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PDF Contesti educativi per il sociale (riassunto libro), Sintesi del corso di Pedagogia

Libro Pedagogia ultima edizione "Contesti educativi per il sociale"

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 19/11/2019

alessiagio95
alessiagio95 🇮🇹

4.5

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Scarica PDF Contesti educativi per il sociale (riassunto libro) e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! PRIMA PARTE PROGETTUALITÀ, RESPONSABILITÀ E CURA EDUCATIVA 1) L’EDUCAZIONE TRA EMERGENZA ED UTOPIA (di Franco Frabboni) Due sullo stesso tandem: conoscenza e formazione Nella “cartella clinica” di fine Novecento redatto sullo stato di salute dell’educazione nel vecchio Continente ( Lisbona-2000), l’Unione europea ha affermato che se il ventunesimo secolo non investirà risorse sul tandem conoscenza-formazione rischierà sia di allargare la forbice tra umanità colta (ricca) e incolta (povera), sia di rendere difficilmente curabili le due patologie che popolano il sud e il nord del pianeta: l’analfabetismo (che nega l’istruzione ai bambini a sud dell’equatore) e il neoanalfabetismo (che colpisce l’emisfero a nord dell’equatore, dove un ingente numero di giovani perde gli alfabeti qualche anno dopo l’uscita dalla scuola). Dunque una specie di catamarano con destinazione isola della conoscenza e isola della formazione. Nell’odierna società delle globalizzazioni la conoscenza: a) È un capitale socio/economico, perché l’affidabilità e la competitività del sistema produttivo di un Paese dipendono dal diritto delle giovani generazioni all’ingresso e al successo scolastico. b) È un capitale umano, perché concorre alla costruzione di una persona equipaggiata di valori civili e morali. La conoscenza, dunque, in ogni abitante del Pianeta, dovrà generare intelligenze multiple. Una conoscenza in grado di produrre teste-ben-fatte per tutte le stagioni della vita. L’elogio della conoscenza è stato elevato a Lisbona in nome di una scolarizzazione di massa. Il primo traguardo del ventunesimo secolo è la democratizzazione istituzionale. Vale a dire, il diritto di tutti all’accesso e al successo nel sistema scolastico. Il secondo traguardo è la modernizzazione culturale. Vale a dire, il diritto di tutti alla qualità e alla conservazione della conoscenza per tutto il corso della vita. La formazione ha una duplice frontiera educativa. Da una parte, una frontiera longitudinale (la formazione per tutta la vita); dall’altra una frontiera trasversale (il sistema formativo integrato: l’interazione tra famiglia, scuola, enti locali, privato sociale, chiese, mondo del lavoro). Dunque, una sorta di “croce” dall’asse verticale e dall’asse orizzontale – definita in sede europea Diamante – avente quattro segni di riconoscimento: 1) la formazione scolastica destinata alla età generazionali dell’infanzia e dell’adolescenza; 2) la formazione extrascolastica destinata ai bambini e ai ragazzi quando vivono in famigli, nel tempo libero, nell’associazionismo, ecc.; 3) la formazione universitaria destinata a garantire al pianeta giovanile scienza, cultura e bagaglio professionale; 4) la formazione permanente destinata ad assicurare la manutenzione di una testa-ben-fatta presso le età adulte e senili. I lati di questo quadrilatero della formazione annunciano al nostro ventunesimo secolo di perseguire due ideali educativi: 1) la “promessa” all’ingresso e al successo nei percorsi dell’istruzione e la conservazione del capitale di conoscenza accumulato lungo l’intero percorso della propria vita (stelle democratiche); 2) il diritto di tutti a un’elevata qualità dell’istruzione: vuoi come alfabetizzazione primaria (la padronanza delle conoscenze di base), vuoi come alfabetizzazione secondaria (la padronanza delle competenze: sia endogene, per poter pensare con la propria testa; sia esogene, per poter agire consapevolmente nella vita), (stelle culturali). Per quanto riguarda la formazione per tutta la vita soltanto l’asse longitudinale della “croce” è in grado di mettere a disposizione di tutte le stagioni della vita sia le competenze per esercitare i propri diritti-doveri di cittadinanza, sia i valori universali della dignità e del rispetto della persona. Inoltre, soltanto la testa-ben-fatta può mettere il singolo fruitore nelle condizioni di personalizzare i consumi di massa. Occorre ciò rifornire l’uomo e la donna, prigionieri dell’odierna galassia mediatica, dei dispositivi di selettività cognitiva necessari per l’intervallo critico esistente tra i prodotti e i loro consumi. Come nel caso dell’hamburger della Mc Donald’s che ai clienti con basso livello di istruzione impone non solo un gusto alimentare (legittimo) ma anche un modo di pensare (illegittimo). Il consumo ripetuto del prodotto non-personalizzato minaccia pesantemente l’umanità attuale, la quale, se vuole sfuggirvi, ha di fronte una sola strada: la formazione. 1 Al centro sta la persona Il soggetto/persona – così come viene progettato dalla Pedagogia europea – non è fondato né dall’esperienza soggettiva (individuale), né da quella oggettiva (socioculturale): e neppure dalla loro reciproca integrazione. Pertanto il soggetto/persona si presenta esistenzialmente equipaggiato di soli atti di scelta che garantiscono la libertà e che cercano un vero sistema-di-valori. L’idea di persona che dà luce alla teoria dell’educazione di Giovanni Maria Bertin matura nella dialettica tra la dimensione soggettiva e oggettiva della vita personale. Tra i tanti “crocevia” della vita personale, la Pedagogia non perde di vista due ineludibili idee dell’educazione: l’idea di cultura (libera sia di esplorare sia di sfidare la conoscenza e la scienza) e l’idea di valore, che fa tutt’uno con un itinerario assiologico della vita personale. A partire da queste due ineludibili idee dell’educazione, quest’ultima si configura come il terreno naturale in cui cresce la persona-valore dalle cifre multidimensionali. La pedagogia europea si fa precorritrice della “scomparsa” delle prime età della vita. La sua dura critica è rivolta contro la duplice violenza patita dall’infanzia e dall’adolescenza nell’odierna società adultocentrica e dei consumi. Da una parte, le prime età della vita sono gettate nella foresta degli adulti (il loro destino sembra essere la precoce colonizzazione nella società “dei grandi”); dall’altra parte le prime età della vita sono gettate tra le onde del mare dei consumi (il loro destino sembra essere l’uniformizzazione nella cultura di mercato). La Pedagogia sta ricevendo larghi consensi nel vecchio continente perché combatte sia la cultura mercantile che nega l’identità storico/sociale ai giovani, sia le pedagogie tolemaiche al servizio dell’odierna società delle globalizzazioni che tendono a imprigionare l’infanzia e l’adolescenza. Contro i pericoli della manipolazione, il principio di singolarità sembra essere l’ultimo baluardo di difesa in una stagione storica nella quale il neoliberismo economico sta cancellando la singolarità propria dell’uomo e della donna, propria di questa stagione storica. Nell’itinerario alla cultura e ai valori, la Pedagogia pone le età della vita di fronte alla propria singolarità e alla propria solitudine. Di fronte ad un sentiero esistenziale che è possibile percorrere ponendo sullo stesso tandem la singolarità e l’interiorità. Occorre dunque intraprendere un’avventura educativa impugnando la fiaccola del coraggio esistenziale. Diamo cielo alla pedagogia Se la Pedagogia europea fa tutt’uno con un’interpretazione multidimensionale dei piani della vita personale, tutto ciò porta a rimpicciolire le sfere della vita personale, assicurando loro quella vitalità e quella tensione esistenziale che combattono contro l’impoverimento della personalità dell’uomo e della donna. Le teorie dell’educazione si configurano come orizzonti “ideali” di progettazione della vita educativa: aperti al possibile e orientati verso il futuro. Tali teorie dell’educazione pongono sì al centro della propria riflessione la persona, ma soltanto quella che abita le contrade occidentali del nostro pianeta. È una persona che espone il seguente segno di riconoscimento: è bianca-maschio- ricca-sazia. Mai le teorie dell’educazione hanno posto nel proprio mirino la persona dell’altra metà del Pianeta: nera-femmina-povera-disperata. La causa di ciò sta nel fatto che la Pedagogia è nata nel nord del Pianeta. La Pedagogia continentale si trova dunque a un bivio. È chiamata ad una scelta: la prima strada che si trova di fronte è quella a lei “abituale”, la seconda strada è invece “inedita”, che conduce ad una scienza nuova. Di fronte a questo bivio, la Pedagogia europea deve avventurarsi verso confini lontani, dove possa incontrare teorie dell’educazione molto più larghe. Dunque, una Pedagogia multiculturale che sia caratterizzata dalla tensione verso il possibile e il trascendentale e una Pedagogia non piò soltanto occidentale, ma una Pedagogia anche orientale e meridionale. Il suo orizzonte dovrà essere quello di una Paideia in grado di perseguire l’ideale educativo di una coscienza individuale e di una coscienza collettiva. In questa prospettiva, la progettazione esistenziale costituisce il vero paradigma dell’educazione perché in grado di decifrare la dialettica idealità-realtà. 2 esso crea le condizioni di contesto per rendere osservabili e analizzabili i fenomeni psichici sia per il paziente sia per il terapeuta. I presupposti generali del setting psicoanalitico ineriscono a: A) patto o contratto terapeutico, ossia tutto ciò che l’analista ha comunicato al paziente prima di iniziare il lavoro terapeutico; B) assetto organizzativo, ossia “”il luogo dei fatti concreti che andranno via via distinguendosi dagli eventi immaginari”. Proviamo a schematizzare gli eventi più significativi della prassi analitica: a) gli appuntamenti, in uno spazio e in un tempo definito, è molto importante che l’incontro avvenga nella stessa stanza (e che questa stanza rimanga inalterata), nello stesso orario e con la stessa cadenza durante la settimana; b) il contratto economico, che dice che “l’analista ha dei bisogni e che, dunque, non è onnipotente”; c) la neutralità, ossia la prassi dell’osservazione “discreta” e l’astensione da ogni giudizio morale; d) l’astensione, ossia “il divieto di azioni di contatto fisico dentro e fuori la seduta”. Il processo analitico “può essere descritto come un procedimento tendente alla progressiva distinzione dell’ordine del reale dall’ordine dell’immaginario mediante l’uso dell’ordine del simbolico”. Spostandoci in ambito educativo, possiamo dire che le ragioni per cui si compiono determinate scelte sono strettamente collegate con: (a) la concezione che abbiamo degli utenti e dei loro bisogni/desideri; (b) i nostri riferimenti e le scelte; (c) le finalità e gli obiettivi che ci diamo. Lo spazio e il tempo non sono soltanto quelli dell’attività o dell’incontro ma sono anche scanditi da ritualità che danno senso all’’intera giornata. Le relazioni dovrebbero venire scandite, secondo la pedagogia istituzionale, dalla dialettica tra istituito e istituente, dove a) l’istituito è ciò che è stabilito dalla normativa che, pur non essendo una norma, viene percepita come se lo fosse; b) l’istituente è l’équipe degli educatori insieme con la “voce” dei fruitori del servizio. Ebbene un gruppo dev’essere in grado di darsi: c) alcune istituzioni interne, per esempio l’assemblea settimanale, ruoli e compiti particolari. Queste regole, discusse e concordate dal gruppo istituente, saranno sentite e riconosciute come parte della “vita” del gruppo e rafforzeranno il senso di responsabilità e di appartenenza. In conclusione, il setting è il risultato della progettualità e dell’esperienza, ma è anche il risultato di un processo di co-costruzione di un campo fisico e mentale che viene via via costruito insieme. Per descrivere il setting come qualcosa di modificabile prendiamo a prestito la metafora del fiume e delle opere di manutenzione del suo corso. In un gruppo non è soltanto chi conduce a strutturare il set e il setting. Nel gruppo ciascuno “porta del suo”, partecipa giorno dopo giorno al progetto educativo e co-evolve con gli altri, educatori compresi. Un aspetto può lasciare perplessi: nella metafora del fiume le acque si mescolavano e si dirigevano al mare senza più potersi distinguere in base alla propria diversità. Lo scopo del lavoro educativo non è di fondersi bensì di sviluppare le personali potenzialità e la propria originalità. Bastava che il fiume sfociasse a delta (e non a estuario), differenziandosi in diversi “rami” che rappresentavano i percorsi autonomi e originali dei ragazzi, perché un Progetto educativo deve sempre provvedere affinchè ogni soggetto cerchi e trovi la propria strada e il proprio modo per arrivare al mare, qui inteso come la vita nel mondo grande. Dunque il setting costruttivo è un campo fisico e mentale che via via si definisce e si modifica, per essere proprio quello che serve a quei particolari utenti e educatori, in quel particolare territorio. Le professioni per il sociale come “leva” della relazione educativa Le situazioni a rischio psico-sociale e i bisogni espressi e latenti sono molto semplici. Richiedono l’elaborazione di risposte sempre più diversificate, che comportano l’impego e la competenza di molte figure professionali: educatore professionale socio-pedagogico e pedagogista, assistente sociale, educatore professionale, infermiere, medico, psicologo, insegnante ed altre ancora. Le denominiamo “professioni per il sociale”, perché impegnate nel lavoro per-con l’uomo per la promozione del ben-essere individuale. Le professioni per il sociale lavorano in contesti sociali, educativi e ambientali caratterizzati da specifiche costrizioni ecologiche. Il loro lavoro si svolge con e nella comunicazione. La comunicazione educativa e l’aver cura di… in educazione sono connesse con la relazione educativa. Comunicare è cercare un’intesa. E l’intesa comporta, sempre, reciproca attenzione, empatia, condivisione e coordinazione. È importante, inoltre, che la relazione educativa sia ascolto, comprensione, comunicazione intesa non nel senso di in- formazione, ma di scambio intersoggettivo, attivo e non giudicante. Da un punto di vista pedagogico, l’educatore fornisce alla persona o al gruppo l’aiuto che permette di elevarsi dall’area di sviluppo attuale all’area di sviluppo potenziale (Vygotskij). Una relazione dovrebbe basarsi su 5 a) l’etica del rispetto, che comporta il comunicare dislocando il proprio punto di vista per poter incontrare l’altro; b) l’etica del prendersi cura, che comporta investimento affettivo reciproco e gestione del transfert. I meccanismi di transfert sono le espressioni di attaccamento, identificazione, perdita da parte dell’utente. Per fare un esempio, l’educatore aiuterà il soggetto ad accettare parti di sé precedentemente tenute separate. Per l’educatore questo significa lavorare sul proprio controtransfer, ossia sulle emozioni e i sentimenti che questi meccanismi provocano in lui. In questo modo può modulare la propria comunicazione al fine di svolgere una funzione di sostegno, contenimento; c) uno stile autorevole, un ascolto attivo e la garanzia della riservatezza, che danno sicurezza e fiducia; d) una progettualità condivisa e l’orientamento al futuro che rende il soggetto attivo e responsabile del proprio percorso. Chi si occupa degli educatori? La supervisione per osservare-osservarsi e per pensare l’esperienza La funzione più importante che un’istituzione può svolgere per chi lavora ai differenti livelli è quella di offrire un posto sicuro in cui potere parlare delle difficoltà, dei problemi, senza doverli negare. La supervisione può diventare un’occasione preziosa allo scopo di offrire nuove stimolazioni motivanti a un gruppo che incontra difficoltà nella gestione del servizio. Dal punto di vista didattico, il processo di supervisione consiste nel tentativo di analizzare se l’operato sia stato coerente con gli obiettivi. Dal punto di vista dell’analisi della relazione, il processo di supervisione riguarda la riflessione sulle implicazioni personali nella gestione della relazione. La supervisione in un setting gruppale deve fare i conti con il crearsi di fenomeni anti-gruppo determinati dalle emozioni connesse all’angoscia di esporsi agli altri e di essere da questi giudicati. 3) LA RELAZIONE EDUCATIVA: VARIABILI ESTERNE E INTERNE (di Laura Cerrocchi) La formazione individuale e collettiva: fra teoria e prassi della modificabilità umana Gli orientamenti e le soluzioni che si integrano relativamente alla formazione umana, individuale e collettiva possono essere riportati all’interno di una Storia del Pensiero collocata in una più ampia storia politico-economica e socio-culturale. Da un lato, sul piano pedagogico, si tratta del formare (ossia dar forma) per consentire di formarsi (in modo autonomo) e trasformarsi (a fronte dei cambiamenti dettati dagli eventi di vita) entro la sintesi fra le determinanti dello sviluppo – biologico e psicologico, individuale e collettivo – e i processi e le pratiche dell’educazione e dell’istruzione. Un’educazione intesa, anche nei termini di prevenzione e recupero, quale ricostruzione delle esperienze delle età e nei luoghi di vita. Dall’altro lato, sempre a livello pedagogico, si tratta di svincolare i luoghi di vita da una funzione autoritaria e repressiva per essere resi funzionali ad assolvere una funzione di liberazione e di emancipazione. La conoscenza e la progettazione pedagogica: tra fattori sociali, culturali e psicologici La conoscenza e la progettazione pedagogica sono tenute ad avere a riferimento tre fattori: • sociali di macrosistema (analisi e ripensamento delle politiche e dei rispettivi interventi legislativi di tipo socio-sanitario, assistenziale, lavorativo ed educativo ecc.), di mesosistema (l’individuo può essere inteso come esito di una impresa formativa), di microsistema (analisi e ripensamento dei setting a valenza pedagogica e didattica); • culturali con riferimento ai miti e riti che segnano i contesti; • psicologici, con particolare riferimento sia alle rappresentazioni sociali sia alle dinamiche degli affetti. 6 Le variabili esterne e interne che segnano la relazione educativa La relazione educativa di tipo duale o gruppale è segnata dalla reciprocità che viene ad attivarsi fra variabili • esterne di macrosistema o nella possibile reciproca determinazione fra macrosistema, mesosistema e microsistema; • interne che si spendono nell’interazione fra differenti gruppi e figure professionali (sia di pari che di diverso grado e funzione), soggetti (nelle loro differenze bio-psicologiche e socio- culturali, posti in relazioni asimmetriche e simmetriche) e fattori organizzativi scelti da chi educa. Il potenziale della cura educativa concerne il modo in cui viene a verificarsi l’interazione tra queste variabili. Se la chimica è il nostro ambiente di vita biologico, il gruppo è il nostro ambiente di vita sociale. Da quando nasce a quando muore, l’individuo: svolge la sua vita in gruppi di diversa tipologia che si trasformano; appartiene a più gruppi nello stesso periodo della sua vita; tiene dentro di sé il proprio gruppo interno, costituito da persone incontrate anche in fasi diverse, ma anche persone che non fanno più parte della nostra vita. Kurt Lewin, psicologo sociale della Gestalt, considera il gruppo come qualcosa di più e di diverso della somma delle parti: il gruppo può essere inteso come un sistema dinamico in continua evoluzione. Ne consegue che nessun gruppo è mai uguale a nessun altro gruppo né a se stesso in momenti diversi della sua storia. Un contesto per il sociale che presenta le caratteristiche di una comunità o un gruppo va considerato sotto due punti di vista, ossia: • dei membri, rispetto ai quali si pone come ferita narcisistica poiché l’altro presenta un pensiero che può costituire un limite all’affermazione del pensiero; • della figura educativa che deve saper rilevare e rispondere contemporaneamente ai bisogni multidimensionali dei singoli e del gruppo. La relazione educativa duale e gruppale si segna della reciprocità che può venirsi ad attivare tra immagine sociale, ideale e reale: • (l’immagine reale) caratteristiche e conoscenze, competenze e abilità padroneggiate da ciascuno e da tutti i membri; • (l’immagine ideale) caratteristiche e conoscenze, competenze e abilità secondo il sistema di autopercezione dei membri (che risponde alla domanda come mi penso), con ricadute sul senso di autoefficacia (che risponde alla domanda come mi sento) e sull’agentività (che risponde alla domanda cosa faccio): − secondo la teoria delle attribuzioni causali o la prospettiva attribuzionale del successo, i risultati ottenuti vengono considerati dal soggetto prodotti dell’agire intenzionale, riconoscendo la presenza di tre dimensioni: il locus di attribuzione causale, che può essere percepito come esterno o interno al soggetto (per esempio, sono stato bocciato perché il docente mi perseguita oppure perché non ho studiato come avrei dovuto); la stabilità nel tempo: per esempio, continuerò a essere bocciato oppure sarò promosso; la controllabilità da parte del soggetto: per esempio, non studio più tanto è inutile oppure cambierò il mio metodo di studio e studierò di più; − secondo la teoria delle aspettative e dei risultati, invece, vengono assunti come aspetti preminenti la valorizzazione delle aspettative dei soggetti rispetto ai piani che sono stati messi in campo, tanto da rintracciare una forte connessione tra aspettative e risultati. L’educatore è tenuto a connettere gli obiettivi all’attività educativa; − secondo la teoria degli obiettivi chi non si pone obiettivi non aumenta gli sforzi, quindi in mancanza di obiettivi non si è