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Percorsi DELL'AUTOBIOGRAFIA, Appunti di Pedagogia

riassunto libro "Percorsi dell'autobiografia".

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 12/10/2020

TeoF
TeoF 🇮🇹

4.3

(28)

41 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Percorsi DELL'AUTOBIOGRAFIA e più Appunti in PDF di Pedagogia solo su Docsity! PERCORSI DELL’AUTOBIOGRAFIA TRA MEMORIA E FORMAZIONE (Daniela Sarsini) (il libro si propone di spiegare: → La complessità della formazione come processo e come sapere di un processo. → Quali sono le problematiche della formazione nell’epoca postmoderna e postindustriale.) Prefazione L’autobiografia è importante per il suo potere esplicito sull’analisi e sulla comprensione delle condizioni che il soggetto postmoderno vive in relazione alla sua appartenenza di genere, di etnia, di classe, di cultura e di età. La metodologia autobiografica non è recente perché presente già nell’antichità sia come forma letteraria, sia come tecnica di riflessione e di autoanalisi ma è stato messo in evidenza più tardi il ruolo strutturante della narrazione nella costruzione del pensiero, della cultura e del discorso stesso. Benjamin, Ricoeur e Bruner → il racconto narrativo modella l’esperienza quotidiana, dà senso alle forme conoscitive in quanto gli oggetti, gli eventi e le persone sono collegati in una continuità coerente e organizzata, dà forma al pensiero e al linguaggio. L’attitudine narrativa si acquisisce sin da piccolissimi e la troviamo già costruita nella cultura di appartenenza anche se quotidianamente ognuno la re-inventa e la riscrive attraverso la conversazione, la giustificazione dell’inatteso, il riconoscimento dell’imprevisto, la rievocazione del passato e la prefigurazione del futuro. La nostra identità si costruisce sulle narrazioni che fanno gli altri di noi e che noi stessi elaboriamo tramite la narrazione di eventi, momenti di gioia o di sofferenza, di personaggi che ci hanno indirizzato e guidato nel nostro processo maturativo e formativo. Discipline che si sono occupate delle narrazioni → sociologia, antropologia, psicologia, storia, semiologia, linguistica, letteratura e pedagogia per la valenza formativa anzi doppiamente formativa: 1. lettura della storia 2. rilettura della propria storia formativa come ulteriore processo formativo. La metodologia autobiografica è messa in risalto perché considerata centrale in un percorso educativo e auto formativo in quanto capace di collegare in modo armonico e sinergico cultura e vissuto del soggetto e riguardante il concetto di cura che si dispiega in 3 direzioni: verso sé stesso, verso gli altri, o verso le cose del mondo. Il concetto della cura non è solo legato alle instabili precarietà e finitudine del soggetto che necessita custodia e cura ma è anche fonte del nostro divenire e il senso del nostro preoccuparsi di noi stessi quando ci affidiamo alla cura del nostro corpo, dei nostri pensieri, delle nostre azioni, modo di essere nei confronti del mondo, è un intervento formativo che ogni essere umano mette in atto per realizzare i propri bisogni. Per Cambi, il “doppio legame” si stabilisce tra cura di sé come formazione e autobiografia. Come precisa Mariani l’autobiografia presenta uno degli “instrumento vitae”, perché mette a fuoco un bisogno vitale dell’io, modello di ricerca dell’identità del soggetto che si pone in una posizione di comprensione e di ascolto nei confronti della propria interiorità. Allo stesso tempo per Mariani, la coscienza della nostra esistenza non si separa mai della consapevolezza che il nostro corpo ha dello spazio, del tempo, del mondo e dell’ambiente vitale perché il corpo esprime l’esistenza, esso manifesta la presenza o l’assenza del soggetto, il corpo detta le regole dell’esperienza dell’io (riguardo il sentito e percepito, detto, patito, agito e maturato). Con questo saggio la Sarsini cerca di sottolineare il ruolo che il corpo gioca all’interno dell’autobiografia; propone di mettere in luce quanto la carnalità dell’esperienza incida sulle reminiscenze autobiografiche nel discorso educativo nel riappropriarsi della propria verità interiore costretti a prendere coscienza del groviglio di sentimenti, di desideri e di passioni che svolgono