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Pedagogia Speciale: riferimenti storici, temi e idee. - A. Mura, Sintesi del corso di Pedagogia

Riassunto del libro di Antonello Mura "Pedagogia Speciale riferimenti storici, temi e idee".

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 19/01/2024

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Scarica Pedagogia Speciale: riferimenti storici, temi e idee. - A. Mura e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Pedagogia Speciale riferimenti storici, temi e idee - Antonello Mura Introduzione Ripercorreremo le principali vicende educative, umane e sociali che hanno contrassegnato la storia scolastica e sociale delle persone interessate da disabilità e ricostruiremo il percorso scientifico della Pedagogia Speciale. Fino a circa due secoli fa le persone disabili sono state escluse dalla scuola e dalla società. Attualmente la diversità e stata accettata e compresa seppur ci sia ancora tanta strada da fare. Vedremo personaggi che hanno offerto un contributo capace di rinnovare la cultura, la ricerca e le prassi educative rivolte alle persone affette da disabilità, ponendo così le basi per la nascita della Pedagogia Speciale. Nel 900 c’è stato, in ambito istituzionale e pubblico, un progressivo riconoscimento della persona disabile come soggetto avente diritti e valore. Il processo di scolarizzazione obbligatoria in Italia ha permesso di riconoscere la persona affetta da disabilità come una risorsa della e per la collettività. In ambito scientifico viene precisato che la disabilità non coincide con il deficit, il quale interagisce con fattori soggettivi e ambientali. Di conseguenza nasce l'esigenza di realizzare contesti di vita comunitaria che possano garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali. L'elaborazione e la divulgazione di queste idee avviene negli anni 70 grazie all'Organizzazione delle Nazioni Unite che elaborano importanti documenti che riconoscono la dignità delle persone interessate da disabilità. La persona in situazione di disabilità può autodeterminarsi se supportata dall'educazione e dal diritto. Capitolo 1 Al di là delle intenzioni educative: uno sguardo lungo sul passato • Difficoltà a riconoscere le “tracce” e il rifiuto della disabilità La nascita della Pedagogia Speciale in Italia coincide con il pensiero e l'opera di J. M. Itard. È complesso compiere un lavoro di ricerca a ritroso che ricostruisca le condizioni socio-culturali ed esistenziali di uomini e donne interessati da disabilità perché le loro tracce nella storia non sono facili da individuare, come dice Andrea Canevaro. A seconda delle epoche storiche sono stati utilizzati termini differenti per indicare le persone interessate da disabilità. Secondo Canevaro il linguaggio può rivelare molto ma può anche ingannare qualora non si faccia riferimento al contesto culturale nel quale esso è radicato. Ulivieri spiega che nelle società del passato le caratteristiche che definivano ciascuna categoria sociale, sessuale o razziale erano poche e precise. Si parla di società statiche dove il passaggio da uno status all'altro era raro e difficile per via di una complessa e radicata gerarchizzazione contrassegnata dagli stessi modelli educativi che determinavano le differenze economiche e sociali. Sulla base di questo venivano rivolte ai medici precise indicazioni di lasciar morire chi non fosse naturalmente sano di corpo e anima (contenute nella Repubblica di Platone e riprese da Aristotele, il quale vietava l'allevamento di qualsiasi bambino deforme). Trisciuzzi nota come nell'antichità l'assenza di cure e l'infanticidio fossero consuetudini che si sono trascinate fino al Medioevo (lo strangolamento, l'avvelenamento, il soffocamento). Nonostante la legge della pietà cristiana che tollerava la presenza dei disabili, queste pratiche continuavano a persistere. Considerate quindi le diffuse prassi che vietavano l'allevamento e la cura educativa dei bambini interessati da disabilità, possiamo capire il riferimento di Canevaro alla quasi impossibilità di trovare tracce di persone affette da disabilità nel passato. Più si va a ritroso più la difficoltà diventa impossibilità. • La necessità di uno “sguardo plurale” Per compiere questa ricostruzione storica si fa riferimento a testimonianze indirette in un lavoro che richiede uno sguardo plurale (come dice Goussot), che comprende nozioni antropologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche, letterarie e artistiche. Si parte dalla Mesopotamia con il Codice di Hammurabi, seppur i suoi indizi non siano sufficienti a dare un'idea precisa di come fossero considerati i disabili in quella civiltà. La Stele di Rem risale al 1400 a.C. (Egitto) e offre la prima immagine di una persona disabile nella storia: è probabilmente un servo affetto da poliomielite. Omero nell'Iliade parla della disabilità con il personaggio Tersite che viene descritto come ripugnante, brutto, guercio, zoppo e con la gobba, che vomita, morde, schiamazza e abbaia. A partire da Omero è possibile individuare una certa linea di continuità tra le differenti concezioni della diversità sviluppatesi nella storia. Dall'antichità fino al diciottesimo secolo (e un po' anche nel diciannovesimo e ventesimo), condizioni umane ed esistenziali fra loro diversissime sono state uniformate e categorizzate sotto l'unico segno dell'incapacità intellettuale, dell'inferiorità e della follia, a causa della scarsissima conoscenza medico- scientifica circa il funzionamento dell'organismo umano. Cerchi, sordi, paralitici, dementi e idioti sono stati considerati come portatori di una diversità che li rendeva dei mostri al di là di ogni evidente differenza di causa, condizione e possibilità. Solo a partire dal Medioevo questa diversità è stata tollerata seppur tramite l'allontanamento nei grandi asili e l'internamento nei manicomi. Nasce così la grande categoria sociale di coloro che sono definiti disabili e che per troppo tempo sono stati chiamati handicappati. • Dalle “eccezioni” ai primi segnali di interesse La storia consente di individuare le eccezioni fin dall'antichità. Nella cultura ebraica si trova nel Talmud la prima indicazione di educabilità dei soggetti sordi, considerati esseri non privi di intelligenza. Anche nell'antica Roma viene rappresentata da Quinto Pedio la prima traccia dell'educazione di un sordomuto (anche se al tempo il sordomuto era identificato con il termine “furiosus” cioè “il folle”). La prima vera storia documentata di educazione dei bambini sordomuti risale al sedicesimo secolo con Pedro Ponce de Leon. Egli fu il primo ad insegnare ai sordomuti ad imitare la pronuncia delle parole tramite l'apprendimento della scrittura. A Parigi il primo istituto per l'educazione dei ragazzi sordomuti nasce nel 1771 e negli stessi anni ne seguirono tanti altri in Europa. La condizione dei non vedenti e rimasta ad uno stato di marginalità sociale fino alla fine del diciottesimo secolo. L'ignoranza della dimensione della cecità ha consentito per lunghissimo tempo di ipotizzare che la