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PEDAGOGIA DELLA FAMIGLIA, Sintesi del corso di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative

3-4 parte di pedagogia della famiglia, esame 2 anno scienze dell'educazione, Pati

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 22/09/2018

letizia68
letizia68 🇮🇹

4.3

(49)

29 documenti

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Scarica PEDAGOGIA DELLA FAMIGLIA e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative solo su Docsity! TERZA PARTE: CRITICITA’ DELLA VITA FAMILIARE 1. LA FAMIGLIA DI FRONTE ALLE SOFFERENZE L’umana condizione di sofferenza si radica sempre in un evento doloroso, critico e si connette strettamente con il soggettivo processo interpretativo dello stesso evento critico. Il dolore è identificabile con l’elemento scatenante una situazione problematica, mentre la sofferenza va intesa come espressione del modo personale di vivere quella situazione problematica. La sofferenza è da concepire in termini di manifestazione soggettiva del dolore, quasi come riflesso esistenziale di quest’ultimo; è l’effetto che scaturisce da una circostanza dolorosa. Riflettere sulla situazione di sofferenza che viene a toccare l’esistere umano, significa prendere in esame una dimensione della vita suscettibile di condizionare il divenire personale e familiare. Alla famiglia, i soggetti costitutivi si rivolgono per essere aiutati a superare tale condizione di disagio esistenziale. 1.1 DOLORE E SOFFERENZA: CARATTERISTICHE DELL’ESISTERE UMANO In ordine al tema del dolore e della sofferenza, la pedagogia personalistica muove dalla convinzione che essi costituiscono dati fenomenici connessi inscindibilmente con la natura umana. Felicità e dolore rappresentano un binomio indissolubile della condizione umana, al punto che l’esistenza può essere intesa come dialettica di superamento dell’una sull’altro. La vita umana è fatta di gioia e anche di sofferenza. Gli stati emotivi che la attraversano sono un tutt’uno con essa; la vita è vita gioiosa, ma anche vita sofferta. Nel lungo o breve scorrere della vita, il carico di emozioni, sentimenti e sensazioni risultano qualificanti. Se volessimo operare una classificazione degli stati di sofferenza umana, dovremmo effettuare la distinzione tra il dolore fisico, che fa urlare il corpo, e il dolore dell’anima, che sconvolge mente e cuore. Il dolore dell’anima è provocato dall’altrui dolore fisico e spirituale, dall’altrui venir meno alla vita e assume tonalità laceranti in base al grado di legame intesso con la persona che soffre. La distinzione tra dolore fisico e dolore spirituale suggerisce di stimare il primo come vera e propria costante delle varie età della vita; il secondo come fattore che interviene a contraddistinguere la crescita umana e si presenta dall’adolescenza in poi. Il dolore spirituale può anche comparire prima sotto forma di smarrimento. Emerge la capacità dell’uomo non soltanto di percepire visivamente e razionalmente la vita, ma anche di “sentirla”: l’homo sentiens, uomo emozionale, non è qualcosa di residuale rispetto all’uomo razionale; per il personalismo, pathos e logos costituiscono due caratteristiche fondamentali dell’essere umano. La vita umana si presenta come un unicum esistenziale che dispone l’Io all’incontro del Tu. La capacità di “sentire” dell’uomo permette di percepirsi nella propria complessità avvertendo l’altro nell’interiorità del suo mondo. La sofferenza è un aspetto della vita che aiuta a dar risalto al valore della soggettività: non c’è una sofferenza uguale ad un’altra e come tale assume le caratteristiche della complessità. Inoltre, la sofferenza implica il riferimento al concetto di limite umano: la vita dell’uomo è segnata dal limite creaturale e nel suo divenire temporale, la vita umana non si svolge in maniera lineare ed equilibrata; è invece sottoposta a inciampi, lacerazioni. A questo punto deve essere riconsiderata l’istanza dell’educabilità: in campo educativo, si tratta di riflettere su come ri-orientare tali vincoli, 1 impotenze e cadute. Inoltre, è importante aiutare la persona ad affrontare la sofferenza e il dolore, a viverla e a superarla. La persona che soffre chiede sostegno e incoraggiamento; la pedagogia è chiamata ad interrogarsi su quali modalità educative possano essere indicate per accompagnare la persona alla ricostruzione di sé, al futuro e alla speranza. Tipico dell’uomo è il sostare sul proprio vissuto: si può pedagogicamente prospettare, ad ogni uomo, il compito di trasformare il “sostare” in “so-stare”, ossia imparare a collocarsi in una situazione per identificare le possibili vie d’uscita. Il saper stare, l’imparare a situarsi in un tempo e in uno spazio affonda le radici nelle reti relazionali che ci circondano: è frutto di apprendimento. 1.2 SOFFERENZA E DIMENSIONE RELAZIONALE Se la persona è essere dialogico, questo si riversa anche sulla condizione di sofferenza e di benessere. La persona è sempre persona in relazione: felicità e sofferenza scaturiscono dal rapporto che la persona intreccia con il mondo delle cose, delle persone e dei significati. Le fonti di benessere o di dolore possono essere molteplici e chiamano in causa sempre la persona come creatura relazionale; la sofferenza può essere suscitata da differenti situazioni dolorose, ma non sono da trascurare quegli stati di sofferenza che affondano le proprie radici in un rapporto disturbato con sé stessi: scarsa accettazione di sé, disorientamento verso il futuro. Lo stato di sofferenza non rimane mai circoscritto alla persona, ma influisce sempre sulle reti di rapporto in cui la persona è inserita e a cui partecipa. Il sostegno offerto va orientato a suscitare un cambiamento di prospettiva esistenziale: si tratta di intervenire per fare della sofferenza una fattore di cambiamento personale e relazionale. La pedagogia personalistica muova dal fatto che non è il soffrire a far crescere, a rendere migliori e a maturare, ma è la possibilità di rinvenire in esso significati, intravedendo segni di speranza nello stato di prostrazione avvertito. La sofferenza è fortemente soggettiva e occorre fare leva su di essa per aiutare a riprendere il cammino della vita. Famiglia e reti amicali sembrano essere gli spazi che meglio si prestano ad offrire sostegno educativo; le persone avvertono il desiderio di essere sostenute, ascoltate e comprese. Riconoscimento, accoglienza e dialogo familiari si costituiscono come la base relazionale da cui il soggetto, in stato di bisogno, può muovere per ridare senso al proprio vivere la vita. La realtà del dolore chiama in causa l’istanza della cura; la cura educativa postula adeguati comportamenti di aiuto verso la persona che soffre aiutandola a risignificare la vita. La cura educativa si delinea come modalità comunicativa attraverso la quale la persona è sollecitata a dare senso al dolore, intravedendo in esso segni di speranza. Aver cura dell’altro è sollecitarlo ad avere cura di sé, facendo leva sulle proprie capacità di recupero per disporsi al cambiamento e al miglioramento. 1.3 LA FAMIGLIA TRA SOFFERENZA E CURA EDUCATIVA Lo stato di profonda e diffusa sofferenza impedisce ai singoli soggetti di situarsi correttamente nel tempo e nello spazio domestici; si assiste spesso a forme di apatia comportamentale, con i membri che alternano disperazione ed estraneità verso fatti e avvenimenti, indifferenza e timore nei confronti dell’esistenza. Lo spazio circostante, la casa, si colorano di estraneità oppure sono ignorati o trascurati per allontanare il lacerante struggimento dei ricordi. I vari livelli di sofferenza si mostrano sotto forma di disagio relazionale nel quale domina lo smarrimento temporale e spaziale. La famiglia come fonte di dolore emerge da narrazioni e ricerche che segnalano l’importanza delle relazioni domestiche ai fini di superare lo stato di sofferenza: la famiglia sembra agire soprattutto attraverso occasioni di confronto e di dialogo; tale processo 2 supporto educativo è precisato come espressione di accoglienza, comprensione, affettività intensa in cui la componente empatica svolge un ruolo primario; questo modo risulta indispensabile nelle manifestazioni disagio interiore. Il sostegno emotivo-affettivo favorisce lo sviluppo dell’intelligenza intrapersonale, nella quale il soggetto può realizzare una conoscenza profonda della propria vita affettiva. La famiglia si delinea come centro relazionale primario, nel quale le situazioni di sofferenza possono trovare elementi utili per una corretta soluzione; i figli cercano conforto e sostegno soprattutto nella figura materna. Il sistema domestico sembra agire soprattutto con modalità dialogiche e di confronto: tale processo comunicativo non è soltanto verbale, ma anche non verbale, empatico, di vicinanza fisica ed emotivo-affettiva. Non va sottovalutato il fatto che il sostegno è espressione del clima educativo, dello stile relazionale preesistente nella famiglia. b. Sostegno auspicato: le persone che soffrono, manifestano il desiderio di poter stabilire un rapporto con una persona vera, con un interlocutore significativo, con un soggetto adulto capace d’intessere una relazione profonda. Il soggetto ha bisogno di una figura capace di sostenere nel bisogno, sollecitare al recupero delle risorse personali e che aiuti a dare senso alla vita. Egli è delineato come persona forte, disposta a capire la persona in condizione di bisogno, pronto a riconoscere il valore altrui, disponibile a dialogare, ascoltare e consigliare. C’è bisogno di un sostegno adulto che aiuti a dare significato alla sofferenza; emerge così una figura di adulto capace di porsi come guida, come vero modello di comportamento. L’adulto investito di responsabilità educativa deve assolvere ad un compito prioritario: sollecitare i soggetti ad imparare a so-stare con la sofferenza; spetta a lui sospingerli ad intraprendere un processo di ri-scrittura e di re-interpretazione del loro vissuto, accompagnandoli nel cammino di risoluzione autonoma della situazione di sofferenza. 1.7 CARATTERISTICHE DEL MODELLO EDUCATIVO Compito primario del modello educativo adulto auspicato è quello di facilitare negli interlocutori la ri-definizione di una vera e propria sintassi valoriale; spetta a lui muoversi in due direzioni: a. Aiutare a dare senso alla sofferenza: l’apertura alla speranza si lega alla capacità personale d’interpretare la sofferenza come fattore che impone la riprogettazione esistenziale. b. Offrire la possibilità di raccontare la propria situazione di sofferenza: il poter usufruire di occasioni, nelle quali narrarsi, costituisce un passo importante per superare lo stato di smarrimento. La narrazione giova alla revisione di sé stessi e dare significato al proprio vivere. Riflettere sull’esperienza personale, darle un senso, per il soggetto interessato significa muoversi in una triplice direzione: 1. Dare ordine al proprio vissuto: l’Io narrante si rivolge soprattutto ad un Tu capace di ascoltare non soltanto la storia, il fatto doloroso, ma anche e soprattutto l’interiorità della persona narrante; 2. Rilevare le tracce del passato sul proprio modo di essere nel tempo presente: la narrazione autobiografica non è fatta semplicemente di sequenze temporali di eventi, ma manifesta il vissuto interiore, le sensazioni più nascoste, i bisogni e le attese inespressi; 5 3. Recuperare gli insegnamenti che scaturiscono da un’esperienza trascorsa di dolore: c’è bisogno, per capirla e orientarla verso barlumi di speranza, di leggere l’esperienza dolorosa nel suo dinamismo personale e relazionale, nel suo farsi storia dell’uomo. La narrazione permette al soggetto interessato di riconsiderare il proprio vissuto, di dare voce ad emozioni e sentimenti, d’imparare a so-stare nelle situazioni di sofferenza. L’intervento educativo, verso chi soffre, esige da parte dell’adulto alcuni atteggiamenti di base: a. Riconoscere la persona che soffre, andando oltre la rilevazione del fatto doloroso e avviando un processo di effettiva personalizzazione della relazione; riconoscere l’altro vuol dire eleggerlo ad interlocutore unico di una situazione, significa muovere dal riconoscimento di una condizione creaturale che è specifica di quel soggetto, di quella persona in situazione, comunicando ad essa la propria partecipazione e comprensione. b. Accogliere colui che soffre, con le sue debolezze e i suoi limiti; su tale premessa si può costruire una relazione accogliente. Accogliere chi soffre è già saper situare la relazione in una dimensione di senso. c. Sostare con l’interessato nella situazione di sofferenza, anche con il silenzio: spesso non c’è bisogno di parole per aiutare colui che soffre; è sufficiente fargli capire che si partecipa al suo travaglio interiore, che si è empaticamente consapevoli dello stato in cui si trova. d. Incoraggiare a rintracciare, in sé stessi e nel mondo circostante, elementi di speranza e di apertura. Va fatto capire all’altro che è pieno di risorse e che suo compito primario è imparare a riconoscerle per servirsene; l’incoraggiamento diventa condivisione intrisa di affetto, di profondo sentimento di partecipazione, di empatia. Con un semplice gesto, o con una parola, si può comunicare alla persona che soffre, comprensione e certezza nelle sue capacità di recupero. 