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Parafrasi Canto II Divina commedia, Versioni di Letteratura Italiana

Parafrasi Canto I Divina Commedia

Tipologia: Versioni

2022/2023

Caricato il 19/05/2024

luisa-ermenegildo-3
luisa-ermenegildo-3 🇮🇹

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Scarica Parafrasi Canto II Divina commedia e più Versioni in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! SCHEMA DELL’INFERNO DANTESCO Porta dell'Inferno 7 navi _—_— mo — LUSSURIOSI GOLOSI AVARI E PRODIGHI Acheronte Mura della Città di Dite 2-7 eno —— ERETICI INGONTINENZA \È 4 area ‘IIGUENTI CONTRO IL PROSSIMO; 7 Oni OMICIDI MELLE CODE: GLAS Ig7 E tare IALITTOLENTI CONTRO SE STESSI LE 2rz0oy, — 2 a peaSonA SUCDENELLE COSE: EN g00,, NEL VIOLENTI CONTRO DIO, /ATORI sona: GESTENMIATORI: NELLE OCSE, SC00IE,, Sstga, s50N iron! iRonE 5 GIRONE MLA PER SA NI ‘SIMONIACI =z7A,0ff 1 __- INDOVINI ine a TT sarai, = — ire IPOCRITI LADRI CONTRO CHI NON SI FIDA (ingannatori) a 7 SEMINATORI DI DISCORDIE FALSARI FRODE GAINA RADITCRI CEI PAR&y, ANTENORA apagiTORI DELLA PA, TOLOMEA «eROITORIDEGL' 0897, GIUDECCA quoltORIDEIBENEEA7O,, È CONTRO CHI \6 SI FIDA 16 traditori) \2 (traditori) 3 Lucifero Da Marco Santagata, Il racconto della commedia INTRODUZIONE AL CANTO I Questo primo canto fa da prologo a tutto il poema, non al solo Inferno. Poiché infatti ad ogni cantica sono assegnati 33 canti, questo iniziale resta fuori dal computo, e porta così il numero complessivo dei canti a 100, compiendo quella bella e perfetta armonia - fondata sul numero tre più l'uno - che è alla base della struttura compositiva della Commedia. Siamo dunque ancora fuori dell'oltremondo, e si dispiega ai nostri occhi un paesaggio - una selva, una piaggia, un colle - che è figura della vicenda fondamentale dell'uomo, espressa con simboli tradizionali e subito riconoscibili: dalla tenebra alla luce, dal male al bene, dal dolore alla felicità. Ma in questo paesaggio simbolico cammina un uomo ben reale e concreto, con un'età definita, che si spaventa e trema e grida aiuto, e ne incontrerà un altro storico quanto lui, e forse, se così può dirsi, più di lui, determinato da luoghi geografici e nomi storici dei più noti al mondo. È questa la grande novità della Commedia, che in una dimensione eterna porta la presenza storica in tutta la sua concretezza, e ci racconta la vicenda umana non per astratte figure, come gli antichi miti o le allegorie medievali, ma per singole, reali persone, con tutte le sfumature, gli accadimenti, le debolezze e le grandezze che di esse sono proprie. In questo primo canto è già presente tutta la struttura del poema. La grande idea del «cammino», del viaggio dell'uomo verso una patria, che qui si configura, ne costituisce la trama ed è, crediamo, alla sua stessa origine. L'uomo peregrinante ad una sponda sospirata, che da Ulisse a Enea è il cuore stesso e come il simbolo della civiltà occidentale, diventa con Dante l'homo viator della tradizione cristiana, per cui la casa del ritorno è il cielo, cioè Dio stesso. In questo cammino Dante raffigura insieme se stesso e tutta l'umanità. Per questo la prima parte del canto è in certo senso anonima, vale per tutti (quell'uomo smarrito può essere «ogni uomo», come disse il Singleton), mentre nella seconda entra in scena la storia, e si determina la persona storica di Dante, di fronte a Virgilio (vagliami 'l lungo studio e'l grande amore...). La via di salvezza che la Commedia vuole indicare a tutti - lo scopo del poema dichiarato dall'autore è «removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (Ep. XIII 39) - passa dunque attraverso la vita stessa di Dante, in ogni sua più individuata determinazione, come via via si vedrà, ma come già qui l'incontro fra i due poeti rivela in modo eminente. Lo schema del canto - che raffigura l'evento interiore da cui muove il poema - è estremamente semplice: un uomo smarrito nella selva del male e dell'errore ne prende a un tratto coscienza, e tenta di uscirne, dirigendosi verso il colle soleggiato del bene; ma ne è impedito da tre fiere - le inclinazioni al male - che non riesce a vincere con le sole sue forze. Ed ecco, non richiesto, viene a lui un aiuto, nella persona di un grande poeta del mondo antico precristiano, da lui più di ogni altro amato, che gli offre di guidarlo alla salvezza percorrendo i mondi ultraterreni del peccato e della purificazione - l'inferno e il purgatorio - per la via quindi della conoscenza del male e del pentimento. L'uomo Dante accetta, e di qui ha inizio il grande viaggio. In questa grandissima scena - la cui portata si rivela solo lentamente e a lunga distanza al lettore - sono presenti gli elementi portanti di tutta la Commedia. Primo fra tutti, quell'incontro fra i due tempi, storico e metastorico, che già nel primo verso – dove il parlare quotidiano riecheggia. come vedremo le parole di Isaia - stabilisce il ritmo e quasi il respiro del poema. Di qui discende il carattere del paesaggio, delle singole situazioni, e soprattutto dello straordinario linguaggio. Il paesaggio è quello terreno, anzi toscano (bosco - piaggia - collina), ma allusivo di una condizione etica; l'incontro è personale (Dante-Virgilio), ma riflette un evento spirituale; il linguaggio è infine piano e quotidiano (Nel mezzo del - La diritta via: alcuni commentatori definiscono “la via della virtù”, ma Dante ha penetrato il vero valore di questa espressione: l’origine dell’anima umana è il cielo e l’asnima naturalmente desidera tornare nella sua patria, cioè a Dio; altrimenti devia dalla strada diritta, cosa che l’uomo può fare, unico nella natura, grazie al libero arbitrio. Questo senso profondo della “via diritta” che porta l’uomo al suo fine, cioè a Dio, regge tutta l’invenzione del viaggio dantesco. - Era smarrita: smarrita ma non perduta perché poteva ancora ritrovarla “questa via si smarrisce perché chi vuole la può ritrovare” (Boccaccio). Tuttavia in questo momento essa appare ben lontana. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! 6 - Ahi quanto a dir qual era è cosa: quanto è duro ripetere in parole… La prima terzina si pone con assoluta oggettività, senza alcun commento. Il riflesso di quella condizione di errore e di oscurità nell’animo dell’uomo, interviene con questo verso. La forma esclamativa tornerà poi sempre nel poema a sottolineare i m omenti di maggior tensione drammatica. - Qual era: qual era il suo aspetto e la sua terribilità. - Dura: duro come “difficile”, “faticoso”, qui nel senso figurato di “difficile all’animo”, quindi “penoso”. Questo significato è precisato dal v.6: se è paurosa al solo ricordarla, tanto più penoso sarà il parlarne. - Esta: dimostrativo arcaico che vale indifferentemente per “questo” e “codesto”. Cfr, più oltre, v. 93. - Selva selvaggia: figura retorica detta etimologica che ripete lo stesso tema in due parole diverse, largamente usata in tutta la poesia medievale (ritrovabile sia nella Scrittura che nei classici). Dante se ne serve spesso (ad es. v.36: più volte vòlto), in questo caso mantenendosi il tema, muta il significato, in quanto selva è proprio, selvaggia è metaforico. I tre aggettivi sono disposti in crescendo: selvaggia indica la condizione disumana del luogo, aspra l’insieme di elementi che ostacolano e disorientano, forte la difficoltà di uscirne (nell’uso dantesco vale spesso “difficile”). - Che nel pensier rinova la paura: tale che solo al pensarci rinnova lo sgomento provato. La paura nasce dalla coscienza ridesta. Il verbo “rinnovare”, detto di un sentimento che si ripete al ricordo. Tant'è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch'i' vi trovai, dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte. 9 Io non so ben ridir com'i' v'intrai, tant'era pien di sonno a quel punto - Tant’è amara che poco è più morte: tale condizione (la selva) è tanto amara che la morte “ultima delle cose terribili” lo è poco di più. Dante qui rovescia il paragone biblico dove il peccato è raffigurato peggiore della morte. L’aggettivo “amaro” proprio del gusto, è riferito all’intelletto che giudica amaro il vizio quando ne prende coscienza. - Ma: per quanto sia così duro il parlarne, tuttavia lo farò… - Per trattar…: per poter trattare del bene che vi trovai (cioè la salvezza, che giunge con Virgilio) e così poter indicare a tutti la via di tale salvezza che è l’intento del poema. - Dirò…: parlerò prima delle altre cose; allude alle fiere che incontrerà tra poco, in quanto contrapposte al bene che trovò nella selva. - Pien di sonno: è il “sonno mentale” o dell’anima. Il sonno è usato frequentemente nella Bibbia come figura del peccato, in quanto in esso la mente è ottenebrata e la coscienza come addormentata. Alla selva oscura corrisponde il sonno che ottenebra la mente. Nella terzina seguente interviene il cambiamento. - che la verace via abbandonai. 12 Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto, - La verace via: corrisponde alla diritta via del v.3. Egli ha abbandonato dunque la via diritta nel momento in cui è entrato nella selva. - Ma: la congiunzione avversativa introduce il tema, contrapposto alla selva e all’oscurità, del colle e del sole; entra così nella triste condizione umana finora descritta la possibilità della speranza. - Al piè d’un colle: il colle rischiarato dal sole rappresenta la via della virtù, una via in salita, illuminata dalla luce di Dio, che si contrappone alla selva oscura del peccato. In realtà la selva, il colle, il sole prefigurano già qui all’inizio, in un solo paesaggio, i tre regni che Dante visiterà nel suo viaggio. Il colle preannuncia il monte del purgatorio, vuole figurare la via della felicità naturale dell’uomo che si raggiunge con le virtù morali ed intellettuali. là dove terminava quella valle che m'avea di paura il cor compunto, 15 guardai in alto, e vidi le sue spalle vestite già de' raggi del pianeta - Valle: è la selva del v.2, con la quale si identifica; essa aggiunge a quella prima immagine il senso del luogo basso, in discesa, qui in evidente rapporto all’altezza del colle. - Compunto: punto, cioè colpito, afflitto; indica sempre in Dante l’effetto di un sentimento doloroso: di paura, di colpa, di pietà. - Guardai in alto: gesto decisivo: l’uomo smarrito nella selva, che ha finora guardato in basso alle cose temporali, alza il capo verso le cose alte ed eterne. Il guardare in alto è proprio dell’uomo e qui segna