loro condizione fosse dovuta al fato o al volere divino per espiare le colpe direttamente commesse o familiarmente ereditate (ad esempio Edipo diviene cieco per espiare la colpa dell'incesto). In certi casi la cecità nell'antichità poteva anche rappresentare virtù divinatorie, saggezza e capacità di preveggenza (come ad esempio il personaggio omerico Tiresia che suggerisce ad Ulisse come evitare gli ostacoli). L'ambivalenza della concezione della cecità è radicata nell'antichità classica secondo Ceppi, il quale sostiene che in entrambi i casi la sorte di chi è affetto da cecità è chiaramente al di fuori della normale vita sociale. Nell'Alto Medioevo sono state costruite confraternite e asili destinate ai ciechi ma queste avevano solo un carattere assistenziale e non educativo. Solo nel 1784 a Parigi è stato fondato il primo istituto per l'educazione dei giovani non vedenti da Valentin Hauy e subito dopo nacquero istituti simili nel resto delle città europee. Sul finire del 1700 le persone interessate da disabilità vennero definite dal medico Pinel “idioti”, un termine che segna un traguardo scientifico importante per quel tempo perché segnava la prima distinzione tra questa categoria e i folli. La storia della disabilità per un lungo sarà frammentata, costituita da importanti assenze più che di presenze e da testimonianze indirette piuttosto che da quelle dei veri protagonisti. Le eccezioni ritrovate finora non consentono nessuna ricostruzione generale circa l'esistenza di pratiche di cura pedagogica mosse da intenzionalità educativa e da fiducia nell'abilità delle persone interessate da disabilità. Capitolo 2 Jean Marc Itard: dal l'insindacabilità della diagnosi alla relazione educativa • Disprezzo e interesse scientifico: la diversità nella Francia di fine XVIII secolo Zavalloni sostiene che la pedagogia speciale non sia nata di colpo e non da una sola nazione. Le sue origini si ritrovano in diversi paesi europei e americani ma potremmo indicare come culla della disciplina la Francia. A Parigi sorsero i primi istituti per l'educazione delle persone interessate cecità e sordità e sempre in Francia nasce l'attenzione rivolta ai “bambini selvaggi” e l'interesse medico- scientifico e pedagogico per educazione dei soggetti diversi. J. M. Itard si occupa dell'istruzione dell'educazione di un ragazzo di 11 anni che venne ritrovato da tre cacciatori nei boschi dell’Aveyron. Ci troviamo nel secolo dei Lumi durante il quale vennero sviluppati i primi strumenti per lo studio dell'uomo in termini affettivi, medico-filosofici ed etno-antropologici. Per questo è comprensibile che i primi istituti dedicati ai “diversi” siamo nati in Francia. La Societè des observateurs de l’homme, fondata da Jauffret nel 1799 si occupava di svolgere indagini psico-antropologica circa la natura pre-sociale Seguin elabora la sua definizione di idiozia come: “una infermità del sistema nervoso che ha per effetto radicale di sottrarre tutti o parte degli organi e delle facoltà del bambino, all'azione regolare della volontà e lo abbandona agli istinti sottraendolo al mondo morale”. Attraverso il metodo fisiologico Seguin si pone l'obiettivo di “far emergere le potenzialità residue stabilendo un equilibrio omeostatico che risiede nella possibilità di regolare l'uso dei sensi, di rendere feconde le idee, i desideri, le passioni di creature che se abbandonate a loro stesse resterebbero idioti”. Nella radice greca al termine “idios” significa “solitario”, “separato” ed è infatti la condizione che Seguin denuncia e che genera incomunicabilità e allontanamento dalla vita. Nelle mani dell'ignoranza e della solitudine la condizione dell'idiota non fa altro che peggiorare. È necessario un intervento educativo precoce a partire dalla famiglia. Occuparsi di idiozia significa confrontarsi con un problema complesso che richiama l'igiene, la filosofia, l'educazione, la morale e tutti quegli ambiti che lui chiama “teoremi antropologici”, i quali gli avrebbero permesso di occuparsi non solo di idiozia ma della pedagogia generale. Sosteneva infatti che fosse necessario risolvere prima i problemi dell'educazione per poi meglio risolvere quelli dell'idiozia. La critica che Seguin muove nei confronti dell'educazione del tempo è quasi feroce quanto quella rivolta ai medici. Secondo lui le metodologie educative utilizzate umiliano e mortificano lo sviluppo e la crescita di ogni individuo. È necessario abbandonare l'educazione delle sole facoltà intellettuali e creare un'educazione che prende in considerazione “l'uomo tutto intero”, basandosi sui principi dell’Emilio. È possibile migliorare l'educazione di tutti, anche degli idioti, tramite un approccio multidisciplinare che integra: la religione, la filosofia, la psicologia, l'igiene. Seppur al giorno d'oggi non è possibile condividere la definizione di pedagogia di Seguin (un aggregato di altre discipline), è necessario riconoscere l'importanza della sua riflessione sull'educazione e sulla presa in carico educativa dei disabili mentali in un contesto affettivo e sociale accogliente. Nella pratica, l'educazione dei giovani idioti deve rivolgersi alla loro integrità includendo “l'attività, l'intelligenza e la volontà, che corrisponde ai tre aspetti dell'essere umano: il sentimento, all'intelletto, la moralità". Il suo obiettivo è quello di far maturare le capacità di volere, potere e sapere a partire dalle attività pratiche, sviluppando l'abilità di pensiero tramite la quale giungere al controllo della volontà morale. Il suo metodo consiste nel privilegiare inizialmente l'educazione dei sensi facendo in modo che, tramite le percezioni, si sviluppino le nozioni che a loro volta danno luogo alle idee. Quindi la nozione si sviluppa tramite un'operazione passiva di percezione, mentre l'idea è un'operazione attiva che scaturisce da un ragionamento. I sensi possono essere indirizzati artificiosamente verso la percezione di una nozione, mentre il ragionamento e le idee che da esso scaturiscono non possono essere imposte. Il metodo di Seguin si può riassumere in tre fasi: 1. la fissazione: l'allievo assimila nuovi elementi tramite la ripetizione dello stimolo; 2. il riconoscimento: si verifica la capacità dell'allievo di riconoscere quanto appreso attraverso l'individuazione della risposta corretta fra le diverse possibili. 