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Patologia Sistematica I per Argomenti, Appunti di Cardiologia

Riassunti degli argomenti trattati durante il corso di Cardiologia, Pneumologia e Chirurgia Vascolare al fine della preparazione ottimale per l'esame di Patologia Sistematica 1.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 18/06/2022

simone_chillemi
simone_chillemi 🇮🇹

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Scarica Patologia Sistematica I per Argomenti e più Appunti in PDF di Cardiologia solo su Docsity! Patologia sistematica 1: Pneumologia Esame obiettivo polmonare Ispezione: si osserva la posizione del decubito del paziente, se preferenziale o obbligato, se ortopnoico o laterale (ci indirizza verso una problematica piuttosto che altre). Si osserva quindi il volto del paziente per osservare eventuale cianosi, enoftalmo o ptosi palpebrale e si osservano anche le mani per eventuali condizioni di ipossia periferica cronica (ippocratismo digitale) o cianosi ungueale e si osservano anche gli arti inferiori valutando eventuali edemi declivi o varici associati a scompenso. Si effettua una valutazione della respirazione con analisi della frequenza respiratoria (atti respiratori al minuto) e del tipo di respiro e si osserva la conformazione del torace e asimmetrie eventuali come il torace a botte tipico del BPCO. Palpazione: si valuta il fremito vocale tattile (FVT), ovvero le vibrazioni della voce parlata per cui si vede come il fremito aumenta in caso di addensamenti parenchimali come in una polmonite mentre diminuisce o scompare quando tra il polmone e la parete toracica c’è aria o liquido (pneumotorace o versamento pleurico o ancora atelectasia). Percussione: si valuta con percussione il suono chiaro polmonare che potrà essere non timpanico (polmone sano) o timpanico (presenza di cavità o pneumotorace) o ancora ottuso (versamenti e addensamenti) e permette di valutare anche la natura dei versamenti pleurici. Auscultazione: tramite fonendoscopio si valutano i rumori respiratori normali, soffi respiratori e rumori aggiunti. I primi sono i suoni normali di un polmone sano, in cui il suono viene generato dal moto turbolento dell’aria all’interno dei bronchioli in corrispondenza degli alveoli (murmure vescicolare). Con i soffi si riconoscono il soffio laringeo e il bronchiale: il primo si apprezza in caso di stenosi in corrispondenza della trachea, come in seguito ad edema della glottide o laringite o presenza di corpi estranei mentre il secondo vede anomalie nel respiro bronchiale dando l’aspetto di soffiare dentro un’anfora. I rumori aggiunti sono rumori patologici e si distinguono in rumori secchi e umidi: gli umidi sono dovuti al passaggio di aria nei bronchi con presenza di muco per cui si generano bolle che scoppiano e prendono il nome di rantoli (a piccole, medie o grosse bolle) mentre i secchi sono dati dal passaggio di aria in corrispondenza di aree infiammate con riduzione del calibro e si distinguono i ronchi e i sibili sia in espirazione che inspirazione (tipici dell’asma). Ulteriore rumore è lo sfregamento pleurico auscultabile in caso di pleurite ma non di versamento. Tosse La tosse è un atto motorio espulsivo che vede tre fasi tra cui una fase di inspirazione, fase compressiva (espirazione a glottide chiusa) e fase espulsiva (apertura della glottide). Rappresenta un meccanismo di protezione dell’organismo e viene attivato sia involontariamente (riflesso) che volontariamente grazie alle innervazioni parasimpatiche associate a recettori che percepiscono l’irritazione collocati sia nelle alte che basse vie respiratorie. La tosse viene distinta in acuta o cronica a seconda della durata (acuta fino a 10 giorni circa, cronica sopra le 3 settimane) e le cause di una o dell’altra vengono raggruppate in 4 categorie, ovvero associata a patologie broncopolmonari come fibrosi, patologie ostruttive come asma o BPCO, polmoniti, neoplasie o inspirazione di sostanze irritanti come gas, cause extrapolmonari come pleurite, masse mediastiniche (comprimono e stimolano il nervo vago), insufficienza ventricolare sinistra o piuttosto la malattia da reflusso gastroesofageo. Si hanno anche cause a carico delle alte vie aeree associate a raffreddori o infiammazioni a carico di laringe e faringe oppure cause iatrogene (farmaci) e psicogene. Si vede come la tosse cronica solitamente sia associata, nel caso dei non fumatori, a scolo retronasale (il muco passa dalle cavità nasali in gola, in seguito a processi flogistici come un raffreddore), malattia da reflusso gastroesofageo, asma e, in piccole percentuali, BPCO. Difficilmente si eseguono esami radiologici per la tosse cronica vista l’alta incidenza di questa con malattia da reflusso e scolo retronasale. La tosse si può distinguere anche per la produzione o meno di espettorato, distinguendo tosse secca (cause irritative) e tosse con espettorato che potrà essere mucoso (non infetto) o muco-purulento (infetto, presenta cambiamenti di colore verso il giallo-verde e può essere maleodorante) e la tipologia dell’espettorato ci permette di identificare la possibile causa di produzione per cui una produzione di muco limpido è associato a processi quasi sempre allergici mentre nel secondo caso si vedono processi infettivi batterici e la produzione può essere anche massiva soprattutto in caso di bronchiectasie. Si possono avere casi di tosse inefficace in cui il riflesso della tosse viene impedito da cause esterne (non nervose) come nel caso della presenza di tappi di muco molto densi, ostruzioni delle alte vie aeree, dolore toracico come una costola fratturata o debolezza dei muscoli respiratori (come nella SLA) e comportano, tra le conseguenze, formazione di tappi di muco, atelettasia, infezioni e anomalie degli scambi gassosi. Per la terapia si sconsigliano quasi sempre i sedativi della tosse ad eccezione di presenza di neoplasie maligne, tosse secca irritativa cronica, emoftoe e tubercolosi in fase attiva mentre si prediligono i mucolitici. Dispnea È una sensazione soggettiva di respirazione spiacevole in cui il paziente si rende conto di modifiche nell’atto respiratorio che può sfociare nella fame d’aria. Non si tratta di insufficienza respiratoria in quanto questa è un dato laboratoristico con una misura oggettiva di carenza di ossigeno e si determina dopo emogasanalisi e l’insufficienza respiratoria determina sempre dispnea, mentre la dispnea non è sempre associata ad insufficienza. La misurazione della dispnea viene effettuata con delle scale, per valutare sia la dispnea acuta che cronica (nel primo caso, si effettua un test da sforzo di camminata per 6 minuti o di due rampe di scale) e ad essere compensato riportandolo intorno al valore di 1 tramite vasocostrizione dei capillari alveolari diminuendo l’afflusso ematico). Si possono avere casi di estremizzazione dell’alterazione del rapporto di ventilazione/perfusione come nel caso dello shunt (secondo meccanismo) in cui si ha l’abolizione totale della ventilazione (rapporto pari a 0) e può essere osservato in caso di infarcimenti alveolari in seguito a polmoniti massive, edema polmonare o atelettasia. Il terzo meccanismo vede l’ispessimento della parete alveolare con riduzione della diffusione di ossigeno in seguito a patologie come fibrosi (accumulo di collagene) oppure patologie interstiziali. Il quarto meccanismo vede l’ipoventilazione alveolare per cause di riduzione della meccanica respiratoria in seguito a fatica dei muscoli respiratori ed è l’unico caso in cui l’ipossiemia è associata ad ipercapnia e si osserva soprattutto in evoluzioni di patologie ad andamento cronico (ma non sempre) come la BPCO o asma. Si osserva dunque lo sfiancamento dei muscoli respiratori, osservabile in frequenze respiratorie con atti superiori ai 30-35 al minuto. Cause: si distinguono cause acute e cause croniche tra cui, nel primo caso, si osservano riacutizzazioni di patologie come sovrinfezioni in pazienti con BPCO (potenzialmente tutte le patologie respiratorie possono dare insufficienza acuta) mentre, tra le croniche, distinguiamo sindromi disventilatorie di natura ostruttiva (riduzione del calibro delle vie aeree) e sindromi disventilatorie di tipo restrittivo (alterazioni dell’architettura di sostegno o presenza di patologie extrapolmonari come malattie neuro-muscolari). Clinica: in caso di ipossiemia l’organismo tenderà ad iperventilare al fine di riaumentare la pO2 ma determinando condizioni di ipocapnia. Il paziente si presenterà con possibile cianosi e sudorazione con alterazioni del circolo sistemico (tachicardia e aumento della pressione arteriosa) e vasocostrizione arteriosa in risposta all’ipossiemia mentre, in senso cronico, si osserva un rimodellamento arterioso e alterazioni del tono dell’umore, deficit di memoria e cognitivi e facile irritabilità. In caso di ipercapnia si osserverà invece dispnea, cefalea frontale, sudorazione e ipersalivazione e tremori grossolani: la cefalea è spiegata dalla funzionalità vasodilatante della CO2 che può indurre allo stato di coma ipercapnico che può, però, regredire in pochi minuti nel momento in cui si riesca a smaltire la CO2. Si osserva anche l’attivazione renale con il sistema tampone dei bicarbonati al fine di ridurre la CO2 (viene rilevato l’aumento sotto forma di acidificazione del pH ematico). Terapia: si possono utilizzare ossigenoterapia nel momento in cui la pO2 scende al di sotto dei 55 mmHg (o al di sotto dei 60 mmHg se si osserva ipossiemia notturna o scompensi) per una durata di 12-18 ore al giorno se non anche 24h, soprattutto durante la notte, e si utilizza la maschera Venturi. Si può utilizzare anche una ventilazione meccanica non invasiva, soprattutto in casi di pazienti con malattie neuromuscolari, deformità del torace, sindromi da apnee centrali e/o ostruttive o BPCO gravi al fine di diminuire la frequenza respiratoria al di sotto dei 20-25 atti al minuto con rilassamento dei muscoli respiratori e si può effettuare anche in sede domiciliare. Ultima soluzione è la tracheostomia con l’obiettivo di ridurre lo spazio morto respiratorio delle alte vie aeree e garantendo un rilassamento dei muscoli respiratori che, così, dovranno lavorare meno e permette l’esecuzione facilitata di esami come la broncoscopia per aspirazione e facilitare l’espettorazione. Asma È una patologia infiammatoria cronica e ostruttiva delle vie aeree in cui possono essere presenti fasi di riacutizzazione con peggioramento dei sintomi ma che è caratterizzata dalla possibile reversibilità. È caratterizzata da una iperreattività bronchiale dovuta alla stimolazione del muscolo liscio bronchiale in seguito a stimoli esterni ed è sempre presente nell’asma (il professore la definisce patognomonica). La patologia si presenta con episodi ricorrenti con dispnea, sibili respiratori, tosse e senso di oppressione al petto e si osserva una limitazione del flusso d’aria e si osservano diversi fenotipi clinici che presentano quadri variegati di sintomatologia (andamento capriccioso). Si vede come l’asma colpisca circa il 3-5% della popolazione mondiale e solo un 10% di questo è affetto da forme gravi e tra i fattori di rischio, oltre a quelli da predisposizione genetica, si hanno anche l’esposizione ad allergeni, fumo e inquinamento atmosferico. L’iperreattività bronchiale è sempre presente al 100% nei soggetti con asma per cui si può sfruttare questo elemento per effettuare diagnosi di esclusione di asma tramite test di iperreattività alla metacolina in cui si chiederà al paziente di inspirare la metacolina e si valuterà la variazione del VEMS (volume espiratorio massimo forzato al primo secondo) in base alla concentrazione della metacolina e il test si interrompe non appena il VEMS arriva all’80% dell’iniziale. Di conseguenza, tanto più piccola sarà la dose di metacolina che stimola la reattività bronchiale, più si avrà iperreattività. L’iperreattività bronchiale vede il muscolo liscio come protagonista effettore e si vede come nei pazienti asmatici si abbia una desquamazione epiteliale marcata in seguito a flogosi che determina l’esposizione dei recettori nervosi che stimolano la muscolatura bronchiale e nel tempo si osservano quadri di ipertrofia e iperplasia muscolare; tra i fattori scatenanti più osservati ritroviamo la rinite in cui si vede una flogosi anche delle alte vie aeree: in questi casi la condizione di flogosi può andare a coinvolgere anche le basse vie respiratorie e si è visto come circa il 90% della popolazione asmatica soffra di rinite e vi sono diverse spiegazioni a riguardo. Si vede tra le possibili spiegazioni il fatto che il naso, normalmente, purifica l’aria inspirata ma che, in condizioni di rinite, il paziente tenda a respirare maggiormente dalla bocca e non dal naso; altra spiegazione è data dalla presenza di archi riflessi vagali che vengono stimolati al livello delle alte vie determinando una reattività bronchiale nelle basse vie oppure anche la stessa propagazione sistemica della flogosi. Altro fattore di rischio è l’obesità, in quanto si sa che l’individuo obeso è un individuo che presenta una infiammazione cronica del