disposti all’immagine; • (l’immagine sociale) rappresentazioni sociali delle caratteristiche e conoscenze, competenze e abilità dei membri ma non meno delle figure educative di riferimento. Si ricorre alle rappresentazioni sociali per distinguere chi è in-group o out-group, tanto che queste possono influenzare sia le strutture ufficiali di un gruppo, sia le strutture sotterranee di un gruppo o dei suoi, eventuali, sottogruppi. Per quanto riguarda la figura educativa, anche questa risente di stereotipi e pregiudizi. Tra i principali rischi emerge quello che l’immagine sociale e le rappresentazioni sociali negative dei pari e della figura educativa possa tradursi in immagine ideale negativa e questa in immagine reale. Per esempio, siccome tutti mi pensano così, io inizierò a percepirmi e pensarmi così. Un contesto sociale (di tipo duale o gruppale) è immerso in una condizione di co-evoluzione resa possibile da un costante conflitto. A livello educativo, un conflitto costituisce un’occasione di 7 SECONDA PARTE PROFESSIONI EDUCATIVE PER IL SOCIALE 4) IL PEDAGOGISTA (di Vanna Iori) Il sapere pedagogico e il pedagogista Il dibattito novecentesco sulla scientificità nella ricerca pedagogica ha contribuito alla sua crescita epistemologica e ha saputo indicarne il campo d’indagine, definendo il rapporto con le altre scienze dell’educazione al fine di una corretta interdisciplinarità. I problemi relativi al metodo scientifico hanno affrancato la pedagogia dai pregiudizi che la consideravano “propaggine” della filosofia. È stato il pragmatismo di John Dewey a portare l’attenzione sui metodi della ricerca empirica come elemento centrale della scienza pedagogica, capace di tenere in connessione teoria e pratica. La “scommessa” che la pedagogia ha affrontato cercando di porsi come scienza non si è mai veramente sottratta agli influssi del pensiero filosofico. La professione pedagogica deve ancora chiarire la sua posizione tra la sua dimensione teoretica e quella pratica. In riferimento a questa duplice fisionomia, Brezinka propone la definizione di “scienza empirica” dell’educazione, stabilendo una distinzione tra pedagogia (la teoria avente per oggetto l’educazione) e metapedagogia (la metateoria avente per oggetto il discorso pedagogico). Il rapporto teoria-prassi si configura come un’area di sapere avente il carattere di riflessione teorica sulla e per la pratica formativa per riuscire a modificare la situazione data verso una crescita. Al pedagogista compete infatti una riflessione teorica, mai astratta. L’esperienza sostiene la riflessione e quest’ultima alimenta l’azione. La pratica, senza la teoria, risulterebbe priva di fondamento, incapace di progettazione; la teoria, senza una verifica nella pratica, sarebbe vuota di senso. La progettazione pedagogica presuppone la riflessione scientifica e filosofica per orientare l’educazione. L’arricchimento reciproco tra educazione e pedagogia si configura come un rapporto a spirale e il pedagogista si trova ad agire tra teoria e prassi. Il coordinamento pedagogico e le scienze dell’educazione Il pedagogista si trova a interagire anche con le altre competenze scientifiche. La pedagogia costituisce l’area privilegiata del sapere educativo, in quanto è la sola scienza che abbia per oggetto specifico l’educazione. Infatti le altre scienze dell’educazione possono avere per oggetto “anche” altre tematiche e ambiti. La pedagogia comprende al suo interno specifici ambiti e si esplica in diverse declinazioni: “pedagogia sociale”, “interculturale” ecc. Ed ancora occorre far riferimento all’articolazione interna ai settori della pedagogia (generale, speciale…) e alla didattica. Il dialogo tra le scienze è possibile alla condizione che ciascuna sia portatrice di un punto di vista che abbia pari valore scientifico, da cui procedere nel confronto con le altre. L’identità professionale del pedagogista è, su questo versante, ancora difficile da definire. La storia della sua connotazione identitaria si è sviluppata in modo tortuoso. La fisionomia professionale del pedagogista è stata definita in Italia con la legge 205/2017. Nonostante le indicazioni europee, le figure professionali di Educatore e Pedagogista vivono da anni una situazione di profonda incertezza identitaria e professionale, sia per quanto riguarda le facoltà universitarie preposte alla formazione, sia per quanto concerne l’inserimento nel mondo del lavoro. L’iter legislativo ha cercato di riordinare i molteplici ambiti dell’educazione, dell’istruzione e della formazione, come previsto dall’articolo 2 del Decreto Legislativo n. 13 del 16 gennaio 2013. Il pedagogista nelle normative europee (EQF) Al fine dell’adeguamento del nostro paese alla normativa europea è fondamentale garantire il riconoscimento e l’applicazione a tutte le figure professionali dell’EQF (European Qualifications Framework), ossia il quadro europeo delle competenze, delle qualifiche e dei percorsi per l’apprendimento permanente. La formazione universitaria del pedagogista, conseguita nei corrispondenti Corsi di Laurea Magistrale, è funzionale al raggiungimento delle conoscenze, abilità e competenze, in coerenza con i livelli del QEQ (Quadro Europeo delle Qualificazioni). La legge 205/2017 stabilisce che il titolo di pedagogista è rilasciato al termine delle Classi di laurea magistrale LM 50 Programmazione e gestione dei servizi educativi, LM 57 Scienze dell’educazione degli adulti e della formazione continua, LM 85 Scienze pedagogiche, LM 93 Teorie e metodologie dell’e-learning e della media education. In specifico il pedagogista svolge le seguenti attività pedagogiche: progettazione, programmazione, organizzazione, coordinamento, gestione, 10 monitoraggio, valutazione, consulenza e supervisione della qualità pedagogica dei servizi e dei sistemi pubblici e privati di educazione e formazione. Si occupa inoltre di azioni pedagogiche rivolte ai singoli soggetti in quanto progetta, realizza e valuta interventi e trattamenti educativi e formativi diretti alla persona negli ambiti e servizi individuati dalle Legge 205/2017. Infine il pedagogista progetta, gestisce, coordina e valuta servizi e sistemi di formazione professionale e manageriale. Premettendo che la professione di pedagogista rientra fra quelle non organizzate in ordini o collegi, il titolo è registrato negli elenchi degli enti e organismi nazionali e regionali deputati alla classificazione. L’accesso al lavoro di pedagogista prevede il possesso del relativo titolo quale requisito obbligatorio per lo svolgimento del lavoro. Il pedagogista rientra nel 7° livello del Quadro Europeo delle Qualificazioni; è un professionista che svolge funzioni intellettuali, con propria autonomia scientifica e propria responsabilità, attraverso l’uso di strumenti conoscitivi specifici, indirizzati alla persona e ai gruppi, in vari contesti educativi e formativi, per tutto il corso della vita, nonché attività didattica, di ricerca e di sperimentazione. Può operare in regime di lavoro dipendente, autonomo o parasubordinato all’interno di sistemi pubblici o privati. Il pedagogista nel sistema di welfare Oltre alle nuove competenze professionali del pedagogista cambieranno inevitabilmente anche gli ambiti lavorativi. Vi è cioè un’importante innovazione del sistema che occorre perseguire attraverso la creazione di un nuovo welfare, riformando il sistema dei servizi: passare dal welfare come costo al welfare come investimento. Ovviamente l’innovazione integra, e non si sostituisce, al welfare pubblico, favorendo una maggiore interconnessione tra il mondo dei servizi pubblici e il ruolo decisivo di una pluralità di attori sociali. Un welfare solidaristico si basa sull’aver cura e sulla priorità delle relazioni. La ricerca pedagogica è oggi di fronte alla doppia sfida di mantenersi aderente all’esperienza e, al tempo stesso, di sottrarsi ad un’oggettivazione di stampo empirico. È necessario, per la scientificità pedagogica, raggiungere una conoscenza dell’umano che ne rispetti la specificità propriamente “umana”. 5) L’EDUCATORE PROFESSIONALE SOCIO-PEDAGOGICO E DEI SERVIZI PER L’INFANZIA (di Alessandro D’Antone) Introduzione: l’educazione dell’educatore L’educazione dell’educatore professionale soio-pedagogico e dei servizi per l’infanzia è una problematica complessa che attiene sia all’Educazione degli Adulti, sia alla tradizione pedagogica. Edgar Morin delinea una prospettiva educativa che è inserita in una dimensione sociale muovendo a) da una possibile “riforma del pensiero” e b) dalla prospettiva della “democrazia cognitiva”. La prima, la riforma del pensiero, si accompagnerebbe a una riforma dell’insegnamento e a un ripensamento delle pratiche educative. La seconda proporrebbe la III Tesi su Feuerbach, che pone il problema dell’educazione dell’educatore come attività rivoluzionaria. Questi risvolti educativi esprimono: da un lato, l’autoreferenzialità dei processi formativi; dall’altro, la complessità che tale problema riveste come questione rivoluzionaria in questo periodo storico. Per un inquadramento pedagogico Il soggetto diviene esito di un’impresa formativa congiunta ove prendono posto differenti agenzia, contesti e attori e dove occorre saper considerare i contesti sociali come setting educativi. Il punto è lo sviluppo di una progettualità profonda orientata verso tutto il corso della vita umana. L’apprendimento dell’uomo lungo tutto il corso della vita produce, nel breve periodo, l’assimilazione di conoscenze particolari e specifiche mentre, nel lungo periodo, conduce alla strutturazione di abitudini astratte più generali che ne accompagnano i percorsi formativi. Strutturare un curricolo aperto “all’interno” e “all’esterno” diviene un’importante finalità della progettazione pedagogica legata alla costruzione di percorsi formativi connessi alle esperienze professionali di ciascun soggetto. L’apertura all’interno consente di far dialogare le diverse discipline e i diversi contesti dell’apprendimento, ponendo in relazione le conoscenze di base con quelle caratterizzanti e con quelle opzionali. L’apertura all’esterno permette invece il collegamento con il tessuto sociale e con la rete territoriale. I processi di costruzione sociale della conoscenza avranno carattere reticolare per facilitare l’apprendimento e la sua revisione. Sull’analisi di Domenici, possiamo suddividere la rete conoscitiva in conoscenza: 1. di base, con cui intendiamo quel corpus di sapere che rappresenta il cardine della disciplina; 2. stabili, ovvero orientate all’acquisizione di nuovi apprendimenti; 3. significative, rivolte al coinvolgimento dei soggetti e dei gruppi; 11 4. sistematiche, ovvero in grado di favorire una corretta ri-strutturazione del soggetto al fine di elaborare e trasferire le informazioni acquisite in contesti differenti, consentendo di conoscere la realtà e di trasformarla; 5. capitalizzabili, capaci quindi di facilitare l’apprendimento di nuove conoscenze e di trasformarle in abilità e competenze utilizzabili dal soggetto in contesti differenti. L’educatore nel proprio contesto sociale L’educatore agisce e apprende attraverso la prassi professionale, nell’ottica della prevenzione, dell’educazione e del recupero. La dimensione principale in cui l’educatore professionale ha la possibilità di compiere una sintesi fra prassi e teoria è quella dell’équipe, in cui l’educatore non solo riesce a integrare le proprie conoscenze e competenze in una più generale cornice teoretica, ma ha l’occasione di negoziare i significati emergenti dalla propria prassi professionale. Una tale impostazione del lavoro educativo reca con sé tre elementi. Il primo: attraverso la dimensione dell’équipe l’educatore condivide le proprie capacità e le proprie esperienza sul campo con professionalità diverse ma, anche, da diverse angolature attraverso cui osservare i problemi. Il secondo: la progettazione dell’intervento educativo è interconnesso ai processi di supervisione dell’intervento stesso. Il terzo: perché il setting a conduzione pedagogica possa esprimere qualsivoglia prospettiva educativa ed emancipativa, l’educatore dovrà evitare specialismi unilaterali e conferire finalità al suo agire complessivo. 12 7) LO SPAZIO NEUTRO E L’EDUCATIVA DOMICILIARE (di Alessandro D’Antone) L’Educativa Domiciliare e lo Spazio Neutro rappresentano due tra i principali interventi a sostegno della famiglia come sistema educativo e della genitorialità in cui un educatore professionale socio- pedagogico può spendere la propria professionalità. L’Educativa Domiciliare Con “Educativa Domiciliare” s’intende un intervento, mediato dal Servizio Sociale e dal Tribunale per i Minorenni, entro un sistema familiare problematico o disfunzionale in cui viva almeno un minore. Gli obiettivi del servizio possono essere individuati: a) nella sicurezza del minore e della cura educativa rivolta alla costruzione di legami all’interno del proprio sistema familiare; b) nel sostegno genitoriale rispetto a ruoli, funzioni e responsabilità; c) nella valutazione delle competenze apprese, delle situazioni di vita rilevate nel corso del tempo e dello sviluppo del progetto di breve, medio e lungo periodo. Il progetto educativo si sviluppa a partire dalla presa in carico dell’assistente sociale di riferimento, a cui si connette un dialogo con la famiglia improntato alla co-progettazione che veda coinvolti sia il servizio educativo che il sistema familiare. La stesura degli obiettivi avviene dopo un periodo di osservazione, a cui fa seguito l’elaborazione del progetto e l’individuazione delle strategie di intervento. Il lavoro educativo “frontale” prevede tre momenti distinti, seppur interrelati. Il primo: l’educatore progetta con il minore una serie di attività educative entro setting differenti. Il secondo: l’educatore lavora con le figure adulte di riferimento, tramite colloqui educativi e di counseling. Il terzo: l’educatore organizza momenti educativi con minori e genitori simultaneamente, fornendo una forma di sostegno. Lo Spazio Neutro Con “Spazio Neutro” intendiamo un servizio che, seppur mediato dal Servizio Sociale, si caratterizza per avere un setting di progettazione pedagogica e di intervento educativo differente rispetto all’Educativa Domiciliare. Nello specifico, uno Spazio Neutro garantisce l’incontro tra un minore e un membro del sistema familiare come conseguenza di eventi critici e conflittuali. Tramite un servizio di questo tipo è possibile sorreggere lo sviluppo della relazione sia: a) rafforzando nell’adulto le competenze di cura educativa da spendere nei confronti del minore; b) sostenendo il minore, attraverso una mediazione tra le sue istanze e quelle dell’adulto. Differentemente dall’Educativa Domiciliare vi è una maggiore incidenza dell’Autorità giudiziaria nel servizio di Spazio Neutro, che impone una strutturazione maggiormente precisa dei setting. Il setting pedagogico tra continuità e discontinuità L’educatore implicato nei processi e nelle pratiche di educazione familiare rinviene nel setting un contesto dell’apprendimento e un sistema in continua evoluzione in cui egli è parte integrante. L’azione dell’educatore all’interno del sistema produce un cambiamento delle proprie strutture attraverso a) i feedback ricevuti con il sistema e con l’ambiente sterno, b) una contestuale astrazione determinata. Nello specifico, quando discutiamo di setting familiare, ovvero di un contesto non formale dell’apprendimento, emerge una complessità nella predisposizione teorica di un setting educativo, con differenze tra il servizio di Educativa Domiciliare e quello di Spazio Neutro. Mentre l’Educativa Domiciliare si sviluppa entro una frammentazione dei contesti dell’apprendimento a cui inerisce l’educatore, lo Spazio Neutro prevede una predisposizione di spazi, tempi e regole che ne scandiscono lo sviluppo. In entrambi i casi manca un’azione esterna che determini le dinamiche interne. I servizi di Educativa Domiciliare e di Spazio Neutro agiscono tra continuità e discontinuità familiari. La continuità viene garantita dalla cura e dal sostegno rivolti a) allo sviluppo delle competenze e b) alla chiusura del progetto stesso. Mentre la discontinuità si inserisce nella misura in cui il sistema familiare cede una quota del proprio carattere privato all’intervento sociale. Il setting familiare, dunque, si connota come possibilità più che come effettiva predeterminazione. Sull’educatore implicato nel sostegno alla famiglia e alla genitorialità La figura dell’educatore si deve collocare entro la Pedagogia come scienza avente quale proprio oggetto di analisi e di intervento la formazione. Occorrono tuttavia due precisazioni per evitare interpretazioni unilaterali e confusive. In primo luogo rimarchiamo il carattere complesso della Pedagogia come scienza, la quale non può rinchiudersi in astrazioni teoriche dovendo perseguire 15 un’adeguata aderenza con le diverse scienze dell’educazione. In secondo luogo, risulta decisiva una lettura complessa del Servizio Sociale, ovvero del principale interlocutore del servizio educativo. Fatte queste premesse, è possibile condensare i compiti dell’educatore nel rapporto che si determina nel sistema familiare. Per un possibile ripensamento curricolare Sul piano della riflessione curricolare l’educatore implicato in servizi di Educativa Domiciliare e di Spazio Neutro rappresenta una transazione del lavoro educativo. È in quest’ottica che, all’interno di un ripensamento curricolare che preveda il sostegno alla famiglia e alla genitorialità, è possibile considerare la famiglia come un sistema educativo aperto e in continua evoluzione. 8) MINORI IN AFFIDO E IN ADOZIONE: UN CONTRIBUTO GIURIDICO PER UNA PIÙ CONSAPEVOLE RELAZIONE EDUCATIVA (di Maria Donata Panforti) L’adozione e l’affidamento nella storia Molto spesso, specialmente in ambito non giuridico, affidamento e adozione sono considerati come gemelle. In realtà la disciplina giuridica regola in modo assai differenziato i due istituti. Dei due, l’adozione è di gran lunga più antica. Sorta come l’atto con cui il pater familias assumeva sotto la propria potestà una persona appartenente ad un’altra famiglia per ragioni meramente dinastiche e economiche, l’adozione evolve nel tempo fino ad acquisire il carattere di un atto di carità verso un bambino bisognoso. Si discuterà a lungo, nella Francia napoleonica, se introdurla all’interno del corpus del Codice Civile o lasciarla al di fuori perché un atto di amore non deve essere regolato dal diritto. Tuttavia questa opinione non prevalse e il Code Civil del 1804 finì per accogliere al suo interno le norme sull’adozione, soprattutto riguardo i figli nati all’interno del matrimonio. Il primo Codice civile italiano, entrato in vigore nel 1865, consentì di adottare solo alle persone che avessero compiuto 50 anni e fossero prive di figlie propri, mentre l’adottato doveva avere compiuto 18 anni. Analoghi limiti erano previsti dal Codice civile italiano del 1942 che riservava l’adozione ai maggiori di età e la escludeva per i propri figli se nata al fuori del matrimonio. Dobbiamo attendere fino al 1967 perché nel diritto italiano venga introdotto un nuovo modello di adozione, indicato all’epoca come “speciale”, che concepisce un duplice bisogno: di una coppia disponibile e generosa ma priva di figli e desiderosa di averne, da un lato, e di un minore abbandonato e perciò in cerca di affetto e sostegno materiale, dall’altro. L’attenzione dell’ordinamento, finora concentrata sugli adulti, inizia a ripartirsi sui diversi soggetti coinvolti. L’istituto è stato poi riformato dalla legge 4 maggio 1983, n. 184 attualmente in vigore sebbene aggiornata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149. L’adozione internazionale è invece regolata dalla Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale firmata nel 1993 e ratificata dal nostro paese con la legge 31 dicembre 1998, n. 476. Dai contorni meno definiti è invece l’affidamento, finchè la legge 1983/184 lo ha disciplinato autonomamente come uno dei rimedi previsti per il caso del minore la cui famiglia non sia temporaneamente in grado di svolgere i compiti di “mantenere, istruire e educare” imposti dalla Costituzione e dal Codice civile. La sintetica disciplina contenuta nella legge 184 si è ampliata negli ultimi decenni per includere le tante forme di affidamento per rispondere alle necessità degli assetti familiari molto vari di cui l’ordinamento giuridico italiano ha via via riconosciuto l’esistenza e delle situazioni di difficoltà dovute a cause imprevedibili, quali ad esempio il diffondersi delle tossicodipendenze e dei problemi di integrazione sociale degli immigrati da altri paesi. Il diritto del minore a una famiglia Nella visione del diritto contemporaneo, adozione e affidamento, pur nella loro diversità, sono espressione del “diritto del minore a una famiglia”, formulato a livello sovrannazionale dalla Convenzione di New York del 1989. Il minore ha il diritto di crescere ed essere educato dai genitori oppure nell’ambito della famiglia allargata di cui fanno parte i parenti più stretti, come i nonni e gli zii. Solo quando la famiglia non abbia gli strumenti per offrire al minore un ambiente adeguato, l’ordinamento interviene con l’affidamento o l’adozione. In entrambi i casi, comunque, l’interesse del minore deve essere la considerazione prevalente su ogni altra possibile. Tale concezione prende il posto della visione tradizionale dell’adozione, considerata come una soluzione per coniugi senza eredi che vogliano tramandare il proprio nome, o per coppie anziane senza figli disposte a lasciare i propri bene a una persona che dia loro assistenza e aiuto. Il minore deve essere coinvolto nel procedimento e informato di essere adottato perché questo è un diritto della persona e costituisce un elemento fondante della sua personalità. Via