in Purg. IX 19-33, 52-7, e nell'alto del Paradiso, dove ella è nominata tra i più grandi santi, si ricorderà questo suo primo intervento per la salvezza di chi allora "rovinava" senza apparente scampo (Par. XXXII 136-8). Questa sua presenza nelle 3 cantiche rivela il peso che Dante ha voluto dare alla sua figura, e a ciò che essa rappresenta. - nimica di ciascun crudele:ciascun crudele è neutro sostantivo: nemica di ogni crudeltà (cfr. Rime C 65: «ogni altro dolce»). L'espressione significa quindi: piena di misericordia, intendendo per il suo contrario, come l'altra di questo stesso canto: l'avversario d'ogne male (v.16), ossia il bene stesso. La grazia è in realtà dono della misericordia divina; già l'Anonimo e il Boccaccio intesero Lucia come simbolo della misericordia stessa, rivelando la convergenza dei significati allegorici proposti dagli antichi. - Rachele:moglie di Giacobbe, era considerata dall'esegesi biblica figura della vita contemplativa (come la sorella Lia, della vita attiva). Dante stesso indica questi 2 significati in Purg. XXVII 103-8; il fatto che Beatrice sieda con lei indica dunque lo stato di contemplazione come suo specifico. Questo è l'altro luogo del canto (oltre ai vv.76-8) dove si può riconoscere un'indicazione dell'aspetto allegorico di Beatrice che, in quanto scienza delle cose divine, è al suo posto presso Rachele (come la ritroveremo nell'Empireo, in Par. XXXII 8-9). - loda di Dio vera:la persona stessa di Beatrice, per la sua bellezza e la sua virtù, è una lode di Dio. Questa idea è fondamentale nella Vita Nuova (cfr. XXVI 1-2), alla quale questo e i 2 versi successivi richiamano in modo preciso. Disse: – Beatrice, loda di Dio vera, ché non soccorri quei che t'amò tanto, ch'uscì per te de la volgare schiera? 105 - t'amò tanto:si osservi che l'unica ragione qui adotta-da parte di Dante-della sua salvezza, il titolo che egli ha per essere aiutato, è esclusivamente l'amore (cfr. I 83: vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore). E si veda come il verso si solleva esprimendo con la semplicità del linguaggio proprio di ogni tempo e di ogni uomo quella grande forza d'amore. - ch'uscì per te...:la frase può essere riferita a un fatto strettamente letterario (e tuttavia, per Dante, sempre di ordine etico), e cioè che egli uscì dalla schiera degli altri rimatori in volgare, quando con la canzone Donne ch'avete inaugurò le nove rime (come ricorda in Purg. XXIV 49-51), fondate sulla loda, o canto dell'amore disinteressato; o più genericamente, e forse in modo più consono al testo, si può intendere (rifacendosi aConv. I, I 10: «fuggito da la pastura del vulgo») come il volgersi di Dante esclusivamente agli studi alti e nobili, lasciando ogni altra occupazione propria del volgo, in virtù di quell'amore; forse anche, come si dice in Vita Nuova XLII 1-2, per poter "più degnamente trattare di lei" e "dicer di lei quello che mai fue detto d'alcuna". Il senso profondo del verso è in ogni caso che, in forza di quell'amore, tutta la vita di Dante fu cambiata e sollevata, e l'evento- come ogni altro evento che lo riguardi-è contemporaneamente etico e letterario. Non odi tu la pieta del suo pianto, non vedi tu la morte che 'l combatte su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? – 108 Al mondo non fur mai persone ratte a far lor pro o a fuggir lor danno, - la pietà:l'angoscia, che desta pietà (cfr. 121). - che 'l combatte:che combatte con lui; l'immagine della lotta, che qui rapidamente affiora, fra l'uomo e le forze del male (la morte è qui la morte spirituale dovuta al peccato figurata nelle fiere) è classica nella tradizione cristiana (cfr. 1 Pet. 5, 8-9). Come è proprio dello stile dantesco, il solo verbo, portando la metafora (non "impedisce", ma combatte), rende concreta e visibile la vicenda interiore umana. - su la fiumana...: verso tormentato dell'esegersi. Molti intesero l'Acheronte (del quale ancora non si è parlato, e che si troverà oltre la porta dell'inferno), sul quale il mare non può vantarsi di averlo come tributario. Più importante l'identificazione con il Giordano (altro fiume che non finisce sul mare), che impediva agli Ebrei di raggiungere la terra promessa, e che si aprì davanti a loro per intervento divino; interpretazione che si accorderebbe alla figura dell'Esodo già suggerità dal deserto e dallo scampato naufragio. Ma i più oggi intendono sulla scorta di molti testi cristiani ben noti, che la fiumana sia il tempestoso flutto delle passioni, per le quali l'uomo è in continuo rischio di morte, e del quale il mare non è più terribile (non ha vanto). Dante stesso paragona la selva all' acqua perigliosa in I 22-7. Importante la precisazione del Buti: «fiumana è più che fiume, cioè allagazione di molte acque, e sospinge chiunque entra in esso». - non fur...ratte:non ci furono mai persone così rapide, veloci. - lor pro:il proprio vantaggio. La maggiore velocità che si possa immaginare sulla terra è appunto quella di chi cerca il proprio bene e fugge il proprio male. Beatrice- che viene dal cielo-si muove invece per fare il bene di un altro. com'io, dopo cotai parole fatte, 111 venni qua giù del mio beato scanno, fidandomi del tuo parlare onesto, ch'onora te e quei ch'udito l'hanno". 114 Poscia che m'ebbe ragionato questo, li occhi lucenti lagrimando volse, - dopo...fatte:dopo che furono pronunciate (fatte) tali parole (per il costrutto cfr. Purg. VII 54). - onesto:dignitoso e nobile (onesto nella lingua di Dante e dei suoi contemporanei è ancora legato al suo valore etimologico, da "honor", come l'aggettivo latino "honestus"); si veda il v.67: con la tua parola ornata. Si riafferma qui che è la qualità della parola di Virgilio quella che lo fa prescegliere. La bellezza e la dignità (ornata- onesto) di questo parlare, che è parlare poetico, tutt'altro che valori esteriori, fanno presa sull'animo dell'uomo fino a poterlo indurre a lasciare il male per il bene («l'autore mostra in ciò la potenza e il valore dell'eloquenza, che può richiamare gli erranti...e piegare i più pertinaci»: Benvenuto). Questa esperienza fa parte della più interna storia di Dante, che non per niente scrive a sua volta-per la salvezza degli uomini-proprio un poema. - quei ch'udito l'hanno:quelli che lo hanno voluto ascoltare.
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