tessuto adiposo e si osserva un circolo vizioso di sedentarietà ed obesità nel paziente asmatico in quando questo tenderà a muoversi sempre meno a causa della patologia con aumento del rischio di obesità con propagazione sistemica di flogosi. Da ricordare anche come l’anziano risulti essere caratterizzato da quello che è l’inflammaging, una infiammazione cronica lieve determinata dall’invecchiamento e molto spesso associata anche ad altre comorbidità come il diabete che determinano infiammazione sistemica cronica diffusa solo che, purtroppo, viene molto più spesso confuso con la BPCO. Fenotipi: si riconoscono tre fenotipi asmatici a seconda del citotipo immunitario che determina la flogosi per cui si osservano fenotipi eosinofilici, molto diffusi, fenotipi neutrofilici e fenotipi granulocitici per cui si vede come i farmaci adoperati, oltre al cortisone e al salbutamolo (beta-bloccante), vedono una funzionalità anti-immunitaria come i farmaci anti-eosinofili. Dal punto di vista clinico si ha una varietà di sintomatologia talmente vasta che ogni paziente può presentare un suo quadro di dispnea associato ad asma con sintomatologia completamente diversa da un altro paziente per cui si tende maggiormente ad osservare l’andamento dell’asma e degli episodi definendo asma di lieve entità o intermittente (pochissime volte al mese), lieve ma persistente (una volta a settimana), moderata (una al giorno) o grave (sempre presente) definendo questo andamento capriccioso degli episodi che la contraddistingue dalla BPCO (sempre continua con peggioramento in senso cronico e non reversibile). Sindrome da Overlap (ACOS): si vede come alcuni pazienti presentino sia asma che BPCO contemporaneamente e questi pazienti sono solitamente soggetti oltre i 40 anni, fumatori, broncocostrizione permanente anche dopo broncodilatatori ed evidente atopia; l’overlap vede quindi la contemporanea presenza delle due patologie determinando un peggioramento delle condizioni respiratorie tanto che spesso questi pazienti richiedono un ricovero in pronto soccorso per difficoltà respiratorie e si tratta di overlap nel momento in cui si osservano un numero pressocché identico di elementi tipici sia di asma che di BPCO come, ad esempio, un quadro di eosinofilia tipica di asma insieme ai danni irreversibili determinati dalla BPCO con distruzione del parenchima in seguito al rilascio delle proteasi e si vede come la risposta agli antinfiammatori risulti essere parzialmente efficace (non efficace contro BPCO ma eccellente contro asma). Riacutizzazione: sono marcati deterioramenti dei sintomi dell’asma con peggioramento nell’arco di giorni o, al massimo, poche settimane, che differiscono dal peggioramento in senso cronico della malattia e non si hanno marcatori indicativi di riacutizzazione e molto spesso richiedono cambiamenti della terapia al fine di impedire le riacutizzazioni. Si vede come le riacutizzazioni siano spesso associate ad infezioni virali come le infezioni da rhinovirus (raffreddore comune) in quanto il soggetto asmatico è già, di per sé, un soggetto molto suscettibile alle infezioni in quanto si osserva un calo della concentrazione di IFN-alfa e si osserva anche come, anno dopo anno, in base alla frequenza delle riacutizzazioni, si ha anche una perdita di funzionalità polmonare osservabile tramite spirometria con perdite superiori ai 40 ml di volume nell’espirazione al primo secondo anno dopo anno. Si associano quadri di asma specifici per chi presenta riacutizzazioni frequenti che prendono il nome di brittle asthma (asma instabile) in cui si identifica il tipo 1 dove il paziente non ha completamente controllo della patologia e nessuna terapia sembra funzionare, il tipo 2 con totale controllo ma con episodi di riacutizzazione e il tipo 3 che vede un’influenza psicogena della percezione della sintomatologia asmatica. A distinguere un soggetto che presenta l’asma instabile si è osservato la presenza di un biomarcatore, la periostina, che aumenta nelle sue concentrazioni nei soggetti che, a distanza di breve tempo (circa un anno) svilupperanno quadri di asma instabile con riacutizzazioni. Asma grave: il paziente in asma grave presenta ostruzione fissa (dovuto a cambiamenti di iperplasia della muscolatura bronchiale passando ad una condizione di non reversibilità), frequenti riacutizzazioni, steroido- dipendenza e steroido-resistenza. Si distinguono asma grave in seguito a mancato trattamento (falsamente grave, si osserva un netto miglioramento all’uso di farmaci), asma grave con scarsa aderenza al trattamento a causa della presenza di fattori scatenanti come inquinamento o comorbidità che rendono difficile un trattamento adeguato, e asma grave resistente al trattamento per cui si vede un’asma non controllata anche con somministrazione di farmaci ad alti dosaggi. Diagnosi: un paziente con asma grave e resistente al trattamento si presenterà con una VEMS molto più bassa, una condizione di danni irreversibili dovuti all’iperplasia e aumento del volume residuo dopo espirazione (l’aria viene intrappolata). Importante è andare poi ad identificare quei fattori che rendono il trattamento più complesso come comorbidità e aderenza a questo. elastasi e antielastasi con distruzione irreversibile delle strutture del bronco e questi danni determineranno anche un più facile attecchimento di altre possibili infezioni. Quella che viene alterata è dunque la clearance del polmone nei confronti delle colonizzazioni batteriche e anche del muco determinando un ristagno del muco stesso che favorirà la crescita microbica. Si possono osservare anche fattori estrinseci a determinare la bronchiectasia con i fenomeni di trazione verso l’esterno che si ritrovano in caso di atelettasie oppure di pulsioni dall’interno dovuto al ristagno di muco stesso. Clinica: il quadro di bronchiectasia cambia a seconda della gravità per cui si vedono, tra le sintomatologie, la presenza di tosse produttiva e insistente che può essere modificata dai decubiti, possibile emoftoe dovuto alla rottura capillarica in seguito ai colpi di tosse, malessere generale, possibili quadri febbrili associati ad infezione soprattutto da haemofilus influenzae o pseudomonas aeruginosa (ma anche aspergillus) e rantoli all’auscultazione. Diagnosi: si effettua la HRTC (TC ad alta risoluzione) al fine di avere una visuale ottimale della bronchiectasia in quando la radiografia non permette una visione ottimale; si utilizzava anche la broncografia con inalazione del mezzo di contrasto ma è andato in disuso. In base alla posizione delle bronchiectasie è possibile andare ad intuire anche le possibili cause che l’hanno generate, come nel caso della fibrosi cistica in cui le bronchiectasie si osservano maggiormente nei lobi superiori o di predisposizioni genetiche in generale in quanto, comunemente, le bronchiectasie si collocano per gravità nei lobi inferiori. Terapia: si utilizza una terapia farmacologica in primis con somministrazione di antibiotici e antiemorragici nel caso di emoftoe e, se possibile, si effettua il drenaggio delle secrezioni con opportuni esercizi per evitarne il ristagno. OSAS È la sindrome delle apnee ostruttive del sonno che vede tra la sintomatologia una sonnolenza diurna e disturbi della respirazione notturna con comparsa delle apnee che variano dai 10 ai 50-60 secondi e che sono associate a frammentazione del sonno, arousal e desaturazioni marcate notturne. Le apnee vengono distinte in ostruttive e centrali per cui, nel primo caso, si vede sempre la presenza di movimento del torace per cui è presente un’ostruzione delle vie aeree mentre, nel secondo caso, non si osservano movimenti toraco-addominali. Clinica: il paziente normalmente non percepisce le apnee durante il sonno e viene riferito il problema solitamente dal compagno o compagna che afferma che, dopo l’apnea, segue un russamento fragoroso. Il russamento fragoroso è dovuto alla desaturazione generata dall’apnea che determinerà l’attivazione di chemocettori che ripristineranno la ripresa del flusso con scarica adrenergica che dilata le vie aeree con espulsione rapida dell’aria e che determineranno la vibrazione del palato molle e dell’ugola causando il russamento. Il paziente può accusare inoltre cefalea mattutina, bocca secca, sbalzi d’umore, nicturia e calo della libido. Fattori di rischio: si ritrova il peso del paziente per cui si vede come l’OSAS si presenti nel 40% dei pazienti obesi e sovrappeso ma anche l’abuso di alcol, sedativi, ipertrofia del palato molle e dell’ugola, anomalie cranio-facciali e ostruzione nasale può determinare l’insorgenza di OSAS. Nel soggetto sovrappeso e obeso si vede come la lingua, che normalmente si appoggia al retrofaringe, possa determinare un’ostruzione al flusso d’aria, soprattutto in quanto nel retrofaringe può accumularsi dell’adipe determinando un aumento dello spessore. Diagnosi: si effettua uno screening che tiene conto dell’ossimetria notturna che assumerà un andamento a dente di sega in cui si avranno picchi di desaturazione in seguito alle apnee e si effettua come test diagnostico la polisonnografia, un test che ci permette di valutare sia l’ossimetria, frequenza cardiaca (ci permette di valutare le fasi del sonno) e i movimenti toraco-addominali; in caso di apnee ostruttive si vede come i movimenti toraco-addominali (che si presentano sempre con lo stesso verso positivo o negativo) siano presenti anche durante le apnee sebbene di minor intensità rispetto alla respirazione normale mentre nelle apnee centrali non si osserva alcun movimento toraco-addominale nel tracciato in corrispondenza dell’apnea. L’OSAS verrà poi definita in lieve, moderata o severa in base al numero di episodi apneici nell’arco dell’ora per cui sotto i 15 viene definita lieve mentre sopra i 30 come grave. Terapia: viene utilizzata la CPAP, una ventilazione non invasiva che mantiene lo stesso regime pressorio dell’aria ed impedisce il collasso delle vie aeree superiori. La terapia non è risolutiva ma la guarigione da questa sindrome dipende anche notevolmente dalla collaborazione del paziente a perdere peso (nel caso dei sovrappeso o obesi) che andrà a diminuire notevolmente la gravità della sindrome se non addirittura guarire totalmente e di seguire delle modifiche nello stile di vita del paziente. Polmoniti È l’infezione a carico degli alveoli, vie aeree distali o interstizio polmonare caratterizzata da aree di consolidamento parenchimale con alveoli spesso pieni di globuli bianchi, globuli rossi e fibrina. Dal punto di vista eziopatogenetico è possibile distinguere 4 categorie di polmoniti tra cui le polmoniti batteriche, virali, fungine e protozoarie mentre, dal punto di vista epidemiologico, si ha una classificazione in cui si riconoscono polmoniti della comunità, polmoniti ospedaliere, polmoniti associate alle ventilazioni e polmoniti associate all’area sanitaria: la prima vede la classica polmonite di comunità in seguito ad infezione da parte di batteri o virus con sintomatologia acuta classica con febbre e brividi, dolore toracico e tosse, la seconda vede la polmonite nei pazienti ospedalizzati da almeno 3 giorni, la terza include i pazienti in terapia intensiva mentre, la quarta, vede tutte le persone che frequentano regolarmente le aree sanitarie senza essere ospedalizzati. Importante è anche il criterio istologico (coincide con l’anatomo-patologico) delle suddivisioni delle polmoniti in quanto ci permette di descrivere le polmoniti alveolari, polmoniti interstiziali e polmoniti necrotizzanti. Fattori di rischio: si riconoscono fattori di rischio che possono, o meno, sia influire sul rischio di contrazione della polmonite sia di influire sullo sviluppo di complicanze e tra questi riconosciamo la malnutrizione, il fumo (induce flogosi cronica delle vie aeree con compromissione dei meccanismi di difesa innati come la clearance mucociliare e il riflesso della tosse), alcolismo e tossicodipendenza (spesso associato a condizioni di immunodepressione), diabete, BPCO e malattie sistemiche per non dimenticare la compromissione dello stato di coscienza (polmonite ab-ingestis) e comorbidità ad eziologia virale come l’influenza. Polmonite alveolare: sono polmoniti ad eziologia quasi prevalentemente batterica in seguito ad infezione da parte di pneumococco (polmonite classica di comunità), stafilococcus aureus, streptococcus pyogenes e pseudomonas aeruginosa (polmonite più ospedaliera per i MRSA e immunodepressi). La polmonite pneumococcica vede un’evoluzione in diversi stadi della malattia in cui si vede, nel primo stadio, l’instaurazione di un processo di flogosi con congestione ed edema alveolare e componente essudativa ricca di proteine e fibrina; nel secondo stadio si ha l’epatizzazione rossa a causa della diapedesi dei globuli rossi dai capillari iperemici al versante alveolare dando un colorito rossastro all’espettorato; nel terzo stadio si ha l’epatizzazione grigia con migrazione delle cellule dell’immunità (macrofagi e polimorfonucleati) e cessazione della diapedesi dei globuli rossi e, infine, il quarto stadio vede la risoluzione con colliquazione dell’essudato alveolare