2. CONFLITTI DI COPPIA E MEDIAZIONE EDUCATIVA Il confliggere, ossia l’atto costitutivo del conflitto, concerne una modalità dello “stare insieme” connotata in modo negativo per il fatto che ogni parte vuole mantenere la sua posizione e non ha nessuna intenzione di modificarla; quando si è in presenza di uno stato conflittuale viene a crearsi uno spazio vuoto che isola ciascuno nel proprio vissuto e che contribuisce a separare sempre di più le persone, rendendole estranee e sole. CHE COS’E’ IL CONFLITTO? Il conflitto fa parte del vivere e proprio per questo non è possibile evitarlo; esso procede di pari passo con il divenire dei rapporti umani e poggia sulla diversità esistenziale dei soggetti interagenti. L’incontro dell’Io con il Tu è fatto di dissenso, di disaccordo e di non condivisione. La vita umana poggia sulla ricerca delle somiglianze, dell’intesa e della conciliazione, per cui è anche vero che il conflitto può essere mediato ed orientato. 2.1 DALL’ESSERE DEL CONFLITTO ALL’ESSERE IN CONFLITTO: IL VALORE DELLA RELAZIONE DIALOGICA CHI MEDIA IL CONFLITTO? Una prima risposta è da ritrovarsi della dimensione della relazione, ma anche nella dimensione della comunicazione. L’essere in conflitto diviene una modalità relazionale che assume la perturbazione come strumento di riconoscimento reciproco; tale agire può essere il punto di partenza dal quale far ripartire la relazione e può divenire uno strumento di 6 crescita e di trasformazione. Dal conflitto derivano caos ed instabilità, si perdono i punti di riferimento che normalmente rassicurano; si genera la paura di non poter sapere cosa accadrà e cosa ci accadrà: per scoprirlo è necessario il dialogo, il confronto e il non rimanere in una posizione di stasi. Il conflitto è ovunque: cercare di collocarlo può aiutare l’uomo a riconoscerlo, non a evitarlo e, infine a superarlo; è il passaggio dall’ordine al disordine, è il momento in cui l’Io si scontra con il Tu, in quanto l’Io si sente minacciato e frustrato. Gasl definisce il conflitto come un’interazione tra agenti in cui, almeno un attore, percepisce un’incompatibilità con uno o più attori nella dimensione del pensiero e delle percezioni, nella dimensione emozionale, della volontà, in maniera tale che la realizzazione dei propri pensieri ed emozioni venga ostacolata da un altro attore, evitando l’autorealizzazione della persona. Nel conflitto si possono individuare alcune caratteristiche tipiche: • Contraddizione, derivante dall’incompatibilità tra la necessità di soddisfare bisogni e colui che lo impedisce; • Comportamento: insieme delle azioni volte a condurre il conflitto per perseguire i propri obiettivi ed impedendo all’altro di pervenire i suoi; • Sentire delle parti in conflitto: percezioni ed emozioni che determinano la condotta e l’interpretazione soggettiva della situazione, in quanto sono fondamentali per comprendere un conflitto. I bisogni derivano dai desideri che ognuno possiede, sono legati alle nostre pulsioni di vita e si incrociano con i desideri degli altri trovando opposizione, per cui i contrasti nascono quando i nostri desideri sono ostacolati da quelli degli altri. Se tale situazione si ripete frequentemente, è inevitabile che si vada a verificare una degenerazione della relazione. In una situazione conflittuale si producono una serie di azioni in cui vi è incompatibilità o contraddizione tra le intenzioni, le aspettative o i bisogni delle parti. Il bisogno indica una limitazione e i bisogni possono essere materiali, della sicurezza e del benessere, e relazionali: se vengono a mancare, si impoverisce l’esistenza della persona e di conseguenza anche la sua autonomia, libertà e responsabilità. Il conflitto nasce quando il desiderio, motore del bisogno, è ostacolato da una serie di circostanze o persone, la cui identità viene attaccata e ciò è fonte di profondo malessere. Vi sono diversi modi di esplicitare un dissidio: • Divergente: un’azione devia e tende ad obiettivi diversi rispetto alla situazione iniziale che sembrava orientata alla cooperazione; • Concorrente: le azioni sono dirette verso un obiettivo conteso; • Ostacolante: un’azione blocca un altro agente; • Aggressivo: azione violenta contro un’altra persona. Si assiste sempre ad una escalation della situazione conflittuale: solitamente vi è una fase nella quale ci si irrigidisce, per poi dibattere; ci si preoccupa poi della propria immagine e si ricercano i giusti alleati. Successivamente, se si supera questa soglia, si può giungere alle minacce, strategie e sabotaggi volti non a porre fine al conflitto, ma a distruggere la persona con la quale si è in 7 Se il conflitto viene ben gestito diviene un elemento funzionale alla crescita della coppia, nonché al suo rafforzamento. Il conflitto è positivo se non offende la dignità dell’altro e la riconosce. 2.3 MEDIAZIONE E RELAZIONE DI COPPIA: LA SPERANZA DELL’EDUCAZIONE La mediazione è una virtù relazionale, è un rivolgersi all’Altro che prevede un confronto nel quale l’Io e il Tu si riconoscono reciprocamente come interlocutori. La mediazione è un atteggiamento, talvolta innato nell’essere delle persone e talora da scoprire e da acquisire. Mediare è promuovere una cultura del dialogo, del rivolgersi all’Altro, tesa alla ricerca ma soprattutto all’armonia dei contrari e al riconoscimento della diversità: una diversità che faccia respirare e che porti ossigeno alla relazione interpersonale. La mediazione si fa educativa perché permette ai membri della coppia di poter parlare per essere ascoltati ed ascoltare; rende possibile un confronto che favorisce l’espressione dell’intensità della sofferenza facilitando l’evoluzione di una situazione trasformandola in un’occasione di crescita e di riprogettazione esistenziale. L’essere in conflitto crea sofferenza e tale condizione porta le persone a ritirarsi, ad allontanarsi dagli altri: iniziare a mediare con sé stessi e con gli altri può aiutare la coppia a modificare la sua condizione di immobilità. Si tratta di imparare a so-stare, a collocarsi nella situazione per identificare possibili vie d’uscita. La mediazione offre una possibilità: quella di effettuare il passaggio dal passato al presente per guardare con fiducia al futuro. La mediazione diviene educativa anche quando accoglie il disordine originato dal conflitto e lo rende esplicito, gli offre uno spazio e gli dà tempo; un tempo che diviene il miglior mediatore tra l’Io e il Tu che si scontrano, un tempo che fa sperare in un cambio di direzione. La mediazione educativa crea speranza, in quanto senza speranza non si può vivere: essa accompagna la vita dell’uomo, è spinta a vivere e ad imparare a vivere. In sua assenza prevale lo sconforto, la rinuncia, fino alla disperazione; la speranza è anche mediazione perché è apertura ad intravedere soluzioni anche quando sembrano non esserci: è certezza di avere ancora qualcosa da dire, da fare. Attraverso la speranza della mediazione, il progetto di vita coniugale viene riformulato per essere vissuto in tutto il suo impegno, con tutta la sua forza. La mediazione diviene strumento di collegamento dei valori, mirando all’autenticità di una relazione fondata sulla sincerità e sulla fiducia. La mediazione educativa si presenta come un cammino della coppia, un percorso rivolto a tutte le coppie che mira alla prevenzione e alla promozione del significato del legame d’amore; diviene opportunità che mira alla cura ed alla ricostruzione di un equilibrio relazionale, diviene un atto preventivo per evitare future criticità ed è anche un atto educativo per accogliere situazioni difficili e per poter riprogettare la propria esistenza. 3. DISAGIO FAMILIARE E INTERVENTI DI SOSTEGNO EDUCATIVO Un tratto considerato rilevante nell’ambito delle famiglie è la loro capacità di combinare insieme affettività e normatività; l’equilibrio tra queste due spinte sembra però essere sbilanciato in un senso o nell’altro. La famiglia odierna sembra propendere ed eccedere nell’accudimento e nella protezione, ossia in un’interpretazione e in una pratica dell’affettività che incoraggerebbero stati di dipendenza, accomodamento e, talvolta, di chiusura su sé stessi. Il concetto di “rischio familiare” finisce per legarsi all’organizzazione sociale ed ai suoi valori; la famiglia odierna si riconferma come luogo per eccellenza al cui interno si possono sperimentare e costruire forme di equilibrio che 10 si cerca di conquistare faticosamente nella vita sociale e così facendo la sua debolezza diventa, in realtà, la sua rinnovata forza. 3.1 FAMIGLIE A RISCHIO SISTEMICO Il tema del disagio può essere affrontato partendo da una concezione che non oppone in maniera dicotomica le famiglie sane alle famiglie che non lo sono. Il passaggio da un approccio interpretativo che oppone, ad uno che differenzia, richiede di relativizzare il rischio; la prospettiva della resilienza permette di accomunare “famiglie a rischio” e “famiglie competenti” cogliendo potenzialità e risorse anche in condizioni di vulnerabilità. Il concetto di famiglia resiliente viene fortemente associato all’identificazione di quei fattori protettivi che sembrano moderare la relazione tra l’esposizione di una famiglia a rischio e la capacità dei suoi membri di essere competenti nel realizzare le funzioni tipiche del sistema. Sembra giocare un ruolo determinante la capacità di bilanciare la continuità e il cambiamento, mantenendo un legame tra passato, presente e futuro. Nella costruzione dell’identità familiare, la condivisione di un modello educativo, che permette alla famiglia di crescere e modificarsi, passa anche attraverso un sistema comune di significati da attribuire alle esperienze personali; l’importanza che si attribuisce al modello familiare vissuto, dipende anche dal posizionamento della famiglia rispetto alla variabile tempo, in relazione alla capacità di separarsi dalla famiglia d’origine e dal clima in essa presente, all’interno di un processo continuo di trasformazione e di evoluzione che conduca la propria famiglia ad auto-emanciparsi. Il sistema familiare si presenta come un insieme in evoluzione all’incrocio tra dimensione biologica/ psichica dei suoi componenti, dimensione transattiva/relazionale e dimensione dello scambio sociale con gli altri sistemi: queste tre componenti sono presenti nelle situazioni di criticità che il sistema si può trovare ad affrontare. La famiglia si trova a dover affrontare situazioni che mettono alla prova la sua capacità di continuare ad assolvere le sue funzioni fondamentali: eventi normativi (prevedibili) e paranormativi (non prevedibili) richiedono una modificazione della qualità degli assetti organizzativi e relazionali per consentire la sua prosecuzione dinamica. Ci sono due movimenti simultanei che riguardano i processi di crescita di ciascun individuo e sono: • Spinta ad esserci di ciascun individuo: attribuzione di una specificità socialmente riconoscibile e apprezzata su cui costruire la propria unicità di persona (differenziazione); • Bisogno di essere con l’altro: condividere ed essere simile, di sentirsi supportato e sostenuto sul piano ideale e reale (identificazione). Ad un’estremità del disagio familiare troviamo le cosiddette “famiglie multiproblematiche” in cui si evidenzia una difficoltà generalizzata ad affrontare le sfide; in esse, le reazioni dei soggetti agli eventi strazianti, sono la conseguenza di tre componenti: 1. Fattore individuale (storico): vicenda esistenziale contrassegnata più o meno ampiamente da eventi strazianti, 2. Fattori protettivi (risorse personali e sociali): tra cui coping e resilienza; 3. Fattori di tipo culturale (percezioni individuale e sociale dell’evento stressante). Le famiglie che hanno maggiori difficoltà sono quelle che si ritrovano ad affrontare contemporaneamente più eventi stressanti, così come accade nelle famiglie multiproblematiche che possono manifestare disfunzioni a più livelli. Il profondo isolamento sociale che le caratterizza, definite in passato “famiglie isolate”, sembra essere la conseguenza di un’inesistente rete di 11 supporto parentale ed inadeguatezza delle figure genitoriali; i genitori sono impossibilitati nel divenire modelli che forniscono ai propri figli regole o ruoli cui identificarsi. Dal punto di vista comunicativo, queste famiglie sono caratterizzate dall’assenza della capacità di ascoltarsi, scarsa comunicazione affettiva e confusione comunicativa che viene percepita dai figli come limitata possibilità di confrontarsi e di negoziare: tutta la comunicazione familiare è basata su messaggi caotici e sull’incomprensione dell’altro. 