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Paul Bènichou “Morali del Grand Siècle” , Sintesi del corso di Storia Della Filosofia

Sintesi del libro di Bènichou sulla morale

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017
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Caricato il 08/08/2017

lorybona
lorybona 🇮🇹

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Scarica Paul Bènichou “Morali del Grand Siècle” e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! Paul Bènichou “Morali del Grand Siècle” L’eroe secondo Corneille Corneille fu uno dei più importanti tragediografi del Seicento, fu ammirato dai contemporanei per la foga l’impeto e l’ardore, cosa che lo rese popolare anche presso i Romantici. Tuttavia alcuni critici lo considerarono freddo per il suo esaltare solo l’intelligenza e il senso morale a scapito delle passioni naturali. L’entusiasmo di Corn vive dentro l’atmosfera di orgoglio, gloria, generosità nella visione romanzesca dell’aristocrazia di Luigi XIII, ma già sotto Luigi XIV questo atteggiamento si spegne. Privato del suo ambiente naturale il sublime corneilliano è finito per torreggiare gelidamente sulle passioni umane. Brunetiere considerò il suo teatro come la glorificazione o apoteosi della volontà, che è sempre lodevole anche volta al male; secondo Lemaitre dietro la volontà di Corneille si nasconde uno smisurato orgoglio, egli è un grande maestro dell’energia; Lanson esclude l’affettività come un elemento del teatro, l’anima umana per Corn è dominata dalla potenza della volontà che mette in moto la ragione. Esaltazione della volontà e dell’io sono tratti tipici di tutto il teatro dell’epoca. Nel teatro di Corn vi è un residuo di feudalità tipico dell’età moderna: eroismo, spavalderia, magnanimità, devozione all’amore ideale, honnetete,… L’aristocrazia non ha mai fatto censura sulle passioni, esse sono per loro un condizione del valore spirituale dell’uomo: il controllo sociale della morale comune non ha mai avuto una forte presa sul ceto nobiliare, per il quale il dovere non deve mai essere una privazione dei desideri dell’io. Il solo obbligo è di mostrarsi sempre degno di sé stesso e di mirare in alto, mentre l’orgoglio accompagna, legittima e accredita tutti gli appetiti. La riscoperta della filosofia pagana ha dato forza ai nascenti pensieri incentrati sull’uomo e le sue potenzialità, in seguito si è incanalata nella mentalità aristocratica. Il sublime cornelliano scaturisce dai dettami di una natura orgogliosa. Nella morale feudale la gloria e gli appetiti coesistono e si intrecciano di continuo. La virtù finisce per fruttare all’io più di quanto non gli costi, essa scaturisce più che dallo sforzo da una perenne tendenza ad anteporre, quando proprio bisogna scegliere, le soddisfazioni della gloria a quelle del piacere puro e semplice. Soddisfazione dei piaceri e ricerca di gloria sono un tutt’uno, questo è l’aspetto più arcaico dell’opera di Corn. L’amore enfatico della grandezza e la tendenza ad autocelebrarsi sono presenti in quasi tutti i caratteri di Corn. Una spinta costante porta il nobile dal desiderio all’orgoglio, dall’orgoglio che contempla sé stesso all’orgoglio che si dà in spettacolo, ossia la gloria. Il pubblico di Corn è tutt’uno con lo spettacolo, essi sono i compagni dell’eroe e portatori degli stessi valori, è l’uditorio di personaggi che sono stati creati per essere ammirati dagli altri, la vita degli eroi corneilliani ha senso solo finchè sono ammirati dagli altri. Sia nel teatro sia nella società la grande molla è l’ammirazione. Tutto spinge Corneille a ideare personaggi di rango reale o comunque altolocati, perché tutto questo sistema di valori non avrebbe senso per un uomo comune. Tutto il sistema morale dei nobili era condiviso dai loro sottoposti e clienti, nonostante non ne facessero parte; lo stesso Coreille