nel corpo e attraverso il corpo la propria esistenza, riletta però in termini costruttivi e progettuali. Un altro aspetto che segna l’autobiografia come essendo pedagogica è l’idea di professionalità educativa e di formazione in età adulta che si lega alla riflessione sul proprio agire educativo per portarne alla luce pregiudizi, blocchi, credenze che nella narrazione vengono esplorati, riconosciuti e analizzati al fine di trasformare e orientare il proprio operare in forma consapevole e razionale. Come messo in evidenza nel saggio di Striano, la ricognizione autobiografica appare la via maestra per condurre l’adulto a valorizzare la propria pratica professionale e a comprenderla senza rinviarla a modelli generali o a ruoli sociali predefiniti ma centrando l’azione sul soggetto e la sua azione in un determinato contesto. In questa prospettiva l’adulto svolge il ruolo di attore e di spettatore del proprio operare, si confronta con altre letture interpretative, si scopre autore e protagonista delle procedure riflessive e auto-riflessive che mette in opera, risvegliando quel concetto di cura di sé e degli altri che caratterizza il percorso formativo. Demetrio attribuisce all’adultità come approdo a una formazione che sappia confrontarsi con le proprie memorie e con una consapevolezza di sé critica, aperta e problematica, nella quale la scrittura come la pittura conduce non a una strutturazione definitiva e veritiera del soggetto ma a una immagine di sé plurima e molteplice che si arricchisce di suggestioni che si traghettano verso altri sé e verso ulteriori comprensione del nostro itinerario formativo. Demetrio insiste sul carattere metacognitivo, coscienziale e introspettivo dell’autobiografia che attiva processi mentali ricchi, complessi e divergenti che hanno generato momenti di maggiore cambiamenti, restituire ricordi opalescenti che spesso rendono la realtà infedelmente vissuta e toccata ma che permettono di riconciliarsi attivando processi di ripescaggio fortemente generativo, euristici e creativi. La Benelli invece descrive le metodologie poi la scrittura autobiografica che si attiva e agisce nella formazione dei soggetti, prospettando la valenza emancipatoria e cognitiva come costruzione di un sapere e di un sapere che parte dall’esperienza dei laboratori autobiografici organizzati nell’ambito della formazione degli adulti e che si strutturano in termini intersoggettivi a dimostrazione del carattere collettivo e sociale dell’autobiografia che non è mai un ripiegamento interiore egoista ma rivolta agli altri, al mondo anche quando si protende all’ascolto dell’interiorità più intima. L’interesse pedagogico all’autobiografia è fonte di educazione all’esperienza nel presente che alimenta l’ancoraggio con il passato e con la scoperta di un’appartenenza che ci ricompone e proietta verso nuove esplorazioni e conoscenza. Il saggio di Boffo presenta alcune piste di lavoro da svolgere in classe che ruotano attorno al metodo della reminiscenza, dell’ascolto attivo e della cura verso la proprie emozioni, emozioni e passioni che indicano quanto l’autobiografia costituisca un delle competenze cognitivo-comportamentali. Per Marchesini, non esiste una frattura fra coscienza e altre funzioni neurali ma un continuo gioco di ricorsività cognitive, lontano della nostra consapevolezza. Per lui, tutte le nostre capacità razionali scaturiscono dalle appetenze dell’istinto, dall’attivazione dei siti neurali, da strutture somatosensoriali che escludono ogni forma di separazione con la natura organica e biologica, cosi non esiste una soglia tra mente e corpo perché è il corpo a fornire gli stimoli, le aspettative, le motivazioni insomma il registro delle nostre attività mentali. Il corpo si fa veicolo della memoria. La memoria autobiografica si nutre di significati e non di eventi specifici. Le autobiografie hanno una struttura, come un romanzo, con inizio, svolgimento e conclusione e procedono a balzi con cadute e riprese, cosi come ricordi affidati a sentimenti tempestosi, assenze dolorose, eventi traumatici a cavallo tra corpo e psiche perché è infatti nel corpo a corpo che si strutturano le attrazioni, le repulsioni, le attese, i desideri, le mancanze affettive e sessuali. È un gioco di rimandi continui tra corpo-oggetto e corpo-soggetto. Il corpo è anche ciò che ci rappresenta, è la nostra proiezione nel mondo, è parola, è racconto, è il porsi “fuori di sé”, da ingresso a insoddisfazioni, sdoppiamento nei confronti di ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere. Il valore del corpo si lega in una continuità identitaria pure nella temporalità del suo divenire e ciò dà senso di appartenenza, autenticità, individualità. In conclusione, il corpo attraverso il ricordo delle esperienze vissute e patite, si arricchisce e si forma, mette in atto un nuovo sapere estetico e cognitivo insieme. 