3.2 L’INTERVENTO EDUCATIVO DI SOSTEGNO ALLA GENITORIALITA’ La genitorialità indica un atteggiamento di costante disponibilità a lasciarsi permeare dalle sollecitazioni, proprie e dell’ambiente, e a rivedersi nel modo di concepire e di esprimere l’essere genitore. L’opportunità che un genitore possa far crescere il rapporto con il figlio nel senso dell’armonia e della costruzione di basi sicure da cui riuscire ad andare e a tornare, risiede nel raggiungimento di una competenza autoriflessiva; la funzione genitoriale e la relazione educativa sono le due dimensioni fondanti il rapporto adulto-bambino e tale rapporto si realizza in una reciprocità dove la consapevolezza e l’autoriflessività del genitore promuovono l’evoluzione del bambino. Inoltre, è necessario evidenziare la dimensione tacita dei saperi genitoriali: tale dimensione concerne la modalità specifica attraverso la quale vengono trasmessi ed acquisiti i saperi, tramite gesti quotidiani, ritualità, silenzi attesi e sguardi che inducono un’assimilazione immediata. Apprendere autoriflessività vuol dire realizzare un esercizio della mente che si ferma sui propri pensieri, come sulle proprie emozioni. L’analisi dei modelli educativi genitoriali avviene attraverso il “leggere su di sé” il modo in cui determinate scelte di educazione abbiano condizionato il personale modo di essere e di essere a propria volta genitori. Il significato più profondo, di un impegno educativo così concepito, è quello di sostenere i genitori a far maturare dentro di sé una genitorialità che li realizzi come adulti; gli interventi educativi volti ad una genitorialità consapevole, ricorrono a metodologie autobiografiche e narrative, attivando così processi formativi appropriati nello scopo e nei contenuti alla prospettiva prescelta. 4. LA FAMIGLIA CON FIGLIO DISABILE Le esperienze di vita che accompagnano le famiglie assumono un ruolo determinante nella strutturazione di tali equilibri e non sempre questi ultimi si rilevano adeguati; possono rivelarsi funzionali alla famiglia, favorendo un progressivo funzionamento della famiglia. Molte sono le condizioni che possono alterare gli equilibri familiari e la disabilità mette a dura prova lo status familiare. 4.1 DALL’ISTITUZIONALIZZAZIONE ALLA CURA IN UN VIAGGIO CHE ATTRAVERSA LA SOLITUDINE Prima degli anni Cinquanta, il problema della disabilità non si poneva; il ruolo della famiglia era fortemente secondario rispetto al suo coinvolgimento nelle pratiche richieste o necessarie per affrontare la problematica della disabilità. Con l’avvento dei movimenti di contestazione, l’Italia degli anni Settanta ha imparato a guardare alle esigenze dell’handicappato pensando ai processi di istituzionalizzazione come ingiusti e inadeguati e quindi andavano rimodulati: è proprio a partire da questi anni che le prospettive di ricerca rivolte alle famiglie del soggetto disabile cominciano a farsi strada, per indagare quali siano le strategie adottate dalle famiglie per mantenere l’unità del nucleo 12 affiancare, agli approcci clinici e terapeutici, una visione più umanizzante tale da consentire ai genitori di rimodulare e ridisegnare la propria storia familiare, riadattandola alle necessità in continua evoluzione del bambino: è così che la famiglia e la società potranno davvero riscoprirsi autentici luoghi di cura e di potenziamento delle capacità di empowerment del disabile. 4.5 LA FAMIGLIA DEL DISABILE NELLA SOCIETA’ PER FAVORIRE LA SOCIALITA’ L’assunzione di un ruolo sociale rimanda all’assunzione di un ruolo educativo idoneo a promuovere processi di relazione e di autonomia che rendono il disabile un soggetto titolare di diritti da valorizzare nella sua unicità a partire dalla ricchezza delle proprie abilità residue; la famiglia assume una funzione da protagonista nel favorire la conquista di tali possibilità, che si traducono in quello che viene definito il “benessere sociale”. Donati parla di “Community Care”: il lavoro della community care è un lavoro che si esplica nella comunità, ma allo stesso tempo è un lavoro della comunità; questo implica l’attivazione di interventi di politica sociale all’interno della comunità, ma al tempo stesso per la comunità, entrambi necessari per la realizzazione di un percorso volto al raggiungimento del benessere sociale. Questo approccio pensa alla comunità come protagonista della presa in carico di situazioni difficili e problematiche attraverso gli interventi di cura; il senso stesso della cura comunitaria è aiutare la famiglia a fronteggiare determinate problematiche, prima fra tutte il rischio di isolamento, condizione a cui è possibile sopperire attraverso processi di intervento formali e informali e che costituiscono gli attori sociali primariamente impegnati in questi compiti di cura: • Interventi formali: scuola, servizi territoriali, servizi sanitari; • Interventi informali: associazioni, centri di volontariato, vicinato, amici. La progettualità futura rappresenta una reale preoccupazione per il genitore del disabile perché riflette i suoi sentimenti di angoscia e di incertezza: il superamento dei sentimenti di angoscia, preoccupazione e sfiducia provati dai genitori è garantito nel momento in cui la famiglia si percepisce inserita in una rete comunitaria fatta di relazioni, comunicazione, rispetto e tutte quelle premesse necessarie per favorire l’attenzione della società ai bisogni del figlio disabile. Lo sguardo al futuro deve concretamente considerare l’ipotesi dell’autonomia; assumere un ruolo lavorativo deve diventare una possibilità tangibile per queste persone e potrà esserlo realmente, nel momento in cui inizierà a farsi largo nei genitori, nei servizi e nella comunità, l’idea di conquistare un possibile ruolo adulto che allontana le modalità protezioniste. I processi di socializzazione, che si attivano nei luoghi di lavoro, coinvolgono totalmente la persona disabile ristrutturandone gli schemi mentali e favorendo un’immagine di sé fatta di nuove e adeguate modalità relazionali, di motivazione e di voglia di riconoscimento sociale; il lavoro rappresenta una tessera del mosaico del progetto di inclusione sociale da costruire per ogni persona con disabilità. La rieducazione delle logiche di pensiero consente la rivalutazione delle caratteristiche del disabile e la possibilità di considerarsi in grado di esercitare i propri diritti conquistando un’immagine di sé più determinante e positiva. 15 5. VITA FAMILIARE E MALATTIA D’ALZHEIMER L’età anziana è spesso associata all’idea di debolezza, fragilità, dipendenza e dalla perdita delle funzionalità psico-fisiche, sociali e produttive del soggetto. 5.1 L’INVECCHIAMENTO OGGI Nel corso della vita, crescita e declino, guadagni e perdite sono intrecciati tra loro in un processo dinamico; gli studi più recenti della psicologia del ciclo di vita hanno assunto una prospettiva più realistica, riconoscendo la pluralità dei percorsi di invecchiamento e la progressività di una transizione lunga ed articolata, nella quale si dilatano sia il tempo del benessere (buona salute), sia il tempo del decadimento psico-fisico e della passività. La pluralità dei percorsi d’invecchiamento è più evidente se si considera la condizione anziana alla luce delle relazioni familiari e dell’intreccio dei rapporti tra le generazioni; l’evento critico dell’età anziana, come la malattia d’Alzheimer, può essere affrontato in modo diverso dal soggetto, a seconda delle risorse familiari disponibili. Il deterioramento delle capacità mentali è causato da fenomeni patologici e amplificato dall’abbandono, dall’emarginazione sociale, dalla perdita di relazioni affettive significative oltre che dalla carenza di esercizio fisico e mentale. 5.2 LA MALATTIA D’ALZHEIMER La malattia d’Alzheimer è una malattia degenerativa che implica il deterioramento delle funzioni cognitive, quali la memoria, il ragionamento, il linguaggio, la capacità di orientarsi e di risolvere problemi, pregiudicando la possibilità di una vita autonoma da parte del soggetto. Ai sintomi si associano alterazioni della personalità, dell’affettività, del comportamento e dello stato funzionale. Nelle fasi iniziali si assiste alla compromissione delle funzioni relazionali più complesse; col progredire della malattia vengono meno anche le abilità legate alla gestione della vita quotidiana; nelle fasi più gravi possono comparire complicazioni legate a cadute e malnutrizione. Della malattia d’Alzheimer si delineano tre fasi che la caratterizzano: 1. Prima fase: la demenza ha una durata variabile (10-12 anni) nel corso dei quali si assiste all’inesorabile progressione dei sintomi; i primi sintomi si manifestano con una perdita di memoria modesta per eventi recenti, per nomi e luoghi, un minimo disorientamento temporale accompagnati da sintomi non cognitivi come ansia e depressione. In questa fase è difficile distinguere l’inizio di un processo degenerativo da quella che è stata definita “smemoratezza senile benigna”. 2. Seconda fase: si ha una confusione più generale e un maggiore disorientamento; si manifestano difficoltà significative nella concentrazione e nella memoria a breve termine. Compaiono disturbi del linguaggio e della coordinazione motoria; si manifestano modificazioni della personalità; presenza di alterazioni comportamentali. In questa fase la persona richiede cura e assistenza da parte dei familiari. 3. Terza fase: grave perdita della memoria che impedisce alle persone di occuparsi dei loro bisogni fondamentali; inoltre, progressiva perdita dell’autonomia ed aumenta il bisogno di assistenza. Nelle fasi finali della malattia, le persone dementi hanno bisogno di assistenza a tempo pieno, non sono in grado di prendersi cura di sé e non riconoscono i familiari. 16 L’esordio della malattia è insidioso e difficile da riconoscere, ma il suo decorso è progressivo. Il disturbo della memoria costituisce l’aspetto principale della malattia ed è il primo a manifestarsi, a cui seguono difficoltà nel linguaggio e nel ragionamento; il pensiero astratto risulta impoverito e diminuisce anche la capacità di giudizio con ripercussioni nell’ambito delle attività lavorative e nella gestione delle relazioni interpersonali e familiari. Inoltre, si segnalano i cambiamenti di alcuni aspetti della personalità: compare apatia, perdita d’interesse per l’ambiente e per le relazioni con gli altri, con conseguente chiusura e ripiegamento interiore. In alcuni casi si assiste anche al mutamento della personalità. Gli iniziali disturbi della malattia d’Alzheimer sono seguiti da reazioni di tipo depressivo; accanto alla depressione compaiono altri sintomi: agitazione, sospettosità, sentimenti di abbandono, pianto immotivato, disturbi del sonno. Nelle fasi progredite della malattia, la persona è incapace di camminare e svolgere qualsiasi attività della vita quotidiana; la perdita della memoria si associa a gravi difficoltà motorie e comunicative e aumenta il rischio di complicanze. 