il punto preciso in cui comincia il nuovo cammino. L’altezza del colle richiama lo sguardo e la nuova dimensione (l’altezza che è speranza e quindi già salvezza) entra ormai nel verso e nella storia che qui si narra. - Le sue spalle: l’incurvatura del colle presso la sua cima. - Vestita già: ancora prima che sorga il sole, già si illuminano le cime dei monti. L’ora mattutina indicata da questi versi è un primo segno che le cose volgeranno in bene; quella luce sulla cima è infatti già una risposta allo sguardo che si è levato verso l’alto. - Pianeta: il sole. Secondo l’astronomia tolemaica seguita da Dante, il sole è uno dei sette pianeti che girano intorno alla terra, centro dell’universo. Il paragone del sole con Dio è proprio di tutta la letteratura cristiana e centrale in tutta la Commedia, in questo modo discreto e quasi inavvertito la presenza di Dio entra nel poema. che mena dritto altrui per ogne calle. 18 Allor fu la paura un poco queta che nel lago del cor m'era durata la notte ch'i' passai con tanta pieta. 21 E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, - Che mena dritto: conduce per la via diritta ogni uomo, dando l’orientamento. Gli uomini, ogni uomo (il pronome altrui ha in antico questo valore generico, cfr. più oltre v.95). È evidente il richiamo alla diritta via smarrita dall’uomo che è sulla scena che qui ritrova il suo orientamento. - Fu… queta: si acquetò, si calmò. - Lago del cor: “è nel cuore una parte concava, sempre abbondante di sangue, ne la quale, secondo alcuni, abitano gli spiriti vitali… ed è quella parte ricettacolo d’ogni nostra passione” (Boccaccio). - La notte: Durante la notte, vuole indicare metaforicamente tutto il tempo del traviamento ora descritto, passato appunto nel sonno e nell’oscurità della selva. - Pieta: affanno, tormento (tale da indurre a pietà). Forma che deriva dal nominativo latino pietas, che assume anche altrove nella Commedia questo significato, mentre nella forma più comune pietà (accusativo pietatem) prevale il senso moderno di compassione. - E come quei…: come colui che, uscito dal mare in tempesta (pelago), e giunto a riva, con il respiro (lena) ancora ansante per lo sforzo, si volge indietro... Prima similitudine del poema, divise, come molte altre, in due precise terzine: la prima rappresenta la figura, la seconda il figurato. Il gesto fisico, preciso fin nei particolari (il respiro affannoso, lo sguardo intenso e atterrito) indica il gesto morale dell’uomo che guarda indietro con interno spavento all’abisso del male a cui è sfuggito. si volge a l'acqua perigliosa e guata, 24 così l'animo mio, ch'ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva. 27 Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta, - Guata: guatare, che negli occhi antichi equivale a “guardare” Dante lo usa spesso in rima con il significato di un guardare fisso e intenso. - Ch’ancor fuggiva: il corpo era fermo ma l’animo era ancora in fuga. È il punto più alto del periodo e i due accenti (ancòr, fuggìva) lo sottolineano. - Lo passo: l’articolo lo è di regola dopo una finale in -r; passo come “luogo di passaggio”, spesso con significato di decisivo o pericoloso; qui corrisponde alla selva, - E molte genti…: Con queste parole si introduce il motivo, non più personale, ma pubblico e civile dell’intera umanità afflitta da tale flagello. - Mi porse tanto di gravezza: tanto di è costrutto partitivo: mi dette tanta gravezza, cioè peso, pesantezza, da non riuscire più a salire. Che il peso del corpo e del peccato aggravi e tragga verso il basso l’anima è immagine comune nella tradizione cristiana. con la paura ch'uscia di sua vista, ch'io perdei la speranza de l'altezza. 54 E qual è quei che volontieri acquista, e giugne 'l tempo che perder lo face, che 'n tutt'i suoi pensier piange e s'attrista; 57 tal mi fece la bestia sanza pace, - Vista: aspetto. I tre accenti acuti (paura – uscia – vista) fanno balzare avanti il terrore provocato dalla lupa. - Ch’io perdei…: questo verso ha un andamento e un tono definitivo. Sembra che tra la speranza e la paura, che finora si sono alternate, la prima sia ormai irrimediabilmente sconfitta. Dei tre animali, quello che sconfigge veramente l’uomo è infatti il terzo. È questo il vizio più radicato e più temibile, origine di tutti gli altri secondo la Scrittura, per Dante esso è alla base della rovina di tutta la comunità umana. Dietro la storia del singolo c’è infatti, come dicemmo, la storia pubblica e politica della “humana civilitas” che Dante vuole condurre alla felicità. L’avarizia è la causa prima del disordine e del dolore che la commedia si ripropone di denunciare e risanare. - Vv. 55-60: Come l’avaro, che accumula i beni, viene il momento che gli fa perdere ciò che ha acquistato e piange e si dispera in cuor suo… questa seconda similitudine vuole indicare lo stato d’animo di chi ha perso tutto, segue infatti al v.54 che sembra non ammettere via d’uscita. È una delle molte similitudini che possiamo chiamare psicologiche con cui Dante raffigura gli stati e i moti dell’animo suoi e di altri de che accompagnano tutto il racconto della Commedia. Può darsi che egli abbia qui in mente alcuni “fallimenti” di noti mercanti fiorentini