3. Una galleria di modello Sant’Agostino d’Ippona Nelle sue confessioni del 300 d.C., Agostino parla delle devastazioni della carne ed emerge il carattere strutturante dell’Agostino narrante, dell’Agostino narrato e in quello ritrovato attraverso il doloroso scandaglio introspettivo. Agostino nel ripercorrere la propria vita, per sé ma anche ma anche per indicare al lettore o all’ascoltatore una via formativa, presenta i molti piani dell’io nel loro continuo farsi e disfarsi il cui approdo è l’ascesa verso l’uno della coscienza rischiarata del trascendente. La carne è la protagonista indiscussa delle Confessioni sia nel momento in cui Agostino parla di sé sia quando si appella alla divinità. Il corpo per Agostino, sulla scia di Platone, è “corpo-prigione”. Infine, nel ricostruire i passaggi della sua conversione, Agostino attiva il percorso interpretativo che mette a fuoco il processo di scambio tra il soggetto, l’oggetto e la soggettività ritrovata che si saldano proprio negli eventi della malattia, nella cupidigia della carne e degli occhi, nelle circostanze del lutto per la morte dell’amico o della madre Monica. Cosi quando sperimenta il dolore della morte dell’amico come il venir meno di una parte di sé e quella della madre come un evento lacerante che esprime attraverso il pianto incontrollato. Jean-Jacques Rousseau Di tutt’altro tenore sono le confessioni di Rousseau nel 700, nate con l’intento “di rendere trasparente la mia anima agli occhi del lettore”, di dire tutto di sé senza nascondimenti o scopi apologetici per mettere a nudo le molte dimensioni dell’io. Diversamente da Agostino dove l’Io-narrante ritesse le vicissitudini dell’io-vissuto di fronte a uno Io-coscienza-Dio, Rousseau è l’Io che si pone come interprete e giudice di sé stesso e si pone come garante della veracità e della narrazione, è l’io che si dispone alla sincerità per rendere giustizia al Rousseau pubblico troppo sovente frainteso. Con Rousseau inaugura quella che Cambi chiama “l’autobiografia laica” che si edifica tra “il tutto sapere” e il sé narrante che ha bisogno di verità. Il suo comportamento ardentissimo si accompagna di una salute malferma che indebolisce la natura imputabile alla sua consuetudine con le passioni per le donne, per la musica, per i viaggi, per le passeggiate, per le letture ed è grazie all’infermità del corpo che le passioni si placano e comincia quel esito felice alla campagna. Infine, conclude che la sua natura combustibile e nello stesso tempo timida con stati di continua irritazione e deprivazione lo rende spossato delle malattie stesse, anzi gli procura l’ennesima malattia che lo porterà alla tomba. Vittorio Alfieri Altra celebre autobiografia del 700 quella di Alfieri. La sua vita è fatta di grandi viaggi, della frequentazione delle corti europee, di alternanze di stati di animo che ben manifestano il carattere irrequieto e ardente dell’autore quale pure aderendo ad un’immagine di sé forte e virile mostra una sensibilità tutta romantica alle proprie vibrazioni interiori. Le sue passioni per le donne, la lettura e i cavalli è segnata assai spesso da momenti di crisi di fragilità e timidezze che si manifestano in tutta evidenza nel corpo. Fin da piccolo è soggetto di scherni da parte dei compagni per quella gracilità del corpo e la sua salute fragile che gli fanno meritare il nome di “carogna fradicia” che lo spinge ad essere sempre più solitario. Gli studi giuridici noiosi e l’umore viscoso e fetente gli procurano dispetti fisici con perdita totale dei capelli e ciò gli ricorda l’onta subita nella prima infanzia quando per castigo ebbe dovuto uscire con la reticella da notte sul