3. l'evocazione: è la fase di apprendimento più complessa. Consiste nell’evocare l'oggetto di interesse in sua assenza. Per Seguin è fondamentale procedere dal noto all'ignoto, dal semplice al complesso, dal concreto all'astratto operando sempre nei luoghi di vita quotidiana e coinvolgendo la famiglia. L’educazione è libertà e il suo scopo è quello di conferire anche all'idiota la capacità di governare la propria volontà. Il governo della volontà consente alla persona di far propria la morale che secondo Seguin è “il principio e il fine dell'educazione”. Seguin ha affrontato uno dei problemi più radicali dell'educazione e della pedagogia speciale: ha riconosciuto la dignità in una condizione fino ad all’ora rifiutata e considerata spaventosa, tutt'al più paragonabile a quella degli animali. Capitolo 4 Dalla Francia all'Italia: Maria Montessori • “Deficit psichico”: dai primi interessi internazionali al contesto culturale italiano La disabilità inizia ad essere definita in numerose varianti: idiozia, imbecillità, cretinismo, demenza, deficienza, ritardo; e nacquero diverse istituzioni come asili, ospizi, istituti e scuole che testimoniano l'emergere e il diffondersi dell'idea di educabilità del soggetto disabile nel tardo 800. I primi dati riferiti alla cura e all'educazione dei disabili psichici vennero raccolti all'inizio del 900 dal medico francese Bourneville e dall'italiano Giuseppe Montesano e testimoniano quanto l’interesse per la disabilità si sia diffuso in tutta quanta l'Europa. Ma oltre alle ragioni scientifiche e umanitarie per cui questo tema è andato a diffondersi, vi sono anche ragioni di natura economica: in seguito allo sviluppo scientifico e l'industrializzazione c’era sempre più bisogno di lavoratori e alcune categorie di disabili potevano diventarlo. Nel 1874 nasceva in Italia la Società di Freniatria, la quale decise di prendere le distanze dal modello francese della Societè Medico-Psychologique a partire dal nome (“freniatria” anziché “psichiatria”) e dal fatto che la psichiatria italiana volesse evitare il più possibile lo scambio con la filosofia e la psicologia (a differenza di quella francese). Andrea Verga, il primo presidente dell'associazione, definì gli idioti con il termine “frenastenici” per sottolineare il fatto che più che trovarsi davanti ad una malattia mentale, ci si trovasse davanti ad una debolezza delle funzioni cerebrali, considerata da lui incurabile e per questo (contrariamente alle dichiarazioni sopracitate della società) sostiene che dei disabili se ne dovessero occupare più i filosofi che i medici. Qualche anno dopo un altro fondatore della società, Enrico morselli, pubblicò un articolo a favore della costruzione di istituti speciali che si prendessero cura degli idioti, denunciando i ritardi della situazione italiana rispetto a quella europea e statunitense in cui erano già nati numerosi istituti basati sul metodo di Seguin. A fine secolo si assiste a un'ibridazione di natura medico-psico-pedagogica che testimonia i primi segnali della volontà scientifica, sanitaria e sociale di farsi carico della situazione dei disabili psichici. Vennero aperti numerosi istituti in tutta Italia dedicati alla cura e all'educazione dei disabili psichici. Quindi, seppur con un certo ritardo rispetto a molte altre nazioni europee, anche in Italia inizia progressivamente ad emergere la necessità di passare dall'assistenzialismo a forme di cura medica ed educazione capaci di rispondere ai bisogni dei diversamente abili. In questo clima si forma e opera l’illustre medico ed educatrice: Maria Montessori. • Maria Montessori: medicina, cultura e impegno sociale negli anni della prima formazione A partire dalla sua formazione universitaria fino al 1907 Maria Montessori si occupa attivamente dei piccoli frenastenici. 1907 fonda, nel il quartiere di San Lorenzo la prima Casa dei Bambini, spostando il suo interesse dalla disabilità mentale all'educazione dei bambini che vivevano in condizioni di degrado culturale e svantaggio economico-sociale. Nel 1909 scrive uno dei libri più importanti “Il metodo della pedagogia scientifica” che poi pubblica con il nuovo titolo “La scoperta del bambino” circa 30 anni dopo. In questo lavoro emerge l'interesse e la fiducia che la Montessori nutriva verso l'educazione e l'infanzia: l'educazione può condurre alla rigenerazione umana ma solo se l'umanità stessa saprà volgere l’attenzione alla scoperta del bambino e allo sviluppo delle sue grandi potenzialità, quindi all'infanzia. Maria Montessori sceglie un percorso di studi tutt'altro che agevole per una donna del tempo: si iscrive al corso di laurea in scienze naturali e una volta superati gli esami del biennio riesce a passare in medicina, un corso che al tempo vantava solo due donne laureate. Gli anni universitari furono importantissimi per la sua formazione. Fra i suoi docenti ci fu Francesco De Santis; Ezio Sciamanna, il quale indirizzò il suo interesse verso i deficit mentali; e Clodomiro Bonfigli, il suo professore di psichiatria. Con quest'ultimo la Montessori collabora per la costituzione della Lega nazionale per la protezione dei fanciulli deficienti (1899). La Montessori era molto attiva anche nello svolgere iniziative tese a reclamare l'emancipazione femminile in ambito sanitario e sociale. Nel 1896 si impegnava con l'associazione Per le donne sostenuta dai suoi stessi professori universitari. Aderisce all'associazione anche il futuro padre di suo figlio: G. Montesano, un giovane medico. L'impegno della Montessori, quindi, venne rivolto a problematiche sanitarie, politiche e sociali. Si formava su contenuti scientifici ma prestando sempre attenzione alle implicazioni di questi con le tematiche sociali. • L'interesse per il deficit mentale e l'impegno in prima persona Il passaggio d’interesse che la Montessori compie dalla medicina alla scienza educativa può essere indicato come una rivelazione dovuta all'attività che la dottoressa aveva svolto con i piccoli deboli di mente nella Scuola Ortofenica. Possiamo considerare La Casa dei Bambini come il compimento dell'esperienza professionale vissuta tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, caratterizzata dall'intreccio di medicina, politica sociale e femminismo. Inoltre, fin da quando era una giovane studentessa, operava a stretto contatto con i bambini, frequentando la sezione minori della clinica psichiatrica romana. Ricoprì la sua prima posizione di rilievo nel 1898, quando rappresentò i medici psichiatrici al Convegno Pedagogico Nazionale per promuovere le idee e il programma della nascente Lega per la protezione dei fanciulli deficienti. L'obiettivo era di cercare l'appoggio dei pedagogisti per realizzare un programma educativo basato sulle nuove conoscenze mediche. Tra i temi trattati dalla Montessori vi era il diritto di tutti i bambini ad essere educati, soprattutto quelli a rischio di degenerazione come poveri, malati e abbandonati. Grazie alla relazione della Montessori venne approvato un documento che chiedeva che i bambini affetti da speciali caratteri degenerativi venissero posti sotto tutela educativa dello Stato con l'istituzione di classi aggiuntive presso le scuole elementari e di speciali istituti medico-pedagogici per i più gravi. Di conseguenza sottolinea la necessità di specializzare gli insegnanti delle scuole normali tramite corsi di livello universitario. Il ministro della pubblica istruzione Baccelli la incaricò di svolgere nelle Scuole Normali di Roma un corso di lezioni sulla pedagogia emendatrice e questo fu un successo perché affrontò temi fino ad allora ignorati: ella si pronunciava chiaramente a favore dell'istituzione di classi per deficienti all'interno degli asili, le quali si sarebbero potute istituire anche nei piccoli paesi. Dopo aver istituito la Lega, la Montessori pubblica