avvenuti tra il 1280 e il 1300 il cui aspetto era rimasto impresso nella sua fantasia. L’avidità insaziabile dell’avaro è proprio il tema della lupa. - Tal: Così intimamente attristato - Sanza pace: Che non ha mai pace né la lascia averla ad altri. Sanza forma antica fiorentina. che, venendomi 'ncontro, a poco a poco mi ripigneva là dove 'l sol tace. 60 Mentre ch'i' rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco. 63 - Là dove ‘l sol tace: nella selva dove regna l’oscurità totale. Il traslato dalla vista all’udito (‘l sol tace) è una delle veloci metafore che Dante spesso chiude in un verbo e che danno forza al suo linguaggio. - Mentre ch’i’ rovinava…: a questo punto, quando tutto sembra perduto, entra in scena un elemento nuovo: l’uomo solitario in balia delle fiere tra la selva e il colle non è più solo, qualcuno si è mosso a salvarlo. E il personaggio salvatore porta due novità fondamentali: la prima è la voce umana che si leva per la prima volta e spezza l’atmosfera di sogno finora dominante; la seconda è la realtà storica, con nomi e date, che irrompe in quel mondo irreale e ne cambia l’aspetto. Con Virgilio il tempo della commedia entra in pieno nella storia e la visione si situa in quell’ambito particolare, di realtà databile pur sullo sfondo dell’eternità che ne costruisce il carattere specifico ed unico. - Rovinava…: precipitavo, il ritornare indietro nella selva è la rovina della speranza e quindi della vita. - Chi…fioco: uno che, per aver taciuto per lunghi anni, sembrava non aver più voce. Così intendono tutti gli antichi questa frase tanto discussa e anche noi riteniamo sia che sia questo il solo modo di spiegarla. L’altra spiegazione proposta intende fioco in senso visivo (pallido, scolorito), comporta la grave difficoltà di costringere a interpretare metaforicamente anche l’altro elemento della frase: per lungo silenzio (che significherebbe “per la lunga oscurità” [silenzio del sole ], o “per lunga assenza”); cosa che sarebbe una forzatura eccessiva quanto inutile del testo. Come sempre Dante sceglie un solo elemento per caratterizzare e descrivere un fatto o una persona: in questo caso il fioco (e il lungo silenzio che lo precede) serve a suggerire tutto l’aspetto del personaggio che qui appare, che affiora da un’epoca e da un luogo remoti e non ha ancora la forza di esprimersi nella parola che dà realtà e vita concreta all’uomo. Quando vidi costui nel gran diserto, «Miserere di me», gridai a lui, «qual che tu sii, od ombra od omo certo!». 66 Rispuosemi: «Non omo, omo già fui, - Gran diserto: La piaggia sembra allargarsi infinitamente. Che il deserto rappresenti il mondo è confermato da Purgatorio XI 14: per questo aspro diserto. - Miserere: abbi pietà. Forma latina comune nella liturgia e in uso ancora oggi presso il popolo (inizio salmo 50 la preghiera di penitenza per eccellenza (anche in Eneide VI 117 dove Enea si rivolge alla Sibilla con questa stessa parola). Questo grido di pietà è la prima voce umana che risuona nel poema, fatto più intenso dal silenzio che lo circonda. - Ombra: cioè anima di un morto; è il termine virgiliano usato da Dante in alternativa a spirito o anima per tutto il poema. Anche il motivo del dubbio è nell’Eneide quando Andromaca scorge Enea e non sa se sia morto o vivo – omo certo: uomo con un corpo vero e proprio, cioè vivo. - Rispuosemi: la particella pronominale posposta al verbo in inizio di verso e in genere dopo la pausa, risponde alla legge detta Tobler-Mussafia, regola costante dell’italiano antico; per la forma dittongata, propria del fiorentino antico. - Non omo, omo già fui: ora sono un’ombra (non un uomo in carne ed ossa), un uomo lo fui in altro tempo (ciò giustifica il dubbio di Dante al v.66). E subito l’ombra determina nei suoi limiti geografici e storici quella sua vita umana. La precisazione dei nomi e delle date ci coglie di sorpresa, in questa scena finora del tutto indeterminata. Ma è elemento essenziale del racconto dantesco: questo personaggio non è un essere astratto, una figurazione allegorica ma ha una sua concreta e ben individuata realtà storica. Virgilio rappresenta nella commedia, come si chiarirà meglio in seguito, la luce della ragione umana che ha il compito di guidare gli uomini al bene, nei limiti della natura; ma assolve questa funzione senza cessare di essere se stesso. Quel poeta Virgilio che nacque a Mantova e visse sotto Augusto; anzi l’assolve proprio in quanto è se stesso, il punto più alto e quasi l’emblema di quel mondo antico che giunse fin dove la ragione può condurre l’uomo senza la luce della fede, fino a presentire e come profetizzare la realtà cristiana. Questo è il Virgilio di Dante quello che egli amò e predilesse e in questa prospettiva soltanto sarà comprensibile via via nei vari atteggiamenti che assumerà lungo le prime due cantiche. - e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patrïa ambedui. 