in parte riassorbito e in parte espulso con la tosse. Sintomi: il paziente si presenta con un quadro clinico caratterizzato da esordio rapido, tosse catarrale con colorito rugginoso, dolore toracico associato alla tosse, respiro tachipnoico, possibile dispnea, cianosi (se l’interessamento polmonare è molto esteso) e possibile comparsa di herpes labiale in seguito alla condizione di immunocompromissione. All’ispezione si osserverà un’ipomotilità del torace, aumento del fremito vocale tattile a causa dell’addensamento, ipofonesi plessica (che può sfociare in ottusità) e all’auscultazione si ha ipofonesi del murmure vescicolare e presenza di rantoli oltre che la comparsa del soffio bronchiale; se è presente un versamento pleurico, si avrà una diminuzione del fremito vocale tattile. Dal punto di vista laboratoristico il paziente presenterà leucocitosi, con neutrofilia spiccata per valori di 20- 25k ed elevata PCR e VES. Diagnosi: si effettua un primo esame radiologico per valutare se la polmonite è di natura alveolare o interstiziale per permettere di escludere diverse cause possibili di polmonite per poi effettuare esame microbiologico per l’espettorato (non sempre ha valenza diagnostica assoluta se non per il mycoplasma perché non è commensale), lavaggio broncoalveolare (più specifico e preciso ma invasivo), ematocoltura (si spera in batteriemia presente), ricerca di anticorpi e urinocoltura nel caso di polmoniti associate a Legionella o Pneumococco ed effettuare, dunque, eventuale PCR. In base alla tipologia di opacità osservata all’esame radiologico si può avere anche un’indicazione sul possibile patogeno batterico, come nel caso dello St. Pneumoniae che presenta un unico consolidamento lobare oppure o dello St. Aureus che presenta un consolidamento multifocale. Polmonite interstiziale “atipica”: sono polmoniti che vedono il coinvolgimento dell’interstizio e non necessariamente dell’alveolo (può avvenire l’interessamento in un secondo momento) ed è ad eziologia virale o da parte di mycoplasma pneumoniae. Il mycoplasma vede un interessamento alveolare solamente indiretto a causa della formazione di tappi di muco nei bronchioli che comportano uno sfiancamento e formazione enfisemica compensatoria alveolare e vede possibili casi di cross-reattività a causa della similarità tra i suoi antigeni di membrana e la componente self dell’organismo muscolare ed ematica che possono comportare complicanze come anemie emolitiche, CID, trombocitopenia, artralgie e versamenti pericardici. Sintomi: i sintomi sono molto più blandi rispetto ad una polmonite tipica, con presenza di tosse secca stizzosa, un reperto auscultatorio non sempre apprezzabile, assenza di dolore e parametri ematici inalterati. Diagnosi: all’esame radiologico il polmone si presenta come a vetro smerigliato, indice di interessamento interstiziale, senza osservare addensamenti alveolari. Si può effettuare diagnosi diretta per la ricerca del mycoplasma tramite PCR da espettorato in quanto non è un normale commensale delle vie aeree umane oppure ricerca di anticorpi specifici o, ancora, ricerca di anticorpi aspecifici verso le agglutinine a frigore (anticorpi contro antigeni eritrocitari). Polmoniti ospedaliere: vedono infezioni da parte di ceppi più resistenti e aggressivi dei comuni batteri come pneumococco e mycoplasma, tra cui riconosciamo gli MRSA e batteri GRAM-. Si calcola lo SCORE CURB-65 che ci permette di identificare le aspettative di vita nei pazienti con polmonite ospedaliera dove si tiene conto di età, stato di confusione mentale, frequenza respiratoria, pressione sistolica e diastolica e concentrazione dell’urea in circolo per cui, un basso punteggio (0-1) indicherà bassa mortalità del paziente mentre, uno score > 3 indicherà alta mortalità. Patologie restrittive Sono condizioni associate alla diminuzione armonica dei volumi polmonari e sono a carico dell’interstizio. Si osserva la pervietà delle vie aeree ma, d’altra parte, si ha un deposito maggiore di collagene nell’interstizio che determina una condizione di ispessimento di quest’ultimo nel polmone per cui si vede come, a differenza delle patologie ostruttive, l’indice di Tiffenau si mantiene sempre al di sopra del 70% in quanto si osserva una diminuzione della VEMS ma anche della capacità vitale polmonare (nelle ostruttive era solo la VEMS che calava). Anche l’indice di Motley risulterà essere invariato (rapporto volume residuo/capacità polmonare) che, nelle patologie ostruttive, tendeva invece ad aumentare. Le patologie restrittive vengono oggi identificate come PID o fibrosi polmonari e il danno si vede al livello del lobulo polmonare, ovvero la struttura anatomica che vede la porzione di parenchima polmonare circondata da setti connettivali all’interno in cui si possono riconoscere da 3 a 5 acini (unità costituita da bronchiolo e sacchi alveolari); nel momento in cui si instaura l’interstiziopatia si parlerà di lobulo polmonare secondario. Classificazione: si riconoscono interstiziopatie ad eziologia nota come la pneumoconiosi (in seguito ad inalazione di sostanze, spesso nel luogo di lavoro) e ad eziologia ignota (sarcoidosi e fibrosi polmonare idiopatica). Sarcoidosi: è una pneumopatia infiltrativa diffusa di tipo granulomatosa e va intesa come patologia ad interesse sistemico e non soltanto di interesse polmonare in quanto è dovuta ad una disregolazione del SI con formazione di granulomi sarcoidei, caratterizzati dalla presenza di fibroblasti e linfocitosi ma che non danno origine a necrosi caseosa, non confluiscono e hanno un andamento ad ondate con comparsa e scomparsa di infiammazione che determina l’attivazione fibroblastica. Il meccanismo patogenetico vede l’alterata risposta immunitaria che si estrinseca come alveolite sarcoidea, comportando una linfocitosi bronchiolo-alveolare, reclutamento macrofagico e stimolazione fibroblastica alla produzione di fibre collagene che determineranno l’ispessimento dell’interstizio polmonare e si osserva l’interessamento dei linfonodi ilari bilaterali che ne permettono la diagnosi differenziale da patologie tumorali (questi sono solitamente unilaterali). La sintomatologia è piuttosto aspecifica con comparsa di dispnea, tosse secca, possibile insufficienza respiratoria e si vede anche un interessamento sistemico anch’esso aspecifico come comparsa di astenia, malessere e febbre. Si vedono, ma non sempre, tra i segni extra-polmonari la comparsa di eritema nodoso al livello della cute dove saranno presenti queste lesioni granulomatose ma anche quadri di uveite oltre che interessamenti cardiaci o del SNC (questi sono molto più rari). La diagnosi vede l’esecuzione iniziale della Rx torace, per poi richiedere una TAC (si evidenzieranno i noduli sarcoidei perilinfatici) e si valuteranno le funzionalità polmonari tramite spirometria e pletismografia e si effettueranno test differenziali come emocromo e test di Mantoux per escludere infezioni e tubercolosi. All’esame radiologico sarà possibile distinguere le diverse fasi di patologia distinte in 4 stadi (indicano la gravità ma non l’attività della patologia) in cui si vedono al primo stadio l’interessamento unico dei linfonodi ilari bilaterali, nel secondo stadio si vede la comparsa degli infiltrati polmonari, nel terzo stadio scompaiono i linfonodi ilari bilaterali mentre sono sempre presenti gli infiltrati e, infine, nel quarto stadio si ha la fibrosi polmonare. Altri test diagnostici indicativi possono essere il lavaggio broncoalveolare con fisiologica al fine di catturare le cellule linfocitarie e valutarne il rapporto CD4-CD8 mentre il test diagnostico che darà certezza sarà la biopsia con ricerca dei granulomi sarcoidei. La terapia vede l’utilizzo di immunosoppressori come i farmaci corticosteroidi (prednisone) o metatrexato a lungo termine e si osserva come la terapia può portare il paziente a remissione (soprattutto per stadi 1 e 2) o a stabilizzazione della patologia senza evoluzione in fibrosi. Fibrosi polmonare idiopatica (IPF) È una forma di pneumopatia interstiziale fibrosante con andamento cronico e progressivo e determinata da cause di natura sconosciuta; risulta avere un coinvolgimento circoscritto al parenchima polmonare e presenta dei referti radiologici tipici definiti come UIP o “usual interstitial pneumonia”. Si vede un tasso di incidenza di circa 9 abitanti ogni 100000 e colpisce maggiormente i maschi intorno alla V-VII decade di vita. Diagnosi: si effettua tramite riconoscimento del pattern radiologico tipico per cui si vedrà l’accentuazione della trama broncovascolare e l’ispessimento dei setti interstiziali; tramite reperto radiologico sarà importante andare ad escludere tutte le altre patologie polmonari che possono comportare un quadro simile per cui si parlerà di pattern certi, possibili e indeterminati di UIP e di criteri di esclusione della IPF. Il pattern che darà certezza di UIP vede un interessamento fibrotico subpleurico e basale con distribuzione eterogenea e della presenza dell’honeycombing (il polmone assumerà la conformazione a celle di alveare dovuto al sovvertimento parenchimale); il pattern di possibilità di UIP vedrà, a differenza del pattern di certezza, un pattern reticolare con bronchiectasie da trazione ma con assenza di honeycombing; infine, il quadro indeterminato, vede quadri fibrotici non associati ad altre patologie note, assenza di honeycombing e alterazioni reticolari appena accennate con possibile opacità a vetro smerigliato. Per la conferma della diagnosi di UIP possibile o indeterminata, si effettua la biopsia per andare alla ricerca dei focolai fibroblastici. Clinica: il paziente che presenta IPF è solitamente uomo, intorno alla V-VII decade di vita (maggiormente osservata intorno ai 66 anni), ex fumatore, presenta dispnea da sforzo e tosse secca, saturazione emoglobinica ai limiti della norma (93% circa), ippocratismo digitale in seguito all’ipossia cronica e presenza di rumori a velcro all’auscultazione e si presenta un quadro spirometrico di tipo restrittivo (questo ci permette di distinguerlo dalla BPCO). La patologia assume un andamento cronico ma relativamente rapido, per cui una diagnosi scorretta o non fatta per tempo, può comportare un abbassamento delle aspettative di vita a 5 anni al di sotto del 20% mentre una diagnosi tempestiva entro l’anno, può portare la sopravvivenza di vita a 5 anni anche fino al 70%. La possibilità di incorrere al decesso è tanto alta e rapida quanto più siano presenti anche altre comorbidità come nel caso dell’enfisema determinato dal fumo di sigaretta (sono quadri di fibrosi combinata). Terapia: si utilizzano farmaci anti-fibrotici come pirfenidone e Nintedanib che non daranno guarigione da malattia ma migliorano notevolmente la vita del paziente e le aspettative di sopravvivenza. Carcinoma polmonare Epidemiologia: è la neoplasia più diffusa al mondo, con una maggiore incidenza tendenzialmente nel sesso maschile (spiegata dalle abitudini e dal consumo di sigarette) e che aumenta con l’aumentare dell’età per cui si vede come il fumo di sigaretta sia il principale fattore di rischio per l’insorgenza della neoplasia. Presenta una mortalità notevole che arriva fino all’85% dovuto ad un’inefficacia del trattamento terapeutico da una parte e del sistema di diagnosi precoce dall’altra in quanto il paziente verrà ad effettuare dei controlli solo quando sarà presente una sintomatologia notevole e molto spesso la neoplasia sarà già andata incontro a metastatizzazione. Fattori di rischio: è una neoplasia altamente prevedibile, in quanto il fattore principale di rischio è il fumo di sigaretta per quasi il 90% dei casi e un ulteriore 7-8% dei casi è associato ad inquinanti ambientali che vengono inalati come l’asbesto. Si ritrovano anche fattori endogeni come familiarità, stress ossidativo o polimorfismi genici enzimatici. Aspetti morfologici: si distinguono in carcinomi a piccole o a grandi cellule. Il primo è il microcitoma, costituito da cellule tumorali di dimensioni ridotte dovute ad un esiguo citoplasma, fusiformi e costituite quasi unicamente dal nucleo soltanto e che è caratterizzato dall’essere particolarmente sensibile al trattamento con chemioterapici e radio-sensibili ma presentano un’elevata tendenza alla metastatizzazione; il secondo tipo vede l’adenocarcinoma, il carcinoma bronchiolo-alveolare e lo squamocellulare e che sono caratterizzati da una minor sensibilità a chemioterapici e radiazioni ma che più difficilmente vanno incontro a metastatizzazione (ad eccezione dell’adenocarcinoma). Si distinguono anche in base al loro sviluppo topologico, osservando tumori centrali (sviluppo centrale) come il microcitoma e lo squamocellulare, periferici come l’adenocarcinoma o multifocali come il bronchiolo-alveolare con interessamento spesso bilaterale o con aspetto radiologico a “polmonite”. Clinica e sintomatologia: si hanno sintomatologia e segni diversi a seconda della localizzazione. Tra la sintomatologia più comune ritroviamo tosse, espettorato, dispnea, raucedine, emottisi, calo ponderale, astenia e dolore toracico; altra sintomatologia associata può essere il dolore alla spalla