diversi articoli in cui sottolineava il ruolo dell'educazione morale nel recupero dei frenastenici, e continuava ad impegnarsi nel divulgare le idee e raccogliere fondi. Nel 1900 avviava insieme a Montesano l'apertura della prima scuola Magistrale Ortofrenica in Italia, alla quale era annesso anche un asilo-scuola dove gli insegnanti potevano svolgere il tirocinio. A partire da questa esperienza la Montessori si rese conto che i metodi da lei utilizzati per insegnare agli idioti contenevano principi più razionali di quelli in uso nella scuola pubblica: alcuni dei suoi allievi all'esame della scuola pubblica brillavano più dei normali, e così decise di dedicarsi a questi ultimi. L’interesse per i disabili mentali andò gradualmente riducendosi a favore dell'insegnamento universitario e dell'impegno nei confronti di all'infanzia. La casa dei bambini, pur essendo rivolta ad una precisa categoria di allievi, si diffuse rapidamente oltre i confini italiani rappresentando a livello mondiale un modello educativo valido per tutti. • L'educazione come libertà Dopo aver studiato Itard e Seguin la Montessori si convinse che Itard fosse stato il primo vero fondatore dell'autentica pedagogia scientifica e sperimentale perché il suo metodo era capace di modificare la personalità degli allievi, mentre a Seguin attribuisce il merito di aver portato a compimento un vero sistema educativo per i fanciulli deficienti. La Montessori fece un viaggio a Parigi per osservare i materiali didattici elaborati dai due e soprattutto per studiare da vicino l'applicazione del metodo di Seguin. Si rese conto che il suo metodo era stato sottovalutato e frainteso dai pedagogisti e educatori perché rivolto a bambini idioti. Nessuno aveva ancora capito che quello era capace di elevare non solo i deficienti ma anche normali. La Montessori sosteneva che gli insegnanti, prima di fare affidamento sulle indicazioni del metodo e sui materiali, dovessero apprendere a relazionarsi con gli allievi, individuando in ciascuno “l'uomo che vi sta assopito” tramite l'incoraggiamento, il conforto, l'amore e il rispetto che costituiscono la chiave per aprire l'anima umana. Dal metodo di Seguin riprende la lezione dei tre tempi riproducendola in un ambiente a misura di bambino. L'obiettivo della Montessori è l'autonomia del bambino che coincide con la libertà: come sostenevano anche Itard e Seguin, attraverso l'educazione sensoriale si risveglia la coscienza, capace di valutare i caratteri dell'ambiente esterno e metterli in armonia con gli interessi dell'intelletto. La Montessori fu la prima a capire che molto spesso l'educazione diventa soffocamento e condizionamento anziché liberazione e spinta verso l'autonomia e l'emancipazione. Elabora un progetto pedagogico che ha come obiettivo quello di eliminare tutto ciò che ostacola il normale sviluppo della personalità del bambino. Secondo il suo metodo la maestra vigila attivamente ma con discrezione, aiutando il bambino a fare da solo. La Montessori fu la prima a riporre così tanta fiducia nell'infanzia considerandola come luogo di soggiorno e non solo di transito, rispettando la natura di ciascuno. Lei (come gli altri grandi autori che abbiamo affrontato in questo corso) ha avuto il grande merito di liberare le persone interessate da disabilità mentale dalla bolla unicamente assistenziale e questo ha sottolineato l'esigenza di un nuovo modo di rapportarsi all’insufficienza mentale e più in generale all'infanzia. Grazie a lei sono stati eliminati i rischi di una visione della disabilità in termini esclusivamente organo-genetici, collocandola all'interno di una più vasta riflessione sull'educazione e sull'uomo che oggi si definisce di tipo “ecologico-evolutivo”. Capitolo 5 Istruzione e educazione: una conquista culturale e sociale lunga e complessa • Percorsi di istruzione nella scuola pubblica: i primi provvedimenti La Riforma Gentile del 1923 ha segnato il momento di avvio dei percorsi di scolarizzazione per i soggetti in situazioni di disabilità. La riforma istituiva l'obbligo scolastico per i ciechi e sordi che non in situazione di disabilità alla frequenza degli istituti di II grado. La Legge quadro per l'assistenza l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate del 5 Febbraio 1992 n. 104 e l'Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap del 24 Febbraio 1994, sono atti normativi che indirizzano verso una prospettiva di cura pedagogica e sociale: partendo dai bisogni della persona, indicano i principi e gli strumenti atti a supportarla in direzione dello sviluppo delle sue potenzialità e della piena integrazione comunitaria. Rispetto al decennio precedente, all'inizio degli anni 90 si sviluppa quindi una concezione più ricca e complessa della diversità e della sua integrazione, che affinava nuovi strumenti didattici organizzativi in ambito scolastico. Seppur grazie a queste iniziative ci siamo potuti avviare verso la realizzazione del processo di integrazione, è possibile individuare alcuni fattori di debolezza che hanno rallentato tale processo: la tardiva definizione del profilo dell'insegnante specializzato, le modalità di reclutamento dei docenti, la mancata formazione dei dirigenti e dei docenti di classe e l'aver considerato per troppo tempo la presenza dell'alunno disabile a scuola solo come una possibilità piuttosto che una costante. È necessario ricordare che l'intervento scolastico per quanto fondamentale, rappresenta solo un aspetto di un processo d’integrazione molto più ampio (che coinvolge educatori, famiglie, associazioni, pedagogisti, ecc.). Tale processo nella scuola è una costruzione in progress che deve essere costantemente alimentato dalle normative nazionali e internazionali, come l'International classification of functioning disability and Health (OMS 2001) e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. La pedagogia speciale italiana può vantare di aver anticipato e l'ispirato alcuni contenuti di questi documenti. Il nuovo secolo si apre con una nuova sfida: la realizzazione di una società pienamente inclusiva dove la persona che manifesta un bisogno educativo speciale abbia la possibilità di realizzare il proprio progetto di vita e di esprimere la propria condizione di cittadinanza attiva. Capitolo 6 Nuovi modelli concettuali e culturali per pensare a realizzare l’integrazione • Una nuova prospettiva per guardare alla disabilità: dall’ICIDH all’ICF La disabilità ha costretto l'uomo a confrontarsi con i propri limiti e le proprie paure ma gli ha consentito anche di scoprire le infinite possibilità che lo caratterizzano. Il traguardo compiuto nel XX secolo si esplica anche in termini concettuali e linguistici riferiti alla definizione di disabilità. L’introduzione del termine handicap nei primi anni 70 ha definito in Italia un riorientamento culturale e sociale che ha radicalmente modificato il modo di rapportarsi alla disabilità e alle persone disabili, fino ad allora indicate con termini dispregiativi quali “storpi, folli, mostri o minorati”. Inizialmente il termine handicap indicava una