5.3 LA FAMIGLIA DI FRONTE ALLA MALATTIA D’ALZHEIMER Molti studi hanno messo in luce la “dimensione familiare delle demenze”, insieme di patologie degenerative diffuse nella popolazione anziana e viene considerata in un duplice senso: • Per l’incidenza che la malattia ha, non solo sull’anziano, ma sull’intero nucleo familiare; • Per il diretto coinvolgimento della famiglia nei compiti di cura e di assistenza nei confronti del proprio congiunto. Tali malattie hanno una risonanza rilevante sul nucleo familiare; le demenze sono state definite “malattie familiari” per l’incidenza che esse hanno sull’intero nucleo domestico, per il frequente coinvolgimento della famiglia nel processo di cura e di assistenza, per gli interrogativi esistenziali che essa suscita nei membri della famiglia. La comparsa di una grave malattia irreversibile provoca, nei familiari, la consapevolezza del progressivo deterioramento e prefigura l’esito definitivo: la morte. Con l’insorgere della malattia, la famiglia affronta un periodo di crisi, di transizione che la conduce verso una radicale modificazione delle relazioni al proprio interno e verso l’esterno. I familiari che si trovano di fronte alla sofferenza e che vedono il proprio caro “perdere” progressivamente tutte le capacità, devono accettare la perdita; la malattia obbliga tutti i familiari a confrontarsi con l’inevitabilità del limite dell’esperienza umana. Il lutto, dovuto alla malattia, è ancora più grave di quello derivante dalla perdita “reale” di un familiare, in quanto tende a protrarsi nel tempo. Gli elementi di vulnerabilità del sistema familiare rischiano di diventare vere e proprie fratture, lacerando il tessuto delle relazioni domestiche; in altri casi, le difficoltà conseguenti allo stato di bisogno fungono da stimolo di crescita e di coesione familiare. La capacità di vivere la malattia dell’anziano come occasione di crescita e di evoluzione dipende dalle risorse che la famiglia può mettere in campo, dal sostegno che può ottenere, dal significato che l’evento malattia assume nella storia familiare. 5.4 COMPITI DI CURA E RELAZIONI FAMILIARI In questo complesso compito di cura, i familiari incontrano difficoltà e manifestano bisogni fondamentali come: • Riconoscimento della loro funzione da parte del personale sanitario con cui sono in contatto; • Informazione e conoscenza sulle attività da svolgere, sulla malattia e sui servizi; 17 in considerazione per ricercare possibili modi di superamento del senso di sofferenza e del vuoto esistenziale suscitati da essi. 6.1 VEDOVANZA E CICLO DI VITA FAMILIARE Se la morte del coniuge accade in stadi in cui il progetto educativo della famiglia è in via di attuazione, la sofferenza e il dolore suscitati sono maggiori di quando la morte del coniuge avviene verso la fine del ciclo di vita familiare, quindi nell’età della vecchiaia: nel partner superstite c’è sempre il dolore, ma esso è mitigato dalla consapevolezza dell’interessato di essere ormai giunti al tramonto della vita; è pertanto possibile rintracciare significative differenze tra il diventare vedovi in età giovani e il diventarlo in età avanzata: • Diventare vedovi in età giovane: serpeggiano forme di senso di colpa insieme all’idea di essere stati puniti per aver fatto qualcosa di male. Ciò che è elemento di conforto, e aiuta ad imparare a leggere l’esistenza, è l’accostamento alla fede con la quale ci si convince della misericordia di Dio; • Diventare vedovi in età avanzata: predomina la capacità personale di valutare le prove di dolore come aspetti direttamente connessi con l’esistenza umana. La morte del coniuge è vissuta come qualcosa di inevitabile e perciò “normale”; anche qui, la ricerca del senso del dolore è facilitata dalla dimensione religiosa della vita. Sullo stato della vedovanza, le persone maggiormente interessate sono le donne, a causa della loro longevità rispetto agli uomini. Nell’età della vecchiaia, dopo la morte del coniuge, l’inclinazione a ripiegarsi su sé stessi, a chiudersi in un mondo di solitudine e di rimpianto è forte. Anche in questo periodo della vita, lo stato di vedovanza postula la disponibilità soggettiva a riprogettare la propria esistenza. La morte del coniuge sta a significare il venir meno non soltanto dell’amato/a, ma soprattutto di una storia d’amore e di vita intessuta giorno dopo giorno, alla quale si è alimentato il senso dell’identità personale, coniugale e familiare. 6.2 LA RIDEFINIZIONE DELL’IDENTITA’ PERSONALE La condizione di sofferenza è qualcosa che procede in maniera indipendente dalla volontà umana, compare all’improvviso e vincola l’uomo dolorosamente ad una certa situazione. Le cause che la suscitano sono molteplici. Secondo Bowlby, la morte del coniuge motiva l’insorgere di cinque fasi: stordimento, struggimento, disorganizzazione, disperazione e riorganizzazione. La morte del coniuge si presenta come un evento traumatico perché non segna solo il venir meno del compagno, ma anche il “bloccarsi” del progetto coniugale/familiare fondato sul legame matrimoniale. Per la persona vedova si tratta, oltre a superare la situazione di crisi, anche di riconsiderare sé stessa alla luce di un progetto coniugale e familiare che non può più essere perseguito. Si delineano alcuni fasi nel processo di superamento del lutto: a. Quando il dolore irrompe nella vita dell’uomo, si tende a negarlo, si cerca qualcosa che ponga fine ad esso e si fa di tutto per aggiralo: è questo il tempo per imparare ad accettare la nostra impotenza e debolezza. La chiave sta nell’abbandonarsi al dolore e la guarigione arriva passando attraverso il dolore della perdita; b. I primi tempi successivi alla morte del coniuge sono contrassegnati dal senso di solitudine: il suo insorgere è suscitato e alimentato soprattutto dalla mancanza di ciò che il partner ha 20 rappresentato sotto l’aspetto relazionale e affettivo. La solitudine si qualifica per i diversi piani attraverso i quali si esprime: materiale, emotivo-affettivo, psicologico ed educativo; c. Alla solitudine subentra la malinconia mista a struggente nostalgia per quanto si è vissuto e per quanto si sarebbe potuto vivere insieme; d. Dopo i primi mesi, il partner superstite è chiamato ad un vero e proprio lavoro di “ricostruzione esistenziale”: risulta particolarmente importante la capacità soggettiva di fare leva sulle risorse personali, le quali si possono classificare nel seguente modo: 1. Fiducia in sé stessi: ha a che fare con i tratti temperamentali e affonda le sue radici nel percorso formativo della persona, la quale matura la capacità di accettare e amare la vita. La fiducia in sé stessi presiede anche alla nascita di nuovi interessi e la lettura sembra accomunare le vedove: con la lettura si va alla ricerca di spiegazioni sul senso della vita, di chiarificazioni sul significato della sofferenza. 2. Interpretazione dell’esistenza: la risposta al “Perché?” e al “Perché proprio a me?” richiede l’impiego di criteri interpretativi che affondano le radici nella grammatica del vivere della persona; tale risorsa permette la rilevazione delle modalità personali di accostarsi all’ambiente circostante e di ristabilire nuovi equilibri relazionali con il mondo delle cose, delle persone e dei valori. Per questo, occupa un posto centrale il richiamo ad un prescelto sistema di valori: i valori sollecitano a prendere atto che l’uomo è essere limitato e imperfetto e bisogna accettare di vivere in questa dimensione. Il sistema valoriale permette di dare senso alle circostanze della vita, aiutando la persona ad accettarle anche nella loro drammaticità e sollecitandola a giustificare gli insuccessi e le ferite. I valori religiosi spiccano per la loro radicalità di significato e per il loro compenetrare, andando oltre il limite della ragione umana, il senso del vivere e del morire; per il cristiano, la morte è l’ora in cui, morendo, si nasce a vita eterna. Tutte le vedove hanno convenuto che la fede non toglie il dolore, ma lo trasforma; il riferirsi alla morte aiuta a riguadagnare un rapporto d’intensa comunione con lo sposo deceduto: gli si parla e lo invoca in caso di difficoltà. 6.3 LA RIFORMULAZIONE DELL’AZIONE EDUCATIVA Al necessario processo di cambiamento personale si collega anche l’impegno a modificare la propria posizione come genitore; l’iniziale situazione di smarrimento esistenziale motiva l’insorgere di una forma di inadeguatezza educativa nella conduzione delle relazioni con i figli: nei primi tempi successivi alla morte del coniuge, i figli sono percepiti come un “dovere”. Il genitore vedovo tende a fare azione di supplenza, a compensare con la propria presenza l’assenza del partner; il genitore rimasto solo assume sempre di più la consapevolezza che è indispensabile procedere ad una vera e propria ridefinizione della propria funzione educativa, quindi alla rielaborazione del progetto familiare. a. Riformulazione della funzione educativa di genitore: è il passo che si compie prima di riorganizzare il progetto riguardante tutta la famiglia. Il genitore vedovo, attingendo a risorse personali e sociali, intraprende un vero e proprio cammino di ridefinizione della propria funzione educativa; in quanto genitore solo, è chiamato a riformulare le proprie modalità d’intervento educativo, integrando il proprio contributo educativo, determinato 21 dalla propria personalità maschile o femminile, con quello del coniuge deceduto. Il soggetto interessato, ri-modula i propri interventi specifici alla luce del contributo che avrebbe potuto dare il coniuge deceduto. b. Rielaborazione del progetto familiare: la revisione del progetto familiare avviene anche con il contributo, diretto o indiretto, della prole. La vedovanza postula la disponibilità soggettiva a riprogettare la propria esistenza; l’accento va messo sulla dedizione agli altri, sull’impegno nel campo del volontariato, sulla propensione ad intraprendere forme di servizio nel settore dell’emarginazione sociale. Anche se i figli sono del tutto indipendenti, e hanno costituito un proprio nucleo domestico, il vedovo può riscoprire in forma nuova un legame familiare: l’essere nonno di nipoti di diversa età. 6.4 IL LENTO SUPERAMENTO DEL DOLORE: NECESSITA’ DI SOSTEGNO E CURA EDUCATIVI Il superamento del dolore esige processi di sostegno e di cura; per trovare il coraggio di continuare a vivere e per infonderlo nella prole, il coniuge sopravvissuto ha bisogno di avere vicino persone capaci di lenire la sua sofferenza con l’ascolto, la partecipazione e il conforto. Questo permette di delineare un cammino educativo per padroneggiare la situazione di crisi esistenziale e in tale cammino è possibile distinguere il sostegno e la cura. a. Il sostegno può essere affettivo/spirituale, ma anche materiale e chiama in causa specifici ordini relazionali: 1. Relazioni familiari profonde con eventuali figli: la presenza di prole costituisce un fattore non trascurabile di accettazione e comprensione della morte del coniuge, quindi di superamento della fase di lutto; nelle persone vedove c’è la tendenza a rinforzare i legami parentali e un maggior senso di responsabilità verso i figli. L’esistenza di un profondo legame parentale giova al superamento del dramma familiare: il genitore vedovo è tenuto a far capire ai figli come la sofferenza sia espressione del grande amore che ha unito i genitori; si presenta una differenza quando il rapporto con i figli è critico; il dolore per la scomparsa del coniuge diventa più forte e si rimpiange che la morte non abbia colto entrambi: prevale il senso dell’abbandono totale. Questa situazione di vita rinforza la ricerca religiosa come compensazione. 