66 acqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, - Parenti: genitori (è il senso del latino parentes). - Lombardi: la Lombardia indicava nel medioevo tutta l’Italia settentrionale in genere; al tempo di Virgilio tale denominazione (derivata da Longobardia) ovviamente non esisteva ma Dante gli fa usare il termine moderno senza preoccuparsi dell’anacronismo (concetto allora ignoto) come altrove chiama Franceschi i Galli. - Mantoani per patrïa: qui si precisa il luogo nativo (Virgilio nacque ad Andes presso Mantova) come in seguito faranno tutti i personaggi che Dante incontrerà nel suo cammino; come se tale luogo (la città, punto centrale di riferimento del mondo civile dantesco) fosse per la persona il primo segno di identificazione. - Sub Iulio: al tempo di Giulio Cesare che veramente aveva allora (nel 70 a.C.) solo 30 anni e non aveva iniziato la sua vita pubblica; ma Virgilio vuol significare che nacque quando già era vivo e vicino al potere quel Cesare che doveva fondare l’impero così importante per lui e nella concezione di Dante, come si vedrà. Era tuttavia troppo tardi (come precisa dopo) per poter dire di aver vissuto sotto il principato di lui in quanto Virgilio aveva soltanto 26 anni quando Cesare fu ucciso nel 44 a.C. infatti dirà subito: vissi… sotto… Augusto. e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. 72 Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d'Anchise che venne di Troia, - Buono: di grande valore, eccellente; termine spesso usato in questa accezione per uomini eminenti nella vita pubblica. - Nel tempo de li dèi: Virgilio morì nel 19 a.C. il tempo storico viene definito in funzione della fede. E già Virgilio implicitamente annuncia qui il suo destino di esclusione dalla verità che dichiarato più oltre (vv. 124-6) resterà il tema fondamentale del suo personaggio e di ciò che esso raffigura. Per l’espressione falsi e bugiardi cfr. Agostino De civitate Dei II 29: «deos falsos fallacesque». - Poeta fui…: Virgilio si definisce dal nome che come Dante dirà altrove, più dura e che più onora. Prima ha detto “omo già fui” ora precisa: poeta fui. Dante riconosce in lui mediocre ed umile, corrispondenti ai tre ambiti o generi letterari tragico, comico ed elegiaco: soltanto il primo era dunque adatto ad argomenti elevati (armi, amore e virtù). Esso era proprio della tragedia, termine che comprendeva sia il dramma sia l’epopea ma Dante lo estende anche alle canzoni, genere in cui tuttavia ben pochi eccellevano, tra i quali appunto egli stesso. Il senso non cambia molto se, come sembra opportuno, si allarga il valore strettamente tecnico del termine a quello di linguaggio poetico in quanto capace di esprimere le più grandi realtà umane, che è il vero debito di Dante verso Virgilio, o meglio ciò in cui Dante non riconosce altri predecessori o maestri. aiutami da lei, famoso saggio, ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi». 90 «A te convien tenere altro vïaggio», rispuose poi che lagrimar mi vide, «se vuo' campar d'esto loco selvaggio; 93 - Famoso saggio: saggi o savi chiama Dante gli antichi poeti in varie occasioni; i poeti erano considerati maestri di sapienza e “saggio” era quasi termine tecnico per indicare il poeta. Ma si tratta, come qui appare chiaro dal contesto, di quella sapienza che è guida alla virtù, cioè di un valore etico, non di un valore intellettuale. Il termine resterà poi a designare Virgilio per tutto il poema. - Le vene e i polsi: indica ogni luogo in cui batte il sangue; può essere endiadi (le vene che battono nei polsi) o rispecchiare la distinzione già nota tra vene e arterie: le vene e le arterie che battono nei polsi. Tale tremito indica l’effetto di una forte emozione. - Tenere: l’espressione tenere iter è virgiliana, passata nella poesia volgare. - Altro vïaggio: altra via, altro cammino. Non cioè la via diretta al monte, il corto andar, come si dirà più oltre: la lupa impedisce tale cammino verso la virtù e la felicità, finchè almeno non venga chi possa sconfiggerla e ristabilire l’ordine provvidenziale. All’uomo è quindi necessaria una strada più lunga che passa attraverso la conoscenza del peccato (l’inferno) e la deliberata purificazione e distacco da esso (il purgatorio). Ma queste brevi parole sembrano racchiudere un’intuizione più profonda. Che il problema cioè della lupa e del colle, vale a dire dell’umana felicità, non sia in realtà risolvibile in termini umani, qui sulla terra (come il veltro sembra promettere, e la Monarchia assicurare), ma che solo oltre la storia, nell’eternità (l’altro mondo appunto), si possa attingere veramente tale soluzione. - Campar: scampare. - Esto: cfr. v.5 e nota. ché questa bestia, per la qual tu gride, non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide; 96 e ha natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, e dopo 'l pasto ha più fame che pria. 90 Molti son li animali a cui s'ammoglia, e più saranno ancora, infin che 'l veltro - Gride: gridi; l’uscita in -e della seconda persona del presente indicativo nei verbi della 1^ coniugazione è propria del fiorentino del XIII secolo e largamente usata, anche se solo in rima, nella Commedia. - Altrui: pronome indefinito generico (cfr. v.18): non lascia che alcun0 passi. - Per la sua via: per la via che essa occupa; o anche: per la via propria dell’uomo, verso la felicità (Pietro di Dante). - Che mai non empie…: Il verso di Dante, come più volte accade, lo fissa per sempre in termini irrevocabili. - Bramosa: il forte