limitazione specifica, una parzialità del deficit rispetto alla globalità della persona. Canevaro sostiene che i problemi dell’integrazione si rispecchiano nella questione terminologica: “ogni handicap è tale unicamente in rapporto ad una realtà sociale e culturale”. L’innovazione sottesa alla parola handicap rispetto a tutti i termini che l’avevano preceduta diviene ancor più chiara e si diffonde a seguito della pubblicazione nel 1980 dell’ICIDH (classificazione internazionale delle menomazioni, disabilità ed handicap). La classificazione tenta di delineare i passaggi che determinano la nascita e lo sviluppo di un processo invalidante. Si aprirà successivamente un dibattito critico che evidenzierà come la sequenzialità tra i tre fattori individuati dalla classificazione (ossia menomazione, disabilità e handicap) non sarà sufficiente a rendere conto di una realtà ben più complessa. Si tratta di una condizione in cui i fattori personali e i fattori ambientali sono determinanti nell’evoluzione e nella determinazione della complessità delle singole situazioni di disabilità, tanto da renderle difficilmente comparabili sia in ambito nazionale che internazionale. Il termine handicap oggi risulta indubbiamente inadeguato sul piano scientifico e culturale ma è comunque un errore sminuire la portata dalla rivoluzione operata dall'introduzione del concetto di handicap rispetto alla tradizione precedente. Un’interpretazione sbagliata dell’ICIDH ha condotto all’affermarsi di un modello essenzialmente medicalizzate nei confronti della disabilità ed il limite di questo modello ha permesso di maturare la piena consapevolezza che il termine handicap possa riflettere la socializzazione culturale, ambientale ed economica di una menomazione o di una disabilità in uno specifico contesto. Si apre così una nuova rottura che nel 2001 diventa esplicita con la pubblicazione di un nuovo documento dell'OMS: l’ICF (classificazione internazionale delle funzioni, disabilità e salute). Si tratta di una classificazione che riprende il concetto di salute delineato dall’OMS nel 1947: “stato di completo benessere fisico mentale sociale”, e che dunque “non consiste solo in un’assenza di malattia o infermità”. Si tratta di un’idea di salute concepita nei termini di benessere bio-psico-sociale della persona e di piena realizzazione del potenziale umano. Rispetto alla precedente classificazione, l’ICF fa riferimento ad un concetto di salute più ampio e completo, ed individua l’intreccio tra le componenti biologiche, mentali e sociali dell’essere umano. La salute non può essere considerata circoscrivibile al solo funzionamento o malfunzionamento fisiologico. Richiama piuttosto il benessere esistenziale e la qualità di vita, è una condizione personale che risente del contesto socio, politico, economico e culturale e del sistema di valori della persona. La disabilità si produce per un'anomalia di funzionamento di una qualsiasi delle componenti del sistema e viene definita come “la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di natura di un individuo e i fattori personali, e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo”. Il funzionamento del processo salute/disabilità di una persona può essere rappresentato con il seguente grafico: La condizione di salute o di disabilità della persona è il risultato del processo dinamico di interazione tra i fattori rappresentati. In alto, le condizioni di salute (condizioni fisiche, la dotazione genetica...), in basso i fattori ambientali (le culture, gli ambienti fisici, le norme o le risorse tecnologiche) e i fattori personali (l’età, il sesso, il livello culturale di economico). Nel mezzo dell’interazione tra questi elementi si trovano il corpo (le strutture le funzioni), le attività personali (la capacità di apprendimento di comunicazione e di autonomia) e la possibilità di partecipazione (scolastica, civile, familiare...). La disabilità viene identificata dal principio di equivalenza tra i fattori appena analizzati e questo consente un allargamento nel campo d'applicazione della classificazione in direzione dei Bisogni Educativi Speciali, cioè di quelle problematiche di apprendimento che pur non rientrando nell'ambito della disabilità, necessitano di interventi educativo-didattici personalizzati (i BES). L’ICF fa riferimento alle conoscenze maturate dalla pedagogia speciale e diviene lo strumento di ricerca delle possibilità della persona. La persona disabile, come osserva Caiola, “non si riassume solo in ciò che mostra di sé: è molto più ricca di quanto si riesce a percepire, ha bisogni originali e specifici che non possono essere generalizzati, così come non possono essere generalizzati in modi per soddisfarli. Scoprire tali bisogni è un’azione dialogica sinergica e armonica in grado di superare il rischio è la tentazione dell’interventi specialistici separati tra loro a discapito di un approccio integrale mirato alla persona”. Nella pedagogia speciale, volta a ridurre la disabilità fino ad azzerarla, e per sua natura aperta al dialogo interdisciplinare, vi è la possibilità di utilizzo dell’ICF quale strumento multidimensionale valido per riconoscere le condizioni di salute/disabilità di ogni uomo/donna, e si delinea la responsabilità di costruire un ambiente pienamente accessibile per tutti. Nasce un’azione inclusiva di apertura verso ogni diversità. L’ICF bonificando il linguaggio finora utilizzato per descrivere le condizioni di disabilità rappresenta dal punto di vista antropologico il prodotto maggiormente significativo elaborato dall'OMS per descrivere la salute. Elementi utili per la riflessione critica: il termine funzionamento, per classificare la salute, è troppo meccanicistico e scarsamente adeguato ad intercettare la complessità delle dinamiche che determinano l’essere umano. Il termine salute all’interno della classificazione viene utilizzato a volte in riferimento all’interazione corpo, persona e ambiente (a livello sovraordinato), altre volte in relazione alle sole componenti corporee, destando così possibili confusioni. • Dalla dichiarazione dei diritti delle persone con disabilità alla “dichiarazione di Salamanca” A partire dagli anni 70 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite elabora una serie di norme e documenti che conferiscono una nuova identità alle persone in situazione di disabilità. Il tema dell’integrazione scolastica e dell’inclusione sociale delle persone interessate da disabilità è legato al riconoscimento dei diritti umani. Il primo documento rilevante in tale direzione è la Dichiarazione dei diritti delle persone con ritardo mentale varata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 20 dicembre del 1971: si fonda sulla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e sulla Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959. Il primo articolo della Dichiarazione afferma che “le persone con ritardo mentale hanno gli stessi diritti degli altri esseri umani“. La necessità di precisare l’appartenenza della persona con ritardo mentale alla condizione di essere umano fa