2. Rapporti intensi con i parenti prossimi: l’evento drammatico della morte del coniuge è meglio superato se si ha la possibilità di fare riferimento alla rete estesa dei parenti; a costoro si richiede sostegno, tutelando la propria autonomia e maturità conquistata. Da parenti prossimi, e da amici, è importante ricevere solidarietà sia spirituale sia materiale: l’accento è posto sulla capacità di comprensione del proprio dolore e della propria situazione di solitudine; alla rete di parenti si richiede la capacità di saper comunicare in maniera empatica che incoraggia la persona nel cammino di superamento della condizione di disagio esistenziale. b. La solidarietà spirituale introduce il tema della cura: la cura mira ad esaltare la capacità soggettiva di riprendere ad avere cura di sé; risulta importante l’ascolto empatico dell’altro, l’agire “come se” si fosse l’altro per aiutarlo ad identificare vie risolutive del problema personale. L’ascolto è una delle “carezze positive” maggiormente apprezzate dalla gente, ma 22 7.3 L’EMPOWERMENT FAMILIARE Il concetto di empowerment è entrato in uso, fin dagli anni Sessanta, negli studi di diverse aree disciplinari (politica, psicologia); esso indica l’aumento di capacità, lo sviluppo delle potenzialità, il cammino di responsabilizzazione e il potenziamento della famiglia. E’ il processo di ampliamento delle possibilità che il soggetto può praticare e rendere operative e tra le quali può scegliere. L’intervento educativo volto all’empowerment si prefigge di aumentare la libertà e la responsabilità della famiglia, ampliando le possibilità di scelta e favorendo il raggiungimento di specifici obiettivi. La famiglia che chiede aiuto si percepisce, ed è percepita, come portatrice di problemi e si affida all’intervento dell’operatore, il quale interviene dall’esterno per fornire indicazioni utili alla soluzione delle difficoltà; le esperienze di insuccesso possono contribuire all’insorgere di un senso di impotenza che può condizionare negativamente la percezione che la famiglia ha di sé e della propria efficacia educativa: il fatto che la famiglia si percepisca incapace di risolvere problemi può portare ad una percezione deficitaria della propria identità. Un nuovo accostamento alla relazione d’aiuto, volto all’avvaloramento delle risorse e potenzialità educative, richiede interventi che pongano al centro le capacità e le competenze presenti. Promuovere le risorse della famiglia vuol dire sollecitare la capacità di analisi dei problemi e di ricerca di aiuto, quindi un atteggiamento attivo e di collaborazione; la famiglia definisce la propria identità in termini di capacità e competenza. La relazione educativa mira allo sviluppo delle capacità e delle potenzialità, sostenendo la famiglia in stato di bisogno nella soluzione dei problemi: si promuove così una “pedagogia dei poteri” tesa ad incrementare il senso di autoefficacia della famiglia e la sua possibilità di contrattazione nelle situazioni di difficoltà; il potere di cui si parla è il potere dell’essere, della progettualità, della relazione: è la capacità di agire nel mondo per conseguire gli obiettivi che la famiglia si pone. Si tratta di un potere positivo che aiuta a crescere e porta al riconoscimento delle proprie potenzialità e di quelle altrui. Questo è il compito di ogni intervento educativo: favorire la fiducia nelle proprie possibilità, la sensazione di poter influire sugli eventi della propria vita e di governare il cambiamento. 7.4 SVILUPPARE LE COMPETENZE DELLA FAMIGLIA Uno dei compiti specifici dell’educatore è incrementare e sostenere il cambiamento del sistema delle relazioni domestiche affinché la famiglia ricostruisca un nuovo equilibrio relazionale al proprio interno; il sostegno educativo si propone come processo di aiuto volto a sollecitare le potenzialità educative presenti nel gruppo familiare. L’operatore entra in rapporto con la famiglia: • Per rilevare con essa le difficoltà che incontra e le potenzialità esistenti; • Per mettere in luce la fatica interna e soggettiva che ogni famiglia affronta; • Per giovare all’eliminazione dei condizionamenti socio-culturali che ostacolano un corretto andamento familiare; • Per cogliere, nella ricerca e nel linguaggio della famiglia, elementi significativi da avvalorare. L’educatore aiuta i genitori a riflettere criticamente sulla propria esperienza genitoriale, in maniera da favorire l’assunzione anche di nuovi atteggiamenti educativi; la famiglia in difficoltà può trovare nella relazione educativa una possibilità d’aiuto. L’educatore esperto, nell’approccio educativo alla famiglia, deve diventare un professionista dell’empowerment, deve incrementare le risorse e 25 favorire l’identificazione, la creazione e l’uso delle competenze delle famiglie, in modo da facilitare il loro impegno nei processi di sviluppo; l’operatore interviene privilegiando due principi: 1. Appropriazione: favorisce l’acquisizione, da parte della famiglia, del senso di competenza e di fiducia nelle proprie risorse; 2. Autodeterminazione: fa riferimento alla competenza di rendersi capace, di assumere responsabilmente decisioni, di precisare i propri bisogni e di perseguire i propri obiettivi. L’educatore, mentre aiuta la famiglia, la incoraggia ad intraprendere un cammino in cui mettere in gioco le proprie risorse e compiere scelte consapevoli. Tale prospettiva promuove una “pedagogia dell’empowerment” volta a coltivare, nella famiglia in stato di bisogno, il senso di autoefficacia nella sua possibilità di contrattazione nelle situazioni di difficoltà. L’acquisizione di potere (empowerment), quindi la consapevolezza: • Porta ad una maggiore responsabilizzazione degli individui; • Favorisce il raggiungimento di un adeguato livello di autostima; • Permette di superare il vissuto d’impotenza raggiungendo la capacità di progettazione e di autodeterminazione. L’empowerment è un criterio e un metodo di intervento che attiva le potenzialità delle relazioni familiari, facendo leva sulle capacità possedute da persone e relazioni. QUARTA PARTE: LA FAMIGLIA NELLA RETE SOCIALE 1. FAMIGLIA E ALTRE ISTITUZIONI EDUCATIVE: QUALI POSSIBILITA’ D’INCONTRO? A causa della dimensione relazionale, la famiglia ha bisogno di avviare e coltivare continui scambi con il contesto ambiente; essa si delinea come sistema aperto, nel quale l’equilibrio relazionale conseguito è sempre dinamico. Si ha a che fare con una concezione della famiglia come realtà complessa, votata alla conquista di un equilibrio interno ed esterno, capace di ricercare possibilità di mediazione tra gli ideali educativi, a cui si ispira, e i condizionamenti provenienti dallo spazio socio-politico-economico-culturale nel quale è situata. 1.1 LA FAMIGLIA COME ELEMENTO DI FILTRO, MEDIAZIONE, PROPOSTA EDUCATIVA In quanto sistema aperto, la famiglia non soltanto si alimenta dei contributi proveniente dall’esterno, ma incrementa a sua volta lo spessore culturale dell’ambiente circostante: la famiglia è produttrice di cultura educativa. Il suo funzionamento poggia sul bagaglio conoscitivo di cui sono portatori i coniugi, i quali rinnovano e/o rimodulano principi, regole, norme e orientamenti educativi posti alla base del loro essere genitori; con la propria cultura educativa, la coppia 26 genitoriale filtra le sollecitazioni ambientali, accogliendole o respingendole. Il dinamismo rilevato si complica ulteriormente quando i singoli figli diventano anch’essi co-costruttori di cultura educativa, sollecitando i genitori a rinforzare, rivedere e correggere la loro proposta formativa. La cultura educativa della famiglia è una cultura situata, essendo qualificata da un certo luogo e da specifici soggetti interagenti; ogni singola famiglia elabora criteri interpretativi della realtà circostante, costruisce e definisce nel tempo la soggettività operativa, originalità propositiva unicità educativa. Il rapporto tra famiglia e ambiente circostante è sottoposto ad una continua e fatica riformulazione; la realtà familiare è chiamata ad interagire con tutti gli ambiti di esperienza e tale esigenza ripropone il tema dell’unità nella diversità: si impone la necessità pedagogica di impegnarsi per la costruzione della comunità educante nella quale le molteplici istituzioni educative possano far valere la propria specificità propositiva e operativa. Il rapporto tra famiglia ed altri ambienti chiama in causa l’istituzione scolastica; la scuola detiene un primato d’intervento, giustificato dalla trasmissione del sapere. Risulta necessario ripensare il ruolo della famiglia e del suo rapporto con le altre istituzioni così da armonizzare il principio della centralità della responsabilità educativa dei genitori e vedere la scuola come parte del ruolo educativo generale della società. Incontri e scontri tra agenzie educative non ledono l’unità dell’educazione: possono risultare funzionali se inducono a ricercare i modi per concretare un processo di armonizzazione dei molteplici interventi educativi, nella prospettiva del sistema formativo integrato. 1.2 PRESUPPOSTI PEDAGOGICI a. Primo presupposto: esigenza di tornare a riflettere su chi detiene il diritto/dovere all’educazione dei minori; secondo l’articolo 30 della Carta costituzionale “esso appartiene alla famiglia”. La famiglia è chiamata a gestire la regia del tempo formativo del figlio, quindi a regolare i ritmi quotidiani e non, assegnando una quota non totalizzante alla scuola e quote discrezionali all’educazione extrascolastica; importante è il tema della famiglia come istituzione capace di promuovere sul territorio servizi extrascolastici per l’educazione di sé stessa e dei minori. b. Secondo presupposto: esigenza della progettualità educativa che significa il coinvolgimento della famiglia nell’elaborazione dei progetti da parte delle varie realtà scolastiche e il confronto tra i progetti elaborati per perseguire la coerenza educativa tra le istituzioni del territorio; è indispensabile dare ampio sviluppo alla corresponsabilità progettuale degli enti educativi, così da esaltare la specificità dei singoli interventi nella complessiva strategia di rete. c. Terzo presupposto: necessaria tutela della specificità istituzionale in riferimento agli obiettivi educativi perseguiti; è importante mettere in luce il contributo educativo che le singole istituzioni territoriali possono offrire al divenire personale e comunitario. Deve prevalere una logica progettuale in base alla quale i singoli servizi possano essere predisposti e attivati per adeguarsi e rispondere al meglio ai reali bisogni della popolazione. d. Quarto presupposto: urgenza di definire modalità comunicative che si costituiscono come armonizzazione didattico-metodologica delle varie realtà educative e dei saperi di cui esse sono portatrici; la specificità dell’offerta educativa delle singole istituzione scolastiche ed extrascolastiche deve tutelare la crescita della persona e il suo bisogno di coerenza da parte delle figure adulte di riferimento. 27 genitori-figli sembra soffrire di intensi coinvolgimenti emozionali e processi identificativi che necessitano di essere stemperati: regole e valori potrebbero acquisire la giusta valenza formativa se il profilo educativo genitoriale superasse fragilità e insicurezze, derivanti dalla scarsa consapevolezza della propria forza educativa. La famiglia, se riconosciuta come soggetto competente e parte attiva del processo educativo del figlio, può trovarsi nelle condizioni di esercitare in modo responsabile il proprio ruolo educativo anche nei diversi contesti sociali, oltre le mura domestiche. 2.3 IL NIDO NELLA PROSPETTIVA DELLA COMUNITA’ EDUCANTE: UN CANTIERE APERTO Se le educatrici possono arricchire il proprio agire professionale di nuovi significati e se i genitori possono acquisire maggior consapevolezza rivisitando le proprie pratiche di cura, è possibile intendere l’alleanza educativa nido-famiglia come un’occasione di rinnovamento, non solo dei singoli, ma anche del servizio stesso. La prospettiva della comunità educante porta a tema l’identità e la “mission” di un servizio capace di crescere e di trasformarsi in virtù della partecipazione di tutti i soggetti; la comunità educante, in quanto sistema complesso, è un sistema aperto al cambiamento in virtù della sua essenza relazionale sia con l’interno che con l’esterno: come insegna la “teoria generale dei sistemi”, tutto il sistema si trova esposto al flusso dinamico delle interazioni e alle mutazioni prodotte da tali interazioni. Per fare in modo che la comunità educante evolva il modo armonico, è necessaria la partecipazione attiva di tutte le sue parti. Il rinnovamento della comunità educante può essere rappresentato dall’incontro interculturale: il dialogo con genitori d’altrove interpella modelli di riferimento e pratiche di cura dei membri che compongono la comunità del nido. Con l’ingresso di un bambino di altra origine etnico-culturale, entrano in gioco diverse rappresentazioni delle funzioni educative genitoriali e le relazioni che sorgono sono da considerarsi come l’elemento costituente e propulsore. Insieme alla capacità dialogica, l’educatore deve coltivare una disposizione riflessiva per rendere l’incontro non solo uno scambio di informazioni e di significati per conoscere l’altro, ma anche un’occasione per assumere la consapevolezza della mission del servizio e della cultura educativa che lo caratterizza. 