nel momento in cui si ha il tumore in sede apicale con compressione del plesso brachiale con modificazione della temperatura dell’arto (più freddo, si tratta della sindrome di Horner associato al tumore di Pancoast) oppure compressione verso il corpo vertebrale che porterà enoftalmo, miosi, ptosi palpebrale e anidrosi facciale. Si può avere anche la compressione della vena cava (associata spesso a microcitoma) che determina comparsa di edema facciale, ritorno venoso ridotto, edema degli arti superiori e rappresenta un’emergenza clinica. Altra sintomatologia può essere associata alla sindrome paraneoplastica, ovvero un gruppo di sintomi associata alla presenza della neoplasia ma non determinata direttamente da essa: non è correlata alla dimensione del tumore o alla presenza di metastasi e può comparire sia precocemente che tardivamente all’insorgenza di un tumore e si realizza in seguito al rilascio di fattori sistemici a partire dalle cellule neoplastiche come ormoni o metaboliti in circolo. Diagnosi: il primo step diagnostico vede l’utilizzo dell’esame radiologico a cui può accompagnarsi una TAC o effettuare direttamente la TAC senza esame radiologico. La TAC ci aiuterà per l’identificazione del tumore ed eventuale stadiazione ma l’esame diagnostico definitivo di certezza sarà un esame citologico (quindi anatomopatologico) con riconoscimento delle cellule tumorali e del citotipo coinvolto. Si effettuerà quindi una biopsia che potrà essere fatta con diverse metodologie a seconda della posizione del tumore: se questo è posto centralmente ci si arriverà con facilità tramite broncoscopia con brushing (se la massa è osservabile e posta al livello del bronco) o tramite broncoscopia trans-bronchiale con agoaspirato che bucherà il bronco basso e valutazione dal medico della pressione, ma con alto rischio di incorrere ad ipertensione da camice bianco o anche l’ipertensione mascherata (ipertensione emotiva in cui si osserva un aumento, o un calo, della pressione anche di 10-15 mmHg dovuto al momento ma non osservabile in misurazione domiciliare); il secondo metodo vede l’utilizzo dell’holter monitoring, un dispositivo che valuta la pressione arteriosa del paziente ogni ora piuttosto che ogni 30 o 15 minuti e la valuta nell’arco delle 24 ore permettendo l’analisi della variazione della pressione arteriosa durante la giornata ed osservando le variazioni fisiologiche di questa, con l’aumento durante le ore diurne e il dipping (calo) nelle ore notturne e la valutazione del dipping ci permetterà di andare a valutare eventuali condizioni ipertensive importanti; il terzo metodo vede la misurazione della pressione nell’ambiente domestico 3 volte a settimana per cui il paziente dovrà monitorare e registrare il valore della propria pressione arteriosa in un diario da presentare al medico (la misurazione va fatta ponendo il paziente seduto e dopo 5 minuti si effettua la misurazione ponendo il bracciale all’altezza del cuore, si dovrà ripetere poi 3 volte ogni due minuti cambiando il braccio). Si riconosceranno quindi 3 fenotipi di ipertensione: ipertensione da camice bianco non controllata, ipertensione mascherata e ipertensione sostenuta non controllata (valori elevati sia in ambiente ospedaliero che domiciliare). Clinica: bisogna valutare il paziente iperteso definendo il grado di ipertensione, effettuare uno screening delle potenziali cause di ipertensione e distinguere se si tratta di ipertensione essenziale (cause non note, circa il 90% dei casi) o secondaria (legata a patologia, guaribile) e identificare lo stile di vita del paziente. Bisogna attenzionare anche il rischio di possibile danno d’organo associato all’ipertensione. Al paziente iperteso, nell’anamnesi, bisognerà evidenziare i fattori di rischio che fanno parte dello stile di vita del paziente, come l’abuso di alcol, obesità eventuale o sovrappeso, fumo, anamnesi familiare di ipertensione, ictus o quadri cardiovascolari, sedentarietà e introito di sale. All’esame obiettivo si valuteranno il BMI del paziente, si evidenzia se siano presenti danni d’organo tramite esame del fondo dell’occhio e un esame cardiologico, esaminazione del polso periferico (se è scarso o assente si potrebbe avere aterosclerosi) e controllo pressorio in entrambe le braccia; bisogna attenzionare anche le cause di ipertensione secondaria come, ad esempio, malattie tiroidee, sindrome di Cushing o patologie ghiandolari come il feocromocitoma. Si valuteranno anche gli esami ematochimici di routine. Sistema SCORE: vede un sistema che permette di valutare il rischio cardiovascolare globale definendo 4 categorie di rischio a 10 anni di distanza; si tiene conto di fattori come il fumo, l’età del paziente, il sesso e la nazionalità e presenza di comorbidità come diabete che vengono definiti come moltiplicatori del rischio cardiovascolare, per cui, a valori di pressione arteriosa rilevata, si identificheranno le diverse classi di rischio cardiovascolare (ad esempio, una pressione arteriosa normale o al limite, in presenza anche di 1 o 2 fattori di rischio, vede comunque un rischio cardiovascolare molto basso mentre, pressione arteriosa di terzo grado (sopra i 180 mmHg) con 1-2 fattori di rischio presenta un alto rischio cardiovascolare). Trattamento: si basa sul cambiamento dello stile di vita del paziente e anche dell’assunzione di una terapia farmacologica adeguata. Si dovrà abolire completamente il fumo, effettuare almeno 30 minuti di attività fisica al giorno, una dieta salutare povera o con assenza di sale e povera di carni (dieta mediterranea), riduzione dell’assunzione di alcol e perdita di peso e si associa una terapia farmacologica a base di alcune classi di farmaci come i betabloccanti, diuretici, ACE-inibitori, calcio antagonisti e i sartani (inibitori dell’angiotensina). Il trattamento farmacologico viene riservato solo ai pazienti ad alto rischio cardiovascolare (sempre indicato per ipertensione di tipo 2 e 3, consigliato per ipertensione di tipo 1 solo se presente iniziale danno d’organo). La terapia farmacologica vede l’assunzione di combinazioni di farmaci, tra cui le combinazioni più utilizzate saranno sartanici o ACE-inibitori con diuretici/calcio antagonisti (mai si dovranno combinare ACE-inibitore e sartani insieme) mentre, per ipertensioni più complicate, si può somministrare la tripletta di ACE-inibitore/sartani + calcio antagonista + diuretico. Nel caso di ipertensione resistente, oltre alla tripletta si somministrano anche i betabloccanti o lo spironolattone (altro diuretico). Per la somministrazione di questi farmaci, bisogna attenzionare anche le controindicazioni di questi: i sartani e ACE-inibitori non dovranno essere somministrati a donne gravide, pazienti con iperkaliemia o angioedema e stenosi delle vie renali, i calcio antagonisti non diidropiridinici non devono essere somministrati a pazienti con alterazioni del ritmo o bradicardia, i betabloccanti a soggetti asmatici e i diuretici a pazienti con la gotta. Ipertensione secondaria: bisogna avere il dubbio diagnostico per l’identificazione precoce sulle possibili cause di insorgenza dell’ipertensione secondaria per cui, la guarigione della patologia primaria presente, determinerà la guarigione dall’ipertensione. Risulta essere più tipica di pazienti giovani che presentano ipertensione di tipo 2 o 3 e si ritrovano disfunzioni ghiandolari con alterazioni endocrine, problemi renali o anche apnee ostruttive (OSAS) oppure ancora ipertensione associata a farmaci come antinfiammatori o droghe. Emergenza e urgenza ipertensiva: si ha la prima con un danno d’organo determinato dall’ipertensione mentre la seconda vede l’esclusione dell’ipertensione come causa di danno d’organo. Tra i quadri patologici associati alle emergenze ritroviamo danni agli organi nobili, tra cui ictus emorragico o ischemico, ipertensione maligna, sindromi coronariche acute, infarto, edema polmonare acuto, dissezione dell’aorta o emorragia della retina piuttosto che insufficienza renale acuta. Nel caso delle emergenze, l’obiettivo primario è operare nella diminuzione della PA mentre, nelle urgenze, si mira ad un graduale abbassamento della PA tramite farmaci per via orale (si ha uno spazio di tempo di operazione anche più grande rispetto all’emergenza). Aterosclerosi È un processo multistep progressivo che comporta un ispessimento intimale vasale con perdita di elasticità di arterie di medio e grosso calibro. Si ha la formazione della placca aterosclerotica o ateroma, costituita da un accumulo di materiale lipidico (LDL ox) ed è la prima causa di morte nel mondo. Si individuano diversi fattori di rischio modificabili e non modificabili: tra i non modificabili vi è l’età, la predisposizione genetica e il sesso (colpisce più gli uomini sotto i 50 anni e poi diventa speculare tra uomo e donna dopo i 50 per calo di estrogeni) mentre tra i modificabili si riscontra l’alimentazione, ipertensione, diabete, ipercolesterolemia, omocisteina elevata, fumo di sigaretta e inattività fisica. La patologia insorge in seguito ad un danno endoteliale con flogosi e, dunque, non è correlato solo all’accumulo di LDL ossidate: si ha un richiamo di monociti grazie ai fattori chemiotattici rilasciati dall’endotelio come l’MCP-1 e produzione di citochine infiammatorie. I monociti reclutati si convertiranno in macrofagi e fagociteranno le LDL tramite riconoscimento con i recettori scavenger e si modificherà il loro aspetto a causa dell’enorme assunzione di LDL diventando foam cells e si depositeranno nella parete intima vasale causando la formazione di strie lipidiche costituite quindi da foam cells e da altri lipidi depositati. Nel frattempo si avrà la migrazione di cellule muscolari lisce dalla tonaca media alla tonaca intima del vaso e saranno deputati alla produzione di matrice extracellulare che avvolgerà l’ateroma formando un cappuccio fibroso; si avrà la formazione di due possibili placche, una definita stabile che rimane fissa alla parete vasale ed è caratterizzata da un ingrandimento progressivo molto lento che permette un’organizzazione di nuovi vasi formando circolazioni parallele senza indurre particolari danni o sintomatologie, e una placca definita instabile, di dimensioni più piccole e con un cappuccio fibroso meno rappresentato che non garantirà una salda adesione alla parete vasale e saranno i più pericolosi portando a quadri di infarto o embolia o, in generale, di CAD (coronary artery disease). Da ricordare anche che l’endotelio è il punto cardine dell’aterosclerosi grazie alle sue funzioni svolte di produzione di citochine infiammatorie, chemochine di richiamo ma anche di fattori pro-coagulanti in seguito a lesioni vasali e le porzioni più a rischio di formazione di ateroma saranno quelle in cui si ha un moto più turbolento del sangue come nelle biforcazioni carotidee. La presenza di proteine di fase acuta come la PCR o la PTX3 sono fattori rilevanti per identificare pazienti ad alto rischio aterosclerotico e aiutano anche ad effettuare diagnosi di aterosclerosi a causa della loro capacità di legare le LDL ox e di attivare la via alternativa del complemento per la clearance di queste placche. Protagoniste dell’evento aterosclerotico sono anche le cellule linfocitarie che comunicano con il macrofago tramite interazione CD40-CD40l con produzione di IFN-gamma che attiveranno il macrofago alla produzione di MMP e inibisce la produzione di collagene con un fine generale di rompere il cappuccio fibroso ed esporre le LDL ox per i macrofagi comportando, però, un aumento del rischio di distacco della placca dal vaso. Si possono avere episodi anche di trombosi dovuto a danni endoteliali e i fattori di rischio entrano in quella che è la triade di Virchow, ovvero ipercoagulabilità su base ereditaria, variazioni emodinamiche e lesioni o disfunzioni endoteliali: il trombo sarà una massa solida costituita da una rete di fibrina prodotta dalle piastrine che può veder coinvolto anche cellule del sangue come le emazie e leucociti e può determinare l’occlusione del vaso nel punto in cui si ha la formazione. Se la formazione è lenta, si può creare un circolo collaterale; si possono avere diverse conclusioni con eliminazione del trombo grazie ad enzimi fibrinolitici, accrescimento e ostruzione vasale o embolizzazione (distacco del trombo dalla sede). L’embolia vede il distacco del trombo dalla sede e il trasporto fino ad occlusione di un vaso dello stesso calibro dell’embolo: possono essere di diversa natura tra cui emboli solidi (coaguli di sangue), emboli liquidi come grumi di liquido amniotico o di natura gassosa (tipica di chi fa sub) o lipidica (grumi di grasso). Cardiopatia ischemica È una condizione fisiopatologica in cui si osserva una riduzione dell’apporto ematico (ipoperfusione) in corrispondenza del tessuto miocardico con il coinvolgimento del sistema coronarico. L’ipoperfusione determina una serie di eventi a cascata dove si osservano conseguenze prima metaboliche (acidosi), poi funzionali (disfunzione diastolica con ridotto rilassamento delle camere), cliniche (ipocinesia) e, infine, comportano un’alterazione del tracciato dell’ECG