era un piccolo borghese e tuttavia sosteneva e ammirava, forse con invidia, i nobili per cui lavorava. L’angoscia dell’io davanti alla sventura spinge l’orgoglio verso una dimensione più ideale, l’orgoglio non ha difese contro il destino quindi deve dissociarsi dal mondo materiale visto come ostile. Ciò spinge i personaggi a cercare il trionfo dell’orgoglio anche davanti alla sconfitta totale, questo suscitava grande consenso nel pubblico: la virtù corneilliana è un’esaltazione dell’io con la quale esso si premunisce contro gli oltraggi del destino. Lanson confronta Corneille a Cartesio: in entrambi la magnanimità si definisce come il trionfo della volontà e della ragione sulle passioni, ma c’è un errore poiché in Cartesio la volontà deve dare seguito al desiderio e non soffocarlo, Cartesio vuole trovare condizioni di un accordo tra l’impulso e il bene. La ragione indica alla magnanimità la via da seguire ma né in Cartesio né in Corn è nemica dell’io, essa è lo strumento di libertà al fine di conseguire la gloria. La grandezza dei nobili è contraria alla morale comune volte: esempio la Cleopatra dell’opera Rodogune compie efferati delitti che tuttavia suscitano la nostra ammirazione perché accompagnati dalla grandezza. L’orgoglio dell’io e la sfida al senso comune formano a tal punto l’anima sublime corneilliana e bastano talmente a sé stessi che certe volte è difficile giudicare le loro manifestazioni dal punto di vista morale. Il disprezzo per il bene e il male che nascendo dall’orgoglio e dall’avversione per la mediocrità è sublime di per sé. L’orgoglio stesso decide la norma, per cui non è mai davvero fuori dalla morale. La ragione deve guidare il nobile orgoglioso nell’apprezzare il mondo senza cedere a smanie assolute, gli insegna a essere prudente. La passione della grandezza si cambia in servitù appena la considerazione dello scopo ambito, per quanto prestigioso di per sé, prevale sulla spinta dell’ambizione, appena l’io, invece di restare fedele a se stesso e di cercare il superamento della cupidigia, il segreto della vera grandezza, si fissa su una preda. Esempio di questo sono il personaggio di Cleopatra, che diviene schiava delle sue stesse passioni, e di Augusto, a cui viene chiesto di abbandonare l’impero per dimostrare di essere più grande della grandezza stessa. Quasi tutte le tragedie di Corn finiscono in un’apoteosi generale in cui la gloria di ognuno riconquista il rango che gli spetta. L’ambizione dell’io non va biasimata in sé poiché essa viene sublimata, non è qualcosa di materiale, mentre nella morale cristiana tutto ciò è peccato. Come da tradizione cortese, l’amore in Corn è uno stimolo alla grandezza e ricompensa della forza e del valore; ovviamente è un amore sublimato come da copione della tradizione dell’amor cortese. I personaggi di Corn sono perfetti cavalieri totalmente sottomessi alla loro dama: amore e orgoglio sono intimamente uniti, rappresentano l’unità stessa degli innamorati. L’etica aristocratica esalta l’amore e l’impulso di esso, mentre la morale comune lo vede spesso come una debolezza: per i nobili l’amore, e in generale tutte le passioni, conducono alla virtù e non alla dannazione. La letteratura cortese medievale e i romanzi dell’età moderna esalta l’amore come una virtù e lo mettono sopra ogni regola. In Corn l’amore perfetto non è solo il più totale ma anche il più capace di rinunciare a realizzarsi: vi è una gerarchia, l’amore è sottomesso ai propositi più nobili ma potrebbe comunque accordarsi. Comunque il preteso discredito di Corn per l’amore non ricade sulla donna. Mentre nei romanzi medievali gli innamorati insorgono contro gli obblighi sociali, in Corn questo non accade: nessuno insorge contro l’autorità. In Corn l’orgoglio individuale spinge a compiere atti eroici che tendono a favorire la famiglia, vista come un’entità sociale concreta