via che ci avviciniamo a noi, tuttavia, nuove forme di adozione si fanno strada, più flessibili per la prassi giudiziaria. Anche 16 l’affidamento si frantuma in una pluralità di forme e di modalità attuative. Il ricorso all’affidamento familiare e il collocamento in case famiglia impongono alla collettività un onore economico significativo, non sempre ben coordinato dagli enti locali. La disciplina giuridica Le forme di affidamento esistenti attualmente nel nostro ordinamento sono: • affidamento a un nucleo familiare composto da parenti del minore; • affidamento a una famiglia estranea, non legata da rapporti di parentela al minore; • affidamento ai servizi sociali, con collocazione presso una famiglia; • affidamento ai servizi sociali, con collocazione presso una comunità di tipo familiare. Il ricorso all’affidamento in moltissimi casi rientra nell’ambito dell’attività autonoma dei servizi sociali e non richiede l’intervento dell’autorità giudiziaria, tanto che si parla di affidamento “consensuale”. Al contrario, qualora i genitori rifiuti l’assenso all’affidamento loro proposto dai servizi sociali, può intervenire il Tribunale per i minorenni. Si avrà allora un affidamento “giudiziale” o “giudiziario”. Ben distinta dall’affidamento è l’adozione che corrisponde a una situazione di accoglienza definitiva, derivante da un abbandono completo. I diversi tipi di adozione regolati dalla legge sono: • adozione piena, che produce effetti identici alla filiazione biologica, ed è riservata a coppie sposate, stabilmente conviventi, di età non troppo avanzata rispetto all’età del bambino, e in grado di allevare e educare il piccolo che deve essere stato dichiarato dal Tribunale per i minori “in stato di abbandono”; la procedura è complessa e lunga. Ogni legame con la famiglia di origine viene definitivamente reciso. • adozione semplice, riservata ai minori orfani, accessibile ai parenti o alle persone, anche singole, che abbiano con il minore un rapporto preesistente alla perdita dei genitori. Rientrano in questa disciplina le adozioni del figlio del coniuge nel caso delle famiglie ricostituite dopo un divorzio. Questo tipo di adozione è revocabile e lascia sussistere i legami con la famiglia di origine. • adozione internazionale per minori che si trovano all’estero e siano stati dichiarati adottabili dalla legge interna di quel paese. La procedura è molto complessa e prevede la partecipazione della Commissione per le adozioni internazionali. I suoi effetti sono identici a quelli dell’adozione piena, e includono l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte del bambino. Nella realtà delle cose, tuttavia, si riscontrano molte situazioni familiari in cui i genitori sono solo parzialmente in grado di occuparsi dei loro figli, senza che si possa riscontrare un “abbandono del minore” tale da dar luogo all’adozione. Si parla allora di “semiabbandono permanente”. In questi casi le vie d’uscita offerte sono quelle di mantenere l’affidamento finchè il minore compie 18 anni; oppure trasformare l’affidamento in adozione, quando gli affidatori possiedano i requisiti previsti dalla legge; oppure utilizzare lo strumento dell’adozione “in casi particolari”. Si parla, in quest’ultimo caso, di “adozione mite”. Altri ordinamenti giuridici occidentali hanno introdotto per questo tipo di situazioni un modello di adozione “aperta” in cui genitori biologici e genitori adottivi concordano sull’adozione e restano in contatto anche successivamente. Il rapporto con gli insegnanti e gli educatori Può essere utile chiedersi se per un educatore, un pedagogista o un insegnante vi siano differenze fra il relazionarsi con i bambini affidati o adottati oppure con i bambini che non lo siano. È molto importante che gli insegnanti e chiunque abbia a che fare con i bambini in affidamento tenga conto che tale condizione è per natura sua transitoria, e che ha l’obiettivo di consentire il reinserimento nella famiglia di origine il più presto possibile. L’art. 28 della legge 1983/184 impone ai genitori di informare i figli adottivi di tale condizione. Per quanto concerne l’insegnante, poiché prima dell’introduzione di tale norma, avvenuta con la riforma del 2001, la materia era lasciata alla piena discrezionalità dei genitori, poteva accadere che essi decidessero di non far sapere al bambino adottato di essere tale. Ma dopo la modifica legislativa introdotta, e anche con il diffondersi dell’adozione internazionale, per effetto della quale numerosi bambini appaiono palesemente “diversi” dai loro genitori e spesso dai loro fratelli e sorelle, l’insegnante (come l’educatore) oggi ha di fronte bambini consapevoli di essere adottati. Ed è quindi opportuno che l’insegnante sia a conoscenza del significato e degli effetti giuridici che l’adozione produce, in modo da poter accompagnare i suoi allievi a capire che, nella concezione giuridica odierna, un bambino adottato non è – come forse una volta – un bambino che qualcuno ha abbandonato, ma un bambino di cui l’ordinamento giuridico si è preso cura in modo particolare. L’adozione è un iter giudiziario difficile e scoraggiante, oltre che molto costoso in termini economici e di tempo. La consapevolezza di tutto 17 La permanenza: Un gruppo nell’appartamento – Come gruppo-appartamento, il setting di comunità ha nella sua definizione le parole: appartamento, alludendo alla condivisione di uno spazio fisico, e gruppo, lasciando alludere anche alla condivisione di uno spazio mentale, sociale e culturale che può farsi strumento per conoscere e metodo per educare. Il gruppo può ricreare la struttura e il clima tipici della famiglia. È importante considerare, però, che un gruppo-appartamento è segnato da alcuni fattori che è indispensabile conoscere per educare: 1. forti eterogeneità delle caratteristiche e delle competenze e abilità dei singoli membri; 2. autopercezioni che condizionano emozioni, pensieri e azioni; 3. fenomeni di rappresentazione sociale tra gli educandi e tra educandi ed educatori. La possibilità che il gruppo diventi effettivo contesto educativo dipende dall’intenzionalità, dalla coerenza e dalla progettualità delle prassi educative messe in atto che dovrebbero rispondere al bisogno dei minori di sentirsi accettati. Il Progetto Educativo Individuale e il Progetto Educativo di Comunità – Quello in comunità è un lavoro che si muove facendo attenzione a non scambiare l’assistenzialismo per educazione: per questo è necessario lavorare, contemporaneamente, sul singolo e sul gruppo. Il Progetto Educativo Individuale deve essere coltivato insieme al Progetto Educativo di Comunità. Strettamente legato al progetto quadro, ma allo stesso tempo distinto da esso, troviamo il PEI: funzionale all’elaborazione di interventi di sostegno al minore. L’intervento del team educativo deve proporre routine che assolvano la funzione di riconoscimento. L’azione educativa dovrebbe includere obiettivi di breve, medio e lungo termine, che concernono differenti ambiti di vita. La presenza di una condizione educativa di tipo gruppale, differente da quella duale, dunque di un Progetto Educativo di Comunità, richiede di concepire la relazione educativa nei termini di un’opportuna gestione del gruppo che risponda, allo stesso tempo, ai bisogni del gruppo e dei singoli individui. Il congedo: Come l’inserimento, anche il congedo del minore dal gruppo-appartamento risulta un periodo critico che necessita di una progettazione dei tempi e dei modi per un opportuno distacco e per la preparazione al rientro in famiglia o a un nuovo affido. L’uscita dal gruppo-appartamento può riattivare vissuti tipici di un ennesimo abbandono accompagnati dalla paura di ri-entrare in una condizione di vita negativa. Nel 2009, la Commissione delle Nazioni Unite ha emanato le “Linee guida sull’accoglienza etero-familiare”, di sollecito ai governi nazionali per la realizzazione di opportune misure alternative funzionali alla transizione. Il congedo coincide con un momento critico sia per la vulnerabilità e fragilità dei minori/neomaggiorenni coinvolti, già provati da esperienze sfavorevoli e traumatiche, sia per le incertezze relative alle prospettive future, che si traducono nel rientro in un nucleo familiare spesso ancora inadeguato ad accompagnare nei compiti dello sviluppo. Pertanto, è necessario co-costruire con il giovane un progetto. L’esperienza nel settore ha messo di fronte a un’emergenza educativa, ossia che al compimento del diciottesimo anno di vita gli ospiti devono essere dimessi, poiché termina l’obbligo assistenziale dello Stato, costringendoli a un ingresso nell’età adulta “accelerato e compresso”. Essendo, quindi, importante preparare il congedo attraverso una significativa progettualità, tale da evitare il fallimento dell’intero progetto educativo e consentire l’integrazione sociale dei soggetti, è emersa la richiesta di protrarre la responsabilità della società garantendo, oltre il diciottesimo anno, forme di tutela educativa e assistenziale, particolarmente attraverso le esperienze di appartamenti in autonomia. Le figure professionali: osservazione/monitoraggio, progettazione e conduzione dell’accoglienza/ inserimento, della permanenza e del congedo, verifica/valutazione necessitano della competenza delle figure: del responsabile (che collabora con la più ampia rete multidisciplinare e con i servizi sociali) e del coordinatore pedagogico (che progetta e monitora, coadiuva e affianca il lavoro dell’équipe educativa), di un capo-educatore (che sostiene e orienta gli educatori), di educatori professionali socio-pedagogici (con una formazione specifica), che sappiano lavorare con le differenti professionalità e in team. 20 I SERVIZI EDUCATIVI PER L’INFANZIA E IL CENTRO DI AGGREGAZIONE GIOVANILE 10) IL NIDO E LE NUOVE TIPOLOGIE (di Rossella D’Ugo) La nascita del Nido Il nido nasce ufficialmente nel 1971 con la legge 1044, in un clima politico caratterizzato da notevoli cambiamenti (servizi sociali, valorizzazione del lavoro femminile, un nuovo quadro teorico che rende plausibile progettare per i bambini più piccoli un intervento formativo al di fuori della famiglia) L’articolo 6 della legge stabilisce che i nidi devono: - Essere realizzati per rispondere alle esigenze delle famiglie (localizzazione e funzionamento) - Essere gestiti dalle famiglie e dalle rappresentanze delle formazioni sociali del territorio - Essere dotati di personale qualificato per garantire assistenza sanitaria e psico-pedagogica ai bambini - Possedere i requisiti per garantire lo sviluppo armonico dei bambini La legge inoltre affida la regolamentazione alle Regioni e a loro gestione ai Comuni; questo porta inevitabilmente ad una distribuzione di Nidi sul territorio nazionale poco omogenea (alcune province non riescono a superare la soglia del 5% dei posti rispetto ai nati). Questa disomogeneità è determinata non solo dalla mancanza di risorse economiche, ma anche da dimensioni socio- culturali non ancora in grado di comprendere l’impatto educativo di un servizio come il Nido. Le finalità del Nido Il Nido “moderno” si pone come finalità progettuale quella di promuovere egualmente le competenze di tutti i bambini in raccordo con la successiva scuola dell’infanzia. Un Nido si può definire di qualità se è in grado di: - Essere accessibile a tutti, valorizzando la diversità socioculturale dei suoi utenti attraverso la promozione di un approccio interculturale che tenga in considerazione i bisogni espressi (e non) dei bambini - Offrire occasioni di formazione in servizio per i professionisti (educatori e pedagogisti) - Pianificare e promuovere momenti di collegialità (progettazione, documentazione, colloqui con i genitori, valutazione della prassi, ecc.) - Definire e attuare un curricolo in grado di orientare la progettualità condivisa sulla base di una visione comune che comprenda finalità pedagogiche e progetti educativi per lo sviluppo delle potenzialità di ciascun bambino in modo multilaterale - Garantire azioni di monitoraggio e valutazione della qualità educativa e didattica Il curricolo del Nido: cura e educazione Il fine principale del Nido è quello di promuovere il primo sviluppo del bambino da 0 a 3 anni e il mezzo per perseguirlo è il curricolo, cioè il percorso formativo, che si attua tramite azioni, interazioni didattiche e attività di apprendimento. Per fare questo sarà fondamentale integrare momenti legati alla promozione della cura e momenti legati alla promozione dell’educazione: - la cura. La cura scandisce i momenti della vita al nido, che si ripetono ogni giorno e sono “rituali fissi”; rappresentano occasioni e opportunità di sviluppo e apprendimento per i bambini (esempi di questi momenti: accoglienza mattino, il cambio, il pasto, il riposo, il commiato pomeridiano) - l’educazione. È rappresentata da tutte le attività mirate che l’educatore propone al bimbo con lo scopo di favorire i suoi apprendimenti e che sono programmate dal curricolo. Le attività mirate di “educazione” dovranno promuovere quei traguardi che Kuno Beller considera compiti e fattori di sviluppo: indipendenza nelle funzioni del corpo, consapevolezza dell’ambiente, sviluppo sociale ed emotivo, gioco concreto e simbolico, linguaggio, sviluppo cognitivo, motricità generale e fine) I tempi e gli spazi del Nido a) I tempi dei bambini e degli adulti Bisogna pensare al tempo del nido come una dimensione che si muove su due livelli: - 1° livello, quello del tempo “istituzionale” dato dalle regole di funzionamento del nido stesso - 2° livello, il tempo dato dall’organizzazione operativa del lavoro degli adulti 21 A questi due livelli, se ne intersecano altri due: - il tempo degli adulti: coincide con un buon equilibrio tra le esigenze del genitore lavoratore e e il bisogno di stabilità delle figure di riferimento del bambino, e con la pianificazione di un buon orario di lavoro per garantire il rapporto di cura tra l’educatore e il bambino, per salvaguardare la continuità del rapporto - Il tempo dei bambini: momenti principali (accoglienza bimbi e genitori, spuntino del mattino, cura e igiene, esplorazione/attività/gioco, preparazione per il pranzo, pranzo, igiene e preparazione per il riposo, risveglio e merenda, commiato e uscita) b) Un “tempo” importante: l’inserimento L’inserimento è considerato uno di quei momenti più significativi; il primo inserimento infatti viene percepito dalle famiglie come un cambiamento nelle abitudini del bambino e la riorganizzazione della vita familiare. Per questo motivo è molto importante che l’educatore comprenda le preoccupazioni dei genitori, costruendo un rapporto di fiducia. c) Gli spazi Lo spazio è parte fondamentale e integrante dello sviluppo di una bambino, perciò pedagogici ed educatori devono trovare soluzioni adatte a organizzare lo spazio educativo in coerenza con gli assunti pedagogici. Non ci sono regole fisse, ma criteri orientativi. Sono presenti un ingresso, un ampio salone per momenti comuni delle sezioni, la stanza per il riposo, eventuali laboratori/centri attività, i bagni, le zone di collegamento e passaggio, le zone del pasto e della merenda e se possibile un ambiente esterno. L’équipe: il pedagogista e gli educatori per i servizi di infanzia Il pedagogista coordina gli educatori, ed è un vero e proprio “ricercatore e sperimentatore” delle possibili strategie per la risoluzioni delle problematiche; osserva e valuta, promuovendo costantemente la professionalità degli educatori; si confronta con le diverse figure professionali come psicologi e logopedisti; attua mediazioni con le famiglie; stringe alleanze educative con gli operatori delle agenzie del territorio. L’educatore deve essere in grado di orchestrare, allo stesso tempo, la cura e l’educazione dei bambini e tutelare la loro integrazione nella comunità dei pari, il contesto del nido d’infanzia e la sua organizzazione, le relazioni con i colleghi, con la famiglia e con tutto l’ambiente sociale. Gli strumenti dell’équipe: l’osservazione e la documentazione Osservazione e documentazione sono gli strumenti principali degli educatori e pedagogisti. a) L’osservazione Osservare è la costante ricerca della realtà; è un dispositivo fondamentale nel processo della ricerca pedagogica e consente di definire i problemi e condurre a nuove suggestioni. (strumenti di osservazione consigliati: la scala di SVANI, le Tavole di Kuno Beller) b) La documentazione La documentazione ha come finalità principale e trasversale quella di attuare un processo di ricerca sulla qualità educativa del servizio; ritrova le proprie ragioni nel ripensamento delle proprie azioni educative e didattiche (di pedagogisti ed educatori). Oltre il Nido: nuove tipologie di servizi per l’infanzia Recentemente si sono sviluppate “nuove tipologie” di Nido, alternative a quello pubblico, per rispondere a determinate richieste delle famiglie, portando ipotesi alternative e complementari. * nuove tipologie di servizi: Nido d’infanzia convenzionato, privato o aziendale; Micronido e Micronido famigliare; Centro gioco o Centro infanzia; Laboratorio per l’infanzia; Baby Parking (Vedi tabella con spiegazioni pg 164-165) 22 STRUTTURE DI E PER IL DISAGIO PSICOSOCIALE 13) IL CARCERE. ORA, ISTITUTO DI PREVENZIONE E PENA: QUALE RIEDUCAZIONE? (di Liliana Dozza) Spazi, tempi, dinamiche interne Il carcere è una comunità coatta, in cui è preclusa la libertà di gestire se stessi su vari piani e in contesti diversi, pubblici e privati. Restringe e appiattisce il vivere dei singoli entro: - Spazi che sono sempre gli stessi, ristretti, delimitati, comuni, esposti, ma soprattutto pieni di vuoto e di oggetti che mancano - Tempi, poiché i ritmi nel carcere sono reiterati, ossessivi, lenti: il pasto, l’ora d’aria, i momenti di socializzazione, l’ora di visita, gli incontri con gli operatori. È una parte di vita marcata dalla solitudine, dall’estraniamento, dall’inutilità dell’attesa, dall’angoscia per l’ignoto di ciò che avviene oltre il “blindato” - Regole/relazioni che si giocano all’interno di sotto-sistemi di categorie legali e su piani diversi Qui la cultura del “gruppo” tende ad esaltare ed enfatizzare sia le differenze etniche e culturali, sia l’esperienza fatta e l’ambiente criminale frequentato prima della detenzione, considerati elementi di certa “importanza e di distinzione individuale”. Una legislazione e una realtà penitenziaria che non marcano il passo insieme Ogni paese si dà leggi penitenziarie che intendono essere coerenti con il sistema di ipotesi sulla pena; possiamo definire il carcere come un sistema organizzativo complesso a cui si pensa avendo a riferimento un sistema di teorie sulla pena e che dovrebbero regolarsi secondo quanto viene sancito dal sistema legislativo vigente nel Paese. A) Il sistema di teorie sulla pena vigente nel nostro Paese ricalca l’antinomia tra prospettiva retribuzionistica e utilitaristica. L’una attribuisce alla pena la funzione di espiazione (“hai sbagliato, perciò paghi per quello che hai fatto”), l’altra attribuisce alla pena le funzioni di difesa sociale (“ti punisco e ti rieduco”). Una terza opzione, in direzione riduzionistica, intende limitare quanto più è possibile l’uso del carcere optando per “misure alternative”. B) Il sistema legislativo vigente nel nostro Paese intende portare a “conciliazione” la prospettiva retribuzionistica con la prospettiva utilitaristica correzionale e riduzionistica. Ribadisce il principio della finalità rieducativa della pena, introducendo il concetto di trattamento rieducativo finalizzato al reinserimento sociale del detenuto. Si tratta di un programma di trattamento messo a punto, sulla base dell’osservazione della personalità di ogni soggetto, da parte di un gruppo interdisciplinare. Gli elementi centrali di questo trattamento sono: istruzione, lavoro, religione, attività culturali (ricreative e sportive), contatto con il mondo esterno e rapporti con la famiglia. Lo spirito della legge impone che il tempo della detenzione abbia un contenuto positivo. C) Il carcere, ora Istituto di prevenzione e pena, è un’istituzione modificata significativamente nella denominazione e nella normativa, ma solo in parte e in alcuni casi nella struttura e nell’organizzazione. In relazione alle innovazioni delineate, l’amministrazione penitenziaria è stata dotata di nuove categorie di personale (psicologi, assistenti sociali, educatori, psichiatri e criminologi clinici). Il carcere delineato dalla riforma è un’istituzione interessata ad essere parte della società che la esprime, non più soggetto separato e oggetto di rimozione sociale e politica. Però bisogna dire che condizioni e limitazioni economiche hanno sfidato non poco l’organizzazione delle carceri, frenando il cambiamento. Il ruolo dell’educatore e le “figure di sistema” nel carcere La relazione educatore-detenuto/i si propone come paradossale: - l’educatore dovrebbe portare a conciliazione dialettica l’antinomia educare vs. punire, quando l’educatore è lì per fare stare meglio un detenuto in un contesto pensato e costruito per punire; è opportuno che l’educatore eviti di mascherare l’azione di controllo (per non entrare in antagonismo con le figure di sorveglianza) e che adotti un giusto distanziamento emotivo - l’educatore dovrebbe portare a conciliazione dialettica l’antinomia Autorità vs. Libertà, quando l’educatore è lì per educare alla libertà e all’autonomia in assenza/limitazione di libertà. La sua stessa posizione è “equivoca”: si propone come partner in una relazione asimmetrica nella quale una sottomissione forzata può mascherarsi da cambiamento. 