aggettivo, usato per animali affamati, richiama le brame del v.49. - Molti son…: molti son gli uomini a cui questo vizio si unisce. L’interpretazione che i molti animali siano altri vizi che sempre si uniscono alla cupidigia è esclusa, oltre che dal riscontro dantesco, dal senso dei due versi seguenti. “Animale” per “uomo” è del resto comune nel ‘200 e si trova più volte nel poema: cfr. II 2. - ‘l veltro: cane da caccia; la figura è portata dalla convenienza col testo; trattandosi di cacciare una lupa, occorrerà un veltro. Con questa figura Dante indica un personaggio provvidenziale, inviato da Dio a ristabilire l’ordine del mondo, che egli attende e annunzia profeticamente anche in altri luoghi del poema: per noi certamente un imperatore. Ma su come intendere questo personaggio, ancora discusso, si veda la nota in fine del canto. verrà, che la farà morir con doglia. 102 Questi non ciberà terra né peltro, ma sapïenza, amore e virtute, e sua nazion sarà tra feltro e feltro. 105 Di quella umile Italia fia salute - Non ciberà: non si nutrirà di (cibare è usato transitivamente), cioè non desidererà. - Terra né peltro: né dominio di terre, né possesso di denaro (peltro, lega metallica, sta per moneta). - Ma sapïenza…: ma solo i valori supremi che sono prerogativa di Dio (sapienza, amore e virtute indicano infatti le tre persone della Trinità: sapienza il Figlio, amore lo Spirito e virtute, cioè potenza, il Padre). Queste indicazioni non contraddicono alla interpretazione politica del veltro, in quanto l’imperatore è per Dante ministro “sine ullo medio” cioè senza intermediari dell’azione provvidenziale di Dio nella storia. Si ricordi anche che caratteristica dell’imperatore, secondo il Convivio e la Monarchia, è proprio l’assenza di ogni desiderio terreno (in quanto tutto già possiede) per cui solo può vincere la cupiditas, massimo impedimento alla giustizia. - Nazion: nascita; accezione comune del termine nei nostri scrittori fino a tutto il Trecento. - Tra feltro e feltro: questa frase è la più oscura del passo, tuttora indecifrata (e tale resterà se non capiti di ritrovare in qualche testo la cifra giusta). Tale oscurità è deliberatamente voluta da Dante, secondo le norme di tutto il parlare profetico e quindi ben difficile da sciogliere. Tra le molte interpretazioni noi preferiamo una delle più antiche: tra cielo e cielo, cioè portato dal rivolgimento dei cieli, quale è per Dante sempre nel poema l’uomo profetizzato come restauratore dell’ordine terreno. Ma su questa e le altre varie proposte avanzate si veda la nota in fine del canto. - Umile Italia: rirpende ancora un’espressione dell’Eneide “humilemque videmus/Italiam”, ma l’aggettivo è assunto qui in senso diverso. In Virgilio ha valore geografico: bassa, cioè la costa piana della penisola italica, dove approda Enea. Qui vale invece per infelice. Anche in questa terzina si tratta delle misere condizioni dell’Italia senza la guida dell’imperatore e, soprattutto, con il suo evidente appello all’impresa di Enea, giunto per volere divino alla terra di Roma, conforta l’interpretazione del veltro sostenuta precedentemente. per cui morì la vergine Cammilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute. 108 Questi la caccerà per ogne villa, fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno, là onde 'nvidia prima dipartilla. 111 - Cammilla, Eurialo e Turno e Niso: sono giovani eroi virgiliani (Virgilio ricorda i suoi e stabilisce così un parallelo fra quel tempo provvidenziale e questo e, forse, fra quel poema e questo), morti tutti nel conflitto fra Troiani e Latini per la supremazia nel Lazio. Camilla, figlia del re dei Volsci, e Turno re dei Rutuli, combattevano contro Enea; Eurialo e Niso erano due giovani amici troiani. L’alternare i nomi dei vincitori e devi vinti accomunandoli nella stessa pietà e nella stessa gloria è un tratto insieme dantrsco e tipicamente virgiliano. Alla terzina precedente, di linguaggio oscuro, si contrappone la precisione storica di questa, come a dare concreta realtà alla profezia. - Ferute: ferite, forma derivata dal participio arcaico feruto. Le due forme (sostantivo e participio) coesistono nel poema con ferita e ferito. - Per ogni villa: villa può significare città o località in genere. - Là onde 'nvidia…: nel luogo da cui per la prima volta (prima vale primamente, cioè al momento della tentazione di Eva) l’invidia del diavolo la mandò nel mondo a tentare l’uomo (cfr. Sap. 2,24: “invidia autem diaboli mors introivit in orbem terrarum”) il diavolo ci invidia. Altri oggi intendono: ‘nvidia prima, cioè Lucifero (contrapposto al primo amore detto di Dio) ma ci sembra che il testo sapienziale e l’assenza dell’articolo inducano alla prima interpretazione. Ond' io per lo tuo me' penso e discerno che tu mi segui, e io sarò tua guida, e trarrotti di qui per loco etterno; 114 ove udirai le disperate strida, vedrai li antichi spiriti dolenti, Finita la profezia, tenuta in tono alto e con riferimenti biblici, Virgilio si rivolge con linguaggio più sommesso e discorsivo (Ond' io per lo tuo me'…) a Dante indicandogli la via giusta da seguire e proponendosi come guida. Che il viandante, l’“homo viator” di questa storia non si