intimamente connessa al principio dell’orgoglio. La pace interiore non è connaturata alle grandi anime, sempre in conflitto con se stesse perché sono in conflitto col mondo. L’io corneilliano mira a porsi sopra il destino, a conquistare la libertà a prezzo di dure lotte, trovando soluzioni inusitate a problemi insolubili per la gente comune; la ragione che illumina concetto di abitudine: con essa egli dissolve l’idea dell’autonomia umana, i meccanismi di questo automa si ripercuotono anche sulla sua psiche; posizione simile la esprime La Roche. In questa visione meccanicistica l’essenza dell’uomo consiste in un flusso affettivo le cui capricciose manifestazione hanno tutte lo stesso valore, in un perpetuo generarsi delle passioni il cui succedersi non offre alcuna presa reale al pensiero ragionevole o alla libera volontà. La Roche condivide gli attacchi di Pascal alla morale aristocratica ma ne rifiuta le conseguenze religiose: entrambi infatti chiamano la gloria, suprema virtù aristocratica, col nome di amor proprio. Desiderio di gloria altro non è che istinto di conquista e appropriazione, anche il conoscere è istinto di conquista e Pascal ne sminuisce il valore considerandolo mera vanità. Il fatto è che la gloria, l’ambizione, l’orgoglio sono presi dagli uni in senso ideale e dagli altri sotto l’aspetto interessato: sono sue punti di vista diametralmente opposti. Gli aristocratici elevano la natura dell’uomo verso un ideale, mentre i giansenisti e La Roch lo trascinano verso il basso. Per vincere il dibattito questi dimostrano che gli aristocratici si ingannano: essi trovano la loro verità dentro di sé, ma l’uomo è un abisso insondabile che non potrà mai conoscere sé stesso; le convinzioni che nascono da dentro sono fallaci. La psicologia giansenista attua uno sconvolgimento nei rapporti tra l’istinto e la ragione: la ragione non eleva nulla ma serve solo a mascherare la vergogna dei propri istinti, ma lo fa in maniera nascosta e quindi i più non se ne accorgono. Pascal è fra i più radicali: un interesse, anche se ideale, è pur sempre un interesse, semplicemente è più stravagante e prestigiosa perché aspira a qualcosa di illusorio. Il pensiero giansenista è tutto rivolto alla demolizione dell’idealismo reale; il giansenismo allontana Dio stesso dal mondo e, in un universo cieco, riconosce solo l’esistenza di un genere umano senza gloria e senza virtù. Il partito giansenista Benchè alla fine fosse fallito, il giansenismo era ben allineabile con la mentalità comune sotto il regno di Luigi XIV in cui l’etica aristocratica era ormai finita. I pensatori dell’Ottocento videro nella morale giansenista, fondata sul rigore morale ferreo e il controllo del comportamento, un preannuncio della morale borghese che con il gians condivideva l’idea dell’onnipotenza della natura e il suo bisogno di controllarla. Il potere monarchico fu avverso al gians perché esso propugnava una certa indipendenza delle coscienze dalla coercizione esterna. Inoltre l’idea della grazia efficace che cala dall’alto mette in penombra il valore delle istituzioni, l’individuo ridotto a una nullità poteva essere salvato ma ciò deriva da Dio e da nessun altra autorità terrena: ciò porterà Port Royal a scontrarsi con l’autoritarismo papale. L’uomo deve rivolgersi direttamente a Dio e non a una autorità costituita; non veniva proposta una chiesa democratica ma una chiesa fondata sulla figura dei vescovi slegati dall’autorità papale. Nonostante le buone premesse il giansenismo non vinse perché la borghesia francese, più vicina alle sue posizioni, non ebbe la forza di imporsi, la nobiltà, indebolita, le era ostile e il re attuò la sua politica assolutista che era inconciliabile con il giansenismo; il re di Francia si alleò col papato per stroncare Port Royal. Alcuni provarono a teorizzare un giansenismo purificato dal germe della