25 L’educatore dovrà fare molta chiarezza sul proprio ruolo e sui propri compiti nei confronti dei detenuti, e dovrà ricercare un’integrazione costruttiva della propria funzione con le altre professionalità rappresentate nell’equipe al fine di dare risposte integrate e coerenti. Ci si può chiedere se sia possibile avvalersi delle potenzialità dinamiche gruppali anche in carcere; esperienze comunitarie si sono dimostrate utili, ma ben poco è possibile fintanto che le figure operative e professionali restano gerarchicamente distanti e operativamente separate, tra di loro e rispetto l’esterno. Esperienza sul campo e formazione al ruolo 1) Testimonianza di una studentessa universitaria che si reca a fare tirocinio in un istituto penale per minori (vedi da pg 194 a pg 198) 2) Riflessione su un’esperienza formativa di un collega dell’autrice di questo capitolo, tenuta ad un corso di formazione regionale promosso dal Ministero di Grazie e Giustizia, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Provveditorato Regionale dell’Emilia Romagna rivolto ad operatori penitenziari, volontari ed enti locali. (vedi da pg 198 a 202) 14) IL CARCERE-CANTIERE: PERCORSI DI RESPONSABILIZZAZIONE PER DONNE RECLUSE (di Elena Zizioli) Il futuro del carcere Nelle cosiddette pratiche trattamentali delle carceri i rischi di disumanizzazione, di perdita della dignità, di negazione dell’identità sono sempre stati presenti, generando parte dei meccanismi di regressione, per una strutturazione vincolata ed eterodiretta del tempo fisico che inibisce le capacità del soggetto di autodeterminarsi e che condiziona il modo di pensare il futuro, la progettualità. Il carcere ha per certi versi un effetto moltiplicatore delle “learning disabilities” (quali l’isolamento, la sfiducia, l’aggressività), per altri, ed è questa la visione che ci interessa, può diventare “un cantiere” dove, proprio attraverso il sapere pedagogico nella sua valenza trasformativa, si deve lavorare per: * il superamento definitivo dell’approccio educativo, per un riscatto della persona umana e la cura educativa del disagio con la progettazione di percorsi responsabilizzanti * La messa in rete tra le diverse professionalità con un continuo scambio tra dentro e fuori, promuovendo iniziative di risocializzazione * La riappropriazione del senso di appartenenza alla comunità La detenzione femminile. Dati istituzionali e fonti narrative Le donne in carcere sono “dimenticate” più di quanto non accada per “l’universo maschile che affolla i penitenziari”, in primis perché costituiscono una minoranza: secondo gli ultimi dati aggiornati al 30/09/2018, con 2556 di cui 952 straniere su una popolazione totale di 59275, non discostandosi di molto dalle percentuali europee che oscillano tra il 4 e il 6%. Il nostro paese conta solo 4 istituti femminili (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Venezia - Giudecca), costringendo la maggior parte delle detenute a scontare la pena in sezioni ricavate all’interno di istituti pensato e progettati per gli uomini, rinnegando quella specificità che l’articolo 34 delle regole penitenziarie europee /2006) ha giustamente sottolineato. Sono previste disposizioni speciali soprattutto per le madri e per le straniere. Per le donne la perdita della propria identità sembra essere vissuta in modo ancora più conflittuale che la perdita della stessa libertà, anche se riescono a sottrarsi maggiormente alla spersonalizzazione istituzionale (cura del proprio aspetto fisico fatta con pochissimi oggetti, creazione di un gergo/linguaggio proprio, in rifiuto a quello carcerario). I racconti lasciano trasparire un bisogno di aggregazione e socialità molto più forte di quella “maschile”: si annullano le distanze generazionale, si sperimenta una forma di solidarietà, di “sorellanza”. L’esperienza più complessa tra le mura è quella della maternità che rimane inevitabilmente soffocata nelle maglie del dispositivo disciplinare. La relazione madre-figli è pensata in termini di concessione di tempo per l’accudimento, di allestimento di spazi adatti allo sviluppo psicofisico dei bambini (aree Nido), di un reale sostegno alla genitorialità. Il sentimento positivo dell’essere madre configge nella maggior parte dei casi con il senso di colpa, poiché “madri imperfette”; spesso questa consapevolezza rende la carcerazione ancora più dura. 26 La professione nella reclusione Lavorare con donne recluse mette in campo valori, concezioni, modelli culturali che trascendono la reclusione stessa o meglio che chiedono un’azione di contrasto ancora più forte al dispositivo disciplinare perché la femminilizzazione delle pratiche fa suoi alcuni tratti da cui il mondo maschile ha sempre preso le distanze. c’è poi la “l’inferiorizzazione” del femminile mai del tutto superata, e che purtroppo riguarda non solo le detenute, ma anche le operatrici. Riflessione sul ruolo dell’educatrice penitenziaria: funzionaria giuridico-pedagogica, sempre in bilico fra l’esercizio rigido di norme e la capacità, invece, in umanizzarle, per rendere educativamente costruttiva l’esperienza del carcere. Criticità principali: isolamento professionale, mancanza di percorsi formativi in itinere per l’aggiornamento delle competenze, burocratizzazione dei processi che ha svuotato di senso il ruolo dell’educatore, riducendolo ad un funzionario (vedi tabella pg 211). Percorsi per la responsabilizzazione Le raccomandazioni che aiutano nella progettazione di percorsi educativi responsabilizzanti sono: * Sviluppo di un’offerta ricca e diversificata, come nelle sezioni maschili, di attività educative, ricreative, sportive nel programma di trattamento; * Incremento dei corsi scolastici e di quelli professionali qualificanti, superando gli stereotipi più comuni che assegnano alla donna principalmente il lavoro di cura; * Istituzione di commissioni formate dalle detenute stesse per valorizzare forme di cogestione e, quindi, favorire l’autodeterminazione; * Allestimento di luoghi adatti all’esercizio dell’affettività e della sessualità, per non rinunciare ad una educazione sentimentale; * Maggior concessione delle misure alternative alla detenzione, favorendo la “decarcerizzazione” delle madri Sono raccomandazioni che mirano all’elaborazione di un nuovo modello di femminilità in grado di contrastare la debolezza emotiva, la disistima, insistendo sulla forza istintuale e vitale e sulle capacità di esercitare i propri diritti, per aiutare le donne a sottrarsi ai destini di subalternità e marginalità. Nella progettazione dei percorsi di responsabilizzazione, tra i dispositivi maggiormente utilizzati, figura la narrazione, nello specifico l’autobiografia; è una cura educativa che contribuisce alla costruzione dell’identità, predispone all’apertura, a un confronto libero, serio, e permette di rivedere il proprio percorso con nuovi occhi. Un’esperienza che sta diffondendosi e che valorizza il dispositivo autobiografico è quella delle biblioteche viventi: i libri sono persone fisiche che si raccontano per circa 30 minuti. 27 - Il congedo. La chiusura del rapporto educativo può dipende da diverse motivazioni, positive o negative: può coincidere, ad esempio, con il compimento della pena e/o con il reinserimento sociale della persona in una abitazione autonoma oppure l’interruzione brusca della relazione educativa per via del fallimento del progetto. Il congedo può avvenire con modalità anche graduale. - Le relazioni interne ed esterne. Le relazioni che caratterizzano il contesto di un gruppo appartamento per l’EPE sono di tipo simmetrico (ospiti fra loro ed educatori fra loro) e asimmetrico (ospiti ed educatori, educatori e loro responsabili). I gruppo-appartamento possono ospitare un numero massimo di 6 persone: il lavoro educativo sul piccolo gruppo garantisce miglior interazione, adesione e feedback reciproci in cui l'altro da regolatore del sé; in molti casi si tenne a preferire setting caratterizzati da gruppi omogenei o, comunque, meglio compatibili ad esempio per ridurre il rischio di conflittualità. Il gruppo di operatori dovrebbe essere composto da un minimo di tre educatori (tra cui una coordinatore). La relazione educativa si gioca soprattutto all'interno del gruppo appartamento, in particolare nella quotidianità, nello svolgimento di alcune attività che si condividono ma anche nella capacità che l'educatore ha di essere ponte con l’esterno. 16) Il SerDP E LA COMUNITA’ TERAPEUTICA PER TOSSICODIPENDENTI (di Ilaria Ricchi) Definizioni ed evoluzione dei concetti generale L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce con il termine droga tutte le sostanze psicoattive che alterano le normali funzioni del sistema nervoso centrale andando a modificare I processi cognitivi, le percezioni sensoriali e i nostri comportamenti. Per le sue caratteristiche biochimiche, la droga può portare ad uno stato di dipendenza in cui il soggetto perde completamente la propria autonomia e ogni sua attività è legata e regolata dalla sostanza stupefacente. Si distingue infatti una dipendenza psicologica e una dipendenza fisica; con la prima si intende il desiderio irrefrenabile di assumere nuovamente la sostanza, mentre con la seconda si vuole indicare quella dipendenza più strettamente legata alla sostanza usata e al modo di somministrazione di questa. La dipendenza si può distinguere in fisica e psicologica, ma i due aspetti si intrecciano continuamente. Il craving, conseguenza della tossicodipendenza, produce uno stato di vulnerabilità a lungo termine, che si manifesta attraverso meccanismi di coercizione: il soggetto, alla presenza di determinati stimoli ambientali che lo rimandano alla droga, prova un desiderio incontrollabile verso la sostanza psicotropa. Il craving si può instaurare anche anni dopo la disintossicazione a causa di uno stimolo qualsiasi. Teorie sulle tossicodipendenze A partire dal 18º secolo si può parlare di modello morale che interpreta l'abuso da sostanze come una cattiva abitudine e/o un vizio. Nel 19º secolo invece si assiste al passaggio dal modello morale al modello medico che reputa la tossicodipendenza alla stregua di qualsiasi altra malattia e il tossicomane viene considerato non più come qualcuno da allontanare ma come qualcuno da aiutare. Il 21º secolo si contraddistingue per essere il secolo dei poliassuntori: siamo di fronte a una nuova tipologia di tossicodipendente che non ha più una sostanza di abuso prediletta, ma assume qualsiasi sostanza indistintamente. Negli utenti che si avvalgono dei servizi per le tossicodipendenze e che affrontano un percorso comunitario è sempre più presente una componente psicopatologica che incide sulla tossicodipendenza o può essere esito di essa. La tossicodipendenza non può venire ricondotta ad un'unica causa, ma deve essere considerata come “il prodotto di differenti componenti eziopatogenetiche”. Le varie teorie attribuiscono maggiore importanza ad alcune cause piuttosto che ad altre e possono essere ricondotte a due ampi paradigmi che si muovono in senso opposto: - Il paradigma disease si collega al modello medico perché considera il tossicodipendente un soggetto “diverso e malato”; i fattori che incidono sulla dipendenza sono interni all’individuo:il comportamento dipendente è l’esito di una predisposizione individuale a base biologica e l’incontro di questa con l’oggetto droga, perciò la tossicodipendenza è una malattia, curabile dagli esperti attraverso terapia di tipo farmacologico. - Il paradigma adattivo interpreta la tossicodipendenza in funzione del rapporto tra la persona e il suo ambiente di vita e vede l’uso e l’abuso della droga come un tentativo di fronteggiare 30 situazioni ed esperienze di disagio e dunque come una strategia disfunzionale di adattamento. Il trattamento si muove in direzione di promuovere processi di cambiamento personale e sociale Non possiamo trascurare che la tossicodipendenza è anche espressione del conflitto sociale: il soggetto nella sostanza trova la risposta apparentemente più funzionale alle richieste e ai bisogni della società e dei gruppi cui appartiene e/o alle condizioni di oppressione, subordinazione e alienazione. Il SerDP Il SerDP è il servizio pubblico per le dipendenza patologiche che fa capo al Servizio Sanitario Nazionale e che si rivolge a persone con problemi di dipendenza, principalmente da sostanze stupefacenti ma anche alcool, gioco d’azzardo, farmaci, fumo, shopping, internet, proponendo percorsi di prevenzione, cura e riabilitazione: si tratta dunque di un target molto ampio dove oltre alle patologie diverse sono anche l’età, il genere, la provenienza sociale e l’appartenenza etnica dei pazienti. Gli. Interventi svolti dal SerDP riguardano risposte farmacologiche di disintossicazione, prevenzione, educazione e assistenza sanitaria ma anche progetti educativi e psicoterapeutici, nonché reinserimento sociale attraverso collaborazioni con il mondo del lavoro. Il servizio si avvale di un’equipe multi-professionale composta da psicologi, assistenti sociali, medici, infermieri, psichiatri ed educatori professionali (socio-sanitari). L’ambito del SerDp è principalmente terapeutico e si prefigge il compito di guarire una malattia; la dimensione educativa rappresenta “sempre il ponte tra l’individuo e la società” perché permette all’individuo di conoscere e fare propri i modelli culturali della società in cui vive per poter poi agirli in modo opportuno e proficuo ed essere così membro attivo della società. La risposta sanitaria è la prima tappa del progetto terapeutico (accoglienza) e prevede l'incontro tra l'utente e il medico che si adopererà per eliminare I sintomi di astinenza e il conseguente malessere fisico. L'equipe molti-professionale stabilisce il programma terapeutico e indirizza l'utente verso un percorso comunitario oppure verso altre tipologie di servizi. La comunità terapeutica per tossicodipendenti L’obiettivo principe della comunità è il reinserimento sociale attraverso un programma terapeutico, che propone esperienze relazionali grazie alle quali l’individuo riconosce le proprie risorse che diventeranno garanzia di autonomia personale. Sono 4 le funzioni che ogni comunità svolge: 1. Funzione di contenimento (del craving: bisogna dissociare l’individuo da tutto ciò che possa ricondurlo alla pratica della dipendenza); 2. Funzione di ridefinizione dello stile di vita (In comunità il soggetto è incentivato a disimparare lo stile di vita tossico ed è sollecitato a re-imparare ad organizzare la propria giornata in modo “normale”; il setting comunitario presenta quindi nuove regole, funzionali al recupero del paziente, che se trasgredite possono causare sanzioni o allontanamenti); 3. Funzione di individuazione (il programma terapeutico per essere efficiente deve saper riportare al centro la persona: l’utente a fine percorso deve aver acquisito un’identità alla e riconoscersi nella propria identità non dipendente); 4. Funzione affettivo-correttiva (in comunità si è sollecitati continuamente ad una vita affettiva da cui è impossibile sottrarsi trattandosi di un ambiente di vita condiviso con altre persone) La famiglia viene contattata per richiedere un’immediata collaborazione che durerà per l’intero arco del programma terapeutico: le famiglie vengono ascoltate allo scopo di comprendere il sistema relazionale primario dell’utente e per poter operare in parallelo, consigliandone sugli atteggiamenti da tenere nella varie fasi del percorso residenziale. L’entrata del soggetto in comunità necessita di una seconda fase di accoglienza: la seconda accoglienza serve all’utente per conoscere i vari operatori e gli altri utenti, nocche le varie attività. Segue poi la fase del black out: è una fase molto delicata poiché serve a staccare definitivamente l’utente dal contesto di una vita che ha lasciato entrando in comunità, per farlo sentire membro di una collettività altra. Inoltre serve a ribadire al soggetto la scelta che ha appena compiuto, ovvero quella di rinunciare all’uso di sostanze stupefacenti e ai contesti fisici e sociali che lo hanno accompagnato. La fase dell’interiorizzazione è una fase del lavoro di ri-costruzione del Sé, che richiede una dissonanza cognitiva tra il modo di vivere abituato del residente e il modo di vivere “comunitario”. Si tratta di un gap vissuto con difficoltà ed è normale che la prima reazione dell’utente sia di rifiuto. 31 Se questo non accade il soggetto non si sta muovendo verso l’interiorizzazione ma si limita ad accettare e riprodurre il comportamento richiesto. L’ultima fase è quella del rientro: all’utente, in modo graduale, verrà concesso di passare parte del proprio tempo al di fuori della comunità, per incontrare amici, per cercare un lavoro, insomma per iniziare una nuova vita. La comunità lavoro con e attraverso il gruppo: tutto è messo in comune. La comunità terapeutica si propone come una comunità utopica Dove non esistono comportamenti omertosi e ogni utente ha il dovere e la responsabilità di riferire comportamenti nocivi agite da altri membri del gruppo. Il target dell'utenza e le modalità utilizzate per raggiungere le finalità specifiche del servizio si differenziano da struttura a struttura, e non sono estranee al contesto materiale e culturale in cui si collocano. 32 popolazione stabilmente esclusa dalla socialità urbana. Il caso più evidente nell’area è quello di Santa Croce di Camerina, comune costiero dell'area meridionale del Ragusano, in cui c'è la maggiore densità di popolazione migrante occupata agricoltura (vedi tabella pag 252). Il Comune raccoglie la metà della popolazione straniera censita nella provincia. Alla condizione abitativa precaria si sono sovrapposte tutte le problematiche tipiche dell'esclusione sociale. La condizione abitativa, direttamente collegata all'isolamento, facilita le forme di sfruttamento e può essere considerata una peculiarità dell’area. Le gerarchie e modelli di socialità mutano completamente, il trasferimento nell'area si è tradotto per la maggioranza della popolazione migrante in un rafforzamento dei modelli patriarcali e nella separazione delle donne dai contesti pubblici. Si tratta di una specifica struttura, in cui la migrazione femminile è più difficile e le donne sono sottoposte a un tasso di sfruttamento maggiore degli uomini. Il caso delle condizioni delle lavoratrici nell'area è stato al centro di diverse inchieste che hanno dimostrato come tutto il sistema del lavoro agricolo nell'area sia costruito sulla distruzione della dignità del lavoro, dalle condizioni malsane al basso livello dei salari, dallo sfruttamento sessuale alla ricaduta sulle seconde generazioni della stigmatizzazione sociale. Agire sul confine interno Lo sfruttamento assume caratteristiche simili in molte aree dell'Europa mediterranea. Lo sfruttamento del lavoro, che assume caratteristiche estreme in tutte queste aree, è legato anche modo diretto all'abbassamento costante del rendimento e dei redditi in agricoltura. I diversi interventi realizzati nell’area negli ultimi anni si sono mantenuti sul piano dell'assistenza medica o del sostegno economico. Le modalità con cui hanno funzionato finora i progetti di inclusione hanno nei fatti contribuito a mantenere in vita la linea di esclusione, perché l'integrazione avviene esclusivamente come forma di prolungamento di una subordinazione reale all'interno di un contesto in cui ciò che offre il sistema locale è il mantenimento del confine interno. Decolonizzare le modalità d'intervento significa eliminare presupposti della costruzione delle gerarchie, superare le categorie della suddivisione moderna, ma anche accettare le soggettività differenti. 19) IL CAPORALATO IN AGRICOLTURA: MIGRANTI TRA SUBALTERNITA’ ED ESPERIENZE DI EMANCIPAZIONE (di Cerrocchi, Galli e D’Antone) Il caporalato contemporaneo Caporalato corrisponde al reclutamento e all'organizzazione illegale della manodopera. In ambito agricolo la manodopera è stata dapprima autoctona ma da oltre un ventennio anche straniera, dando corpo a una nuova “questione Bracciantile” che esprime la drammatica condizione di sfruttamento lavorativo in cui versano decine di migliaia di lavoratori stranieri nelle campagne, prevalentemente del sud Italia. Come tema-problema, sul piano pedagogico viene ad esprimere le questioni del conflitto e del disagio sociale, dello sfruttamento lavorativo minorile e adulto, dell’inclusione e dell’integrazione dei migranti, richiedendo di conoscere e progettare in funzione del contributo di processi e pratica di istruzione ed educazione prospettate secondo le linee della pedagogia della famiglia, della pedagogia sociale e interculturale e dell’Educazione degli Adulti. Il contesto legislativo A partire dalla legge del 23 ottobre 1960 sono stati introdotti alcuni temi centrali per questo discorso, a partire dalla regolamentazione dei rapporti di intermediazione tra figure imprenditoriali e manodopera con l'ausilio di figure terze (siano essi i cosiddetti “caporali”, dipendenti o società) E attraverso forme di appalto e subappalto. Successivamente, con la legge n. 83 nel febbraio 1970 si introduce il tema, problematico sotto il profilo della tutela lavorativa, del mercato nelle piazze dei centri cittadini, ponendo la questione del collocamento agricolo entro l'alveo delle organizzazioni sindacali come viatico per contrastare le dinamiche del caporalato. Il ruolo della Cgil ha condotto nell'agosto del 2011 all'approvazione dell'articolo 603-bis nel codice penale, poi confluito nella legge 138. All'interno di questo solco, ma con specifiche ulteriori e modifiche sostanziali rispetto alla normativa precedente, si inscrive la legge del 29 ottobre 2016, che introduce la condanna non soltanto dell'intermediario ma, anche, del datore di lavoro che impieghi forza lavoro “reclutata” da una figura terza. 