capo, episodio che lo rese avverso ad ogni forma di bugia. Il gonfiore all’occhio sinistro mentre si esercita militarmente fu percepita dall’autore come segno di virilità portandolo nella memoria corporea ai valori della forza, del dovere e del coraggio. Diverse sono i momenti narrativi dove la dimensione corporea si manifesta in tutta la sua mutevolezza in consonanze con le diverse identità assunte dall’autore. I comportamenti fisici stanno a dimostrare quanto il corpo scandisca con il suo dinamismo biologico anche se spesso non solo gli eventi narrati ma persino le posizioni morali, sociali e intellettive. Infatti, come lo sottolinea Mariani “il corpo è theatrum memoriae” ovvero IL repertorio di storie. Marcel Proust Nel suo modello autobiografico Proust lega la dimensione corporea a quella autobiografica come interpretazione narrativa del soggetto e come capacità di penetrazione nelle sue strutture più profonde. Proust affida alla nozione del tempo incorporato, il metodo e lo strumento per iscrivere la propria vita. Il tempo incorporato è: 1. il tempo degli anni passati come non separati da noi (come segni che la persona porta sul volto come “lunghezza degli anni”) 2. è anche il fluire del tempo come avvenimenti riemersi alla coscienza attraverso un lavoro di scavo, di rielaborazione, comprensione. Un odore, un sapore, un colore possono avere il potere di rievocare un piacere identico nel presente e nel passato. Le impressioni possono contenere manifestazioni in gesti di gioia o di dolore, desideri cancellati o vissuti che possono però anche rimanere in letargo senza mai segnare una discontinuità con i tratti fondamentali della natura. E l’impressione pure misera è criterio di verità potere dell’intelligenza è relegato dall’intelligenza stessa. L’intelligenza è la virtù messa al secondo posto lasciando il primo all’istinto che detta “il compito” mentre l’intelligenza fornisce i pretesti per eluderlo. L’intelligenza è legata alla sfera dell’utile immediato, è capace di dare colori alle impressioni che la Nostra memoria ha provato in passato. Cosi Proust per attingere alla verità “ricreata” si affida alle intermittenze del cuore e alla sensazione che solo la memoria involontaria fa filtrare, cioè quelle sensazioni che nel momento permettono al passato di restituire la sua vera essenza garantendo anche la ricostruzione dell’unità dell’io, che è unità durevole solo grazie al potere narrativo sociologico e corporeo della memoria legato ai 5 sensi. Sibilla Aleramo, Ada Negri, Banana Yoshimoto, Yukio Mishima Il 900 è il secolo che pone maggiormente l’accento sul corpo valorizzandolo e liberandolo in tutti i suoi aspetti, mettendo in evidenza quanto il corpo sia uno degli strumenti più efficaci e versatili di manipolazione e di correzione nel mutamento di ogni soggetto. Allo stesso tempo, la narrazione autobiografica si afferma in questo secolo con tutta la sua forza e la sua pregnanza sia in forma letteraria, sia come ritratto storico, biologico e culturale del soggetto e del suo progetto formativo. In Italia: la Aleramo e la Negri sono significative per l’espressione di mutamenti culturali e sociali del 900 e hanno rivelato quel bisogno di comprendersi e di ripercorrere il “tempo vissuto” attraverso la rievocazione delle esperienze quotidiane come bisogno di recuperare stato d’animo, intenzionalità, desideri, frustrazioni e sofferenze subite nel corso della vita. Il punto in comune in queste due autobiografie è il bisogno di trovare un senso di continuità, una forma di coerenza tra le istanze interiori e quelle sociali esterne che paiono opporsi, in un primo momento, ai desideri più intimi. Sembra che emerga un’istanza emancipatrice e liberatoria che si avvia a partire dal riconoscimento della propria identità femminile che indica a una prima coscienza del proprio corpo e del corpo altrui. Sibilla Aleramo → 2 sono i punti che segnano la sua vita: – l’immagine della mamma dopo un tentativo di suicidio – lo stupro subito nell’età adolescenziale. Ella utilizza una descrizione corporea dei sentimenti provati dove esistono tutti i ricordi corporei dell’infanzia. In Ada Negri, la cui autobiografia è ambientata sulle prime esperienze di formazione e si svolge alla terza persona, i ricordi assumono il ruolo