ribellione contro l’autorità, come Bousset. Port Royal però non fu mai un vero centro di pensiero politico, ma solo morale, poiché vedeva nel re una raffigurazione del potere divino, non ebbe mai posizioni marcatamente antimonarchiche. Tuttavia svaluta alcuni capi saldi del potere come la giustizia: Pascal la vede come una semplice maschera della forza bruta, solo Dio elargisce vera giustizia. Racine L’opera di Racine è piena di spirito naturalistico, non aderisce allo stile eroico di Corn ma il pubblico non colse subito questa differenza poiché Rac utilizzava ancora la stessa ambientazione aristocratica e le stesse dinamiche. La psicologia di Rac, vicina per profondità a quella giansenista, si mescola all’eroismo dei personaggi e spesso lo contraddice. Una delle opere più innovative fu Andromaque, in cui l’istinto si esprime in un linguaggio nuovo che eclissa l’eroismo e la tenerezza dell’etica cavalleresca mainstream; questa nuova psicologia si vede soprattutto nel tema erotico. L’amore di Rac non ha più nulla della dedizione: è un desiderio possessivo, non è più il culto tributario ad un essere ideale in cui si riassumono tutti i valori della vita. La passione brutale dell’amore di Rac è espressione della natura non dei valori cavallereschi ma con la natura non è in grado di instaurare l’equilibrio; questo è il punto che accomuna il tragediografo a Port Royal. Corn esalta le passioni forti purchè siano dominate da un io, Rac invece ritiene che l’io veenga travolto dalle passioni, l’uomo è preda dei voltafaccia del suo istinto: l’uomo dunque non è veramente libero e il suo orgoglio è velleitario. La ragione non può nulla: i suoi personaggi cadono nella miseria proprio quando si sforzano di dominare usando la ratio. L’eroismo è solo una facciata per nascondere l’esatto opposto. Per l’orgoglio dell’io, la passione colpevole è ammissione di miseria totale che può sfociare in angoscia metafisica. Rac non rinuncia all’orgoglio dei suoi personaggi ma gli da una nuova profondità che non è per nulla esaltante, anzi viene interpretato come una passione violenta come molte altre. “I personaggi di Corn parlano per rivelarsi; quelli di Rac si rivelano perché parlano”. L’orgoglio è un’espansione repentina, smodata e insultante dell’io, che comporta più sofferenza che soddisfazione. Rac è stato spesso interpretato come un maestro di eleganza e raffinatezza perché la brutalità della natura non domina sulle rovine del sublime; spesso si limita a smussare gli angoli: ha umanizzato la gloria corneilliana. Questo declino delle virtù aristocratiche va di pari passo col declino della nobiltà come corpo sociale e l’ascesa dell’assolutismo del re sole. Il naturalismo di Rac adegua le virtù cavalleresche alla nuova realtà sociale e morale della vita di corte, dove la ribellione dell’io orgoglioso non è tollerata. Il cambiamento è visibile nei personaggi maschili: giovani cavalieri gentili e aggraziati ma senza alcuna volontà di autoaffermazione; ciò porta al tramonto del dramma politico. Il declino dell’eroismo dei cavalieri era compensato dalla maestà del re e della sua splendida corte, luogo di vera felicità e splendore privo delle grandi passioni di una volta. L’eroe di Rac è ammantato di una regalità estranea all’idea di superiorità morale, l’eroe è libero sia dal giudizio del re che dei suoi pari. Non essendoci più il grande ego a dominare il caso, i personaggi sono tutti vittima della fortuna che la fa da padrona. Moliere Moliere non ha alcun sistema coerente nella sua commedia: egli si adatta al gusto del pubblico. La critica spesso lo ha rappresentato come un precursore della mentalità borghese: falso. I suoi protagonisti sono tutti nobili e quando vuole un personaggio negativo gli assegna tutte le qualità tipiche del borghese; Mol operava a corte, non avrebbe mai scritto qualcosa a favore della borghesia. Influenzato