35 Il caporalato: tra disoccupazione e sfruttamento dell’immigrazione L'arretratezza nei modi di coltivare E degli apparati complessivi rende la produzione dei beni della terra un lavoro duro e insicuro, faticoso e sottopagato, rifiutato dai nativi - soprattutto i giovani che preferiscono migrare al nord - e tale da dar luogo alla paradossale coesistenza di disoccupazione immigrazione. La domanda di lavoro viene “soddisfatta dai lavoratori immigrati che, viste le condizioni di vita e i salari dei paesi di provenienza, accettano i lavori delle “5 P”: precari, pesanti, pericolosi, poco pagati e penalizzanti socialmente. La richiesta di manodopera a basso costo è elevata e, in genere, corrisponde a un bracciantato agricolo, per lo più immigrato e non stabile, che si muove verso i prodotti e altri territori. Soltanto una piccola parte di braccianti riesce a lavorare per l'intero anno alle dipendenze di uno stesso datore, alternando all'attività del raccolto lo svolgimento di lavori diversi presso l'azienda di questi. I braccianti: Durante l'estate si assiste a un aumento forte della presenza di lavoratori e/o braccianti, soprattutto immigrati ma anche in discesa estiva dal Nord a fronte di un lavoro stagionale di supporto al fermo lavorativo dato dalla chiusura di fabbriche. Si tratta di persone regolari e irregolari, in assenza o in attesa del permesso di soggiorno, a volte clandestine. Il prezzo è ogni anno più basso. I braccianti vivono, stabilmente o stagionalmente, in ghetti caratterizzati da ambienti malsani E condizioni di forte precarietà, in alcuni casi peggiori anche di quelle dei luoghi di partenza. Sono prevalentemente persone con un minimo di 16 anni e di genere maschile. Le donne tendono a restare la baracca, lavorando nei ristoranti o nei bazar, o le fanno parrucchiere. I livelli culturali possono differenziarsi: persone per nulla o scarsamente alfabetizzate convivono con persone che hanno titoli di studio alti, ma non riconosciuti, ai quali la migrazione ha abbassato il tenore di vita e fatto venir meno le prospettive di inclusione. Nei ghetti si vive secondo una suddivisione per aree di provenienza, dunque per cultura e lingua, funzionale a facilitare velocizzare l'ambientamento e a ridurre i conflitti. Non è esclusa una organizzazione politica interna che presenta un consiglio partecipato da tutti membri e un portavoce, di solito anziano, funzionale a riportare e difendere le posizioni unanimi nei singoli gruppi. Il caporale: il caporale coincide con una sorta di imprenditore sociale di un mercato delle braccia che attinge alla propria rete per trarre profitto dal farsi tramite fra l’azienda agricola bisognosa di manodopera e il bracciante in cerca di un’occupazione. Ormai i caporali sono anche persone di origine straniera, in linea con la necessità strutturale di mediare tra gli imprenditori agricoli italiani e i braccianti stranieri, mobilitando velocemente Grandi quantità di lavoratori attraverso la conoscenza del codice linguistico autoctono e straniero. Braccianti e caporali: la relazione tra braccianti e caporali può diversificarsi per evoluzione e sfumature, distinguendo alcune differenti tipologie di disposizioni dei braccianti nei confronti dei caporali e del caporalato; ci pare interessante riportarne due: - Bracciante interno al “discorso comunitario”, il caporalato fa leva sul senso di comunità e di una comunità caratterizzata da legami di parentela, amicizia e rispetto intensificando il rapporto tra il caporale e i “suoi” braccianti in modo che il caporale non venga messo in discussione per le gravi contraddizioni che esprime e/o a cui assoggettata; - Caporale come modello di ascesa sociale, in cui il bracciante strumentalmente cerca di diventare braccio destro o l'autista del Caponero per riuscire ad acquisire in futuro il ruolo di caporale, passando dall'essere oppresso in oppressore I braccianti che cercano di opporsi faticosamente questo sistema di intermediazione di manodopera, individualmente o collettivamente, tentano di trovare un impiego attraverso canali alternativi oppure mediante la messa in opera di azioni collettive, spontanee o organizzate, per perseguire migliori condizioni lavorative. I costi per il lavoratore nella catena bracciantile Difficilmente i braccianti riesco a lavorare per accumulare un piccolo budget di risparmi che permetta loro di andare via dal luogo in cui sono costretti a vivere e/o di trovare un lavoro migliore. Nella catena del caporalato, i braccianti si trova a dover pagare: l’alloggio, il trasporto, il mangiare e il bere durante un'unica pausa dal lavoro. La giornata lavorativa li impiega per circa 10-12 ore al giorno, pagate quasi sempre a cottimo e con un ammontare di 3/3.5 euro a cassone da 3 quintali l’uno. La baraccopoli e/o il ghetto: le fasi e il dentro/fuori Le baraccopoli in genere sono completamente isolate dalla città, situate in aperta campagna, introdotte da strade completamente ricoperte da sacchi di rifiuti o discariche illegali, con qualche 36 casetta in muratura poco sicura e una disposizione regolare ben organizzata di baracche. Le baracche sono autonomamente costruite dai braccianti. Nel ghetto abitano braccianti stabili, ma anche persone che lavorano in altre parti d'Italia e ritornano annualmente per lavorare oppure per trascorrere del tempo con i connazionali. L'isolamento ai margini della città e una vita prevalentemente spesa tra i connazionali rende molto difficile un percorso di integrazione con la popolazione autoctona; dall'altra, l'assenza di qualsiasi forma di controllo sociale e istituzionale non rende possibile emanciparsi da una situazione di povertà e marginalità. Le relazioni con la famiglia di origine Nella migrazione, la famiglia funge - a livello materiale e simbolico - dal propulsore del viaggio, agente di controllo anche a distanza sulla vita del migrante, risorsa nei casi di un parente o di un membro dello stesso gruppo tecnico o sociale che aiuta il migrante nell’inserimento e nella permanenza, ma anche come assenza, aumentando i rischi di morbilità e mortalità del migrante, nonché come costo nei termini del debito da risarcire aiutando, a distanza o, in futuro, in presenza, la famiglia di origine se migrerà in parte oppure completamente o nel caso di un ritorno. Le esperienze alternative entro il e al caporalato in agricoltura Sono molteplici le associazioni di volontariato che forniscono supporto volto a rendere visibili e a consentire un confronto ai e con i migranti, come ad esempio il “Progetto Presidio” della Caritas (inclusivo di servizio di ascolto e accoglienza e presenza su tutti i fronti per inserire culturalmente e socialmente emigranti). Un' esperienza di emancipazione in semi-autonomia Il progetto Funky Tomato è nato nel 2015 da un gruppo di italiani e Immigrati, come alternativa al caporalato legato alla raccolta del pomodoro in alcuni territori del mezzogiorno e tesa a una produzione rispettosa dell'essere umano e dell'ambiente in tutte le tre fasi, garantendo almeno un numero pari a 120 giornate lavorative regola a più braccianti possibile. Il bilancio delle competenze: dalla teoria alla pratica Il bilancio delle competenze costituisce una pratica particolarmente funzionale nell'ambito dell'orientamento professionale degli adulti e/o del settore della formazione, della gestione e sviluppo delle risorse umane. In generale e in ambito pedagogico, il suo esercizio si sviluppa con il concorso di tre componenti che nel loro intreccio equilibrato consentono di raggiungere la competenza professionale richiesta: la dimensione soggettiva (biografia e competenze sociali), la dimensione ergonomica (situazione professionale), e, infine, la dimensione della formazione/ riqualificazione professionale. Attraverso il bilancio - inteso come strumento inscritto in una prospettiva pedagogica di formazione permanente e di educazione degli adulti - il tema dell'orientamento professionale non si limita alla mera informazione, ma assume un profondo connotato formativo che si connette alla strutturazione di obiettivi, riconoscimento delle opportunità e all'assunzione di responsabilità, elicitando dunque non soltanto auspicabili effetti “diretti” nell'ambito della qualificazione e riqualificazione, ma anche effetti “indiretti” sul senso di autoefficacia dei soggetti e sul loro empowerment. Conclusioni Il Caporalato e le problematiche ad esso connesse esprimono le questioni del conflitto e del disagio sociale, dello sfruttamento lavorativo minorile e adulto, dell'inclusione dell'integrazione dei migranti, richiedendo di conoscere e progettare - a livello di macrosistema, di mesisistema e di microsistema - in funzione del contributo di processi e pratiche di istruzione e educazione prospettati secondo le linee della pedagogia della famiglia, sociale, interculturale e dell'educazione degli adulti e rimarcando la necessità di una riflessione che può e deve essere tanto educativa e giuridica, quanto sociale e politica. Il problema del caporalato investe il discorso e l'azione pedagogici di riflessioni ulteriori sia sul ruolo di supporto e coscientizzazione fornito dalle organizzazioni e dalle parti sociali che si occupano del tema, sia sul valore e emancipati e trasformativo del conflitto sociale che, nel mettere in discussione le compatibilità materiali attualmente esistenti nell'ottica di un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, retro agisce necessariamente su nuove forme di apprendimento per i soggetti che vi partecipano. 37 Nuovi (possibili) contesti d’uso Si può considerare l'idea di declinare il bilancio di competenze in contesti educativi con gli anziani, ripensando tale pratica come “mezzo procedurale” per riconoscere il patrimonio di risorse posseduto dall'anziano a partire da quella professionalità che ha contraddistinto il suo percorso di vita lavorativa È che non si disperde con il pensionamento ma, al contrario, può essere funzionale al benessere e all'armonia con se stessi nel presente, nonché a un rilancio di Sè nel futuro. Si tratterebbe di progettare un percorso di auto-riflessione all’interno del quale la persona anziana potrebbe ripercorrere la propria biografia, rintracciando continuità, nessi e connessioni in ciò che ha fatto e che può ancora fare, risignificando, emotivamente e cognitivamente, anche le incertezze esistenziali seguite all'interruzione della carriera lavorativa, identificando e valorizzando le risorse da (ri)mettere in campo e padroneggiare nella quotidianità, scegliendo come e in quale misura modificare la struttura vitale esistente. 21) IL WELFARE AZIENDALE: CARATTERISTICHE, PROGETTI E STRUMENTI PER LA PROMOZIONE DEL BENESSERE COMUNITARIO (di Daniela Dato e Severo Cardone) Contesto e principi teorici del welfare aziendale È sotto gli occhi di tutti la crisi di sostenibilità del modello di stato sociale in cui viviamo, come lo è la crisi economica e l’espandersi di nuove fragilità la cui origine è da rintracciarsi all’interno del forte iato che si è creato tra trasformazioni sociali e modelli di governo. Per effetto della globalizzazione, della perdurante crisi economica, della precarizzazione del lavoro, delle condizioni di vita e quindi l benessere delle famiglie italiane si è sensibilmente “indebolito” (dati ISTAT 2016: nel 2007 la condizione di povertà riguardava il 3,5% della popolazione italiana; nel 2013 il 6,3%, nel 2015 si è stabilizzata al 6,1%. L’Italia è un paese in progressivo invecchiamento: gli over 65 più di 12 milioni nel 2011, più del 21% della popolazione). Occorre una “ricalibratura”, un “bilanciamento “ della spesa pubblica al fine di poter fronteggiare adeguatamente anche i nuovi rischi sociali (disoccupazione, malattia, povertà, emarginazione sociale ecc.) che oggi, in termini di spesa, ricadono pesantemente sui bilanci “privati” delle famiglie italiane. Per questo motivo ha preso corpo il Welfare aziendale, che sta uscendo dal terreno di sperimentazione di alcune imprese illuminate per diventare una pratica sempre più diffusa; si tratta di un welfare reso disponibile dalle imprese per i propri dipendenti, non alternativo rispetto al welfare sociale pubblico. Sono sempre più numerose le imprese che offrono servizi, prestazioni e benefit alla popolazione aziendale in grado di aggiungere al tradizionale salario monetario una nuova forma di retribuzione integrativa definita “salario sociale”: servizi alla persona, di integrazione al reddito o alla futura pensione, assistenza agli anziani e alle spese familiari. Secondo Filippo di Nardo il welfare aziendale è in grado di creare un sistema virtuoso che conviene a tutti: all’azienda, che migliora la produttività e la competitività; ai dipendenti, perché promuove il loro benessere organizzativo; allo Stato, perché questo secondo welfare si affianca in maniera integrativa e sussidiaria a quello pubblico. Con la legge di Stabilità del 2016 ai lavoratori privati con redditi annui da lavoro fino a 50.000 euro è stata offerta la possibilità di convertire la parte variabile della loro retribuzione (premio di produttività) in servizi o prestazioni di welfare che risultano essere esenti da tassazione (la detassazione nel 2017 è stata confermata). Welfare aziendale e “scambio lavoro-benessere” Aziende come Luxottica, Ferrero, Tetrapak, Nestlé, Barilla e altre hanno deciso di tracciare una nuova direzione del management in favore di un nuovo paradigma dalla forte connotazione pedagogico-emancipativa, fondata sullo scambio “lavoro-benessere”. La costruzione di un efficace ed efficiente piano di welfare dovrebbe contemplare la realizzazione di specifiche attività classificabili in 6 distinte fasi: 1) Analisi dei servizi e dei benefit già esistenti; 2) Scelta del target, ovvero delle tipologie di lavoratori; 3) Costruzione del pacchetto di welfare da offrire ai lavoratori, anche attraverso la consulenza e l’intermediazione di provider esterni; 4) Implementazione degli strumenti per l’accesso ai servizi e gestione lavorativa; 5) Monitoraggio e valutazione dei risultati raggiunti e del gradimento; 6) Certificazione del processo 40 Analizzando le esperienze di successo italiane, possiamo classificare servizi di welfare e employee care in quanto principale macroaree: - Cura della persona (formazione professionale e linguistica personalizzata, salute e prevenzione medica, relax e benessere - aree relax, sala giochi, sala lettura -, esercizio fisico ecc.) - Cura del tempo (flessibilità orari di lavoro, congedi parentali più lunghi, ecc.) - Cura dello spazio (ambiente di lavoro, mobilità, convenzioni con enti trasporto pubblico, ecc.) - Cura degli affetti (prestiti e mutui agevolati, sostegno al reddito, supporto alla maternità e alla genitorialità, asilo nido o scuola materna aziendale, colonie estive, ludoteche, ecc.) Welfare aziendale: l’impresa come contesto educativo per il sociale Il welfare aziendale si caratterizza per un’azienda concepita in termini “comunitari” cui si chiede non solo di generare un valore economico bensì anche un valore “sociale” attraverso la condivisione di servizi, prestazioni e benefit in grado di valorizzare e fidelizzare le risorse umane attrarre nuovi talenti, promuovere il benessere e migliorare il clima aziendale. Il welfare aziendale assume un alto valore pedagogico destando interesse da parte della pedagogia del lavoro e riconoscendone un possibile processo volto a promuovere il ben-essere del lavoratore nella prospettiva eco-sistemica che vede nel lavoro un potenziale luogo formativo, emancipativo, capacitante. Il welfare aziendale può essere un valido esercizio di welfare comunitario, perché non si limita a ripensare il rapporto tra impresa e lavoratore ma si apre alla costruzione di reti con il territorio che, se da un lato possono trarre beneficio dalla promozione del benessere del lavoratore, dall'altro possono apportare un aiuto sostanziale nell'attivazione di servizi di sostegno all'azienda stessa. Possiamo afferma dunque che il welfare aziendale assume una triplice funzione: - Economica (produce plusvalore per l’azienda e per il lavoratore in termini di efficienza, produttività e benefit); - Istituzionale (rappresenta una policy e governance dell’azienda che lo promuove); - Sociale-comunitaria (sul medio e lungo termine è capace di innescare processi rigenerativi per i territori attraverso lo sviluppo e il sostegno del benessere dei lavoratori-cittadini) Una nuova figura professionale per la pedagogia del lavoro: il welfare manager È di importanza strategica formare e inserire all’interno dell’area delle Risorse Umane una figura specializzata e con competenze specifiche che abbia una evidente matrice pedagogica: il Welfare Manager, un professionista che opera nel campo delle politiche del lavoro progettando, gestendo, monitorando e valutando i programmi di welfare sia a livello aziendale che territoriale. Le competenze di osservazione, ascolto e progettazione sono indispensabili perché consentono di rispondere a specifici bisogni formulati direttamente dai dipendenti, di dialogare con i rappresentati delle associazioni di categoria e sindacali e di interagire efficacemente con i manager di altre aree aziendali. Possibili scenari futuri I servizi di welfare aziendale sono sempre più diffusi nelle aziende, a beneficio di un numero sempre maggiore di lavoratori e di categorie di dipendenti; sono presenti soprattutto nelle regioni del Nord e del centro ed in particolare nelle aziende che operano nel settore dei servizi, con notevole potenzialità di sviluppo soprattutto nei servizi di conciliazione vita-lavoro. Il fattore chiave per il successo del welfare aziendale è la “conoscenza”: più lavoratori possono accedere a informazioni precise e complete sui programmi di welfare offerti, maggiore risulta essere il loro gradimento. Le categorie più favorevoli a trasformare quote premiali della retribuzione in prestazioni di welfare sono i dirigenti e i quadri, i lavoratori con figli fino a tre anni, i laureati e le famiglie con reddito medio-alto; chi è stato informato valuta comunque positivamente la possibilità di usufruire dei servizi di welfare, soprattutto perché si tratta di prestazioni che migliorano il clima aziendale e la soddisfazione dei lavoratori. 41 22) IL POSTO GIUSTO PER LA PERSONA: ESPERIENZE DI INSERIMENTO LAVORATIVO MIRATO (di Barbara Bocchi) Il quadro normativo della regione Emilia Romagna e le ricadute territoriali La regione promuove il diritto al lavoro delle persone con disabilità, fondamentale per garantire la piena cittadinanza e l'inclusione sociale per tutti cittadini. Per le persone con maggiore difficoltà di accesso al mondo del lavoro a causa della propria disabilità, i servizi sociali per disabili adulti presenti presso i comuni e le aziende ASL offrono percorsi protetti propedeutici o sostitutivi all'inserimento lavorativo in azienda. Le persone diversamente abili che vogliono inserirsi nel mondo del lavoro possono usufruire del collocamento mirato, istituito con la legge n. 68 del 12 marzo 1999. Il collocamento mirato dei lavoratori disabili presso datori di lavoro privati e pubblici è gestito dall’agenzia regionale per il lavoro con l'obiettivo di favorire l'incontro fra domanda e offerta in un contesto protetto, tenendo conto delle situazioni individuali e delle mansioni offerte dal mercato del lavoro. La costruzione di un'identità adulta si realizza per mezzo di un ruolo sociale che ha modo di emergere soprattutto con l'acquisizione di un ruolo lavorativo. Ciò significa considerare le persone in base non alla loro appartenenza ad una categoria predefinita, ma individuando la specifica fragilità attraverso parametri di valutazione dati. La regione sostiene il lavoro delle persone con disabilità attraverso: - L’ inserimento lavorativo tramite il collocamento mirato presso datori di lavoro privati e pubblici e anche l'avviamento e il consolidamento di attività autonome - L'istituzione di un fondo regionale per l'occupazione delle persone con disabilità - La concentrazione, il confronto e la partecipazione a livello regionale e provinciale delle associazioni rappresentative delle persone con disabilità e delle loro famiglie - Istituzione di una conferenza sull'inclusione lavorativa delle persone con disabilità per verificare lo stato di attuazione degli obiettivi previsti dalla legge Le imprese con almeno 15 dipendenti, come previsto dalla legge 68/1999, devono presentare ogni anno al servizio provinciale competente una dichiarazione, detta “Prospetto informativo”, che indica la propria situazione occupazionale rispetto agli obblighi di assunzione di personale disabile e/o appartenente alle altre categorie protette, insieme ai posti di lavoro e alle mansioni disponibili. Il collocamento mirato come strategia di politica attiva Il collocamento mirato consiste in una serie di strumenti che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nella loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzione dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi di lavoro e di relazione. Il collocamento mirato si avvale di un servizio di orientamento specialistico che fornisce consulenza, mediazione, accompagnamento e tutoraggio alle persone disabili. La regione Emilia-Romagna ha istituito un apposito fondo per assicurare il diritto al lavoro e integrazione lavorativa dei cittadini con disabilità. La persona giusta per l'impresa, il posto giusto per la persona La logica di trovare la persona giusta per l'impresa può entrare in frizione con quello di “trovare il posto giusto per la persona”. L’integrazione tra servizi socio-sanitari per il lavoro finalizzata all'inserimento lavorativo si può realizzare maniera adeguata se radicata nel territorio, nelle sue esigenze, nelle sue peculiarità produttive, occupazionali e sociali. Le reti territoriali sono ritenute determinanti per la programmazione unitaria, l'ottimizzazione delle risorse, l'efficienza dei servizi, la qualità e l'efficacia delle prestazioni. Il caso della cooperativa sociale “Studio il Granello” di Reggio Emilia Lo “Studio il Granello” nasce nella Casa della Carità di Fosdondo di Correggio (nata come società semplice, poi trasformatasi in cooperativa