della memoria involontaria nella costruzione della sua identità. In Giappone: La Yoshimoto e Mishima sono i 2 autori che abbiamo considerato per illuminare quanto l’autobiografia in un primo tempo coinvolga l’esperienza corporea per poi più indagare le forme di regolamentazione e di trasgressione del soggetto-corpo. La cultura giapponese è caratterizzata da un’attenzione particolare e quasi ossessiva all’educazione corporea, intensa in senso prevalentemente sociale e collettivo. Il corpo è percepito come strumento di conoscenza e di comprensione del mondo ma anche come mezzo di conformazione e di esaltazione delle individualità collettive in funzione delle istanze religiose e statali. La cura del corpo, igienica ed estetica, è sempre stata oggetto di riflessione e di ricerca personale ma anche per conoscere i limiti individuali e per sviluppare una maggiore armonia con il mondo riconoscendo alla relazione con l’altro la struttura fondante di ogni atto conoscitivo. La dimensione intersoggettiva e universale che viene data alla sensibilità percettiva nella cultura giapponese rilevano una particolare visione del mondo e un modo di comportarsi che hanno ricadute pedagogiche anche sulla nostra cultura occidentale per vari motivi: 1/ ci riportano ad una concezione semantica del corpo, molteplice e complessa che si differenza ed evolve in rapporto ai mutamenti fisici, spazio-temporali e formativi 2/ perché la pratica conoscitiva attraverso la “vita del corpo” riconduce il soggetto ad un contatto più profondo con la dimensione interiore, dando luogo ad una pratica di autocoscienza e di ascolto estremamente sottile e suggestiva. Banana Yoshimoto → “Il corpo sa tutto” riassume 13 brevi racconti che mostrano quanto sia il corpo a scandire gli eventi della nostra esistenza e quanto siano carnali le nostre memorie. Tutte le cose le possiamo sentire nel nostro corpo perché in definitiva il corpo sa tutto e il suo linguaggio è cosi vitale perché proviene dal fondo del cuore. Yukio Mishima → “Confessioni di una maschera”, opera nella quale l’autore ci mostra la condizione crudele e dolorosa di una sessualità costantemente negata e la fantasie di violenze e di perversioni che tale negazione comporta. Esprime con molta intensità “il malessere strano e misterioso” di diventare adulti e il senso di inquietudine e di disagio che accompagna il percorso di formazione in una società provata dalla guerra e dalle morti. E’ interessante confrontare nei 2 testi giapponesi la riappropriazione del corpo, in tutti e due palesano un forte bisogno di travalicare confini di ogni ordinaria libertà opponendosi a una riconfigurazione sensoriale che vorrebbe svincolare il corpo da ogni necessità organica. I lavori dei 2 autori paiono significativi in quanto indicano quanto l’autobiografia riesca a fare parlare della cultura contemporanea e fondano un genere letterario/psicologico che fissano un metodo come modello di svolta nella scrittura dell’io. Dopo Rousseau il modello di scrittura è esploso in forme diverse e in classi sociali diverse dando cosi vita a una costellazione di scritture autobiografiche che occupano a tutt’oggi il proscenio del fare letteratura con scritture narrative (es. Calvino) e del fare- cura psicologica e/o di conoscenza del proprio sé (es. Pieve Santo Stefano). Nell’autobiografia, il soggetto si legge come processo, si incardina sulla costruzione, si orienta sul progetto e distilla una direzione di senso. La scrittura lavora intorno al senso e al non senso. L’autobiografia è retrospettiva e in quanto tale rilegge i percorsi e ne tratteggia la direzione con atto formativo che diventa doppia ovvero fissare il processo dell’io come sé e dell’io che si fa sé (essere e il divenire). l’autobiografia è formazione in quanto espressione massima della cura che il soggetto possa porre a sé stesso e dell’atto stesso del prendersi cura. 3. Scritture autobiografiche e paradigmi formativi Fare autobiografia è: – riaccendere la memoria che, in quanto selettiva, mostra una propria struttura e dimensione (ricostruzione) – fissare eventi come segni (interpretazione); – indicare via via un senso come orientamento, un prendere coscienza di una direzione (costruzione). Nell’autobiografia si è al contempo attore e