capire come ciò non fosse prima universalmente riconosciuto. Nel nord Europa e negli Stati Uniti, infatti, in quegli anni migliaia di persone interessate da deficit mentale venivano sterilizzate oppure segregate in istituti per la loro intera esistenza. Tale affermazione, dunque, contestualizzata in questo periodo storico, assume un valore innovativo e rivoluzionario. Nell’articolo tre vengono sanciti i diritti alle cure mediche, all'educazione, alla formazione, alla riabilitazione in modo che anche le persone con deficit mentale possano sviluppare le proprie abilità ed il loro massimo potenziale. A distanza di quasi un secolo vengono quindi riprese le idee di Seguin, il quale aveva già sostenuto che le persone con deficit mentale avessero diritto a realizzarsi mediante il lavoro e l'educazione. L’articolo quattro sostiene che le persone affette da disabilità “dovrebbero vivere con la propria famiglia e partecipare alle varie forme di vita della collettività”. Questo articolo però si conclude con un'affermazione ancora legata al passato: “se divenissero necessarie le cure in un istituto, questo dovrebbe essere situato nelle vicinanze e in condizioni il più possibile vicine a quelle di una vita normale”. Capiamo quindi che ancora non si era arrivati a pensare ad una trasformazione radicale di tali istituti. Sul finire degli anni 70 nasce la Dichiarazione sui diritti delle persone disabili varata a New York il 9 dicembre del 1975. È un documento più ampio per prospettive e contenuti rispetto al precedente. Il documento si apre precisando cosa si intende con il termine “disabile”: indica “qualsiasi persona incapace di assicurare a sé stessa in modo totale o parziale quanto necessità per una vita normale ed individuale e sociale a causa di una riduzione, sia congenita che non, delle proprie capacità fisiche e mentali”. Nei 12 articoli successivi si richiede la garanzia e il rispetto dei diritti di tutte le persone disabili, per consentire loro di condurre una vita dignitosa, la più normale e completa possibile. Si afferma che le persone disabili hanno gli stessi diritti civili e politici di ogni altro individuo e vengono indicati gli strumenti che potrebbero consentire loro di diventare il più possibile autosufficienti: trattamenti medici, psichici, funzionali, interventi educativi, purché orientati al massimo sviluppo delle loro attitudini e all’accelerazione dei processi di integrazione e di reintegrazione sociale. Viene sancito il diritto al lavoro, alla sicurezza economica e sociale (articolo 7), alla vita familiare alla partecipazione all’attività sociali, culturali e ricreative (articolo 9). La Dichiarazione si chiude con il riconoscimento delle persone affette da disabilità come soggetti da consultare per ciò che concerne i loro diritti, sottolineando la necessità di informare le persone disabili, le famiglie, le comunità, circa i diritti sanciti dalle dichiarazioni in modo appropriato e completo. Tramite la Dichiarazione vengono elaborate nella forma del diritto tutte le istanze di integrazione nate nei contesti culturali più avanzati, promosse dai movimenti delle persone disabili. Vediamo le sollecitazioni che provenivano dalle associazioni internazionali come la Federation internazionale des Mutiles, Invalides du travail et Invalides Civils che promuoveva in tutta Europa una campagna di sensibilizzazione a favore dell’abbattimento delle barriere architettoniche. Altresì significativo fu il ruolo di associazioni quali la National society of mentally handicapped Children a Londra e l’American association of mental retardation negli Stati Uniti. I documenti prodotti dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno contribuito a porre dei punti fermi sulla base di tutte queste iniziative, che indirizzano verso il principio dell'inclusione. Circa un ventennio dopo, l'Assemblea Generale interviene ancora sul tema delle politiche inclusive approvando nel 1993 Le regole standard (22) per le pari opportunità delle persone disabili. Non si tratta di una dichiarazione che sancisce diritti, quanto piuttosto regole non obbligatorie, che tuttavia potrebbero assumere carattere consuetudinario se un gran numero di Stati le adottassero. Consapevoli che in tutte le società del mondo ci sono ostacoli che impediscono alle persone disabili di esercitare i loro diritti di libertà, le Regole si rivolgono agli Stati ma anche alle persone disabili e agli organismi che li rappresentano perché assumano un ruolo attivo nella rimozione di tali ostacoli. Sensibilizzazione sociale, cure sanitarie e riabilitazione, servizi di sostegno sono condizioni preliminari per un uguale partecipazione. Accessibilità, educazione, impegno, pienezza di vita sociale sono settori focali per la partecipazione nell’uguaglianza. Informazione, ricerca, decisioni, pianificazioni e cooperazione internazionale costituiscono le misure di applicazione. Si può considerare un coerente proseguimento di tale discorso, la Dichiarazione di Salamanca elaborata il 10 giugno dell’anno successivo dai rappresentanti di 92 governi e di 25 organizzazioni internazionali, in occasione della “conferenza mondiale sull’educazione e le esigenze speciali” tenutasi a Salamanca in Spagna dal 7 al 10 giugno del 1994. Composta di soli tre articoli e concentrata sui temi dell’educazione, la società. Si può far riferimento in tale prospettiva all'apporto che la pedagogia speciale ha fornito negli ultimi trent'anni al mondo della scuola, sostenendo le orientandola nel rinnovamento dell'organizzazione, dei contenuti e dei metodi di insegnamento. Allo stesso modo in ambito extra scolastico problematiche specifiche, inizialmente pensate come di esclusivo interesse della popolazione in situazioni di disabilità, si sono rivelate di fondamentale importanza per tutti i cittadini. Pensiamo ai temi dell'accessibilità, dell'abbattimento delle barriere architettoniche o a quelle delle tecnologie legate alla mobilità: elementi che oggi sono diventati indicatori del livello di civiltà dei popoli. Sul versante socio-culturale possiamo considerare i risultati ottenuti nel riconoscimento e nella valorizzazione delle famiglie delle persone interessate da disabilità. Esse per lungo tempo sono rimaste vittime del disinteresse sociale e minate al loro interno facendole sentire psicologicamente responsabili della condizione dei figli anziché come luoghi fondamentali per la crescita degli stessi. Solo nell'ultimo ventennio le famiglie sono state individuate non solo come soggetti da assistere ma anche come risorse da attivare. Un altro ambito da analizzare viene indicato da Caldin: le narrazioni dei protagonisti della disabilità su cui la pedagogia speciale risulta sempre più impegnata. “È un impegno educativo che presuppone un decentramento del sapere che ritorna arricchito, rinnovato e condiviso con chi è testimone ed interprete di una situazione problematica”. La narrazione è divenuta oggetto di studio ricorrente per una pluralità di ambiti e di saperi. Nel caso della pedagogia speciale la possibilità che i principali protagonisti