sociale di tipo B nel 2006). Questo studio crea occasioni di impiego per persone che, per vari motivi, hanno o hanno avuto difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro: questo consente di provare ogni giorno che chiunque, con richieste adeguate, è in grado di lavorare offrendo professionalità, esperienza e crescita nel gruppo di lavoro. Lo studio beneficia di un accordo con il centro per l'impiego e le aziende presenti sul territorio denominato “Convenzione Trilaterale”. Le convenzioni trilaterali sono accordi tra il datore di lavoro, il centro per l'impiego e il disabile ed hanno come oggetto un programma personalizzato d'inserimento nell'attività lavorativa. La selezione e l’inserimento: si realizza una stretta collaborazione tra il centro per l'impiego e la cooperativa che insieme valutano direttamente le candidature dei soggetti interessati 42 La centralità del gruppo : la dimensioni di gruppo riveste un ruolo fondamentale in due principali ambienti : il gruppo di lavoro (equipe) e il gruppo target Il gruppo di lavoro :composto da varie figure professionali che si riuniscono per monitorare ,verificare e supportare il lavoro che viene svolto in strada , è composto da educatori professionali socio-pedagogici –street worker , uno psicologo, un pedagogista ed assistenti sociali. Il lavoro del gruppo svolge funzioni di progettazione, organizzazione contenimento e supporto e le riunioni dei componenti sono uno spazio funzionale alla circolazione di informazioni in merito al lavoro sul campo . L’equipe è supportata da altre figure che rappresentano i servizi sociali coinvolti a vario titolo nel progetto (amministrazioni comunali, aziende asl, servizi per l’immigrazione e forze dell’ordine ) non sempre il lavoro di rete ha una dimensione effettivamente collaborativa in quanto spesso difficoltà istituzionali rendono i rapporti frammentari e discontinui I gruppi target : è difficilmente generalizzabile in quanto vi sono svariate tipologie di intervento e le problematiche vengono affrontate in modo differenziato. Gli operatori di strada si trovano ad interagire con gruppi di svariate dimensioni con caratteristiche diverse. Un importante funzione è quella di promuovere gli interessi e i bisogni dei gruppi target presso le istituzionale per ravvisare la connessione tra lavoro di strada e lavoro di sviluppo di comunità . Così il lavoro di strada si integra nella prospettiva operativa del lavoro di rete e di sviluppo del benessere delle comunità locali . Le principali fasi operative del lavoro di strada sono : mappatura-diagnosi-progettazione : in questa fase si cerca di capire quali sono i principali problemi di cui ci si dovrà occupare. Attraverso la mappatura, l’osservazione , i contatti con gli opinion leader , interviste e questionari si cercherà di definire la struttura della rete sociale ,i conflitti il sistema delle risorse e i vincoli presenti su quel territorio. In questa fase gli street worker non prendono contatto diretto con i target ma si limitano ad osservare . nella progettazione stabiliscono un sistema di strategie operative finalizzate alla risoluzione delle problematiche territoriali merse nella diagnosi . Presa di contatto : la presa di contatto con il gruppo target deve essere fatta con molta attenzione, si tratta di farsi accettare in territori in cui si è estranei , di far capire il proprio ruolo e di guadagnare la fiducia del gruppo. Non ci sono regole fisse è importante non imporsi forzando i tempi perché farsi accettare è un lavoro lungo e graduale. L’atteggiamento migliore per intraprendere un percorso di prevenzione e riduzione del danno è quello del rispetto ,della valorizzazione e del sostegno finalizzati all’attivazione di cambiamenti sia individuali che di gruppo . per interessare e coinvolgere si utilizza la dimensione del fare, del proporre e dell’organizzare . Consolidamento della relazione: quando l’operatore è riuscito a mantenere un contatto con il gruppo target ,la fase successiva consiste nello sviluppare e consolidare la relazione .Nel lavoro di strada l’azione del cambiamento è fondamentale che si svolge in un contenitore ben diverso dalla scuola , dalla comunità dal centro giovanile . Quando la relazione è solida il lavoro di strada assume caratteristiche di tutti gli altri interventi educativi . Fase di abbandono : i progetti possono interrompersi per 2 motivi : -fine naturale -> legata al cambiamento delle condizioni iniziali (buon esito dell’intervento educativo) -fine forzata -> determinata da fattori di carattere organizzativo amministrativo, e dall’andamento dell’intervento . in entrambi i casi è bene attuare un abbandono ben strutturato e non lasciato al caso senza creare ulteriori condizioni di disagio, deve essere attivato un distacco sano con tempi e modalità che andranno di volta in volta valutati e programmati. Sviluppo di comunità e lavoro di rete per la promozione del benessere e la prevenzione Lo sviluppo di comunità corrisponde a progetti finalizzati al miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini o di un gruppo allargato di persone : rientrano tutti i progetti che utilizzano la professionalità dei mediatori di comunità ,gli educatori professionali socio educativi per attivare , rendere visibile, rinforzare la rete sociale locale ,migliorare la qualità della comunicazione tra i vari attori sociali, gestire o mediare eventuali conflittualità in atto ect….queste attività possono essere integrate con l’offerta di attività rivolte a gruppi di cittadini che possono essere considerati maggiormente vulnerabili o problematici. Si attueranno quindi progetti di strada integrati con progetti di prevenzione. 45 Il lavoro di strada può anche essere definito educativa territoriale come un servizio che si rivolge ad un gruppo di cittadini che vivono in un dato territorio per migliorare la qualità della vita di tutta la comunità locale. Il concetto di comunità sociale insieme a quello di rete mette in evidenza che non si può ignorare la dimensione sociale e comunitaria del problema , ogni intervento di strada deve tenere conto della comunità locale interagendo con le risorse del territorio (associazioni, gruppi, singoli cittadini, spazi di aggregazione, servizi territoriali pubblici o privati ect..) L’adventure education come strumento operativo per il cambiamento L’adventure education (educazione avventura) è una metodologia educativa che può essere integrata al lavoro di strada e di sviluppo di comunità. Il presupposto fondamentale è utilizzare degli ambienti selvaggi (wilderness) per coinvolgere i soggetti in processi di cambiamento che possano avere ricadute sulla vita quotidiana . Il setting operativo viene cambiato : si passa da una dimensione del “fuori urbano” che è comunque un luogo conosciuto e domestico a una “avventura” fuori dal quotidiano per dare luogo ad esperienza di crescita, sviluppo e apprendimento individuale e di comunità.Si ritiene che le esperienze di avventura vissute in contesti naturali possano incidere sullo stato esistenziale dei soggetti provocando cambiamenti significativi in senso fisico cognitivo e affettivo. L’educazione avventura consiste in attività che diventano formative (es. fare trekking, arrampicare pareti di roccia, attraversa il canyon calarsi in una grotta uscire in barca a vela o in canoa )ect..perché costringono ad imparare , confrontarsi con problemi e trovare una soluzione, riflettere a verbalizzare i vissuti in una dimensione di condivisione. Gli educatori accompagnano i soggetti in questo progetto prendendosi cura dei soggetti e dei processi di cambiamento . L’avventura come strumento educativo , può produrre effetti positivi anche nelle comunità territoriali in cui tali soggetti vivono ottenendo un miglioramento della qualità della vita maggiore integrazione sociale e relazionale. 24) BANDE E BULLISMO (du Laura Cerrocchi) la banda come tipologia di gruppo umano La banda consiste in un gruppo , più o meno ampio , con uno scopo comune e condiviso , con fori legami e/o senso di appartenenza entro cui i membri vengono a costruire la propria identità. Gang -> banda in senso criminale La banda acquista la funzione di un area psicologica e sociale di passaggio, in particolare nell’adolescenza , viene utilizzata come area di transizione in senso cognitivo e affettivo , tra la famiglia e l’indipendenza del soggetto. Se l’adolescente provasse ad uscire dalla famiglia immettendosi direttamente negli impegni della vita adulta ,la società potrebbe non prenderlo sul serio , la banda funge da palestra di allenamento come spazio protetto per passare dalla sicurezza di un accettazione sicura in famiglia , all’insicurezza di un mondo grande che può riconoscere o non riconoscere, accogliere ma anche respingere. I membri di una banda tendono ad essere molto simili tra loro (abbigliamento ,acconciatura, ascoltano la stessa musica , ricorrono all’uso di slang , ect..) Nell’appartenenza a una banda come gruppo diverso da quello di origine , si possono fare esperienze di socializzazione secondaria finalizzate all’emancipazione e alla costruzione della propria identità. Se ,però ,l’influenza della banda è tanto forte perché tanto profonda occorre riflettere “ sul ricorso da parte della banda al bullismo e sulla possibilità ,allo stesso tempo , di assumere e trattare l’intervento tenendo conto di un gruppo che ha un potenziale adattivo (i membri si adattano alle regole di funzionamento) riflessivo (quello che accade a un membro ricade sugli altri ) e di ristrutturazione ( ioè trasformazione dei sistemi cognitivi affettivi interni e dell’interazione con l’esterno ) “ [LEWIN ] Il bullismo tra variabili bio-psicologiche e socio-culturali Gli studi e gli interventi sul bullismo risentono dell’evoluzione e dell’intreccio tra differenti prospettive politiche e socio-culturali e scientifiche , la pedagogia recepisce i contributi delle scienze dell’educazione caratterizzate da chiavi interpretative che rintracciano le cause del bullismo nelle variabili biologiche, psicologiche (logos ed eros) sociali e culturali. 46 La violenza si presenta come manifestazione multi-sfaccettata di comportamenti e atteggiamenti prevaricanti e/o vessatori e lesivi , rendendo necessario comprendere variabili bio-psicologiche e socio-culturali e rispettive ripercussioni sulla vita individuale e sociale , occorre inoltre osservare ,monitorare e progettare interventi di sistema. Tra i fattori interconnessi con alla violenza troviamo : -funzione preparatoria svolta alla frustrazione -modalità scorretta di misurare e saper agire la propria forza -spinta verso la conquista dell’indipendenza, della sicurezza e delle competenze personali -il condizionamento ambientale -comportamento strategico finalizzato al conseguimento di scopo e colori predefiniti -azioni impulsive, condizionate, mediate , prescelte come forme di intervento o di contestazione di una situazione materiale o relazionale -significati co-costruiti socialmente che risultano dunque stereotipi e pregiudizi -un intersoggettività degradata che segna la società in senso complessivo e i suoi gruppi sociali riversandosi sul soggetto e/o sui partner in situazione in termini di scarse o scorrette affettività e relazione. I comportamenti aggressivi o violenti I comportamenti aggressivi e violenti coincidono con un fenomeno complesso, vasto e plurale che include differenti aspetti : -Differenti età (livelli di sviluppo e di maturità) -da parte di un unico soggetto o da un gruppo - asimmetria (come il bullismo) simmetria (aggressione ad uno o più avversari più forti) -rivolte a soggetti o oggetti le manifestazioni possono essere fisiche , sessuali ,verbali e/o psicologiche messe in campo nei confronti delle stesse vittime o di vittime diverse . i danni provocati si differenziano per entità e conseguenza di varia natura più o meno gravi sia per l’aggressore che per l’aggredito che talvolta per i testimoni. Le dinamiche conflittuali possono insorgere in varie differenti contesti (pareti domestiche, scuola ,stadio ect..), in differenti tipologie di relazione ( di coppia, lavorative, famigliari ect..) e includere differenti percezioni fenomenologiche del proprio vissuto o di quello altrui (di causa ,di colpa, di stasi, di evoluzione, di vittimismo ect..) Per una definizione di bullismo: non un fenomeno nuovo ma un neologismo il bullismo piuttosto che un fenomeno “nuovo” della specie umana può essere ritenuto un neologismo per definire un fenomeno vecchio come il mondo che ,con differenti e specifiche caratteristiche ,si può allargare a differenti ambienti sociali (es. si parla di nonnismo trai militari, stalking nei rapporti privati adulti ,mobbing in ambito lavorativo). Assumendo la definizione di Olweus del 1993 possiamo ritenere che il bullismo coincida con : -una forma intenzionale e volontaria di produzione della sofferenza -una forma sistemica e protratta di aggressività e violenza -caratterizzata da asimmetria tra bullo e vittima che può verificarsi in differenti spazi, tempi relazioni ,contesti fisici psicologici sociali e culturali di vita. Come fenomeno sociale e/o di gruppo riguarda e coinvolge un intero gruppo o l’interazione sociale nella sua complessità, producendo significativi effetti su ciascuno degli attori coinvolti . Le forme di bullismo Gli studi di settore rintracciano differenti forme di bullismo presenti in modo esclusivo e combinato : -fisico diretto, solitamente maschile con il ricorso della forza fisica agita verso la vittima -verbale diretto, solitamente femminile , con il ricorso della parola per offendere la vittima che verrà danneggiata a livello emotivo e di autostima. -non verbale diretto , solitamente avviene da parte del bullo o del gruppo, con il ricorso a comportamenti volgari e offensivi rivolti alla vittima che si sentirà frustrata ed eventualmente potrà decidere di ritirarsi dalla via sociale per evitare ulteriori derisioni. -indiretto manipolativo, solitamente femminile, con ricorso a comportamenti velati e sottili non espressamente rivolti alla vittima (es. pettegolezzi ,dicerie ect..) -cyber bullismo o bullismo elettronico, con ricorso all’utilizzo di materiali tecnologici di tipo mediatico con cui è possibile una diffusione rapida di messaggi e filmati carichi di umiliazione e/o minacce. È una tipologia di bullismo simile al bullismo indiretto e manipolativo difficile da dominare . 47 Nonostante i contrasti tra le due modalità non siano cessate è prevalsa negli anni una dimensione di confronto per cui ,oggi, la presenza di professionisti all’interno o in collaborazione con in gruppo di auto-muto aiuto è un fatto accertato per la maggior parte delle realtà di self-help. Le collaborazioni possono manifestarsi in modi diversi: -suggerire ai propri utenti la partecipazione ai gruppi -operare come consulenti esterni al gruppo -favorire la costruzione di gruppi di auto-mutuo aiuto Accoglienza e progettazione: la chiave dell’auto/mutuo aiuto Nel tentativo di creare un gruppo di auto-mutuo aiuto è importante identificare sul territorio una serie di bisogni che accomunino i possibili utenti. I servizi tradizionali e i singoli cittadini , qualora interessati alla nascita di un gruppo di mutuo-aiuto autonomo, possono svolgere questa perlustrazione sociale, e iniziare la fase di programmazione del lavoro. In primo luogo si stabilisce quali obbiettivi privilegiare, poi, si attua la fase di progettazione. E’ importante definire l’ambiente in cui opererà il gruppo e la dimensione spazio-temporale del lavoro. Occorre porre attenzione alla grandezza del gruppo( 5-7 persone se si vuole privilegiare una comunicazione ottimale 15-30 persona se si vuole aprire il gruppo a richieste di aiuto) I soggetto può trovare indicazioni sui gruppi attraverso : * ricerca autonoma * passaparola * segnalazione da parte di professionisti dei servizi seguirà una fase di contatto in cui il soggetto verrà informato ed accolto nel suo vissuto problematico. (es colloquio telefonico , incontro con il facilitatore ect..) riceverà informazioni chiare sulla modalità di partecipazione al progetto in modo da poter scegliere liberamente se partecipare e se i suoi obbiettivi personali sono coerenti con il progetto. Finita la fase preliminare avviene il primo incontro del nuovo gruppo o del nuovo membro del gruppo in cui si definiranno scopi e obbiettivi comuni, norme interne (es. puntualità , cadenza degli incontri ect..) e la definizione del rapporto con l’esterno. Il carattere progressivo dell’auto-mutuo aiuto la dimensione spazio-temporale è fondamentale, il gruppo per diventare tale richiede tempo soprattutto quando lo scopo è fondare un senso di comunità e una solida base di fiducia. Gestire la fase spazio-temporale significa considerare il gruppo come un work in progress tenendo in considerazione lo stato attuale e lo stato potenziale di sviluppo del gruppo. Il facilitatore non deve compiere l’errore di comandare ma deve cercare di valorizzare le risorse e condividere il significato del mutuo-aiuto. Nella fase “matura” gli interventi saranno più facili in quanto i partecipanti avranno acquisito la capacità di sfruttare in modo favorevole le occasioni di mutuo-aiuto che si presentano loro. Lo scopo del gruppo costituisce le solide basi dove si svilupperanno le capacità e le progettualità dei singoli. Nella fase conclusiva si prepara il momento del distacco e la revisione collettiva del loro vissuto nel corso dell’esperienza. Valutazione, supervisione e lavoro di equipe Se lo scopo fondamentale dei gruppi di auto-mutuo aiuto è quello di favorire la persone a sostenersi a vicenda , gli stessi membri partecipanti dovranno essere coinvolti nella valutazione di tale processo. Il mutuo-aiuto costituisce sia un processo che un risultato , e questi due processi dovranno essere valutati: dovranno essere valutate le dinamiche del gruppo e l’utilità ricavata e il grado di apprendimento di ogni singolo membro. Gli operatori e i facilitatori dovranno supportare l’autovalutazione del gruppo , nel suo sviluppo come vero e proprio sistema di scambi ,quanto in termini di raggiungimento degli obbiettivi da parte dei partecipanti. Il progetto è quello di lavorare in senso meta-cognitivo dall’interno del gruppo dove ogni membro è chiamato a consolidare il proprio grado di consapevolezza. La fase di congedo Uno dei molteplici sbocchi conclusivi di tale percorso, è quello di rimanere all’interno del gruppo e offrire la propria esperienza al servizio dei nuovi arrivati ,o di impegnarsi concretamente in azioni di volontariato sul territorio o ancora di diventare facilitatore di gruppo. Chi predilige queste scelte non può dirsi concluso, ma continua ad mettere in discussione e ad approfondire il suo lavoro arricchendo continuamente se stesso e i membri del gruppo. 50 L’educatore: un contributo possibile L’educatore socio-pedagogico , può assumere all’interno del gruppo funzioni specifiche : -promuovere la cultura dell’auto-mutuo aiuto (sostenendo lo sviluppo e la consapevolezza dei membri) -supportare gli aspetti organizzativi -permettere la nascita del gruppo -assumere il ruolo di facilitatore della comunicazione (favorire gli scambi di informazioni, incoraggiare ad esperienze e azioni, facilitare lo sviluppo di norme condivise e la valorizzazione delle risorse di ciascuno) -monitorare l’andamento del gruppo -promuovere soluzioni che permettano ai membri di favorire lo sviluppo reale di dinamiche di auto- mutuo aiuto -nella fase matura prenderà il ruolo di consulente permettendo l’emergere di una leadership collettiva e rimanendo in funzione di supporto -può avere un ruolo di rilevo nelle azioni di formazione e super visione di operatori, volontari, facilitatori ect.. per aumentare la qualità e la diffusione della cultura e delle prassi di dell’auto- mutuo aiuto. 26) SPAZI DI CURA NARRATIVA. SUL CONFINE DELL’EDUCAZIONE, OLTRE I CONFINI DELL’EMERGENZA (di Elena Zizioli) Emergenze educative e narrazione la narrazione è risorsa educativa preziosa perché concede la possibilità di individuare soluzioni alternative ed anche di stabilire punti di contatto e spazi comuni di confronto e di condivisione per : -resistere contro i tentativi di strumentalizzazione, manipolazione, omologazione e contribuire alla formazione di un pensiero critico -costruire un’identità terrestre cioè favorendo l’incontro con l’altro nelle odierne società multiculturali -offrire, con l’immaginazione ,nuovi sguardi sulla realtà, per avviare processi di cambiamento dei territori E’ necessario riservare spazi al narrare come cura per la comunità, nello specifico per bambini e ragazzi, nei luoghi dove il rischio di isolamento e della deprivazione culturale è più forte , provando ad individuare nuovi setting educativi più fluidi e flessibili, quindi, spazi e tempi situati oltre la scuola che favoriscano apprendimento e rapporti sociali improntati ai valori della cooperazione e della solidarietà. Narrazione vs povertà educativa il concetto di povertà educativa come concetto multidimensionale è stato recentemente rielaborato e proposto da Save the Children, richiamando l’attenzione che privare ragazzi e bambini dell’opportunità di sviluppare competenze cognitive e capacità emotive, di relazione con gli altri, significa compromettere inevitabilmente la loro crescita. Save the Children ha inoltre documentato che in Europa il 28%dei bambini e il 20% di adolescenti vivono in condizioni di povertà educativa e si è impegnata quindi a garantire occasioni educative compensative comprendendo spazi per la narrazione di storie. Il dispositivo narrativo può contrastare la povertà educativa. L’educatore professionale per i servizi per l’infanzia e’ visto come una forma di “traghettatore”, come colui che utilizza i libri per aiutare i bambini e i ragazzi a costruirsi la propria identità . La narrazione è cura educativa perché predispone ad atteggiamenti donativi e soprattutto nutre il desiderio di stupore e bellezza. Nei contesti deprivati questa possibilità di fuga nella è una garanzia di rigenerazione. La possibilità di fruire delle storie delle opere di immaginazione, è un condizione che deve essere disponibile per tutti, soprattutto per i più piccoli (come ribadisce la convenzione internazionale per i diritti dell’infanzia) evidenziando che se i bambini vengono stimolati fin dalla più tenera età a leggere possono trarre stimoli fecondi per il loro sviluppo personale ,riuscendo ad essere attivi e propositivi nella vita sociale. Assicurare spazi narrativi significa, quindi, offrire agli individui e a tutte le comunità la possibilità di sottrarsi a destini di esclusione e marginalità. 