2.4 COSTRUIRE L’ALLEANZA EDUCATIVA TRA NIDO E FAMIGLIA: PRATICHE DI DIALOGO TRA CULTURE EDUCATIVE Il legame tra genitori e personale educativo costituisce il sostegno morale del percorso di esplicazione e messa in comune delle rispettive culture educative; coltivare la relazione con padri e madri, in modo personalizzato e continuativo, pone le premesse per la costruzione di un rapporto di fiducia tra adulti. La spontaneità e l’immediatezza di momenti quotidiani designano quella continuità che rende l’incontro tra genitori ed educatrici un evento costante nella giornata di ciascuno. Il nido si pone come contesto in cui le esperienze familiari e quelle del servizio diventano oggetto di pensiero e di confronto, generando un “sapere plurale”; incontri di gruppo, colloqui individuali, interazioni quotidiani, feste e laboratori sono molteplici declinazione di un incontro che ha bisogno di essere costruito attraverso una pluralità di eventi. Il nido è sfidato a cambiare le proprie pratiche più consolidate, a rivisitare costantemente i dispositivi dell’incontro con le famiglie; le educatrici sono chiamate a coltivare come modus operandi una cultura del dialogo e della partecipazione delle famiglie per far maturare il servizio, inteso come sistema in relazione con altri sistemi. L’adozione di una postura dialogale e riflessiva rende il confronto con l’altro un’occasione costruttiva, generativa di nuovi sguardi su di sé, sul bambino e sulla realtà. La prospettiva della corresponsabilità chiede agli adulti di accompagnare il processo di crescita 30 dei bambini, di promuovere il reciproco riconoscimento delle peculiarità (saperi, culture educative). La comunità educante interpella gli adulti ad una matura condivisione delle responsabilità educative basata sulla condivisione degli orizzonti pedagogici che caratterizzano la progettualità del servizio. 2.5 E IL BAMBINO? Intendere il nido come contesto educativo di incontro tra le culture educative degli adulti non significa discostare l’attenzione pedagogica dalla centralità del bambino. Alla base del nido c’è un processo che porta ricchezza all’universo infantile: la costruzione di un sapere condiviso ed incarnato sui e per i bambini. Attraverso l’osservazione e documentazione effettuate dalle educatrici, i genitori possono prendere atto delle: • Competenze inaspettate dei figli; • Loro capacità di adattamento ad un contesto extra-familiare; • Sensibilità o determinazione che manifestano nel rapporto coi coetanei; • Conquiste verso l’autonomia che hanno saputo realizzare. L’influsso di attese e paure, di slanci e resistenze segnano la fenomenologia evolutiva del bambino in un intreccio tra dati biologici e fattori di contesto; la ricchezza di espressioni, la forza vitale e le potenzialità trasformative di un bambino possono essere riconosciute e sostenute dalla comunità. Un fattore sostanziale, che permette la costruzione e lo sviluppo della prospettiva comunitaria, è la dimensione partecipativa: la comunità nasce e cresce con l’apporto attivo di tutti i suoi membri. La partecipazione scaturisce dal senso di appartenenza, dalla consapevolezza di essere parte di quel mondo, di poter essere riconosciuti ed accolti; anche il nido, come comunità educante, costituisce un piccolo mondo, fonte di incontro e partecipazione, di impegno e senso di appartenenza. Un bambino che percepisce questo senso di appartenenza, nelle esperienze che vive al nido, sperimenta vissuti emotivo-affettivi di cui ha bisogno per coltivare la disposizione alla ricerca del bene comune implicato in un progetto condiviso. 3. LA FORMAZIONE DOCENTE PER LA CO-COSTRUZIONE DI NUOVE RETI CON LA FAMIGLIA Questo è un tema nuovo perché la formazione del docente, negli ultimi anni, è stata investigata sul piano della professionalità docente e delle competenze principali da possedere per individuare i bisogni educativi e formativi, le potenzialità e i talenti degli studenti. Nella letteratura scientifica si è posto il problema di formare il docente come esperto della gestione ed organizzazione della co- costruzione di reti con la famiglia; la partecipazione, della scuola alla vita, passa non solo attraverso la famiglia, ma anche attraverso i docenti che devono essere preparati e formati. 3.1 LA DIMENSIONE STORICO-TEORETICA Sul piano storico-teoretico, il tema del rapporto scuola-famiglia chiama in causa la dimensione storico-sociale-culturale e la storia dei sistemi di pensiero che si sono intrecciati con i modelli pedagogici e scolastici affermatisi nella società globale contemporanea: 31 • Ventennio fascista: la figura del docente è stata fortemente condizionata dalla dimensione storica e politica configurandosi principalmente come cinghia di trasmissione dell’ideologia dominante al popolo, il quale doveva essere indottrinato alle tre parole ideologiche del regime: credere, obbedire e combattere per la nazione; anche il rapporto scuola-famiglia ha risentito della presenza del regime fascista. La scuola aveva un impianto burocratico, centralista ed era selettiva, per cui la scuola e la famiglia avevano compiti ben definiti e separati, senza alcuna relazione tra loro. • 1945: è l’anno della svolta, soprattutto con l’esempio della scuola militante; si vuole rinnovare la scuola italiana che doveva defascistizzarsi, introducendo il rappresentante dei genitori ritenuto una figura centrale per la co-educazione degli studenti; inoltre, era necessario promuovere la scuola come laboratorio di democrazia, ponendo le fondamenta per un’idea di scuola-comunità che in Italia nascerà ufficialmente coi Decreti Delegati del 1973-74. Si ha in mente un’idea di scuola come comunità sociale i cui membri cooperavano responsabilmente tra loro per raggiungere obiettivi comuni a favore del benessere degli alunni/studenti. Nonostante la scuola fosse laica, gratuita ed aperta a tutti, per altri 40 anni l’impianto fu ancora gentiliano: burocratico e centralista e la famiglia ha solo ruolo di subalternità e di rappresentanza non partecipata. Ai veri protagonisti essenziali del cambiamento, i docenti, è stato richiesto tanto in un arco temporale immediato, senza essere sostenuti e accompagnati al cambiamento con specifici percorsi di aggiornamento; le esigenze di formazione, che il cambiamento ha generato, non sono state prese in considerazione in modo adeguato dalle istituzioni scolastiche. A distanza di anni, si può constatare che nella scuola italiana è mancata un’autentica partecipazione attiva e deliberativa dei genitori, come invece avveniva nelle scuole progressive e attive americane. 3.2 I MODELLI DI RIFERIMENTO I modelli pedagogici del XX secolo si sono intrecciati continuamente con i dispositivi legislativi e i modelli organizzativi. Negli anni Settanta, la scuola viene concepita come comunità educativa ed educante; negli anni Novanta si delinea l’idea di scuola come sistema formativo integrato. Da ciò ne consegue che la scuola subisce notevoli cambiamenti sul piano legislativo, organizzativo, didattico che hanno condizionato il rapporto docenti e genitori. Con l’emanazione dei Decreti Delegati del 1974, la scuola si trasforma profilando un modello organizzativo che fa capo al sistema naturale; tuttavia, la collaborazione e partecipazione dei rappresentanti dei genitori diede luogo al superamento del sistema naturale per dare spazio ad un modello di scuola dell’autonomia, il sistema aperto: in questa prospettiva, il criterio di fondo è quello sistemico, il quale ripensa la scuola sul piano organizzativo e viene concepita come un “sistema che apprende” in continuazione attraverso la pratica riflessiva dei soggetti che vi operano quotidianamente. Anche il rapporto genitori-docenti viene ridisegnato, ridefinendo le relazioni comunicative e di aiuto reciproco da parte dei docenti e di tutti gli operatori scolastici, ma anche il ruolo dei genitori nel sistema scolastico. Le ultime riforme (Moratti, Gelmini) hanno rimarcato quanto sia fondamentale la cooperazione tra scuola e genitori al fine di assicurare il pieno sviluppo integrale dell’alunno. 3.3 IL RAPPORTO DOCENTI E GENITORI: LA DIMENSIONE APPLICATIVA NELLA SCUOLA DELL’AUTONOMIA Il diretto coinvolgimento dei genitori diventa un fondamentale e radicale cambiamento sul piano 32 corresponsabilità educativa. Il percorso di formazione (istruzione + educazione) dei nuovi nati risulta migliore quando gli adulti delle due principali agenzie educative, scuola e famiglia, a cui è affidata la loro cura collaborano. 4.1 IL SISTEMA SCOLASTICO PENSATO SECONDO L’IDEOLOGIA DI MERCATO: IL NEOLIBERISMO Il rapporto scuola-famiglia sembra essersi radicalmente trasformato nel tempo, sulla scia dei mutamenti socio-culturali ed economici che hanno interessato il nostro Paese e il continente europeo. Ieri, i docenti incontravano i genitori che possedevano un livello di istruzione e professionale inferiore al loro; oggi, molti genitori posseggono un livello di istruzione pari a quello dei docenti o addirittura superiore. In questo senso, sono più determinati nel difendere quelli che ritengono essere i loro diritti e quelli dei loro figli. Agli inizi del processo di scolarizzazione, lo Stato, si assume l’onere dell’educazione delle nuove generazioni: i genitori non sono considerati all’altezza del compito educativo che è loro proprio. • Anni ’60: il vento della democrazia soffia sull’Europa; • Anni ’70: ideali di uguaglianza, partecipazione e democrazia interessano anche il rapporto famiglie-istituzione scolastica e si traducono in forme che sanciscono la presenza di genitori all’interno del sistema educativo; • Anni ’80 – ’90: il formalismo partecipativo si fa strada tra le famiglie e i docenti continuano ad incontrare difficoltà nel riconoscere i genitori come partner con cui dialogare; • Fine del XX secolo: nella scuola dell’autonomia si affermano i principi di cooperazione e corresponsabilità ed è l’ideologia neoliberista a prevalere introducendo criteri propri del mercato in tutti i settori della società; questa forma di pensiero individua, nella soddisfazione del cliente, l’obiettivo di ogni buon servizio. L’erosione dei servizi pubblici, a vantaggio del libero mercato, ha prodotto una de-strutturazione delle istituzioni e una riduzione delle risorse ad esse destinate; inoltre, è stata promossa l’adozione di un atteggiamento consumista che ha contaminato anche il mondo dell’educazione/istruzione. Assoggettamento, partenariato e soddisfacimento sembrano essere le tre principali forme adottate dai genitori nel rapporto con l’istituzione scolastica: • Assoggettamento: tra i genitori migranti prevale l’atteggiamento passivo; • Soddisfacimento: prevale tra i genitori autoctoni, per cui è sempre più facile ricorrere alla lamentela per far valere il proprio punto di vista o quello del figlio; • Partenariato: sono sempre meno numerosi i genitori che partecipano alla vita della scuola come cittadini, oltre che come madri e padri. Cambia l’orientamento socio-economico-culturale delle società occidentali nel pensare l’educazione, i suoi luoghi e le sue finalità; la nuova cultura di mercato si lascia alle spalle cittadini ed educatori per rivolgersi ad un mondo fatto di clienti, interni ed esterni all’impresa educativa. Ma non va dimenticato che l’azione educativa è al servizio dello studente, non assunto come cliente, ma come persona e cittadino da sostenere/accompagnare nel suo percorso di crescita e formazione nel contesto di una società che voglia essere a misura d’uomo. 35 4.2 L’EDUCARE: UN TERRITORIO DAI CONFINI LABILI E UN PROCESSO DAGLI ESITI INCERTI Non è l’oggetto di una relazione ciò che stabilisce la forma e la struttura della relazione, ma è quest’ultima, la struttura, a definire l’oggetto della relazione; leggere il rapporto scuola-famiglia da questa prospettiva significa interrogarsi su quale sia la natura della relazione che si stabilisce tra le due istituzioni, su chi abbia la possibilità di influire/determinare tale natura, quali responsabilità e compiti vengano assegnati ai diversi ruoli, quali finalità ed obiettivi diano senso alla relazione. L’oggetto che convoca la scuola e le famiglie alla relazione è il processo educativo-formativo delle nuove generazioni; tale processo è delicato e coinvolge innumerevoli elementi: • Molteplicità dei piani che si intrecciano nel darsi del rapporto scuola-famiglie; • Differenza strutturale tra le due istituzioni: scuola e famiglie; • Confini incerti tra i compiti e le responsabilità che competono a ciascuna delle due; • Influsso esercitato dal contesto locale. L’oggetto/soggetto dell’incontro tra i genitori e la scuola è il figlio/studente, la sua formazione, educazione e istruzione. La prospettiva da cui la scuola guarda all’educazione/istruzione delle nuove generazioni è più ampia, di tipo socio-politico, mentre la famiglia ha uno sguardo più personale-affettivo; inoltre, le forme e i modi mutano con il mutare degli orientamenti culturali prevalenti nella società in cui istituzioni ed individui si trovano ad agire. Anche i concetti di persona, autonomia, realizzazione e senso dell’esistenza sono esposti alle temperie socio-culturali. L’oggetto/soggetto dell’azione di entrambe le istituzioni, il processo educativo del figlio/studente non possiede confini precisi: la labilità dei confini genera tensioni, conflitti ed incertezza nell’agire in entrambi i partner. Il coinvolgimento parentale nella vita della scuola porta con sé benefici sia per lo studente sia per i genitori, sia per la scuola sia per l’intera società; ma il rapporto famiglie-scuola rappresenta una questione controversa: la relazione tra le due agenzie costituisce un nodo critico nell’ambito del processo educativo delle nuove generazioni. 