oggetto del suo interesse potessero raccontare la propria esperienza di disabilità o quella di altri e che ciò potesse divenire un elemento di riscontro per gli studiosi, era tutt’altro che scontato. Ma oggi la pluralità di opere scritte direttamente dalle persone in situazioni di disabilità o dai loro familiari, lasciano chiaramente emergere il valore terapeutico che la narrazione orale e scritta assume per chi la effettua. Narrare di sé significa infatti interrogarsi sullo statuto della propria identità; significa comunicare a noi stessi e agli altri chi siamo; significa trasformare il monologo interiore in dialogo con l'alterità; significa scandire e regolare le emozioni mediante la rappresentazione degli eventi della vita. Il viaggio autobiografico e un'autoterapia che consente a chi la pratica di “nascere due volte”. Questo è uno strumento indispensabile anche per far fronte alla disabilità che compare inaspettata ed improvvisa. Inizialmente ci si perde ma grazie al processo introspettivo si può ritrovare sé stessi, seppur diversi. La finalità ultima della Pedagogia Speciale è la totale e piena inclusione sociale delle persone interessate da disabilità. Euristicamente aperta al dialogo con le altre scienze, è chiamata a ri- pensare, ri-vedere, interagire e implementare costantemente i concetti e i temi che la strutturano. La direzione è quella del dialogo-confronto con le nuove soggettività istituzionali e sociali che stanno assumendo un peso via via crescente sui processi inclusivi: enti locali, associazioni culturali, sportive, di tempo libero, cooperative sociali, volontari e professionisti che si interessano di disabilità. Sono questi gli interlocutori privilegiati del discorso pedagogico speciale. • Una didattica per l’inclusione È necessario stabilire un continuum nel rapporto tra educazione e didattica all'interno di stili di insegnamento e di pratiche di integrazione in grado di superare la “cultura dell'emergenza e dell'eccezionalità” con cui la diversità viene spesso rappresentata. Per fare ciò risultano utili le competenze scientifiche, teoriche e culturali elaborate finora nell'ambito della pedagogia speciale e della didattica speciale unitamente a quelle della didattica generale. I cenni esaminati (i tentativi di educazione di Pedro Ponce e del Leon con i giovani sordi e l'opera di Charles de l’Epee che riesce a creare un codice mimico gestuale capace di contenere tutte le sfumature della grammatica linguistica; o la proposta di una prima forma di scrittura in rilievo per consentire un'educazione ai giovani ciechi) consentono di individuare nell’opera di questi primi maestri educatori un’azione di ricerca e tentativo di costruire metodi capaci di rispondere ai bisogni specifici dei soggetti a cui si rivolgono. Si tratta del primo sforzo reale per venire incontro alle specificità del deficit, attraverso procedure e percorsi di insegnamento contrassegnati da un’articolata proposta metodologica. Ai primi tentativi di educazione dei soggetti interessati da deficit sensoriali sono seguiti quelli rivolti a soggetti interessati da deficit psichici (Itard, che ha il merito di aver aperto la via in direzione dell'integrazione; e Seguin, il quale ha il merito di aver elaborato un metodo sistematico di istruzione ed educazione degli idioti). Séguin muove una critica verso i sistemi di istruzione a lui contemporanei per via della loro monodirezionalità unicamente intellettuale e per le metodologie didattiche utilizzate che egli reputa centrate sulle sole facoltà mnemoniche. Per Seguin è l’uomo intero che va sviluppato e quindi tutte le sue facoltà e attitudini, secondo un programma che non si realizza solo con l’istruzione formale, ma che comincia in famiglia e si attiene a tutti gli aspetti della vita quotidiana e dell’educazione sociale. Per poter risolvere il problema dell'idiozia Seguin sostiene di aver dovuto prima risolvere il problema dell'educazione, dell'igiene e della molarità. L'istruzione dell’idiota comporta dunque l’assunzione globale della problematica educativa. Il progetto di istruzione e formazione dell’allievo interessato da deficit mentale si colloca all’interno di un discorso sull’educazione che implica temi e ragionamenti di natura multidisciplinare. Fin dalla prima metà dell'Ottocento si pongono le basi per una riflessione sul rapporto tra principi e finalità generali dell'educazione, pratiche organizzative a metodi di istruzione speciali ed inclusivi che si arricchirà in modo sempre più ampio e articolato nell'arco di un secolo. Il nome più autorevole è quello di Maria Montessori che all'inizio del 900 ha conferito dignità scientifica all'educazione delle persone interessate da disabilità e all'insegnamento speciale, dimostrando che il metodo utilizzato con piccoli allievi deficienti funzionava per tutti i bambini “normali”. Contemporanei alla Montessori furono De Santis e Montesano, medici che si attivarono per l'educazione e l'istruzione degli anormali psichici. De Sanctis aprì il primo asilo-scuola per deficienti mentre Montesano istituì la scuola magistrale ortofrenica. L’avvio delle guerre del secolo scorso determinarono, a livello europeo, un arretramento e uno stand- by nel processo di integrazione dei disabili che in Italia è stato ripreso dalla seconda metà degli anni 60 con l’istituzione della prima cattedra universitaria di pedagogia speciale (1964) e con l’inserimento nelle classi normali di tutti gli alunni disabili (1977). È da questo momento che i temi dell'educazione speciale si sono integrati con quelli dell'educazione per tutti. Soprattutto negli anni 80 le esperienze di integrazione cominciarono a sviluppare tutte le loro potenzialità offrendo stimoli al cambiamento e all’arricchimento dell’educazione per tutti gli alunni. A questo proposito Canevaro dice: ”i problemi di una persona con handicap rappresentano un'occasione per affrontare i problemi comuni a tante persone.” L’idea di collocare l’istruzione l’educazione dei disabili all’interno dell’educational of all diviene obiettivo comune. In non poche situazioni l’idea di integrazione stenta a decollare: in molte zone dell'Asia orientale e dell'Africa il 90% dei bambini interessati da disabilità non frequenta nessuna scuola. Il ruolo e il significato politico e sociale attribuito alla scuola quale luogo per l’eccellenza della formazione e dell’emancipazione umana, pare oggi più che mai irrinunciabile. La scuola va intesa come istituzione sociale aperta, attiva e propositiva che costruisce ed elabora cultura e valori e diventa il luogo in cui tutti, nessuno escluso, fanno esperienze di orientamento e formazione. In Italia, nelle Indicazioni nazionali per il curricolo si afferma che “la scuola realizza appieno la propria funzione pubblica impegnandosi con particolare attenzione al sostegno delle varie forme di diversità, di disabilità o di svantaggio”. Mettere al centro del progetto educativo scolastico l’idea dell’inclusive education, rappresenta un modo per promuovere la capacità democratica ed emancipatoria dell’educazione scolastica. I