51 Contesti narranti e nuovi laboratori pedagogici La narrazione viene considerata cura educativa se riesce a : -offrire un’alternativa ai servizi commerciali contrastando rassegnazione e cinismo -stare in rete con i diversi soggetti che lavorano per la formazione di comunità inclusive, sottraendosi ai rischi dell’emergenza -prevedere percorsi di cittadinanza attiva favorendo e sostenendo il protagonismo di bambini e ragazzi le biblioteche pubbliche (public libraries) hanno promosso e promuovono processi democratici e rappresentano spazi fondamentali e importanti per la formazione di un pensiero critico ed indipendente; nel caso dei minori aiutano bambini e ragazzi a crescere come bambini responsabili. Le biblioteche pubbliche , riuscendo a fare proprie le esigenze socio- educative dei diversi contesti , posso diventare luogo per eccellenza della cura narrativa . Il caso di Lampedusa :una biblioteca al centro del Mediterraneo Un setting singolare che vale la pena citare è quello della biblioteca per bambini e ragazzi sull’isola di Lampedusa. Inaugurata in un territorio in cui erano del tutto assenti servizi per l’infanzia e l’adolescenza ad eccezione della scuola. L’iniziativa ha superato i confini di quella piccola isola per diventare una buona pratica da replicare i tutti i territori a rischio di povertà educativa. La finalità dell’iniziativa è stata ,dunque, quella di attivare reti con le associazioni del territorio, facendo convergere su quella piccola isola energie creative per incidere significativamente sulla vita sociale della comunità. Due sono le note distintive che l’hanno resa un modello : -l’impegno gratuito e lo slancio utopico degli attivisti coinvolti -la qualità degli interventi promossi ll narrare si è trasformato in una pratica di tolleranza e di solidarietà e la biblioteca in un luogo dove scoprire il valore di parole come identità, migrazione, accoglienza ,inclusione ;un vero laboratorio pedagogico dove sperimentare in libertà non solo la lettura dei testi , ma anche il fascino e il gusto del lavoro cooperativo. Il progetto promosso da IBBY (organizzazione no profit il cui obbiettivo è quello di promuovere la lettura infantile nel mondo) ha contrastato la povertà educativa a Lampedusa ,aggiungendo alle pratiche narrative impegno etico e sociale. Con le storie narrate si può davvero alimentare la speranza del cambiamento ,immaginando futuri diversi, riscoprendo i valori della partecipazione ,della cooperazione, della solidarietà. 27) EDUCAZIONE IN EMERGENZA: L’INTERVENTO PEDAGOGICO NELLE SITUAZIONI DI CATASTROFE (di Alessandro Vaccarelli) Premessa nel parlare di emergenza e catastrofi prenderemo come soggetti target i bambini e le bambine senza trascurare l’importanza del sostegno alle figure adulte di riferimento. Catastrofi ed emergenze: quali sfide per l’educazione Catastrofe ! una parola che evoca alla distruzione, alla trasformazione radicale ,al cambiamento improvviso che investe in modo totalizzante la vita di intere comunità. Indica il cambiamento di rotta, il punto di snodo di una storia o di una vicenda. Implica un il cambiamento radicale di un sistema e ne consegue l’alterazione della vita sociale mettendo a dura prova il benessere psicologico delle popolazioni colpite , ponendo le sfide della riorganizzazione dei territori e della soluzione dei problemi abitativi. Disastro ! evento che che genera la catastrofe un terremoto, un alluvione , un urgano etc.. Emergenza !indica la situazione catastrofica, il contesto fortemente segnato che prende forma dall’evento che all’improvviso irrompe nella vita dei singoli e della comunità. Si esplicitano dentro questa idea diverse condizioni che nel loro insieme permettono di definire il concetto: il clima emotivo, le risposte ambientali e le risposte organizzative. 52 28) LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE ( di Federico Zannoni) La bussola normativa il 25-09-2015 in occasione del 60° anniversario dell’ONU ,i rappresentanti riuniti al termine di un attenta analisi ,ammettono che gli Obbiettivi di sviluppo del Millennio stabiliti 15 anni prima non sono stati raggiunti :la povertà e la fame nel mondo persistono, l’istruzione primaria non è garantita a tutti ,la parità di genere non è riconosciuta ovunque ,la mortalità infantile potrebbe essere ridotta ,così come la salute delle gestanti non è stata migliorata e alcune malattie come aids e la malaria resistono e si diffondono; infine i mutamenti climatici e l’inquinamento ci espongono a incidenti e gravi catastrofi ambientali. Di fronte a questo quadro , viene rilanciato un nuovo e ambizioso programma di obbiettivi globali per lo sviluppo sostenibile da perseguire entro il 2030 cercando di lavorare insieme per lo sviluppo umano. L’articolo 4 della legge 125 è dedicato agli ambiti di applicazione della cooperazione pubblica allo sviluppo: -iniziative in ambito multilaterale -partecipazione ai programmi di cooperazione dell’unione europea -iniziative a dono nell’ambito di relazioni bilaterali -iniziative finanziate con crediti concessionali -iniziative di partenariato territoriale -interventi internazionali di emergenza umanitaria -contribuiti a iniziative della società civile Nel breve e nel lungo termine :intervenire e costruire Se gli obbiettivi globali per lo sviluppo sostenibile sono l’orizzonte verso cui le realtà di cooperazione tendono, le normative nazionali e internazionali che regolano l’operato e le relazioni tra le diverse agenzie coinvolte posso costituire un mezzo per rintracciare un ordine. Per elaborare un setting specifico ,i singoli progetti di cooperazione internazionale sono chiamati ad interfacciarsi rendendosi permeabili con questo intreccio di regole, rapporti, potenze e relazioni inter istituzionali mondiali. Ogni progetto costituisce una confluenza di più realtà che si trovano a cooperare per produrre risultati concreti in un unico territorio , forze e cervelli provenienti dall’estero si trovano quindi a cooperare con forze e cervelli locali per produrre miglioramenti in situazioni molto spesso emergenziali : si generano fenomeni di capacity building intesi come risposta multifattoriale al cambiamento in grado di rafforzare capacità organizzative ,intellettuali ,sociali ,politiche ,culturali ,materiali pratiche e finanziarie già presenti in un contesto . Riconoscere una componente di capacity building nei progetti di cooperazione internazionale allo sviluppo consente di rintracciare la valenza educativa presente in ciascuno di essi . La condivisione del setting relazionale e comunicativo La prima fase consiste in comunicazioni orali e scritte e in brevi meeting destinati a delegazioni ristrette, la lingua utilizzata è l’inglese, non ben padroneggiata da tutti e quindi può scaturire possibili malintesi. Successivamente vi è un momento di conoscenza approfondita tra i partner in cui vengono condivisi gli obbiettivi da perseguire e i risultati attesi sul campo. Durante il primo viaggio nel paese beneficiario il team cooperante e la popolazione del posto si trovano l’uno di fronte all’altro mettendo in atto meccanismi di studio reciproco . Empatia e fiducia, risulteranno fondamentali per la buono riuscita del progetto, è importante che il cooperante sappia gestire e far confluire le proprie attitudini relazionali nella direzione dell’apertura e del rispetto. Viene richiesto un esercizio di epochè pedagogica, di sospensione del giudizio finalizzata a infondere accettazione all’interlocutore ,si promuove l’emergere della differenza favorendo il fluire relazionale. I rischi, la rete, i professionisti, i volontari E’ importante dedicare tutto il tempo necessario alla creazione di presupposti relazionali e organizzativi iniziali. In fase di programmazione è molto importante esplicitare quali potrebbero essere gli eventi e gli elementi destabilizzanti . L’eventualità del fallimento va sempre tenuta in considerazione. La fluidità del contesto, reso fragile e perpetuamente provvisorio dall’azione congiunta di numerosi fattori di rischio interni e esterni, rende necessaria una razionale flessibilità nella pianificazione 55 delle azioni e delle tempistiche ,sia un efficace strategia di autovalutazione e valutazione dei risultati ottenuti che può essere affidata ad agenzie esterne che hanno un punto di vista più oggettivo. Il setting di frontiera dei progetti di cooperazione internazionale regge su equilibri in continuo divenire e necessita di grande flessibilità nell’adattarsi alle caratteristiche dell’utenza e a tutti i fattori che influiscono sulle finalità e i risultati . E’ presente la figura di “ambasciatori di comunità” che sono individui facilitatori attivamente coinvolti anche nelle fasi progettuali; la loro presenza acquista ulteriore significato se la si considera nel “lavorare per creare o rafforzare dei legami ,creare integrazione o opportunità strutturali di comunicazione fra entità distinte che possono convergere o riannodarsi verso una azione o tensione condivisa” L’operare in rete si caratterizza di fluidità e di partecipazione che mette a confronto operatori internazionali e locali, istituzioni del luogo e di altri paesi, soggetti politici e organismi amministrativi, mass media ed entità con interessi economici. Vi sono inoltre i volontari, il loro impegno è scaturito da un orientamento solidaristico che spinge a trasferire tempo e risorse da stessi agli altri. I SERVIZI IN ETA’ SENILE 29) I SERVIZI RESIDENZIALI PER ANZIANI (di Laura Cerrocchi) L’era degli anziani :educare “nella e alla senilità” in prospettiva pedagogica il progresso scientifico-tecnologico e le trasformazioni politiche e sociali hanno interessato la vita umana in modo irreversibile, segnando i principali trend contemporanei, uno tra questi allungamento della vita media, che unito a una forte diminuzione delle nascite ha indotto a considerare quella attuale l’era degli anziani. La pedagogia è tenuta a studiare le condizioni di vita degli anziani per evitare il rischio di interventi assistenzialistici, in emergenza ed estemporaneità, prospettando una progettualità segnata da un‘educazione “nella e alla “età senile capace di accompagnare , si preparare la vecchiaia nell’ottica del benessere individuale e di comunità . Conoscere l’anziano o gli anziani: differenti profili di anziano ognuno invecchia a modo suo il bisogno di pensare e progettare in funzione del benessere dell’età senile si scontra con le difficoltà di definire l’anziano individuando una precisa età d’ingresso ,le caratteristiche ,i bisogni distintivi e le potenzialità di questa fase della vita .Risulta impossibile pervenire a una definizione univoca e definitiva della vecchiaia . l’età anagrafica non corrisponde a una precisa età biologica ,psicologica e sociale . Recentemente è stata avanzata l’ipotesi di una possibile suddivisione in differenti fasce : 65-74 anni giovani anziani 75-84 anziani 85-100 grandi anziani superiore a 100 ultra anziani La senilità non solo non coincide con precise età biologiche ma nemmeno con precise età psicologiche ,sociali, etniche ed etiche. L’età deve essere intesa come appartenenza ad un gruppo di persone per nascita ( per inserimento in una stessa fase storica) nelle rispettive forme del tempo, e per propria biografia, sintesi di processi di inculturazione e di acculturazione che, in un accezione dinamica e funzionale fanno dell’anziano un emigrato dal tempo e dai tempi , immigrato nel tempo e nei tempi. Se risulta impossibile delimitare il passaggio in cui termina l’accrescimento e inizia l’invecchiamento , la pedagogia ha ritenuto di poter considerare la vecchiaia una fase , tra continuità e discontinuità, dello specifico corso di vita e la formazione umana sintesi della transazione fra soggetto bio-psicologico ,società e cultura; se ognuno invecchia a suo modo non possiamo che riconoscere e assumere a livello educativo l’esistenza ,la praticabilità e la progettualità di una pluralità di profili di anziano. 56 Educare nella e alla vita senile: la modificabilità della struttura della vita umana La pedagogia ha per molto tempo considerato come esclusivo referente dell’educazione l’infanzia , i complessi e irrefrenabili cambiamenti sociali della contemporaneità hanno inciso e rivisitato le condizioni di apprendimento, di lavoro e di vita ,riconoscendo l’esigenza di formazione permanente e di educazione nell’arco delle vita. Non possiamo, certamente, ignorare la pluralità strutturale e funzionale che complicano molte situazioni educative ma non possiamo dimenticare che la pedagogia è intesa come teoria e prassi di quella stessa modificabilità umana che caratterizza la struttura della vita , è quindi necessario sostituire la metafora dell’arco della vita con la definizione di educazione delle-nelle-alle età della vita ; considerando il processo educativo come ristrutturazione e riorganizzazione costante di esperienze di vita che riguarda tutte le sfere e si dipana in tutti i contesti fisici, sociali e culturali di vita.L’anziano si segna di condizioni e possibilità che intercorrono fra differenti dimensioni: * fisico-motoria: relativa a fattori organici e funzionali (coinvolge la pluralità delle funzioni percettive, abilità motorie e dunque delle azioni da potenziare attraverso pratiche mirate di sostegno) * meta cognitiva-cognitiva: spese tra memoria e apprendimento (evidenziando come l’invecchiamento della popolazione abbia reso necessario approfondire le conoscenze relative ai meccanismi di base dell’invecchiamento cognitivo che limita le capacità dell’individuo, delle abilità linguistiche e comunicative * emotivo-affettivo : chiave di lettura che interessa la relazione educativa duale gruppale con l’anziano, alfabetizzazione e socializzazione . Facendo sintesi tra saperi scientifici e umanistici la società è chiamata a garantire salute, benessere e cittadinanza all’età senile integrando alla ricerca in ambo medico e all’assistenza sociale necessarie pratiche pedagogiche . Non è sufficiente assumere la prospettiva dell’educazione per tutta la vita per educare l’anziano, ma ,è indispensabile educare a questa prospettiva tutta la società. I servizi residenziali per anziani I servizi residenziali come li conosciamo oggi, costituiscono una risposta moderna di tipo socio- sanitario correlata a fattori di cambiamento sociale fra i quali il passaggio da un modello di famiglia patriarcale a nuovi modelli di famiglia che, per motivi non estranei alo stereotipo difettivo dell’età senile, solo in una recente contemporaneità si segnano di alcune contaminazioni educative e pedagogiche. Nella famiglie patriarcali in cui le condizioni di vita erano precarie e non vie ra il sostegno pubblico dello stato, l’assistenza all’anziano veniva fatta direttamente in famiglia. Nelle società attuali che propongono differenti modelli di famiglia ristretta ,in cui esiste una forte occupazione che impegna tutta la giornata fuori casa , lo stato ha garantito un maggior intervento pubblico per i bisogni assistenziali all’anziano. Ne consegue ,quindi, la strutturazione e la fruizione di servizi per gli anziani secondo un andamento qualitativo dinamico e altamente differenziato nella distribuzione territoriale, sempre più segnato a costruire una rete di servizi. Possiamo segnalare la presenza di due macro categorie di servizi sociali e sanitari rivolti agli anziani differenti dal domicilio privato : servizi semi residenziali : centri a carattere socio-assistenziale con particolare attenzione alla dimensione sanitaria riabilitativa servizi residenziali: casa protetta -> per soggetti non autosufficienti dal punto di vista psico-fisico residenza sanitaria assistenziale -> per soggetti non autosufficienti affetti da patologie croniche degenerative case di riposo, case albergo case alloggio protette -> per soggetti completamente o parzialmente non autosufficienti co housing -> più soggetti in condizioni fragili che trovano sostegno materiale umano e reciproco nella convivenza Vivere nei servizi residenziali per anziani: tra paura di morire e di vivere nella propria condizione il processo di invecchiamento e il rapporto del singolo con questo processo risultano altamente soggettivi e fortemente correlati alla rete di sostegno e di cura materiale e umana ,di cui dispone l’anziano.Il deterioramento delle cellule neuronali e il decadimento psicofisico ,l’insorgenza di deficit la riduzione delle capacità di adattamento socioculturale incidono profondamente sugli 57 -il culture change movement, nasce negli stati uniti quando si avvia una transizione delle strutture dedicate alla cura della terza età, da un modello medico e manageriale a un modello sociale- umanistico e si diffonde in tutto il mondo. Mette al centro dell’organizzazione di cura gli anziani e le loro famiglie con lo scopo di progettare organizzazioni che promuovano benessere autentico. L’obbiettivo è quello di raggiungere il massimo di qualità della vita , sia per gli ospiti che per i membri dell’equipe. Si prediligono tutte le possibili strategie di riduzione della medicalizzazione. Si promuove uno stile organizzativo imperniato sul dialogo fra i vari membri della struttura ,in modo da ridurre le distanze, la verticalità nelle relazioni per arrivare ad un dialogo più diretto fra gli operatori e gli anziani o i famigliari. -long term care management models (nato negli anni ’60 e si contrappone al primo modello) improntato sull’ottimazione organizzativa secondo un modello burocratico manageriale che prevede efficienza, standardizzazione del servizio e ottimizzazione dei costi , assumendo caratteristiche molto simili a quelle degli ospedali. Valutare qualità della vita della persona anziana in condizioni di fragilità Affinché i servizi per la terza età riescano a offrirsi come luoghi di benessere ,libertà e autonomia nella costruzione delle scelte e nella gestione della quotidianità, per anziani, le famiglie, e il personale, occorre ragionare in funzione di una “perduta adultità”. La terza età è una fase della vita in continuità con le precedenti , con proprie caratteristiche ; nell’approccio con gli anziani occorre spostare il focus dell’attenzione sull’unicità dei loro vissuti e sui bisogni di cui ciascuna persona è portatrice . I servizi e gli interventi per anziani sono sempre più orientati all’assunzione di prospettive multidimensionali in un ottica di continuità della cura tra formale e informale. Lo strumento valutativo più diffuso che risponde a questa logica interdisciplinare è la valutazione multi dimensionale (VMD), uno strumento per la valutazione e la progettazione di interventi di cura ed assistenza per il paziente geriatrico; che prende in esame un insieme ampio di variabili correlate con un buon livello di qualità della vita della terza età. La qualità della vita rappresenta un concetto multidimensionale caratterizzato da componenti biologiche, psicologiche e sociali; la promozione del benessere globale della persona risulta perseguibile soltanto attraverso un approccio interdisciplinare nel quale vengono integrate diverse competenze e professionalità. La valutazione multidimensionale comprende elementi legati alla salute fisica, allo stato mentale, agli stili di fronteggiamento delle situazioni problematiche, di risposta allo stress ,al supporto sociale, alle risorse economiche ,ai servizi ect… Vedi tabella pg 401 E’ necessario mettere al centro in fase di progettazione e di realizzazione degli interventi i bisogni degli anziani stessi che vanno analizzati in un ottica multidimensionale. Conclusioni Gli anziani di oggi hanno caratteristiche e bisogni differenti dagli anziani di ieri e sicuramente gli anziani di domani saranno ancora diversi .Le organizzazioni della cura devono porsi come luoghi di innovazione e promuovere il benessere della vita degli anziani e delle loro famiglie. E’ fondamentale impostare modelli di valutazione che permettano a chi lavora in questi contesti di esercitare una costante riflessività nella pratica per dare risposte ricche e articolate a bisogni che si fanno via via più complessi .Pensiamo ,quindi, al concetto di qualità come un modello verso cui muoversi in una costante tensione verso il miglioramento . 