con comparsa del sintomo anginoso. L’alterazione funzionale, inoltre, vede l’alterazione della cinetica cardiaca, osservabile tramite ecocardiogramma. È una patologia molto frequente con elevato tasso di mortalità, spesso associato ad una non curanza dello stile di vita e dell’esposizione ai fattori di rischio, tra cui identificheremo la concentrazione delle LDL, comorbidità come il diabete mellito (non modificabile), il fumo e l’ipertensione arteriosa. Cause: si hanno diverse possibilità che vedono un alterato apporto di ossigeno, identificando una riduzione fisica dell’apporto ematico (aterosclerosi, vasospasmo, embolia coronarica, arteriti o stenosi degli orifizi coronarici), alterazioni della concentrazione di O2 in seguito ad anemia o aumento della domanda di O2 come in caso di ipertrofia miocardica di tipo ipertensivo o valvolare o concentrica dell’atleta. La causa più frequente è l’aterosclerosi, in cui si vede la rottura del cappuccio fibroso della placca determinando la formazione della lesione complicata con formazione di trombosi che potrà essere occludente parziale o totale. Indicazioni alla diagnosi di cardiopatia ischemica Si effettuano diversi step al fine di permettere il riconoscimento di pazienti ad alto, medio o basso rischio di cardiopatia ischemica nel momento in cui presentino o meno una particolare sintomatologia o che siano esposti a definiti fattori di rischio; si riconoscono 6 step diagnostici per cui nello step 1 si avrà un esame clinico con analisi della sintomatologia del paziente e si evidenzia eventuale angina stabile o instabile, in un secondo step si analizzeranno i fattori di rischio a cui si pone il paziente ed eventuali comorbidità come presenza di diabete, nello step 3 si effettuerà la visita clinica con ECG, esami ematologici e radiografia al torace, nello step 4 si valuterà la probabilità pre-test (PTP) per le malattie cardiovascolari, nello step 5 si utilizzeranno esami diagnostici definitivi come la CT scan, risonanza magnetica, TAC o angiografia invasiva e, infine, nello step 6, si valuterà la terapia farmacologica. La PTP si basa su diversi fattori, tra cui sintomatologia (angina e dispnea), fattori di rischio, età e sesso, alterazioni all’ECG, calcium score e prova da sforzo alterata oltre che presenza di dolore tipico o atipico per cui, il rischio cardiovascolare, verrà indicato con una percentuale. L’utilizzo dei test diagnostici cambia anche a seconda del valore della PTP del paziente, in quanto pazienti ad alto rischio verranno inviati all’esecuzione diretta di test diagnostici altamente specifici e sensibili come l’angiografia invasiva e valutazione dell’FFR (functional flow reserve, permette di valutare indirettamente il flusso trans-stenotico tramite l’analisi del gradiente pressorio a monte e a valle della stenosi) mentre, per pazienti a basso rischio, si consiglia di effettuare prima, piuttosto, la CT scan per cui si valuterà la concentrazione di calcio all’interno delle cellule miocardiche o imaging nucleare (tecniche non molto invasive e con alta specificità). Altro esame che si valuta è la prova da sforzo che, però, non è in grado di valutare correttamente pazienti a rischio intermedio ma, piuttosto, si utilizza al fine di esclusione della patologia nei pazienti a basso rischio o di conferma in quelli ad alto rischio mentre, per la diagnosi nei pazienti intermedi, è più consigliabile la CT scan. Indicazioni al trattamento: si effettuano due trattamenti invasivi, ovvero l’angioplastica e il bypass. Negli ultimi tempi si predilige l’uso dell’angioplastica ma il bypass, secondo le linee guida, viene sempre favorito nel momento in cui il paziente ha necessità di effettuare altri interventi di cardiochirurgia o se questo è un paziente diabetico. Per la valutazione dell’esecuzione di angioplastica o bypass si valuterà il SYNTAX score, per cui si identificheranno pazienti ad alto rischio di morte a 5 anni in seguito ad angioplastica e pazienti a basso rischio: il SYNTAX score vede non solo le condizioni anatomiche delle coronarie del paziente ma anche la valutazione clinica del paziente come età, comorbidità, complicanze polmonari, sesso o vasculopatie periferiche. Tramite SYNTAX score l’angioplastica sarà indicata per pazienti a basso rischio e non diabetici (anche pazienti particolarmente fragili e per vasi di piccole dimensioni) mentre il bypass vede l’utilizzo maggiore per pazienti ad alto rischio (SYNTAX > 32 per TC o > 22 per i tre vasi) e vede la massima indicazione per il paziente diabetico. Angina refrattaria Vede una sintomatologia dolorosa anginosa anche in seguito al trattamento con angioplastica o bypass e vede l’interessamento dei piccoli vasi coronarici comportando ischemia per una regione maggiore al 10%. Quest’angina non è responsiva all’utilizzo dei classici farmaci antiaggreganti e anticoagulanti ma richiede o l’utilizzo di ulteriori farmaci come i coronaroattivi che aumentano la capacità di perfusione dei vasi coronarici oppure l’utilizzo interventistico che, però, non sempre è eseguibile soprattutto nei vasi di piccolissimo calibro per cui, se il quadro è più complesso con interessamento più diffuso, si può optare per altri sistemi come l’utilizzo del reducer del seno coronarico che indurrà la formazione di circoli collaterali tramite aumento del ritorno venoso oppure il taglio dei nervi con abolizione della sintomatologia. Prova da sforzo Vede il test ergometrico che viene eseguito sui pazienti con sospetta ischemia miocardica e viene considerato come test di primo livello. Insieme al test verrà effettuato l’ECG per valutare la comparsa di alterazioni nella conduzione elettrica e si otterranno risultati negativi (si valuta o meno se effettuare un esame di secondo livello a seconda del pre-test), dubbi (paziente con forte sospetto di ischemia ma non sono presenti alterazioni all’ECG) in cui si valuta il pre-test del paziente e si deciderà se effettuare solamente un follow up, utilizzare una terapia medica con follow up o mandare il paziente a coronarografia oppure test positivi (si manda sempre ad effettuare un’angiografia). La prova da sforzo viene utilizzata per la diagnosi di ischemia in pazienti anginosi, pazienti con dispnea da sforzo, pazienti con pregressa manifestazione ischemica (per cui si valuta il quadro ischemico), valutazione dei trattamenti terapeutici, pazienti che praticano attività sportiva, aritmie da sforzo o pazienti scompensati mentre non viene consigliata per pazienti con angina pre-infartuale, infarto in corso, pazienti impossibilitati alla deambulazione o con ipertensione incontrollata. Si possono, inoltre, ottenere dei falsi risultati con falsi positivi dettati dall’utilizzo di digitale, ipo/iper kaliemia/calcemia o ancora miocarditi o pericarditi che determinano alterazioni dell’ECG con slivellamenti del tratto ST oppure falsi negativi, osservati soprattutto in associazione ad una bassa FC registrata. Si effettuano due tipologie di test da sforzo, ovvero tramite cicloergometro (bicicletta) per cui si aumenterà lo sforzo fisico da parte del paziente ogni 2-3 minuti fino ad una frequenza cardiaca massimale ricercata oppure tramite test col tappeto rotante in cui si distingueranno diversi protocolli di sforzo che potranno essere più o meno pesanti tra cui il Balke, Ellestad e Astrand (più pesanti con inclinazione del tappeto rotante marcata al fine di avere un maggior consumo di ossigeno e sforzo muscolare) piuttosto che il Bruce o Bruce modificato (più leggeri). La positività per ischemia miocardica sarà certa quando si avrà uno slivellamento del tratto ST di almeno 1 mm con andamento rigido o discendente oppure di 2 mm con andamento anche ascendente e con una durata superiore ai 0.08 secondi e, soprattutto, se accompagnato da sintomatologia anginosa o dispneica. Da qui si valuterà il quadro di ischemia del paziente analizzando l’entità dello sforzo in cui è comparso lo slivellamento, l’entità dello slivellamento stesso, la FC e pressione arteriosa al momento della comparsa (il paziente viene subito fermato), presenza di aritmie e derivazioni in cui si presenta lo slivellamento. Ecocardiogramma da stress Si effettua al fine di valutare con più accuratezza la diagnosi di cardiopatia ischemica e si può effettuare tramite ecocardiogramma subito dopo una prova da sforzo o piuttosto dopo somministrazione di farmaci come la dobutamina o il dipirimadolo (il primo è un farmaco inotropo positivo mentre il secondo è un vasodilatatore). L’azione di questi farmaci è quella di mimare una prova da sforzo in quei pazienti in cui la prova da sforzo classica non può essere effettuata come nel caso di pazienti che non sono in grado di deambulare e si valuta la presenza di ipocinesie o acinesie piuttosto che discinesie in seguito al danno ischemico. Il test vede la somministrazione crescente graduale di farmaco da un dosaggio di 10 mg/kg fino a 40 mg/kg con dosaggio crescente per minuto oppure fino alla comparsa di anomalie all’ecocardiogramma. In seguito al dosaggio della dobutamina si può anche valutare la componente vitale residua del tessuto necrotico in quanto può verificarsi un’evoluzione di un’acinesia in ipocinesia, simbolo di attività vitale residua (non tutto il tessuto miocardico in questione è diventato necrotico) ma l’aumento della dose di dobutamina, richiedendo un maggior apporto metabolico, può determinare un aggravamento del danno ischemico comportando la necrosi anche della componente vitale. Scintigrafia perfusionale da stress Vede un’ulteriore metodica diagnostica per la valutazione della funzionalità miocardica tramite inoculazione di un radiofarmaco che viene captato dalle cellule miocardiche ed esecuzione di una risonanza magnetica per cui si valuterà la captazione del farmaco in condizioni sia di stress che di riposo e si effettuerà il confronto: se nel test da sforzo è presente una ipocaptazione, si dovrà valutare a riposo se si tratta di una ischemia (la risonanza mostrerà captazione a riposo), necrosi (non ci sarà comunque captazione) o necrosi con ischemia (è il passaggio da ischemia a necrosi con riduzione della captazione). Questo test viene quindi effettuato come esame di secondo livello (dopo la prova da sforzo), spesso anche sfruttando la somministrazione di dobutamina o dipirimadolo al fine diagnostico di cardiopatia ischemica, di valutazione dell’estensione e del grado di ischemia ma anche di valutazione dell’angioplastica o bypass. Scompenso cardiaco È uno stato fisiopatologico in cui il cuore non riesce a pompare adeguatamente sangue in base alle richieste metaboliche dell’organismo e che può essere determinato da una riduzione della forza contrattile o ad un aumento del carico di lavoro. Epidemiologia: vede una notevole componente della popolazione mondiale, circa 2 milioni solamente in Italia, di cui circa 1/3 richiede un’ospedalizzazione annuale con una degenza notevole di anche 12 giorni. L’aumento dell’incidenza di scompenso cardiaco è dovuto all’aumento dell’età media della popolazione, per cui si riconosce come sia una patologia altamente diffusa tra i pazienti geriatrici, tanto che circa il 20% vermiforme, determina la perdita di funzionalità contrattile atriale, con riduzione del contributo atriale di sangue al ventricolo (perdita del 10% del volume di sangue che passa al ventricolo); però, la fibrillazione atriale rimane limitata all’atrio in quanto il segnale elettrico viene filtrato al livello del nodo atrioventricolare per cui il ventricolo non verrà influenzato e la manifestazione clinica sarà la comparsa di astenia (soprattutto nell’anziano) e poliuria. La fibrillazione atriale, determinando a lungo andare una paresi delle pareti atriali, determina una stasi ematica in corrispondenza delle auricole (maggiormente lì) che favorirà la formazione di trombi che possono essere reimmessi in circolo e comportare ictus soprattutto nel distretto cerebrale. La genesi della FA è multifattoriale, tanto che si vede spesso associata ad altre condizioni e comorbidità determinando un aggravamento della condizione: la FA si presenta con un corso evolutivo, partendo da episodi parossistici minori di 48 ore fino ad episodi persistenti, anche di lunga durata e infine permanente. Il nodo ectopico atriale si è visto essere localizzato in corrispondenza delle vene polmonari in atrio sinistro che presentano circuiti multipli di microrientro in grado di emettere impulsi ad alta frequenza e che determinano la contrazione casuale dell’atrio comportando, nel tempo, ad una paralisi della muscolatura atriale con stasi ematica soprattutto nell’auricola. Il paziente, all’anamnesi e all’ECG, soprattutto nel momento in cui manifesti unicamente FA parossistiche, non sempre mostrerà il tipico tracciato di FA per cui è sempre meglio effettuare un holter 24h nel momento in cui questo sia negativo e che, in presenza di FA, mostrerà la scomparsa delle onde P che vengono sostituite dalle onde F che mimano il comportamento delle onde P ma che non indicano una corretta conduzione elettrica in atrio. Il trattamento vede la somministrazione di farmaci anticoagulanti orali oppure, in caso di