dalla fastosità di Versailles, spesso ambiento le sue corte: esempio Amphitryon e Don Juan trattano del conflitto tra i grandi e la gente comune. Tema onnipresente delle commedie, e della vita di corte in generale, è il piacere, che le ambientazioni mitiche pagane non fanno che esaltare; il piacere è l’unica grandezza che rimane alla nobiltà rinchiusa a corte: la sovrumanità si dissolve in dissolutezza. Emblema di ciò è il personaggio Don Giovanni che arriva a sfidare la divinità stessa con la propria grandezza: egli è simbolo di una spinta vitale illimitata, che è smodata persino per l’orgoglio dei personaggi di Corn, è una visione inconciliabile col cristianesimo, ambizione estrema del “paganesimo” aristocratico. Il Don Giovanni è il promotore del libertinaggio morale che porta i suoi seguaci fuori dagli ambienti del potere ancorati a una morale cristiana: egli segna il punto in cui l’ambizione aristocratica, estraniandosi dalla realtà, diventa sovversiva e vana. Moliere infatti finisce per biasimare i comportamenti eccessivi di Don Giovanni. I personaggi borghesi sono sempre mediocri e e ridicoli, privi del giusto mezzo che spetta solo all’honnete homme, ossia l’uomo di mondo, non per forza nobile, ma formatosi secondo ideali cavallereschi. Il buon senso borghese è accettabile solo se coglie la propria inferiorità. Lo stereotipo borghese si fondava su alcuni tratti: avarizia, mancanza di coraggio, gelosia, velleità, sufficienza, egoismo e ingenuità. L’amore è il caso in cui il borghese manifesta di più la propria inferiorità: non sa amare perché nel sentimento porta la stessa gelosia e istinto di possesso di cui da prova in tutti gli altri campi; è soprattutto la gelosia quella più beffata. Moliere ebbe rapporti ambigui con il “preziosismo” ( movimento culturale proto femminista delle donne altolocate): in campo letterario esso porta alla ricerca di uno stile ricercato e galante, cosa che si ripercuote in quasi tutta la produzione letteraria del secolo. Le preziose sono ancora vicine alla dottrina dell’amor cortese, mentre Moliere è più vicino alla posizione espressa da coloro che inseguono il piacere, ma spesso si alleano per combattere i rigoristi della morale. Spesso Mol rappresenta l’amore di donne e giovani cavalieri che si scontrano con le decisioni dei padri e delle autorità, finendo col vincere; egli è attento alla situazione sociale delle donne dell’alta società e supporta le loro rivendicazioni che sono condivise dalla corte e dai salotti buoni. Riguardo la vita coniugale egli sostiene che la fiducia sia l’unico modo per avere fedeltà, la costrizione è solo dannosa, questo è un tema centrale di tutta la letteratura del periodo. L’amore concepito da Mol è meno purificato dalla cavalleria tipica delle preziose, esso è frutto di una pulsione naturale: le donne hanno tutto il diritto di dare sfogo a queste pulsioni; ma Mol mette in ridicolo ogni pretesa di parità dei sessi. Le preziose peccano perché esaltano un amore innaturale per portare avanti la loro causa e giustificare il loro dominio sugli uomini, l’amore che loro propongono non ha nulla a che fare col piacere ma solo uno strumento di lotta. La filosofia morale di Mol è invece basata tutta sull’istinto naturale, in particolare riguardo l’amore e la soddisfazione di ogni desiderio; per questo molti pensatori cristiani ritennero la sua opera pericolosa. Egli attacca spesso la superstizione e lo zelo nella devozione, ma non la religione ufficiale anche se il passo è breve. Egli sostiene che l’eccesso, anche nella religione, è pericoloso e che i veri devoti non cercano di imporsi sugli altri. Mol attacca quindi il rigore dei bacchettoni colpendo anche Pascal, esaltando le passioni naturali e senza usare le maschere della gloria e dell’orgoglio. Mol piaceva a Luigi XIV
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