60 31) STRUTTURE ABITATIVE INTERGENERAZIONALI PER ANZIANI Radici e relazioni intergenerazionali ciascun individuo, soggetto persona è un piccolo grande nodo nella rete famigliare e sociale. L’identità della persona è relazionale. Si co-costruisce nella famiglia e nella casa ,nei dialoghi, nei sistemi dei segni sociali, nella cultura di appartenenza e si forma attraverso relazioni, coordinazioni, processi di sintonizzazione tra il proprio mondo interno e esterno. Le relazioni intersoggettive sono aperte a infinite connessioni con diverse soggettività ,gruppi e contesti: quelle verticali (che tramandano e trasformano identità biologica,storia personale e status) quelle orizzontali (costruite nei contesti di vita quotidiana attraverso la trama dei legami intersoggettivi) Le relazioni sono destinate ad orientare il futuro, si stratificano, si trasformano nel tempo aiutano e a comprendere il passato. Per i giovani è soprattutto importante la sicurezza di avere un porto sicuro , da cui partire per scoprire il mondo. Per gli anziani la casa è il posto dove stare che protegge e rassicura , talvolta desiderano anche di essere porto sicuro dove i giovani possano stare, perché gli anziani hanno il tempo e il piacere di sognare i sogni dei nipoti e dei giovani. Molteplici modi di essere anziani e due principali priorità Sappiamo che i modi di essere anziani e di affrontare la vecchiaia sono tanti e sono correlati sia con le caratteristiche personali e le vicende della vita sia con fattori storico-culturali e economico- sociali. Le persone anziane, condividono due principali priorità: il benessere relazionare e culturale e la cura della persona nella quotidianità. Abitare nella propria casa durante l’anzianità non è sempre possibile per una serie di motivi (i figli non vivono più in casa, la casa troppo grande, l’abitazione non è accessibile in caso di disabilità ect…). Il tema nell’abitare nell’anzianità ci porta a confrontarci con una molteplicità di rappresentazioni e risposte che possiamo collocare tra due polarità: -da un lato il progetto dell’abitare come scelta attiva e /o co-partecipata -dall’altro l’accettazione di condizioni di sradicamento e separatezza che aiutano a sopravvivere, non a vivere. Tipologie abitative diversificate verso un abitare più integrato L’invecchiamento della popolazione e l’allungarsi dell’attesa di vita comportano l’ampliarsi delle offerte di soluzioni abitative in ambito privato e pubblico: -domiciliarità con un ruolo centrale delle famiglie supportato da risorse e servizi pubblici di sostegno(le famiglie si sono inventate quello che potremmo chiamare il modello italiano di sostegno alla non auto sufficienza avvalendosi di alcune figure dei servizi di cura delle badanti all’interno del domicilio) -residenzialità fondata sulla rete territoriale di presidi socio sanitari e socio assistenziali (modelli abitativi tradizionalmente praticati quali case di riposo pubbliche o private) Tra la fine degli anni 70 e gli inizi anni 90 ha incominciato a delinearsi un terzo modo di concepire il problema, si tratta di un approccio innovativo alla domiciliarità basato su una progettualità interessata alla costruzione di un sistema di servizi, interventi sociali e relazioni in grado di consentire alla persona anziana di concludere il proprio percorso di vita in un proprio domicilio autonomo oppure un autonomo domicilio all’interno di un complesso abitativo particolare. -complessi abitati composti da alloggi autonomi destinati agli anziani (dotati del supporto dell’assistente sociale del comune o di servizi collettivi) è l’esempio più comune di abitazioni con alloggi assegnati in affitto a fasce di anziani in condizione di disagio sociale ed economico, sono carenti le relazioni intergenerazionali e anche il contatto diretto con la vita sociale. -complessi abitativi organizzati nella forma di esperienza solidaristica e/o di auto gestione destinati a soli anziani: un esempio di housing sociale e la residenza di via Scandellara a Bologna, si tratta di 3 palazzine ciascuna delle quali ospita 10 alloggi autonomi destinati a soci della cooperativa. Al piano terra trovano posto locali collettivi dove si svolge la vita comunitaria a cui ciascuno contribuisce(cucina ,organizzazione eventi, manutenzione giardino etc.…)gli old-old sono aiutati da figli e parenti che trascorrono nella struttura i loro tempo libero come volontari, la residenza è basata sulla ricerca di relazioni intergenerazionali (vi e un asilo in una delle tre palazzine) su intenzionalità condivisa e solidaristica. 61 -complessi abitativi integrati destinati ad anziani e ad altre fasce di utenza con servizi collettivi: in questi complessi abitativi le residenze per anziani si affiancano ad alloggi per altre fasce sociali (giovani coppie, studenti ect…) sono previsti ampi spazi collettivi destinati alla socializzazione, alla cura e al tempo libero. Talvolta e presente anche un alloggio per il portiere che ha il compito di occuparsi delle tecnologie del complesso abitativo e degli interventi in caso di emergenza. -co-residenza (co-housing) e solidarietà a bassa soglia sanitaria con progetto di vita, coesione sociale e intergenerazionale. Si tratta di modelli abitativi basati sulla condivisione di stili di vita e forme di socializzazione di buon vicinato ed eco sostenibili. Vi sono molteplici casi di co.housing: di over 55 senza figli, di solo donne anziane non che co- residenze intergenerazionali che prevedono la presenza di nuclei con fasce di età differenti. Condizioni essenziali per realizzare un efficace co-housing sono: !ideazione e realizzazione basata su una progettualità condivisa fra gli utenti !organizzazione e gestione secondo modalità e principi ampiamente discussi e condivisi prima della realizzazione dell’intervento !scelte interessate al risparmio !destinazione di spazi dedicati allo sviluppo di scambi relazionali !rispetto dell’autonomia e delle regole comunitarie intergenerazionalità possibile :uno sguardo e alcuni dati su due studi di caso il fine della ricerca è quello di analizzare gli effetti delle relazioni intergenerazionali sulla percezione del benessere delle persone anziane in due contesti : -Residenzialità aperta al territorio (complesso abitativo di Padova che si caratterizza per multicomunità e “fabbrica di relazioni”) -domiciliarietà (la cooperativa wohnungsdgenossenschaft Munchen West Eg a Monaco di Baviera) La scelta di avvalerci della metodologia del caso si studi è legata alla consapevolezza che le strutture abitative sono il risultato di determinanti culturali e socio-economiche ,di scelte politiche , delle normative vigenti nei differenti paesi. Riporteremo alcuni dati e considerazioni riguardo alla percezione di benessere , non solo fisico ma inteso in senso globale, connesso alla caratterizzazione intergenerazionale delle strutture abitative considerate . + vedi tabella pg 412 il caso di studio Opera Immacolata Concezione Onlus di Padova - “Civitas Vitae”+ il caso di studio a Monaco di Baviera (leggere pg 413-414-415-416-417-418-419-420-421-422-423-424) Considerazioni finali La lettura dei dati è in progress e i due casi si confermano due studi di caso separarti. Queste due tipologie abitative potrebbero venire considerate come due potenziali soluzioni l’una conseguente all’altra ,nella vita di una persona : la vita nella propria casa con la possibilità di adattare l’infrastruttura alle esigenze che cambiano con l’anzianità, e un successivo trasferimento in una struttura per anziani caratterizzata da un approccio innovativo improntato a relazionalità e coesione sociale, che possa garantire cure quotidiane adatte alle differenti condizioni di non autosufficienza. Stanno facendosi strada ,modelli di tipologie abitative che si orientano verso la progettualità di strutture e servizi più dirotti , capaci di fare rete e lavoro integrato, affidate ad un personale multi-professionale che sappia coordinarsi con le competenze e le risorse proprie dei residenti affidando a ogni “coinquilino “un ruolo di responsabilità nel proprio ambiente di vita. Le due principali priorità delle persone anziane sono: il benessere relazionale e culturale e la cura della persona nella quotidianità, ciò che dà colore al loro spazio vitale è la qualità delle relazioni in senso globale in particolare nella forma di intergenerazionalità. Occorre rendere le città global age- friendly cities , amiche di tutte le età della vita. Occorre una maggiore sensibilità per i bisogni delle persone anziane e grande attenzione alle caratteristiche che il contesto urbano deve assumere affinché l’anziano autosufficiente possa conservare il rispetto, l’autonomia, e le connessioni sociali necessarie per il suo benessere .Una città che intende permettere agli anziani di invecchiare attivamente ottimizza le opportunità a favore della salute e della partecipazione alla vita sociale rendendo accessibili e fruibili i sui servizi socio-educativi e culturali anche a persone con bisogni e capacità diverse .L’idea è quella di perseguire un abitare sociale che si sviluppi sulla base di una consapevolezza sempre più condivisa dei forti bisogni di reciprocità tra le persone e l’essere dell’eco sistema. L’abitare sociale co-partecipato rappresenta un passo avanti in questa direzione e può contribuire alla costruzione di una possibile economia del noi e di una cultura dell’abitare interessata a interconnettere economia, ecologia, etica estetica ed educazione . 62 33) EDUCARE AL MUSEO (di berta Martini) L’evidenza della funzione educativa Oggi la funzione educativa del museo è universalmente riconosciuta e formalmente sancita dall’International Council of Museums che inidividua nell’educazione uno degli scopi a cui sono connesse le azioni fondamentali del museo: l’acquisizione, la conservazione ,la ricerca , la comunicazione e l’esposizione . La storia del museo come istituzione pubblica in grado di svolgere una funzione educativa, inizia con la Rivoluzione francese; i moti rivoluzionari sanciscono il diritto per tutti a visitare, studiare e frequentare i musei e a farne un’istituzione pubblica inserita insieme alla scuola nel sistema educativo statale. Nell’ottocento la crescita dei musei fu uno dei modi con cui la società rispose all’alienazione della vita imposta dal processo di industrializzazione attraverso l’affermazione del loro valore educativo in rapporto a scopi morali e di educazione al gusto. A partire dal 1950 i fenomeni di scolarizzazione di massa, contribuiscono a far maturare la consapevolezza che il museo al pari del sistema di istruzione, consente esperienze di apprendimento di tipo estetico e contemplativo. L’affermazione dell’idea di formazione permanente e la rivoluzione tecnologica hanno amplificato e diversificato le modalità di accesso e fruizione delle collezioni, tanto che oggi il museo assume forme assai diverse tra loro, ciascuna delle quali porta con sé anche un diverso modo di assolvere alla funzione educativa. La funzione educativa al museo va rintracciata al crocevia tra gli oggetti-opera che contiene e l’esperienza di fruizione soggetto-visitatore; non c’è museo senza oggetti/opere .E’ riguardo a questi oggetti che può essere definito il ruolo educativo del museo, dall’altro lato non può esserci educazione senza il soggetto a cui essa è destinata. E’ dunque il relazione al soggetto ,alle sue caratteristiche e ai suoi bisogni che va pensata la relazione soggetto-oggetto-istituzione. La formazione dell’uomo si svolge lungo la direzione individuata dalle forme simboliche delle cultura, attraverso l’interazione soggetto-oggetto culturale definita in un senso progettuale pedagogico; la progettazione educativa riconosce a ciascun sapere l’attitudine a formare lungo la direzione individuata dalla propria identità culturale e ricerca le condizioni sotto le quali tale attitudine può essere espressa; in base a tale interpretazione è allora possibile considerare il museo un istituzione che produce effetti educativi. Sostenere che la funzione educativa del museo possa essere ricondotta a quella della formazione ai saperi non è sufficiente ad individuare il modo in cui esso realizza il proprio fine. E’ possibile distinguere le modalità con le quali il museo risponde al proprio mandato educativo: una più ostentativa e trasmissiva, una più esperienziale e interattiva. Questa duplice caratterizzazione rischia di stigmatizzare due tipologie di museo: il museo più tradizionale o il museo più innovativo, indipendentemente dal tipo di collezioni e di opere o dalle specificità che il museo si prefigge .In realtà ,soluzioni espositive più tradizionali possono essere concepite in senso costruttivista , mentre soluzioni espositive innovative possono essere concepite in senso realista . Hein (1994) tenta di sfuggire a una tale stigmatizzazione ed identifica per il museo quattro possibili tipologie di approccio educativo : -the systematic museum -> il contenuto del museo debba essere esibito in modo da riflettere la vera struttura dell’oggetto e debba essere presentato al visitatore nella maniera più comprensibile possibile -the discovery musuem -> assume una concezione realistica della conoscenza, che esiste in maniera indipendente dal soggetto , ma suppone che essa sia acquisita attraverso l’esperienza attiva di chi apprende. -the orderly musuem -> concepisce che la conoscenza sia costruita nella mente del soggetto e che il modo migliore di acquisirla sia procedere in maniera ordinata step by step secondo un certo percorso definito -the constructivist museum -> suppone che sia la conoscenza sia il modo di acquisirla dipendano dalla mente del visitatore. Mentre interagisce con il mondo , il soggetto non solo aggiunge nuove informazioni e fatti a ciò che già conosce, ma riorganizza e costruisce i propri apprendimenti e la propria capacità di apprendere. E’ indubbio che oggi la letteratura sull’educazione al museo sia dominata da approcci di tipo costruttivista in quanto risultano particolarmente appropriati a rivolgersi a veste tipologie di visitatori, individuare nel museo un modello formativo alternativo a quello scolastico ,coniugare la finalità educativa con quella divulgativa e di intrattenimento ect.. Occorre però fare attenzione al fatto che spostare tutta l’attenzione sul soggetto conoscente non deve far perdere di vista il contenuto. 65 La specificità formativa del museo dipende anche dal particolare dominio conoscitivo su cui insite la relazione soggetto-oggetto all’interno dell’istituzione , ciò avviene in due modi: -in quanto ogni oggetto può essere interpretato come il risultato di un’attività in un certo ambito culturale. -in quanto un certo dominio conoscitivo costituisce un fattore di sviluppo di specifiche abilità a chi opera al suo interno. l’oggetto si fa strumento di sviluppo del soggetto in quanto lo sollecita, sia sul piano culturale sia sul piano psicologico ad attività-abilità caratteristiche dell’ambito in cui il soggetto ha avuto origine ed è stato collocato in senso epistemico/scientifico ,in sintesi , quindi , l’oggetto culturale sollecita il soggetto che ne fa esperienza a pensare e ad agire secondo una modalità che è specifica del dominio a cui l’oggetto appartiene in senso culturale. Quest’idea trova riscontro nelle concezioni di Olson e Gardner . Olson indaga la correlazione tra l’attività esecutiva, il medium e la struttura della mente, formulando l’ipotesi che è l’esperienza nei media culturali che dà alla mente le sue proprietà peculiari e che l’intelligenza è l’abilità in un medium culturale. Medium=campo di abilità esecutiva, compresi i campi di attività specificati dai domini cognitivi disciplinari. Gardner circoscrive il numero delle intelligenze ad un numero limitato, interpretandole come formae mentis , come insiemi di competenze intellettive umane autonome e rilevanti all’interno di un certo contesto culturale, egli definisce l’intelligenza come capacità di risolvere problemi o di realizzare prodotti apprezzati in uno o più ambienti culturali. Egli ritiene inoltre che la natura evocativa del museo e la sua flessibilità nell’intercettare le diverse intelligenze devo essere coniugate con la struttura di un apprendistato, in linea con un “educazione al comprendere. Le esperienze museali di tipo “costruttivista” possono offrire la possibilità di mirare all’acquisizione di una capacità concreta in un ambiente che riproduce le caratteristiche del rapporto di apprendistato: partecipare al lavoro di un piccolo gruppo di apprendisti , insieme ad un maestro che , insieme al gruppo è impegnato in un attività produttiva. -> la funzione educativa del museo può essere individuata in rapporto all’esperienza del soggetto con gli oggetti culturali, tale esperienza si qualifica come formativa con riferimento al dominio conoscitivo al quale un particolare oggetto culturale afferisce e alle abilità proprie del dominio che il contesto di fruizione fa agire. Il museo costruttivista costituisce un possibile modello formativo per raggiungere questo scopo, tale modello rinuncia a percorsi sequenziali predefiniti, intercetta modalità diverse di apprendimento, permette il confronto tra oggetti e conoscenze personali e nuove conoscenze. L’esperienza museale del visitatore Per considerare la funzione educativa rilevante, il museo devo considerare il propri visitatori soggetti attivi, anziché al general public, il museo si riferisce a soggetti individuali caratterizzati da bisogni, stili preferenziali di apprendimento , interessi sociali e culturali. Una visita al museo non è solo l’incontro tra persone in grado di assorbire conoscenze ma un percorso multimediale il cui risultato è plurale. Dal punto di vista pedagogico ,ciò influisce sulle scelte progettuali relative alla creazione dei contesti di fruizione (exhibits) che riguardano la qualità della mediazione didattica operata dalla istituzione-museo in rapporto ai diversi oggetti culturali e ai potenziali fruitori. Un modo per pensare la progettazione didattica degli exhibits è di concepirli come contesti di azione e di esperienza connotati in senso cognitivo e affettivo. Gli exhibits non sono neutri rispetto all’esperienza che producono, ed è dunque nella costruzione degli exhibits adeguati che si realizza il carattere intenzionale della mediazione didattica operata dal museo sulla relazione soggetto-oggetto. Tale mediazioni deve essere operata in base ad alcuni principi : -principio di multi-modalità: la progettazione educativa deve tendere verso la creazione di exhibits che permettono di apprendere secondo diversi linguaggi o diversi codici. -principio di contestualizzazione: gli exhibits devono prevedere la partecipazione attiva del visitatore il quale è chiamato a porsi domande e a trovare risposte attraverso l’osservazione, utilizzazione o manipolazione delle risorse messe a disposizione. -principio della conoscenza distribuita: in base a questo principio un exhibits non si limita a giustapporre la conoscenza all’opera ,ma associa la conoscenza alle realtà percepita ed esperita dagli oggetti culturali. 66 -principio della conoscenza diffusa: gli exhibits sono basati su un meccanismo di interazione utenti- oggetti e utenti-utenti ;ciò significa che la conoscenza a cui il visitatore ha accesso non è solo quella associata all’oggetto ma anche quella di altre persone. -principio di personalizzazione: la personalizzazione dell’esperienza implica che l’exhibits sia basato sull’implicazione personale del soggetto , il quale partecipa in prima persona all’esperienza di fruizione attraverso il coinvolgimento delle sue dimensioni cognitive, affettive e sociali. Tali principi valgono ,in particolare, per exhibits tecnologici e digitali ; l’impiego delle tecnologie può intervenire sulla forma dell’oggetto( riproducendola in modo digitale o virtuale) ,sia sul contenuto ad esso associato ( attraverso dispositivi di supporto delle informazioni o attraverso soluzioni di realtà aumentata) Gli educatori museali Il fatto che il museo compaia tra i contesti di esercizio della professionalità educativa è il segno dell’interesse verso l’educatore al bene culturale inteso come bene comune nel quale sono cristallizzati i repertori simbolici di cui la cultura è portatrice . l’ICOM Italia (international council of museum - comitato nazionale italiano) opera nelle prospettiva di una definizione delle conoscenze, delle abilità e delle competenze necessarie per lavorare nei musei contemporanei in una logica di formazione professionale permanente. Nel 2006 l’elaborazione della carta nazionale dei professori museali da parte di ICOM Italia, che nasce come carta propositiva, ha carattere nazionale e risponde all’esigenza di intervenire sulla situazione nazionale in atto nell’ambito IV del decreto ministeriale sugli standard museali dedicato al personale necessario per adempire alle funzioni strutturali del museo. La carta prevede due figure professionali che garantiscono l’espletamento della specifica funzione educativa del museo : il responsabile dei servizi educativi e l’educatore museale. il responsabile ci pare pienamente coerente con il profilo formativo di pedagogista, elabora progetti educativi e ne coordina la realizzazione utilizzando strumenti adeguati e funzionali per i diversi destinatari dell’azione educativa. La seconda figura realizza gli interventi educativi programmati del museo adeguandoli alle caratteristiche e all’esigenze dei diverse destinatari, e sembra essere coerente con il profilo formativo previsto per l’educatore professionale socio pedagogico. Per entrambe le figure costituiscono requisito fondamentale di accesso anche corsi di specializzazione o master in discipline attinenti il museo e/o l’educazione al patrimonio culturale. Uno degli scopi del museo è educare e allora per farlo servirà un educatore-pedagogista ,come auspica la carta ICOM Italia, con competenze nell’ambito della museologia, magari acquisite con un corso di specializzazione o un master. Sebbene questa Carta non abbia trovato piena attuazione è il segno della rilevanza che oggi assumono le professioni educative anche in ambito museale; ma è anche segnale dell’attuale incapacità di riconoscere che i profili professionali da essa legittimamente reclamati esistono. La progettazione degli interventi educativi e la ricerca delle condizioni della sua realizzazione sono infatti una specifica competenza che è denominatore comune delle professionalità educative. Non riconoscere alle professionalità educative a matrice pedagogica questa competenza specifica significherebbe abdicare all’idea stessa di educazione, come fine e come mezzo di una pedagogia come scienza. 67
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