controindicazioni, il trattamento percutaneo con chiusura delle auricole al fine di non permettere il passaggio dei trombi lì presenti in circolo. Se il rischio è alto (CHAD-VASC score), si può utilizzare anche anticoagulanti di nuova generazione o antagonisti della vitamina K. È possibile valutare anche una terapia anti-aritmica al fine di controllare la FA con ablazione trans-catetere tramite radiofrequenza o crioenergia, consigliata soprattutto nei soggetti giovani. Flutter atriale: vede la presenza di battiti veloci (300-350 bpm) ma ordinati con tracciato definito a denti di sega. La conduzione viene rallentata in corrispondenza del nodo AV per cui si osserva la presenza di contrazioni ventricolari in maniera regolare ogni 2-3-4 contrazioni atriali ed è spesso associata alla fibrillazione atriale in quanto, a volte, la fibrillazione caotica può assumere un andamento più regolare tramutandosi in flutter. Tachicardia ventricolare: vede un’alterazione elettrica successiva ad una fase di ripolarizzazione che genera una crisi aritmica in corrispondenza ventricolare e che porta morte improvvisa se non trattata entro pochissimi secondi tramite defibrillatore (che ripristinerà la conduzione elettrica) a causa dell’arresto del flusso ematico dovuto alla contrazione vermiforme del ventricolo che sarà totalmente inefficace. Blocco nodale: è un’aritmia ipocinetica e si distinguono blocco sinusale e blocco AV per cui, nel primo caso, si avrà l’impossibilità di generare un impulso elettrico in corrispondenza del nodo SA (si utilizzerà un pacemaker) mentre nel secondo caso si avrà un’alterazione della conduzione del segnale elettrico tramite i fasci di His e si distinguono blocchi AV di primo grado (si osserva il solo allungamento del tratto PQ), di secondo grado (allungamento di PQ e assenza di complesso QRS successivo e si instaura una pausa compensatoria cadenzata con intervallo P-P regolare) e di terzo grado (intervallo P-P sempre regolare ma la frequenza del QRS è anomala, molto al di sotto della frequenza cardiaca atriale ed è il peggiore). Cardiopatie valvolari Sono una delle principali cause di scompenso cardiaco e vedono sia le condizioni di stenosi che di insufficienza delle valvole cardiache (mitrale, tricuspide e aortica/polmonare). Si classificano inoltre in acute e croniche per cui, le croniche, saranno più facilmente trattabili in quanto si attueranno meccanismi iniziali di compenso nel cuore che, a lungo andare, possono sfociare in scompenso. Stenosi mitralica: vede la riduzione del lume della valvola mitrale per una superficie minore di 2 cm2 quando, fisiologicamente, si aggira intorno ai 4-6 cm2. Si distingueranno stenosi lievi, moderate e severe per valori compresi tra 2-1.5, 1.5-1 e minori di 1 cm2. L’eziologia vede tre diverse cause, tra cui quelle congenite (rare), reumatiche (soprattutto nelle donne tra 30 e 40 anni) e degenerativa con calcificazione dell’anulus mitralico (tipico degli anziani); nella fisiopatologia si osserva l’aumento della pressione atriale sx per valori superiori ai 25 mmHg che determinerà la comparsa della prima sintomatologia con ipertensione post- capillare polmonare (determinano dispnea, in caso di rottura daranno anche emottisi) che, nel tempo, determineranno una ipertensione anche pre-capillare che darà un paradossale miglioramento delle condizioni del paziente in quanto si avrà una parziale risoluzione della congestione venosa polmonare dettata dall’aumento di pressione pre-capillare (si risolverà anche la dispnea) ma che si assocerà ad una condizione di insufficienza cardiaca destra (in totale si avrà scompenso sia sinistro che destro). La diagnosi avviene, dopo esame obiettivo in cui si avrà un rinforzo del primo tono e rullio diastolico dovuto al moto turbolento del sangue, tramite esecuzione dei tre test diagnostici per eccellenza, ovvero ECG, radiografia ed ecocardiogramma color-doppler: all’ECG vedremo la comparsa di un’onda P bifasica negativa e sarà slargata con conduzione superiore ai 0.12 sec e si può osservare possibile fibrillazione atriale, alla radiografia si osserverà un doppio contorno dell’atrio sx e possibilmente anche dell’atrio dx e si può osservare congestione polmonare e possibili versamenti pleurici mentre, all’ecocolordoppler (esame per eccellenza in tutte le valvulopatie) si vedrà lo stato della stenosi, eventuale presenza di insufficienza concomitante, eventuali trombi in atrio sx e si determinerà la causa della genesi di eventuale fibrillazione atriale. La terapia vede il trattamento interventistico o chirurgico a seconda delle condizioni della valvola per cui l’interventistica percutanea con valvuloplastica è indicata per valvole poco calcificate, mobili e flessibili mentre la sostituzione chirurgica è indicata per valvole calcificate o in presenza di trombi in atrio sx. Insufficienza mitralica: vede la chiusura inadeguata della valvola mitralica che determinerà un rigurgito in atrio sx e si distinguono in acute dovute a rottura di muscoli papillari o corde tendinee (quasi sempre dopo IMA) e croniche (prolasso della valvola mitrale da dilatazione ventricolare nell’anziano). Il danno valvolare può essere dovuto a condizioni reumatiche (valvulite reumatica), dilatazione dell’anulus mitralico, rottura di cordee tendinee o di muscoli papillari; nell’insufficienza mitralica cronica si osserva l’attivazione di meccanismi di compenso, ovvero della dilatazione della camera ventricolare al fine di accogliere più sangue in quanto, in condizioni normali, il rigurgito determinerebbe una diminuzione della gittata sistolica per cui, il rigurgito non influirà particolarmente nella riduzione della gittata sistolica. A lungo andare, però, si avrà una dilatazione talmente importante che le corde tendinee non saranno più in grado di tenere, per cui il rigurgito sarà nuovamente notevole per cui si avrà il calo della gittata sistolica comportando aumento di pressione atriale sx e tutti i sintomi associati allo scompenso anterogrado (astenia e affaticamento) e retrogrado (dispnea). Per la diagnosi sarà fondamentale l’esame obiettivo in cui si avrà la diminuzione del primo tono, itto iperdinamico posto più a sx e inferiormente e si può apprezzare il soffio sistolico dato dal rigurgito e, dopo, si effettuerà l’esecuzione di ECG con onda P più lunga e onda R elevata in V5 e V6, all’esame radiografico si osserva doppio spessore atriale e all’ecocolordoppler si avrà una stima della severità del rigurgito, stato di ipertensione polmonare, ventricolo dx e anche di calcolo della velocità di rigurgito e l’area dell’orifizio da cui fuoriesce. La terapia vede sia l’uso di farmaci betabloccanti per FE < 30% che intervento chirurgico per FE > 30% (maggiore chance di successo senza complicanze) nel caso in cui sia presente sintomatologia mentre, in caso di asintomatici, la terapia chirurgica è indicato per pazienti con FE < 60% o con diametro telesistolico ventricolare sinistro > 40-45 mm oppure ancora per pressione sistolica polmonare > 50 mmHg o in caso di fibrillazione atriale presente. Il trattamento chirurgico vede sia la riparazione tramite plastica mitralica con anuloplastica o edge to edge con mitraclip al fine di ridurre il rigurgito il più possibile piuttosto che la sostituzione della valvola. Prolasso della valvola mitrale: è la protrusione di uno o entrambi i lembi valvolari in atrio sx che si presenteranno come mixomatosi ed è associato a condizioni ereditarie o a patologie del connettivo piuttosto che cardiache. Si presenta all’esame obiettivo un click mesosistolico (non protosistolico ma più tardivo) e si avverte un soffio sistolico tardivo e la diagnosi viene effettuata tramite ecocolordoppler che evidenzierà il prolasso (ECG e RX sono inutili). La terapia vede l’uso di betabloccanti a basso dosaggio. Stenosi della valvola aortica: vede la diminuzione del lume valvolare per cause degenerative o di malformazioni congenite (più frequente nei giovani) e che costringe il ventricolo sinistro ad una aumentata forza di contrazione che, in senso cronico, determinerà un meccanismo di compenso con ipertrofia concentrica che sarà adeguato solo nelle prime fasi di malattia e che caratterizzerà uno scompenso nelle fasi più avanzate in quanto si avrà la diminuzione del volume ventricolare e l’impossibilità di soddisfare le richieste metaboliche da parte delle coronarie oltre che determinare una maggior rigidità delle pareti miocardiche con conseguente riduzione della capacità diastolica. Tra la sintomatologia ritroveremo dispnea ed edema polmonare acuto oltre che angor e sincope in seguito ad esercizio fisico. All’esame obiettivo si può assistere allo sdoppiamento del secondo tono e alla comparsa di un soffio aspro udibile al focolaio aortico; all’ECG si osserverà un’onda R ad alto voltaggio in V5 e V6 accompagnata da un’onda T negativa e l’esame diagnostico per eccellenza rimarrà l’ecocolordoppler con cui osserveremo il grado della stenosi e il gradiente pressorio. La terapia vede sia l’uso di farmaci betabloccanti ed è sconsigliato l’uso di vasodilatatori (può causare sincope) mentre dal punto di vista interventistico si può operare con sostituzione della valvola (SAVR) o utilizzo di un impianto valvolare transcatetere (TAVI): la SAVR è indicata per pazienti con età inferiore ai 75 anni o in caso di endocardite o asse iliaco-femorale particolarmente piccolo (la TAVI richiede l’uso di un catetere molto spesso) ma presenza un tempo di degenza particolarmente lungo rispetto al TAVI con 3 giorni di degenza. Insufficienza aortica: è la seconda causa principale di scompenso cardiaco dopo la cardiopatia ischemica e può avvenire con interessamento diretto della valvola tricuspide come nella valvulopatia reumatica con retrazione dei lembi (spesso associato anche a stenosi) o perforazione in caso di endocardite infettiva oppure per interessamento della radice aortica con dilatazione dell’aorta e dell’anulus aortico dovuto ad ipertensione arteriosa, connettivopatie o dissezione aortica. Il meccanismo di compenso iniziale vede la dilatazione ventricolare al fine di permettere una maggior immissione di sangue nell’aorta compensando il rigurgito in fase diastolica e questo meccanismo sarà ottimale per molti anni per cui non si avrà sintomatologia; all’esame obiettivo si assiste ad un polso arterioso ampio e celere, si osserverà una differenza pressoria tra pressione sistolica e diastolica molto elevata (pressione sistolica elevata e pressione diastolica molto bassa) e la presenza di un soffio diastolico dolce da rigurgito in corrispondenza del focolaio di Erb mentre all’ECG si osserverà la comparsa di onde T molto alte nelle precordiali sinistre. Si utilizza un trattamento farmacologico con calcio-antagonisti e diuretici oppure, in insufficienze aortiche severe o acute, la sostituzione con protesi valvolari. Endocardite È l’infezione dell’endotelio cardiaco, spesso associato ad infezione di natura più batterica che virale. Si ha un danno al livello dell’endocardio, che potrà essere sia un danno ex-novo (come nelle endocarditi da stafilococcus aureus) sia un danno indotto da valvulopatie o protesi che viene normalmente riparato con Embolia polmonare È l’ostruzione acuta, completa o parziale di uno o più rami dell’arteria polmonare da parte di materiale embolico solitamente extrapolmonare, spesso derivante da una trombosi venosa profonda (TVP) e con alto rischio di recidiva. Epidemiologia ed eziologia: vede coinvolta maggiormente la popolazione anziana over 80 sebbene siano presenti numerosi fattori di alto rischio che possono comprendere anche altre fasce della popolazione e tra le diverse cause ritroviamo la formazione di emboli di diversa natura, dagli emboli da stasi (più comuni), emboli di grasso (in seguito a rottura di ossa lunghe o piatte, derivanti dal midollo), emboli di amnios, emboli settici, gassosi o tumorali. Fattori di rischio: vi sono numerosi fattori di rischio che vengono classificati come ad alto, medio e basso rischio. Tra quelli ad alto rischio ritroviamo fratture, TVP, paralisi, ospedalizzazione per FA, interventi al femore o ginocchio, terapie che necessitano di allettamento a lungo termine oppure ancora infarto miocardico mentre tra i fattori di rischio intermedi ritroviamo infezioni, tumori, cateteri venosi, trasfusioni mentre tra i fattori a basso rischio vediamo allettamento per più di tre giorni, età avanzata e obesità. Fisiopatologia: si osserva come l’ostruzione embolica determina un blocco di almeno il 30% del letto arterioso polmonare e si vede l’attivazione di un meccanismo riflesso di vasocostrizione ipossica con aumento delle resistenze vascolari polmonari con conseguente riduzione della perfusione polmonare con alterazione del rapporto di ventilazione/perfusione. D’altra parte, si vede come l’aumento delle resistenze vascolari polmonari determini una richiesta contrattile maggiore al fine di generare una pressione maggiore da parte del ventricolo destro ma si osserva come il ventricolo non sarà in grado di vincere il sovraccarico per cui si genererà una dilatazione del ventricolo che comportano un aumento della richiesta