4.3 QUALE CORRESPONSABILITA’ TRA FAMIGLIE E SCUOLA? La famiglia adempie al compito cruciale per garantire, alla società, la sopravvivenza della stessa con la generazione di nuovi membri; alla generatività biologica si accompagna quella psicologia ed educativa. La famiglia assicura la trasmissione della cultura, delle tradizioni, dei valori e di un sistema di norme che garantiscano lo sviluppo dell’identità e dell’autonomia del nuovo nato. • Scuola: rappresenta la prima istituzione pubblica che i nuovi nati incontrano e con la quale sono chiamati a confrontarsi in modo sistematico e prolungato; è il luogo dove si scoprono modi diversi di stare al mondo, si apprende a convivere con l’altro. La scuola incarna l’autorità paterna, la norma impersonale; • Famiglia: rappresenta lo spazio del “noi”, di coloro che condividono un medesimo sguardo sulla realtà; la famiglia incarna la dimensione dell’intimità e dell’affettività. Entrambe, scuola e famiglia, condividono i compiti connessi con i processi di socializzazione del nuovo nato, primario e secondario, e l’educazione diventa il terreno su cui il legame tra le due istituzioni è da progettare e strutturare. Con la co-responsabilità educativa, scuola e famiglia sono 36 chiamate a rispondere, insieme, ai bisogni di crescita e formazione delle nuove generazioni; l’esercizio della respons-abilità richiede la capacità di osservare, di progettare e di reperire i mezzi per l’attuazione del progetto elaborato. Si tratta di saper osservare l’educando per coglierne bisogni, potenzialità e saper gettare lo sguardo in avanti per progettare percorsi educativi volti a promuoverne la miglior forma di vita; la progettualità educativa deve poi tradursi in un agire concreto, nel rispetto di un principio pedagogico basilare: la coerenza. Data la complessità del compito educativo è essenziale che vengano definiti alcuni aspetti cruciali: 1. Serve un quadro normativo chiaro che indichi tempi, modi, strumenti e risorse a cui attingere per la sua attuazione pratica; 2. Percorsi formativi per docenti e genitori che promuovano le competenze necessarie alla pratica della co-responsabilità; 3. Molteplicità dei percorsi di partenariato offerti alle famiglie per favorirne il coinvolgimento del rispetto dell’unicità di ciascuna di esse. Affinché la co-responsabilità diventi lo sfondo del rapporto scuola-famiglia, è importante che le persone, chiamate a collaborare ed agire, posseggano determinate competenze: • Forte motivazione alla partecipazione e all’esercizio condiviso della responsabilità educativa; • Buona conoscenza di sé (personalità, stili comunicativi, convinzioni e valori); • Competenze comunicativo-relazionali; • Capacità di mediazione e gestione dei conflitti; • Competenze cooperative; • Conoscenza del linguaggio e della cultura dell’istituzione nella quale si agisce. Tali conoscenze e competenze devono essere caratterizzanti nella definizione del profilo professionale del docente/dirigente: a quest’ultimo spetta il compito di promuovere le azioni necessarie a realizzare nella quotidianità un approccio educativo fondato sulla partecipazione e cooperazione scuola-famiglie. Perseguire e praticare la corresponsabilità educativa, pensata in termini di progettualità, coerenza e cooperazione, richiede una grande maturità personale e una forte competenza professionale. 4.4 PER NON CONCLUDERE Come ogni dimensione dell’esistenza umana, anche il rapporto tra scuola e famiglia è esposto all’evoluzione socio-economica e culturale delle società in cui il rapporto ha luogo; il cambiamento socio-culturale, che colpisce le società, attraversa le istituzioni. La scuola sembra ancora vivere nel passato e le famiglie abitano il presente; ogni famiglia è un universo radicato in un passato fatto di cultura, habitus e vissuti che condizionano il modo di pensare, di vivere e di agire di ciascuno dei suoi membri: incontrare le famiglie richiede sensibilità, preparazione e professionalità. 37 autentiche; si tratta di approdare in quella terza dimensione in cui le soggettività si riconoscono, si assumono, creano contatti liberi da pregiudizi e rifiuti: solo in questa terza dimensione può nascere la fiducia e può essere sostenuto il rischio dell’alterità. 5.4 IL DONO DELLA FAMIGLIA AFFIDATARIA L’accogliere nella propria famiglia un bambino fonda un evento di alto significato valoriale: la fiducia data e il rischio consapevole assumono un significato di dono. La casa è il luogo dell’intimità e della condivisione in cui la presenza educativa degli adulti si esplica nella cura del divenire persona del figlio, del suo poter essere ciò che è; la famiglia può essere pensata come luogo eminente del dono che è trasformativo non solo per chi lo riceve, ma anche per chi lo offre. Il dono dà senso all’esistenza, genera legami di cui l’essere umano ha bisogno e desiderio per poter sopravvivere e vivere pienamente in un mondo umano. Molte ricerche hanno focalizzato il tema dei motivi e delle motivazioni che portano una famiglia ad aprirsi all’accoglienza affidataria: • A volte è la percezione delle proprie risorse umane, sociali e materiali a spingere la famiglia nel percorso di affidamento; • Sono convinzioni di etica sociale o ispirazioni di natura valoriale e religiosa a sospingere le famiglie verso questa opzione. La coppia e la famiglia affidataria hanno bisogno di supporti psico-sociali ed associativi per un’elaborazione consapevole dei propri bisogni impliciti, al fine di rendere stabile e valido il rapporto con il bambino affidato, sia al fine di migliorare sé stessi, la propria percezione ed autorappresentazione; in questo senso, risultano particolarmente efficaci le reti di associazioni che i genitori affidatari attivano: il confronto e la comunicazione fra pari facilitano apprendimento e rielaborazione, sviluppo di autostima, di resilienza e tolleranza ai conflitti. Le famiglie affidatarie rappresentano una risorsa conoscitiva a valenza sociale: la loro esperienza, il confronto, le relazioni con istituzioni e figure professionali si esprimono come un capitale conoscitivo che completa ed arricchisce il capitale sociale, in un circolo vitale del donare. Nella rete di rapporti che viene a costituirsi, all’interno delle associazioni, si creano legami e sussidiarietà, ma soprattutto si attiva un sistema di risorse a partire dal reciproco riconoscimento; nelle associazioni, le persone elaborano atteggiamenti ed azioni di responsabilità nei confronti dei bisogni della comunità venendo a rappresentare un modello di etica sociale, accrescendo il benessere della società centrato sulla fiducia, sulla responsabilità e solidarietà. La cura, la fiducia e il dono caratterizzano le qualità della vita delle persone, attraverso gesti buoni e solidali in cui la felicità altrui si pone come condizione della propria felicità. Il dono è il fondamento della società solidale: è il dono a fondarla e consente agli uomini di perseguire la propria realizzazione nell’incontro e nell’assunzione di responsabilità verso gli altri. 6. NEOGENITORI NELLE RETI VIRTUALI: TRA ISOLAMENTO E MODELLI CULTURALI Gli studi sociologici denunciano la solitudine del cittadino globale come esito di un individualismo diffuso e della conseguente scomposizione del tessuto sociale; inoltre, tali studi constatano anche gli effetti esercitati dalla protezione familiare sulla coesione sociale ed assegnano un ruolo rilevante alle reti di genitorialità. Le relazioni familiari possono dar forma ad intrecci significativi per il contesto sociale: le famiglie sono in grado di promuovere benessere familiare, coesione e capitale sociale. Nel nostro Paese, si registra una particolare attenzione alla fragilità e vulnerabilità dei 40 nuclei familiari, soprattutto nelle fasi di transizione che contraddistinguono il ciclo di vita; queste transizioni indicano periodi di cambiamento che si succedono nel tempo e, tra una fase e l’altra, richiedono di riformulare i ruoli e le funzioni dei membri della famiglia. La gravidanza e l’accesso alla genitorialità sono eventi stressanti e comportano profonde modifiche per i suoi membri; la transizione alla genitorialità rappresenta una fase della vita particolarmente delicata, carica di cambiamenti e necessita di ricercare nuovi equilibri. Avere un bambino comporta, per la coppia, molte trasformazioni: occorre stabilire nuovi legami, nuove funzioni e predisporre spazi. 6.1 ACCESSO ALLA GENITORIALITA’, ISOLAMENTO E RETI SOCIALI Un positivo influsso sul processo di aggiustamento nell’acquisizione dei ruoli genitoriali è esercitato dalle risorse del capitale sociale; la rete sociale è, per la genitorialità, un fondamentale supporto. Il sostegno sociale percepito ha un ruolo di protezione a livello psicologico e diverse forme di questo sostegno si sono rivelate pertinenti proprio durante il periodo perinatale: molte donne, dopo la nascita del figlio, riferiscono enormi cambiamenti circa gli stili di vita, le abitudini e si riscontra un adattamento non immediato. Si afferma un “pensiero divergente” che presta attenzione alle forme di isolamento cui sono sottoposte le neo mamme della società contemporanea; i genitori sembrano trovarsi in una condizione di isolamento profondo ed appaiono disarmati di fronte al loro bambino. L’isolamento familiare dei genitori si configura attraverso due forme: • Isolamento geografico: riduce considerevolmente la possibilità di ricevere un sostegno concreto ed un aiuto materiale; • Isolamento relazionale: è l’esito di un’assenza di prossimità e di contatti, in particolare di tipo intergenerazionale. L’aiuto concreto che i nonni e certi membri della famiglia possono apportare, modera ed attenua l’intensità del lavoro psichico che i genitori devono realizzare, sostiene i processi di genitorialità permettendo una facile transizione fisica e psichica della fase del dopo-nascita. La letteratura scientifica inizia a considerare l’importanza e l’impatto esercitato dai social network nel processo di transizione alla genitorialità; attraverso questi strumenti, i neogenitori possono stabilire contatti con facilità, ricevere forme di sostegno senza essere legati in relazioni impegnative. 6.2 NEOGENITORI NELLA RETE? I neogenitori non dispongono di molto tempo, sono sopraffatti dalle nuove responsabilità ma, nonostante questo, sembrano non rinunciare all’impiego degli strumenti online, i quali vengono impiegati per diversi scopi: comunicazione, ricerca di informazioni. Queste informazioni possono essere scambiate in varie forme, attraverso forum o chat; tali modalità di comunicazione sulle rete rappresentano un’occasione di confronto con partner potenziali. La rete si configura come uno spazio sociale che permette di frequentare luoghi praticati e connessi tra loro; nella rete, la dimensione relazione è rilevante perché le informazioni non solo vengono trasmesse, ma vengono condivise e messe a disposizione in contesti di relazioni. Così facendo si stabiliscono rapporti virtuali sulla base di scritti che rimangono aperti ed interattivi, predisposti ad accogliere opinioni. Si delineano alcune motivazioni che sono alla base della frequentazione delle rete: 41 • Costruire, comunicare e rinforzare l’identità genitoriale: la rete offre spazi di presentazione dell’identità personale e attraverso queste comunicazioni è possibile rivisitare l’identità parentale e rinforzare il sentimento di efficacia e autonomia; • Essere in relazione: la rete può diventare il mezzo per testimoniare la propria vita, raccontare le esperienze di tutti i giorni, i cambiamenti e le difficoltà. Nello scambio relazionale si attivano processi di sostegno ed incoraggiamento ed è possibile stringere legami ed avviare una nuova rete di amicizie; • Informazione, “opinion making”, impegno civile: la rete, da un lato facilita la scoperta pubblica di testimonianze private e, dall’altro lato obbliga questi testimoni ad assumere pubblicamente le loro scelte, a spiegarle e motivarle; • Una pratica di scrittura: la scrittura è fondamentale nella rete perché facilita una presentazione controllata e coerente di sé da parte del soggetto; la parola scritta organizza il senso e mette a disposizione l’esperienza di chi scrive, il quale presta particolare attenzione alla pratica della scrittura permettendogli di comunicare a terzi la sua storia. 