bisogni educativi speciali fanno riferimento in misura sempre meno mancata alle difficoltà sensoriali, alle disabilità intellettive o alle situazioni di grave plurideficit e sempre più ai disturbi del comportamento, della sfera sociale ed emotiva e alle differenze presenti all’interno dei gruppi classe. La diversità, contrariamente alla normalità che si lasciano informare, standardizzare e omologare, non accetta compromessi perché enfatizza l’esserci nella sua originalità e smaschera la mediocrità delle soluzioni preconfezionate e valide per tutti. La diversità esige la personalizzazione dell’intervento didattico educativo sulla base della conoscenza estesa e approfondita di ciascun alunno. scaturisce da qui l’esigenza di una didattica inclusiva che funzioni per tutti, orientata a coinvolgere tutti gli attori scolastici nella progettazione, realizzazione, valutazione di esperienze educative e formative. L'integrazione, che sia scolastica, culturale e sociale, non si può realizzare nella parzialità dei singoli interventi ma richiede intrecci tra i differenti ambienti di vita e di relazione di cui il soggetto è partecipe. In aula svolgono un ruolo fondamentale nel processo di integrazione la qualità delle relazioni con i compagni di classe e le competenze didattiche dei docenti. Per questo gli insegnanti necessitano di un repertorio di conoscenze, esperienze, di metodi didattici, di adeguate strategie di insegnamento, di materiale, di tempo per accettare davvero le diversità presenti nei loro gruppi classe. L'educazione integratrice però non può essere interpretata e ricondotta unicamente al processo di insegnamento o alla relazione esclusiva fra docente di sostegno e alunno. Accanto alle competenze specifiche e continuamente aggiornate di tale insegnante deve essere posseduta da parte di tutti docenti una competenza educativa didattica di base sui temi della disabilità. Non è l'aderenza ad un modello teorico della didattica a garantire ai docenti le migliori condizioni di esercizio dell'azione didattica ma piuttosto l’attivazione di una didattica problematica e riflessiva, che impegna i docenti a una costruzione in itinere delle differenti opzioni organizzative e metodologiche, e si sviluppa nell’interazione tra conoscenze, insegnanti, allievi e contesti. Sono l’action-research e il pensiero riflessivo che consentono l’integrazione di stili e di strategie di insegnamento in grado di rispondere ai bisogni di ciascuno e di tutti. La possibilità di sperimentare la pluralità delle possibili combinazioni in relazione alle esigenze di ciascuna e di tutte le diversità promuove negli alunni il piacere della scoperta, della personalizzazione, dello stare insieme per sostenersi vicendevolmente. La pedagogia speciale e in particolare la didattica speciale sono impegnate a implementare e rinnovare la qualità teorica ed operativa della ricerca sull’inclusive education. La sfida lanciata dall’inclusive education impegna i docenti a garantire a ciascun allievo identità, conoscenza e coscienza, e ad essere protagonisti non solo attraverso le pratiche di progettazione, di scelte delle metodologie, di gestione della classe ma anche attraverso lo studio, la ricerca e la riflessione delle stesse. Capitolo 8 Dimensioni emergenti del processo di inclusione: alcune consapevolezze e molte sfide • Dalla Competenza specialistica alla competenza diffusa: il sistema integrato di interventi La persona interessata da disabilità può divenire capace di scegliere autonomamente e realizzare un proprio progetto esistenziale che la renda pienamente partecipe della vita comunitaria, se adeguatamente educata e socialmente supportata. Ci sono alcuni pregiudizi che, seppur inconsapevolmente, continuano a permanere tuttora (accostare la disabilità a malattia e debolezza, ad incapacità e immaturità) generando ostacoli al pieno realizzarsi del processo di inclusione. La condizione di persona presuppone non solo il possesso di uno statuto, di diritti e di doveri, ma anche l'assegnazione di ruoli sociali valorizzanti. La realtà della disabilità reclama sensibilità e competenze, prospettive e metodi di lavoro pluralisti, dialogo e confronto interdisciplinare. L’ICF sostiene che “la disabilità non è la caratteristica di un individuo ma piuttosto una complessa interazione di condizioni, molte delle quali sono create dall'ambiente sociale. La gestione del problema richiede azioni sociali ed è responsabilità collettiva della società implementare le modifiche ambientali necessarie per la piena partecipazione delle persone con disabilità in tutte le aree della vita sociale”. L’integrazione richiede “Un processo di inter-azione”, di azione tra più soggetti, in cui ciascuno è importante per l’altro ed è capace di concorrere alla visione- costruzione della realtà secondo forme nuove. Nella realtà italiana possiamo individuare alcuni dei possibili interventi e delle scelte che possono agevolare i processi culturali di inclusione: a. Guardare la disabilità come condizione universale e complessa, da affrontare nell’ambito dei diritti umani e civili, riconoscendo i possibili contributi al benessere generale della comunità, anziché continuare a considerarlo un problema di salute psicosociale. b. Implementare le politiche “umano-sociale” di solidarietà, di sussistenza, di riconoscimento e di coinvolgimento nei confronti di cittadini, al fine di realizzare maggiore consapevolezza e sintonia tra le esigenze dello Stato e dei cittadini. c. Curare la formazione di base e quella specialistica nei confronti dei diversi operatori di cura e di aiuto, sui temi dell’inclusione e dei bisogni ad esso correlati, siano essi professionisti sanitari, sociali, educatori...in modo che la contaminazione tra le specializzazioni possa generare un ambiente accogliente e una competenza diffusa di cui cittadini, disabili e non, necessitano. d. Potenziare il sistema integrato degli interventi e dei servizi educativi e sociali rivolti alle persone interessate da disabilità, attraverso la loro collocazione nella normativa rivolta alla generalità dei cittadini, piuttosto che in provvedimenti ad hoc, che rinforzano l’idea di separazione e di categoria speciale. e. Investire sulla progettazione integrata tra enti, servizi e operatori delle istituzioni e del privato sociale, in modo da superare le attuali difficoltà di comunicazione tra professionisti dell’aiuto. f. Progettare e realizzare ambienti, prodotti, sistemi comunicativi e tecnologici, mezzi di trasporto, che siano fruibili e utilizzabili da tutti, superando l’attuale logica discriminatoria dell’adattamento a posteriori. g. Richiedere ai professionisti dell’informazione una conoscenza adeguata delle problematiche della disabilità, per far sì che nelle comunicazioni pubbliche venga utilizzato un linguaggio appropriato anziché improprio rispetto a definizioni e concetti (spesso tramite il linguaggio scorretto si rischia di perpetuare gli stereotipi e false credenze o di rappresentare le situazioni e i fatti in modo non esatto).
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