metabolica e, di conseguenza, ischemia del ventricolo destro. Questo determinerà una perdita irreversibile della contrattilità cardiaca comportando, successivamente, lo shock cardiogeno con morte. Clinica: il paziente si presenterà con dolore toracico che potrà essere o simil pleuritico o simil infartuale, sempre presente la dispnea e possibile tosse con emottisi dovuto all’aumento della tensione delle pareti vasali polmonari con facile rottura. Si può osservare versamento pleurico, turgore delle giugulari, tachicardia, ipocapnia e ipossia, ipotensione e cianosi. Diagnosi: all’ECG si osserverà un quadro caratteristico con sindrome di McGinn con onda S profonda in D1, onda Q patologica in D3 e onda T invertita in V3, aspetto simil infartuale in D3 e aVF (derivazioni inferiori) ma non presente in D2 (importante) e onda T negativa anche in V1 e V4. L’assenza di alterazioni in D2 permette di fare diagnosi differenziale da una condizione infartuale vera in quanto nell’infarto delle porzioni inferiori si ha il coinvolgimento di D2. L’iter diagnostico si eseguirà in due diverse metodiche a seconda se è presente l’instabilità emodinamica, ovvero ipotensione persistente e shock ostruttivo (PAS < 90, ipoperfusione diffusa con alterazione dello stato di coscienza e freddo) che comportano rapidamente l’arresto cardiaco, o se questa non è presente: si effettuerà l’ecocardiogramma per effettuare rapidamente diagnosi differenziale, mettendo in risalto la dilatazione ventricolare dx e si valuta la disfunzione e, se presente la disfunzione, si effettua immediatamente la CTPA (angiografia e tomografia polmonare computerizzata). Si può effettuare anche l’ecocolordoppler transtoracico per valutare altri aspetti della disfunzione ventricolare così come l’aumento delle dimensioni della vena cava inferiore. In caso di assenza di instabilità emodinamica bisognerà valutare il rischio del paziente, se alto, intermedio o basso tramite lo score di Ginevra che valuta l’età, FC e stato di salute del paziente come presenza di emottisi, cancro attivo, edema degli arti inferiori, eventuale frattura ossea o dolore ad un arto inferiore. Nel paziente a basso-medio rischio si effettuerà il test di ricerca del D-dimero, un prodotto della fibrinolisi che viene rilasciato al livello ematico altamente sensibile ma poco specifico nel momento in cui siano presenti processi fibrinolitici nel corpo ed è poco specifico in quanto si vede come il valore del D-dimero aumenti con l’aumentare dell’età, in particolare sopra i 60 anni per cui, solo se il valore è negativo, si avrà con certezza l’esclusione di embolia polmonare. Nel paziente ad alto rischio o positivo al D-dimero si effettuerà l’angio TC (non effettuabile in donne in gravidanza, pazienti ipertiroidei o con insufficienza renale), sempre dopo esecuzione dell’ECG. Prognosi: non appena si ha la diagnosi di embolia polmonare, bisognerà valutare il rischio di mortalità tramite valutazione per imaging (CTPA) o con ricerca di biomarcatori come le troponine, il pro-BNP e i lattati (stessa ricerca per danno ischemico); si avrà quindi la distinzione di pazienti ad alto rischio di mortalità precoce in cui sarà presente instabilità emodinamica e alterazione dei parametri clinici con score PESI elevato (utile per la valutazione del rischio), pazienti a rischio intermedio (simili ad alto rischio ma senza instabilità emodinamica) e pazienti a basso rischio (presentano solo qualche parametro alterato). Trattamento: per i pazienti ad alto rischio in fase acuta si effettuerà una terapia trombolitica con supporto emodinamico oppure, se non possibile la terapia trombolitica, l’embolectomia chirurgica. Per casi di sospetta embolia polmonare ad alto rischio si effettuerà la somministrazione tempestiva di eparina prima ancora di effettuare l’ECG e, in seguito infondere farmaci inotropi e vasopressori; dopo l’esame del CTPA si potrà effettuare terapia di riperfusione con terapia trombolitica farmacologica o chirurgica. I pazienti a rischio intermedio e basso vedono la somministrazione unica di eparina o di warfarin (vitamina k antagonista) e si valuterà, nell’intermedio, se è necessaria l’ospedalizzazione o meno; si effettuerà la valutazione periodica ogni 2-3 giorni della conta piastrinica e si vedrà se effettuare la somministrazione di anticoagulanti di nuova generazione o se applicare i filtri cavali (si effettua nei pazienti con TVP). Forame ovale pervio (PFO) È una condizione anatomica atipica caratterizzata dalla pervietà del forame ovale che, normalmente, va incontro a chiusura in età prenatale ma che, in questo caso, vede la mancanza della fusione del septum primum e del septum secundum per cui si avrà il passaggio di sangue dall’atrio destro all’atrio sinistro. Vede una prevalenza di circa il 25% della popolazione e vede una familiarità. Il passaggio di sangue avviene dall’atrio destro all’atrio sinistro sebbene siano presenti regimi pressori che, normalmente, dovrebbero garantire il flusso opposto ma si osserva la presenza di un meccanismo valvolare che impedisce il passaggio dall’atrio sinistro all’atrio destro di sangue ma che garantisce l’opposto; si può verificare un’altra condizione che colpisce il forame ovale che è l’ASD, determinata dalla presenza di un foro nel forame ovale che permetterà il passaggio di sangue dall’atrio sinistro al destro in quanto mancherà il sistema valvolare. Quello che caratterizza il rischio del PFO è il possibile passaggio di micro-emboli dall’atrio di destra all’atrio di sinistra promuovendo quindi il passaggio di questi al livello cerebrale; risulta essere, infatti, una delle cause più comuni di TIA o di ictus, riscontrati frequentemente nei soggetti che praticano sub. L’iter diagnostico viene effettuato a partire dal TIA o dall’ictus per cui si andrà ad indagare per prime le cause più comuni come la ricerca di lesioni aterosclerotiche cerebrali, fibrillazioni atriali o ancora infarto del miocardio (cause di formazione di trombi) e, solo dopo queste, si procede all’iter diagnostico per il PFO: si effettueranno ecografie transtoraciche ed ecografia transcraniale con uso di mezzo di contrasto e, se queste sono positive per PFO e presenza di micro-emboli, si procederà con un’ecografia transesofagea con contrasto per la conferma. Si valuta poi il rischio di ictus paradosso tramite RoPE score, per cui si considererà la storia clinica del paziente e l’età per cui soggetti giovani che non presentano storia clinica di ipertensione, infarti, diabete, TIA e non fumatori avranno il massimo valore di rischio di incorrere ad ictus paradosso rispetto ad individui anziani con patologie cardiovascolari. Il trattamento vede una terapia farmacologica a base di cardioaspirina per eliminare eventuali microemboli oppure un trattamento percutaneo nel caso di pazienti ad alto rischio, possibilmente giovani, o quando la cardioaspirina è controindicata con inserimento di device in corrispondenza del forame e terapia antiaggregante per 6 mesi + terapia trombolitica per un anno. Chirurgia Vascolare Aneurisma dell’aorta addominale Vede l’aumento del diametro di almeno il 50% del lume vasale con progressiva espansione e che, se non trattata, va incontro a rottura. L’aneurisma si classifica in base alla sua morfologia e localizzazione, per cui si distinguono aneurismi sacciformi (aumento del diametro tale che viene paragonato ad una sfera) o fusiformi mentre, dal punto di vista della localizzazione anatomica, distinguiamo le sovrarenali con interesse dell’arteria mesenterica superiore o tronco celiaco, le sottorenali (con presenza di un colletto, ovvero si localizza a qualche cm più in basso dell’arteria renale), iuxtarenali (in prossimità dell’arteria renale) e pararenale (interessamento dell’arteria renale). Cause: tra le cause ritroviamo forme degenerative, più comuni nella popolazione ma che vedono cause sconosciute, forme congenite associate alla sindrome di Marfan o di Ehler-Danlos, cause infiammatorie, cause traumatiche o micotiche (rare). Complicanze: la complicanza per eccellenza è la rottura con emorragia in seguito alla fuoriuscita ematica ma anche importante è il rischio di embolia distale in quanto nell’aneurisma si osserva con facilità la formazione di trombi parietali che possono migrare soprattutto in corrispondenza degli arti inferiori determinandone l’ischemia oppure ancora trombosi, paragonabile ad una trombosi da placca. La probabilità di rottura dipende da diversi fattori, principalmente dal diametro, ma si sono visti anche fattori tra cui l’ipertensione, il fumo, la morfologia con presenza di blister e insufficienza respiratoria (associata ad ipertensione); il principale determinante rimarrà comunque il diametro per cui, dettato dalla legge di Laplace, la tensione parietale è direttamente proporzione al raggio elevato alla quarta, determinando un rischio notevole di rottura per piccole variazioni del diametro. La rottura causerà un’emorragia importante che può avere diverse localizzazioni a seconda di dove avviene la rottura, distinguendo emorragie retroperitoneali (verso l’esterno), intraperitoneali (emoperitoneo, le più gravi), rottura intraduodenale con formazione di fistola aorto-duodenale (è il viscere più vicino all’aorta) o rottura con fistola aorto-cavale (in vena cava) con conseguente scompenso cardiaco destro. l’arresto totale del flusso mentre ancora, nel CMI che vede una riduzione cronica dell’apporto ematico con interessamento di almeno 2 dei 3 vasi mesenterici in seguito alla presenza di una placca aterosclerotica, è associata ad una sintomatologia che vede dolore post-prandiale, sitofobia e perdita di peso e si possono osservare perdite di sangue occulto nelle feci. Diagnosi: si utilizza l’imaging, in particolare la TAC che ci fa osservare l’ispessimento intestinale ed eventuali ematomi e pneumatosi (accumulo notevole di gas, qui in sede intestinale); si può utilizzare la risonanza magnetica ma richiede molto tempo, per cui non è eseguibile in AMI mentre il gold standard è definito dall’angiografia in quanto ci permette di valutare dove è presente l’occlusione. Nel caso della NOMI, solo l’angiografia sarà utile in quanto mostra la riduzione del lume vasale. Si può effettuare anche l’ecocolordoppler ma vede tra le controindicazioni l’incapacità di questo test di rilevare l’assetto vasale in caso di pazienti obesi ed è un esame operatore-dipendente per cui viene utilizzato maggiormente nel follow up. Trattamento: si cerca, prima di tutto, di ripristinare le condizioni del paziente e limitare l’infarto, per cui si somministreranno farmaci per compensare lo shock, fluidi e anticoagulanti. Verrà poi deciso se effettuare l’intervento per via chirurgica o per via endovascolare a seconda delle aspettative di vita del paziente e dell’anatomia: si predilige la tecnica chirurgica nel momento in cui l’anatomia vasale non permette il trattamento per endovena o le aspettative di vita sono superiori a 5 anni e con un buono status nutrizionale mentre, per aspettative di vita sotto i 5 anni o con status nutrizionale scarso, si predilige prima l’endovascolare e, poi, eventualmente il chirurgico. Sebbene il rischio di decesso intra-operatorio sia maggiore nel trattamento chirurgico, questo viene utilizzato in quanto permette di operare su più vasi contemporaneamente e non su uno solo; l’endovascolare vede anche altri effetti collaterali come la dissecazione, migrazione dello stent, embolizzazione, trombosi o ancora perforazione. Nel caso del NOMI si preferirà una terapia farmacologica con somministrazione eventuale di trombolitici o di spasmolisi loco-regionali. Dissecazione aortica Vede l’indebolimento della parete aortica che porta allo scollamento della tonaca intima dalla media con formazione di un doppio lume che verranno distinti in lume vero e lume falso. Rientra nelle sindromi aortiche acute insieme all’ulcera penetrante e l’ematoma intramurale. Fattori di rischio: vede l’ipertensione e l’età come principali fattori di rischio, tanto che il 99% dei pazienti con dissecazione aortica è iperteso e sopra i 50 anni di età e si riconoscono anche altre sindromi che possono favorire la dissecazione come la sindrome di Marfan e di Ehler-Danlos oltre che la presenza di altri fattori di rischio come le gravidanze, uso di cocaina, cause iatrogene, aterosclerosi, sindrome di Turner o patologie ereditarie valvolari. Classificazione: si distinguono tramite classificazione di Stanford e DeBakey che vedono la posizione anatomica della dissecazione nel momento in cui questa comprende l’aorta ascendente e i tratti superiori o se comprende solo l’aorta discendente. Clinica: vede un esordio improvviso e trafittivo con un dolore che tende a migrare in quanto seguirà lo scollamento dell’intima dalla media (si osserva quindi una progressione cronica della malattia) ed è associato ad ipertensione o a pseudoipotensione (si verifica nel momento in cui la membrana di dissecazione coinvolge una ramificazione come può essere l’arteria succlavia sinistra per cui, al polso sinistro, non sarà rilevabile alcun polso mentre si potrà rilevare al destro. Si potranno avere