6.3 LA RETE: TRA RAPPRESENTAZIONI DOMINANTI E NUOVI STEREOTIPI La socializzazione e il sostegno, presenti nelle famiglie allargate dei tempi passati, non sono disponibili per le nuove madri allo stesso modo ed immediatamente; la mancanza di una rete informale, costituita dalla famiglia, e il venir meno di un supporto emotivo sono condizioni che possono suscitare nelle neomamme un vissuto di isolamento. Dalle ricerche emerge che: 1. In assenza di un sostegno familiare immediato, i genitori cercano di trovare un “supporto alternativo” da altre persone, al di fuori della propria famiglia; 2. Emerge la difficoltà di molte madri a sviluppare un solido senso di sé nel nuovo ruolo genitoriale, avvertendo contorni sfumati e rappresentazioni distanti; 3. Alla fatica di assumere pienamente l’identità materna si aggiunge un diffuso senso di perdita nei confronti di quella acquisita prima della nascita del figlio. Le esigenze di confronto e di condivisione sociale espresse dalle neomamme trovano una risposta nell’esperienza del mommyblogging che favorisce il delinearsi di un’immagine più sfumata e ricca della maternità, promuove l’attivazione di comunità solidali tra quelle che condividono la stessa esperienza della genitorialità; si delinea un bisogno di individuare uno spazio di accoglienza della loro voce e della loro esperienza. L’espressione “atto radicale”, riferita al fenomeno del mommyblogging, evoca immagini di dissenso politico, radicalismo ed azione rivoluzionaria: ma la rivoluzione invocata da tale fenomeno è quella del quotidiano, della normalità della vita di tutti i giorni. La scrittura del mommyblogging esercita una funzione politica dal momento in cui essa contrasta la pressione esercitata sulle madri dal fenomeno denominato “new momis”: indica un movimento contemporaneo che, oltre ad attestare la distanza dalla femminilità, si esprime nella retorica del femminismo; viene celebrata un’idea di maternità progressista e l’idea che le donne debbano essere sottomesse agli uomini è un principio estraneo al new momis. Secondo questo fenomeno prevale l’immagine delle donne come soggetti attivi ed autonomi, in grado di controllare il proprio destino. Con i racconti della loro esperienza nel blog personale, le mamme si lasciano 42 ritrovare un contatto empatico con gli altri, combattendo stereotipi e deformazioni di pensiero a cui spingono alcuni immagini sociali. Il modello formativo ipotizzato, amplia la proposta di vivere relazioni empatiche anche agli adulti, coinvolgendo la famiglia nel suo insieme; inoltre, permette agli adulti di pensare ai propri bambini e a quelli degli altri provando a modificare quelle prospettive diseducative considerate ormai consolidate. 7.3 CULTURA E MARKETING DEI SERVIZI EDUCATIVI PER LA PRIMA INFANZIA Tra le diverse scelte educative intraprese da una famiglia c’è la possibilità di accedere ad uno dei servizi per la prima infanzia; la scelta chiama in causa gli adulti e richiede loro di selezionare le esperienze educative dei membri più piccoli. L’attenzione dei genitori non è rivolte alle scelte educative, ma al tipo di servizi presenti sul territorio sulla base delle loro esigenze lavorative. Le possibilità economiche incidono maggiormente sulla scelta del servizio e possono condurre a logiche di valutazione del tipo: il miglior servizio al minor prezzo; molti genitori reputano più efficienti i nonni che, gratuitamente, si occupano dei nipoti, ma quando i nonni non sono disponibili, uno dei due genitori rinuncia al lavoro oppure valuta la possibilità di accedere ad uno dei servizi. Seguendo queste logiche, è facile incorrere in situazioni in cui la famiglia sceglie una linea educativa non condivisa; spesso, i gestori di servizi educativi privati sanno quali tipi di preoccupazioni assalgono i genitori e quindi adottano le più moderne strategie di marketing emozionale. Tra queste strategie emerge l’installazione delle telecamere: la richiesta è di stabilire un’alleanza educativa basata sulla garanzia di controllo da parte del genitore e dei gestori della struttura; la telecamera viene intesa come strumento che determina all’alleanza educativa e fa sentire i genitori sicuri di aver fatto la scelta giusta. I motivi che supportano la scelta di una scuola con telecamere sono molteplici: • Il bambino va tutelato affinché non venga maltrattato dagli adulti che in qualsiasi momento potrebbero abusare di lui; • I genitori sono tenuti a controllare se il loro bambino viene curato in maniera adeguata; • Se un genitore è impegnato per motivi lavorativi può ritrovare nella telecamera uno strumento in grado di mediare la sua relazione con il figlio. Si comprende facilmente che i gestori di nidi con telecamere offrono un servizio che permette ai genitori di essere sicuri e di vivere i loro impegni con serenità; in questo modo, il servizio si pone nell’ottica di una cura intesa come capacità di sintonizzarsi e di reciprocare. Nei servizi educativi e nelle scuole vanno coltivate queste forme di cura: attenzione alla creazione di un clima educativo accogliente, capacità di selezionare opportunità di sviluppo e conoscenza; questo si traduce anche nella cura dei legami affettivi, del piacere, del movimento e del gioco e di tutte quelle attività che aiutano a rinforzare una buona immagine di sé: tutti questi elementi costituiscono, insieme, degli indicatori della qualità della vita familiare. 8. L’ESIGENZA DI UNA POLITICA EDUCATIVA CON E PER LA FAMIGLIA Da alcuni anni, partiti politici e settori scientifico-culturali manifestano un certo interesse per la 45 famiglia; conseguenza diretta dell’interesse è la richiesta di iniziative politiche a favore dello spazio di vita domestico fatta da esponenti politico-sindacali e studiosi. La politica familiare non può prescindere dalla sua qualificazione pedagogico-educativa: qualsiasi provvidenza ha da tutelare la famiglia come centro privilegiato di relazioni umanizzanti e fonte primaria del benessere personale e comunitario. Gli elementi necessari, per l’elaborazione di una politica familiare, sono tre: 1. Avvaloramento della famiglia come luogo educativo primario; 2. Coinvolgimento delle famiglie nel processo di elaborazione culturale e di attuazione della politica familiare; 3. Correlazione della politica familiare con la comunità locale. 8.1 AVVALORAMENTO DELLA FAMIGLIA COME LUOGO EDUCATIVO PRIMARIO Oggi è reclamata l’ideazione di piani e programmi politici volti ad aiutare la famiglia a riprendere consapevolezza di tutte le proprie funzioni, dei propri diritti e doveri, lungo la via del benessere personale e comunitario. Risulta urgente prospettare un modello di famiglia che vada difeso ed esaltato perché valutato come meglio rispondente al benessere del singolo uomo e al continuo sviluppo della società democratica; una politica educativa a favore della famiglia è nell’interesse di tutti coloro che hanno a cuore l’andamento democratico della società. Pianificare e programmare iniziative significa lavorare per gli ideali di pace, giustizia e fraternità universali; una politica familiare è da fondare sull’attenzione al valore della persona, in quanto la persona è l’unico criterio con il quale selezionare e privilegiare gli aspetti di promozione. La tutela della famiglia esige soprattutto il ripristino di particolari valori morali e tramite i valori, che non possono essere messi da parte, ma risultano essere l’unico fattore idoneo nella politica familiare, la pedagogia può fare in modo che, nell’ideazione di una politica familiare, sia presa in considerazione la dimensione educativa, sollecitando chi ha compiti di gestione del potere a prestare attenzione a certi temi: • Preparazione delle varie generazioni alla famiglia; • Responsabilità e capacità propositiva della famiglia; • Sostegno all’impegno della famiglia; • Diretto coinvolgimento della famiglia. La Costituzione della Repubblica Italiana, con gli articoli 29, 30 e 31, riconosce l’intangibilità del bene-famiglia e il diritto/dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli assegnando allo Stato l’obbligo di offrire provvidenze adeguate. Sotto l’aspetto pedagogico-educativo, le varie forze partitiche procedono all’elaborazione di una politica educativa “della” e “per” la famiglia: a. Politica educativa “della” famiglia: significa schierarsi per la pianificazione/ programmazione di un definito piano l’interventi che sostenga il compito educativo familiare; impone di reinterpretare la politica del lavoro, della casa, dei tempi lavorativi e della tutela giuridica dello stato di paternità/maternità; 46 b. Politica educativa “per” la famiglia: significa chiedere iniziative pubbliche le quali si preoccupino di formare le nuove generazioni alla vita matrimoniale e familiare, aiutando i coniugi a permanente affinamento delle loro funzioni parentali. 8.2 COINVOLGIMENTO DELLE FAMIGLIE NEL PROCESSO DI ELABORAZIONE CULTURALE E DI ATTIVAZIONE DELLA POLITICA FAMILIARE Parlare di politica familiare vuol dire soprattutto farsi carico delle particolarità esistenziali di un sistema di convivenza e delle funzioni educative che i vari soggetti svolgono nella situazione coniugale, parentale, filiale e intergenerazionale. Gli interventi pubblici devono mirare all’avvaloramento della capacità di proposta e recupero della famiglia singolarmente considerata; agli interventi spetta fare leva sul rafforzamento della responsabilità, operatività e autonomia familiari. La pedagogia risulta indispensabile ai fini della qualificazione educativa delle varie iniziative predisposte dallo Stato: essa può aiutare a precisare obiettivi, metodi idonei a tutelare il processo di perfezionamento personale; inoltre, può offrire suggerimenti per rinforzare la famiglia come istituzione chiamata a contribuire al bene della persona e della società. Si focalizza l’attenzione sui temi dell’elaborazione culturale e dell’attuazione della politica familiare: a. Elaborazione culturale: coinvolge l’associazionismo familiare e lo Stato democratico non può pretendere di invadere la sfera l’azione dei corpi sociali intermedi; allo Stato spetta la responsabilità etica di assecondare la capacità ideativa e operativa dei soggetti sui quali esercita il proprio potere, quindi sul gruppo domestico. Di quest’ultimo, lo Stato deve incoraggiarne la creatività e difenderne la soggettività, esaltando la convivenza democratica, la libertà umana e il progresso sociale. L’attuale divario esistente, tra potere statale e vita sociale, affonda le radici nell’indifferenza e nella scarsa attenzione prestata dallo Stato verso le dimensioni di partecipazione personale e istituzionale; b. Attuazione della politica familiare: necessità di avvalorare i movimenti e le forme di aggregazione e di solidarietà tra le famiglie; il timore di svilire i poteri dello Stato, assegnando una maggiore responsabilità alla famiglia, non sussiste se ci pensa al perfezionamento democratico della società. Mirare all’avvaloramento della soggettività familiare significa contribuire anche all’andamento democratico della società e al suo qualificarsi in termini di comunità educante a misura d’uomo. 8.3 CORRELAZIONE DELLA POLITICA FAMILIARE CON LA COMUNITA’ LOCALE Solo l’avvaloramento delle caratteristiche locali permette l’esaltazione dell’originale partecipazione dei cittadini ad un progetto di convivenza condiviso; in questo modo, si rende indispensabile aderire all’idea della comunità locale come spazio di vita in cui si tende al compimento di progetti inediti determinati in loco. Dall’avvaloramento della comunità locale trae giovamento anche la società civile, quindi i corpi sociali intermedi (famiglia), i quali possono svolgere un ruolo di equilibrio sociale, inducendo un maggiore scambio tra singolo cittadino e istituzioni. Il collegamento fra decentramento/autonomia territoriali e politica familiare affonda le radici nella Costituzione: gli articolo 29, 30 e 31 fanno riferimento alla Repubblica indicando il complesso di poteri nei quali si articola lo Stato, in primis i poteri locali; spetta a tali poteri riconoscere i diritti della famiglia, sostenerne il compito e agevolarne la formazione. Emerge l’urgenza dell’autonoma iniziativa delle 47
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