salvi da solo, ma accetti una guida a cui andar dietro (seguire, tener dietro – vv.113 e 136 – sono i due verbi che aprono e chiudono il passo), è l’elemento fondamentale di tutta la Commedia. La sua importanza si rileverà sempre più in seguito ma è bene sottolinearla fin da ora, nel momento decisivo in cui Dante non solo accetta ma richiede di essere condotto: io ti richeggio… che tu mi meni (vv. 130, 133). È proprio questa cosciente richiesta che dà la possibilità di cominciare il viaggio (Allor si mosse v.136). Questa condizione tipicamente cristiana per cui nella salvezza dell’uomo Dio fa tutto, ma l’uomo - In tutte parti…: si noti la precisione del linguaggio dantesco. Come l’imperatore terrestre, che su tutto impera, ma è re di uno stato particolare, così Dio governa l’universo, ma regna direttamente in paradiso, cioè con la sola legge dell’amore. - Oh felice…: Virgilio esprime qui il suo inappagato sospiro, lasciando ben comprendere quale felice sorte è riservata a colui che egli ora viene a salvare. - Cu’ ivi elegge: che egli vi destina; il cui complemento oggetto è dell’uso antico. - Ti richeggio: ti richiedo (cfr. nota ai vv. 112) la desinenza è dovuta ad analogia con il pres. Dei verbi in -d- della 2^ coniugazione latina, come veggio (cfr. nota ai vv. 134). - Per quello Dio: la risposta ha colto il senso del v.129: questa invocazione in nome del Dio non conosciuto in vita ma in qualche modo presagito da Virgilio e ora a lui noto come termine irraggiungibile di felicità a cui potrà invece giungere chi ora lo prega, ha una forza drammatica di una densità tipicamente dantesca. a ciò ch'io fugga questo male e peggio, 132 che tu mi meni là dov'or dicesti, sì ch'io veggia la porta di san Pietro e color cui tu fai cotanto mesti». Allor si mosse, e io li tenni dietro. 129 - E peggio: la dannazione eterna. - Veggia: veda (lat. videam) forma normale del toscano antico del cong. pres. dei verbi in -d- della 2^ coniug. Latina, in quanto la doppia -g- è derivazione regolare della -dj- latina intervocalica. Così il pres. Indicativo veggio da video. - La porta di San Pietro: la porta del purgatorio, ingresso della salvezza (l’angelo che la guarda con le due chiavi in mano è infatti vicario di Pietro) è preferibile intendere così, piuttosto che, come altri antichi e moderni, la porta del paradiso, perché questo verso con il successivo – indicano l’uno il purgatorio e l’altro l’inferno – risponde alle parole precedenti: che tu mi meni là dov'or dicesti, ai luoghi cioè dove potrà condurlo Virgilio (a parte il fatto che il paradiso, come Dante lo ha concepito non ha nessuna “porta”). - Cui tu fai: che tu mi dici, mi raffiguri, cui è complemento oggetto come al v. 129. - Mesti: richiama il dolenti del v.116, parola con cui Virgilio ha infatti definito gli abitanti dell’inferno. - Allora si mosse…: l’ultimo verso, come il primo, indica un cammino. Ma dal cammino nell’oscurità e nell’angoscia siamo qui giunti a ben altro cammino dell’uomo verso il suo fine, che lo porterà “de statu miserie ad statum felicitatis”. NOTE INTEGRATIVE AL CANTO I 1. V.1 Il mezzo del cammin. È decisamente da rifiutare l’interpretazione, già di alcuni antichi, per cui il «mezzo del cammino sarebbe il sonno, nel quale si passa metà della vita (cfr. Fo. Nic. I 13), inteso come figura di uno stato di visione, quale si ritrova anche nella Scrittura. Il testo infatti indica chiaramente il punto medio di un cammino, cioè di un percorso, nel quale si è smarrita la strada: e poco oltre (v. 11) si userà la metafora del sonno per indicare lo stato in cui il viandante era entrato nella selva: mentre ora, che se ne accorge (mi ritrovai), è ben sveglio. Tale uso della metafora in senso opposto è ovviamente inammissibile. Ma l’interpretazione tradizionale è confermata (oltre che dal passo del Convivio citata in nota al verso) dai molti luoghi del poema che offrono una data, e che portano tutti, come si è detto, al 1300: si veda soprattutto Inf. XXI 112- 4, dove si precisano, oltre l’anno, anche il giorno e l’ora. 2. V. 32 Le tre fiere. L'immagine è della Scrittura (Ser. 5, 6: “percussit eos leo de silva, lupus ad vesperam vastavit eos, pardus vigilans super civitates eorum”) dove i tre animali rappresentano, secondo l’esegesi biblica, i tre peccati fondamentali dell’uomo, che impediscono la sua conversione: lussuria, superbia ed avarizia, ricordati nell’Epistola di Giovanni: «omne quod est in mundo, concupiscentia carnis est (lussuria), et concupiscentia oculorum, (avarizia) et superbia vitae». Così intendono tutti gli antichi anche i tre animali danteschi. Tutto il mondo medievale cristiano riconosce del resto nei tre peccati indicati dal testo giovanneo i tre impedimenti che ostacolano l’uomo nella via del bene. Dante stesso chiama altrove lupa l’avarizia (Purg. XX 10-2) in modo da non lasciar dubbi, mentre il richiamo virgiliano collega evidente-mente la lonza con la lussuria. Quanto al leone, era simbolo tradizionale della superbia. L’identificazione delle tre fiere ci appare quindi sicura, come del resto apparve agli antichi. Altri tuttavia hanno inteso le tre fiere come le tre disposizion che ‘l ciel non vole dell’Etica aristotelica (incontinenza, malizia, bestialità) secondo le quali è suddiviso l'Inferno (Inf. X1 813), e le tre faville c'hanno i cuori accesi di Inf. VI 74-5 (superbia, invidia, avarizia), ma sono ipotesi senza precisi riscontri, né culturali né con il testo di Dante. È stata anche avanzata una diversa interpretazione, che dà alle tre figure un significato non etico ma politico, riconoscendo nella lonza Firenze, nel leone il re di Francia e nella lupa la Curia romana, le tre potenze politiche che di fatto la Commedia condanna come rovinose per la convivenza umana. Questa tesi fu fortemente difesa dal Foscolo. Noi pensiamo che l’interpretazione tradizionale sia da tenere per certa, dati i fondamentali riscontri di cui si avvale, mentre questa ultima possa essere considerata probabile, come compresente all’altra. Come infatti il messaggio di Dante rappresenta insieme la sua storia di salvezza personale e quella dell’«humana civilitas», e tutta la Commedia si muove sempre su un duplice registro, individuale ed universale, privato e pubblico, così anche in questa prima scena le tre fiere possono ben figurare insieme le passioni che travolgono il singolo uomo e le realtà politiche che insidiano il bene dell’umanità. 3. V. 101 Il veltro. A quale personaggio alluda questa figura è una di quelle questioni — che si pongono più volte nella Commedia, quando si tratta di profezie – a cui non si può dare esatta risposta, come del resto il testo stesso comporta. Quello che tuttavia appare con certezza dal contesto è che si tratta di un riformatore che operi sul piano politico in quanto una delle idee più precise e più ardentemente sostenute da Dante è che l’ordine terreno — di cui qui si parla (cfr. vv.106-8) – compete esclusivamente all’impero. Ed è l’imperatore, in ogni opera dantesca, il diretto avversario della lupa- avarizia. Tutti gli altri testi profetici della Commedia, che annunciano un simile avvento, parlano del resto di un rinnovamento della missione provvidenziale di Roma. È questa l’idea centrale della Monarchia e la figura stessa di Virgilio è strettamente connessa con questo tema di fondo del poema. Si tratta quindi di un imperatore o di un suo rappresentante. Che Dante avesse in mente un nome preciso, e cioè Arrigo VII (l'elezione di Arrigo è del 27 novembre 1308, quindi ben vicina alla probabile datazione di questo canto) e forse più tardi, quando egli morì il suo vicario Cangrande della Scala, appare possibile, specie se si hanno presenti le Epistole che egli scrisse in occasione della sua venuta. Ma poiché il linguaggio di tutto il passo (si veda il v. 105) è volutamente oscuro, è del tutto inutile ai fini dell’intelligenza del testo pretendere di poterlo individuare. Ciò che preme è il senso di tutto il discorso che già abbiamo indicato nell’idea direttrice della missione provvidenziale dell’impero romano, e nella profetica speranza che essa possa rinnovarsi. Il Veltro - anche se Dante pensò di vederlo incarnato in Arrigo – è nella sua sostanza una figura escatologica, quell'ultimo imperatore che alla fine dei tempi, secondo molti testi profetici medievali, doveva riportare, come già il primo - Augusto -, l'ordine divino sulla terra (e così l'hanno inteso molti degli antichi). 4. V. 105 Tra feltro e feltro. La parola feltro è certamente portata dalla rima (la stessa sequenza obbligata veltro-peltro-feltro); Dante la usa tuttavia come cifra per indicare il personaggio qui preannunciato. Gli antichi hanno preso per lo più feltro per «cielo» (in quanto panno compresso e non tessuto, come il cielo che è «di materia solida et intera»): nascerà quindi tra cielo e cielo, cioè - come i più di loro intendono - per il destino celato nel volgersi delle costellazioni (l'interpretazione astrologica è confortata da Purg. Xx 13-5, dove ci si appella al girare del cielo perché mandi colui che cacci dal mondo l'antica lupa. Ma alcuni hanno inteso (dato che il feltro era panno di specie vilissima) che si alluda a un uomo «di nascita umile», che è l’opinione preferita dai moderni: si tratterebbe quindi di un riformatore religioso, forse un francescano, in accordo con le speranze riformistiche gioachimite che Dante condivideva. Altri hanno pensato a un riferimento geografico (tra Feltre e Motefeltro) e cioè a Cangrande della Scala (il cui dominio si stendeva in quella regione). E non sono pochi quelli che ancora sostengono la candidatura di Dante stesso. Si è ipotizzato infine che si tratti di un’allusione ai bossoli feltrati usati a quel tempo per le elezioni. Noi pensiamo con certezza che il veltro non possa essere che un restauratore dell'impero (cfr. la nota precedente) e che in tal senso vada quindi ricercata anche la spiegazione a questo verso, ma quale essa sia non possiamo dire: dato che l'elemento provvidenziale compare nella terzina solo con la prima e più antica interpretazione (e che Dante, ogni volta che parla di questo personaggio, mostra sempre di aspettarlo dal cielo), essa ci appare ancora la più probabile, anche per 1l senso che del vocabolo potevano avere i contemporanei; ma non escluderemmo in modo assoluto l'ipotesi di Cangrande che, oltretutto, è un «cane», cioè un veltro.
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