quindi diverse manifestazioni a seconda del ramo che coinvolge, da manifestazioni neurologiche, AMI o infarto del miocardio se non anche ischemia acuta degli arti. Diagnosi: si effettua l’angio-TAC che ci permetterà di visualizzare l’enter tear (punto di entrata del flusso ematico) e l’exit tear che potrà essere o intravasale o extravasale (rottura della parete con emorragia) o ancora non esserci per cui la dissecazione sarà a “cul de sac”. Si può effettuare anche la risonanza ma viene utilizzata di più nelle dissecazioni a carattere più cronico. Trattamento: si utilizzano sia metodi chirurgici che endovenosi o ancora farmacologici a seconda dei casi. Nel momento in cui si ha una dissecazione stabile e isolata e non complicata, si effettuerà una terapia farmacologica con somministrazione di farmaci al fine di abbassare la pressione arteriosa e la pressione sull’aorta così che la dissecazione non prosegua nella sua evoluzione e si effettueranno dei follow up periodici per valutare lo stato della condizione; in caso di lesioni Stanford di tipo B (distale) non complicate si potrà procedere con l’applicazione di uno stent al fine di ridurre ed eliminare l’enter tear ed aumentare il vero lume mentre, per lesioni di tipo A (prossimale) o complicate si prediligerà il trattamento chirurgico con uso di bypass. Sindrome di Leriche Vede l’occlusione dell’aorta addominale distale con coinvolgimento delle arterie iliache ed è frequente nelle giovani donne, soprattutto fumatrici, e anche all’ipercolesterolemia. Si accompagna ad una triade di sintomi con claudicatio alta di glutei o coscia, disfunzione erettile e assenza o riduzione dei polsi femorali. Clinica: il paziente può presentarsi come asintomatico, con claudicatio intermittens oppure con dolore a riposo. Diagnosi: si valuta l’indice ABI per cui si calcolerà il rapporto tra la pressione misurata in corrispondenza della caviglia e del braccio e, se il valore è compreso tra 0.4 e 1, si verificherà la claudicatio intermittens mentre, per valori sotto lo 0.4, si avrà dolore anche a riposo e alto rischio di perdere l’arto a causa della condizione ischemica avanzata. Trattamento: il trattamento è di tipo chirurgico, in quanto rientra nella classificazione TASC-D, ovvero massimo grado di complicanza della lesione. Si posizioneranno dei bypass aorto-bifemorale o aorto- bisiliaco mentre, nel caso in cui ci sia l’ostruzione completa di una iliaca, si effettua un bypass crossover femorale, da una arteria femorale all’altra. L’approccio endovascolare è poco consigliato nelle TASC-C e D ma può essere anche utilizzato. Furto della succlavia Vede l’occlusione dell’arteria succlavia sinistra o destra che comporta un’inversione di flusso nell’arteria vertebrale omolaterale che, normalmente, scarica nell’arteria basilare ma che qui scaricherà a valle dell’occlusione dell’arteria. Questa inversione di flusso determina la riduzione dell’apporto ematico in sede cerebrale e cerebellare ed è dovuta alla ridotta pressione arteriosa che vige nell’arto superiore a seguito dell’ostruzione per cui il sangue viene richiamato; il furto di sangue viene classificato come permanente quando è presente anche a riposo, intermittente se è presente solo in fase diastolica o latente se si presenta solo in seguito all’attività muscolare. È solitamente associato ad una placca aterosclerotica che determina una stenosi fino a diventare serrata più che a condizioni emboliche acute ed ha una prognosi infausta nel 70-80% dei casi mentre, nel restante 20%, si avranno severe ripercussioni sul SNC. Arteriopatie È una delle manifestazioni cliniche dell’aterosclerosi e può colpire diversi distretti, tra cui il circolo cerebrale con ictus, cardiopatie ischemiche con ischemia miocardica e angina pectoris o arteriopatie obliteranti periferiche agli arti inferiori. Le arteriopatie si classificano in 4 categorie tra cui ritroviamo le aterosclerotiche con danno della parete vasale con presenza di placca, le arteriti su base infiammatoria, arteriopatie organiche non ostruttive e arteriopatie organiche ostruttive localizzate. Nel caso delle arteriopatie obliteranti periferiche si vede come si ha la presenza di una stenosi in corrispondenza di un’arteria di grosso o medio calibro che non permette in condizioni o di solo sforzo o sia di riposo e sforzo, una portata sufficiente. Si crea dunque una condizione di ischemia cronica dei tessuti degli arti inferiori e alto rischio di comorbidità che comporta un aumento delle possibilità di aggravamento della condizione con possibile trombosi. L’epidemiologia risulta essere abbastanza rilevante in quanto colpisce circa 2,6 ogni 1000 uomini soprattutto tra la terza e sesta decade di vita e anche le donne in menopausa presentano un’incidenza simile a quella degli uomini; la prevalenza dipende anche dai fattori di rischio, tra cui ritroviamo il fumo di sigaretta e l’inattività fisica per cui questi pazienti fumatori possono avvertire inizialmente delle parestesie agli arti inferiori che saranno sinonimo di inizio patologia. La fisiopatologia dell’arteriopatia vede l’insorgenza della placca aterosclerotica maggiormente in posti ben definiti caratterizzati da un’anatomia tale che lo stress sulle pareti vasali esercitato dalla pressione ematica sia massimo come nel caso delle biforcazioni, anastomosi o curvature dei vasi e tra le sedi più interessate ritroviamo l’arteria femorale superficiale, arteria iliaca, aorta addominale e arterie della gamba. La riduzione della portata è determinata dalla legge di Poiseuille per cui la portata è data dalla differenza di pressione a monte e a valle per il raggio elevato alla quarta potenza diviso il coefficiente di viscosità ematica per cui piccole variazioni del raggio come nel caso di una stenosi determinerebbe un calo notevole della portata. In stenosi più accentuate si osserva il cambiamento del tipo di flusso da laminare in turbolento per cui si avrà anche un aggravamento delle condizioni per cui la portata diminuirà, la pressione diminuirà, la viscosità aumenterà e si avrà un aggravamento del danno endoteliale con progressiva crescita della placca aterosclerotica. prevenire episodi di embolia polmonare e vede la somministrazione di anticoagulanti ed eventuale posizionamento del filtro cavale al fine di non permettere il passaggio di emboli in sede polmonare. Ulcere: le ulcere venose sono le ulcere più frequenti negli arti inferiori e sono dovute a cause vascolari, neuropatiche o metaboliche e sono secondarie ad insufficienza venosa cronica (vene varicose e sindrome post trombotica). Si localizzano maggiormente in corrispondenza del malleolo mediale con area edematosa, iperpigmentata, eczematosa o sclerotica ed è dovuto ad un aumento di pressione intravenosa con riduzione della perfusione capillare e attivazione della risposta infiammatoria comportando la formazione di zone ipossiche che vanno incontro ad ulcerazione. La terapia vede le medicazioni delle ulcere mentre, per l’insufficienza venosa, si ha una modifica posturale con arti antideclivi e terapia farmacologica con miglioramento della funzione venosa (flavonoidi e aspirina). Ipertensione nefrovascolare È una delle cause comuni di ipertensione secondaria ed è associata ad aterosclerosi, fibromuscolodisplasia o a dissecazione aortica per cui si avrà la diminuzione della perfusione renale che determina un’azione riflessa di attivazione del sistema RAA comportando ipertensione: solitamente, quando l’altro rene non è compromesso, si attua un sistema di compenso che garantisce il mantenimento dei parametri fisiologici ma che, nel tempo, tenderà ad evolvere in un’insufficienza che comporta un aumento della pressione arteriosa rapida, soprattutto nei soggetti giovani. La diagnosi viene effettuata tramite TAC con mezzo di contrasto e all’esame obiettivo è possibile auscultare un soffio in epigastrio mentre, all’esame laboratoristico, si osserva un aumento dell’azotemia. Alla TAC si potrà osservare la stenosi e un’ipotrofia del rene coinvolto. Il trattamento è endovascolare tramite uso di stent. Piede diabetico È una patologia che insorge dopo circa 10 anni dalla comparsa del diabete mellito per cui si instaurano diverse lesioni e complicanze che comportano, se non trattate, l’amputazione dell’arto. I pazienti che subiscono l’amputazione presentano, inoltre, una bassa probabilità di sopravvivenza a 4 anni che va dal 50 al 25%. Patogenesi: si hanno alterazioni sia in corrispondenza del versante arterioso che neurologico per cui si instaureranno, da una parte, micro e macroangiopatie diabetiche in seguito a condizioni di aterosclerosi e alterata viscosità ematica mentre, d’altra parte, vediamo una polineuropatia completa con coinvolgimento sensitivo, motorio e autonomico (sindrome da iperafflusso). Il diabete, inoltre, determina di per sé una condizione di dermopatia con riduzione delle fibre elastiche che porteranno una più facile insorgenza di lesioni cutanee aumentando il rischio di infezione e si osserva anche un’azione immunosoppressiva mediata dall’alterazione della chemiotassi leucocitaria. Classificazione: si distinguono gangrena secca, gangrena umida, ulcere diabetiche, ulcere secondarie a deformità ossee e ulcere neuropatiche o mal perforante plantare. Si ritrova anche un’ulteriore classificazione (secondo Wagner) per cui si distinguono sei gradi che identificano l’evoluzione e la complessità della patologia e sono indicativi al trattamento da seguire. Diagnosi: la diagnosi strumentale segue lo stesso andamento dell’AOP ma vede alcune variazioni come nel caso dell’ABI che risulterà essere falsificato, in quanto nel diabetico si possono presentare sclerosi vasali calcificate che altereranno l’ABI; il test più consigliato sarà la valutazione della pressione parziale di O2 che ci permetterà di valutare il livello di ossigenazione del territorio e l’arteriografia piuttosto che l’ecocolordoppler (anche questo alterato). Terapia: trattandosi di una patologia multidisciplinare sarà necessaria la coordinazione tra diabetologo, chirurgo ortopedico e infettivologo; è fondamentale somministrare una terapia antibiotica in quanto le lesioni presentano un alto rischio di infezione che possono favorire la prognosi verso l’amputazione per cui si somministrano antibiotici a largo spettro ed elevata potenza. Si associa una terapia per il controllo glicemico e il trattamento locale delle lesioni. Si valuterà l’approccio terapeutico da seguire a seconda delle cause che hanno determinato il piede diabetico per cui, nel caso di alterazioni del versante arterioso, si classificherà la condizione secondo classificazione TASC e si procederà verso un trattamento endovascolare (A e B, quadri non troppo complicati) o chirurgico (C e D); altro trattamento può essere la terapia iperbarica con effetto ipoglicemizzante, ossigenoterapia, effetto vasocostrittore con riduzione di edema e iperafflusso ed effetto battericida. Il piede diabetico deve essere analizzato col quadro patologico che lo caratterizza, se prevalentemente neuropatico o neuroischemico sebbene possano coesistere entrambe le condizioni; nel primo caso il piede si presenterà caldo e turgido, dovuto alla sindrome da iperafflusso e con malfunzionamento degli shunt artero-venosi mentre, nel neuroischemico che vede il coinvolgimento arterioso, si presenterà come freddo e pallido. Per l’analisi del quadro sarà importante valutare l’angiosoma, ovvero l’analisi dei distretti tridimensionali corporei che vengono perfusi da un’arteria nutritizia accompagnata dal corrispettivo vaso venoso per cui, in base al distretto che presenta un’ipossia, potremo operare direttamente nel vaso coinvolto nell’angiosoma. Linfedema Vede l’alterato funzionamento del sistema linfatico con riduzione del drenaggio e accumulo di liquido interstiziale. Si classificano in primari e secondari di cui, i primi, sono dovuti a mutazioni di geni coinvolti nello sviluppo dei vasi stessi o mutazioni al VEGF/VEGFR; i secondi sono dovuti a lesioni iatrogene con distruzione delle vie linfatiche post chirurgia, neoplasie come il carcinoma alla mammella o prostata, infettive o post-traumatico; ulteriore classificazione viene effettuata tramite stadiazione del linfedema in cui si vede come al primo stadio sia presente un edema tipicamente acquoso, al secondo stadio presenza di proteine e metaboliti e sarà più difficile da ridurre, un terzo stadio con inizializzazione dei processi fibrotici da ristagno continuato e, infine, il quarto stadio con fibrosi tissutale ed elefantiasi (non riducibile). Si osserva come sia sempre presente una condizione di infiammazione che determina il linfedema, soprattutto a causa della principale funzione del sistema linfatico che ha il compito di permettere il passaggio dei leucociti in circolo, in particolare in infiammazioni croniche si osserva la stimolazione della linfoangiogenesi che può comportare il linfedema come nel caso di pazienti obesi o in corrispondenza di aterosclerosi per cui si ha la comparsa di processi fibrotici. Il trattamento vede il bendaggio elastico e la fisioterapia.
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