spettatore, il soggetto in quel processo ha un duplice ruolo ma il secondo potenzia e “doppia” il primo, il soggetto si fa specchio di sé stesso ma specchio che deforma, che dà forma e ri-genera, che cambia (formazione-deformazione). Immanenti al percorso autobiografico sono un bisogno, un focus, un traguardo pedagogico e quindi si può dire che l’autobiografia è un percorso formativo, esperienza di formazione, modellizzazione rieducativa di sé ma anche ritorno al passato, evasione da sé, coltivazione narcisistica, esercizio letterario… Non è mai una tappa ultima ma una centrale e decisiva. E’ una trasformazione della propria individualità. Messa in evidenza di 3 autobiografie: Sant’Agostino, J. J. Rousseau, M. Proust In questi 3 attori si apre l’iter della redenzione, della salvazione ovvero un ri- orientamento radicale e totale dell’io, con vocazione, tensione, identità formativa con l’esito in Dio, con l’esito in sé. *Agostino → triangolazione con la coscienza e Dio che produce l’iter pedagogico. C’è un cuore pedagogico. L’autobiografia agostiniana si sviluppa attraverso: – l’esercizio della memoria (egli parla e scandaglia il proprio io empirico), – il riconoscimento dei segni (il “tolle et lege”), – la costruzione del senso (Dio illumina la sua coscienza, la orienta e la proietta sul vissuto e sul da-vivere). Le “confessiones” sono il quaderno di una trasformazione-in presa-diretta: sviluppo drammatico, tensionalità, cadute e riprese, disporsi al possibile fallimento, attivazione della speranza ma anche conquista di sé, nuovo sé, gestito come per sé come compito. *J. J. Rousseau → nella stessa via di Agostino ma in forma laicizzata. Anche egli si sdoppia ma tra io e coscienza, il terzo non è Dio ma la società e questa non illumina ma fa degenerare. E’ contro la società che egli scrive le sue confessioni e che si va alla ricerca del vero sé. E’ la coscienza a svolgere il compito e a subire il travaglio, è la voce divina. Anche qui, gli stessi 3 elementi si legano strettamente nel testo e formano il tessuto di un percorso: ovvero la memoria (selettiva che orienta e orientante che produce avvio di senso), segni (che guidano sono la figura di Maman, l’amicizia, la rivelazione sulla via di Vincennes, la musica) e senso (sincerità, denudamento interiore, affermare l’innocenza del proprio io profondo. *M. Proust → con lui, il quadro si complica ma resta identico. Si sofistica, l’io si fa un altro io. La memoria cambia volto e identità alla cose (gli amori). Si interroga su sé stesso e sul rifiorire “involontario” che produce i segni su cui si costruiscono poi altri segni e cresce il peso dell’interpretazione che alla fine produce il senso. E il senso è solo il gioco illuminante dell’interpretazione che si dispiega su tutto il vissuto (il “tempo perduto”) e lo fa ritrovare salvandolo. E’ il contemplare stesso che salva, fare di sé una forma è un’opera d’arte, è una redenzione con nuovo tempo e nuovo io. 4. Come “cura” l’autobiografia? L’autobiografia viene indicata come via di cura e la cura è diagnosi e terapia, è farmaco. Diagnosi → disseziona il soggetto il suo vissuto, i suoi ruoli, il suo tempo perduto e lo fa con decisione, insistenza, sforzo obiettivo. Fra malattie, disturbi, resistenze, operando una semiotica del vissuto. Terapia → rileggendo, dà identità, produce il senso, ri-orienta e quindi salva. Produce nuova salute dopo la malattia. Farmaco → racchiude in sé gli antidoti, gli anticorpi, è cura omeopatica e allopatica insieme. Nell’autobiografia c’è però un altro significato di cura più pedagogico ovvero il prendersi cura (si pensi ai seminari all’università dell’autobiografia di Anghiari). Alla base di questo percorso autobiografico sta sempre il bisogno pratico e l’orientamento mentale del “prendersi cura”. Tornare sul proprio percorso di vita, attivare la memoria e stimolarla, mettere ordine tra gli eventi, dare loro una direzione, un senso. Tutto questo è atto di cura, di conoscenza e di riprogettazione e di comprensione (comprendersi è seguire i propri “meandri” interiori, fissare le proprie dialettiche interiori ed esperienziali, vitali, sociali mettere in luce un progetto di sé). Cosi si da corpo a un altro sé, a una prospettiva diversa (più consapevole, più organica, più critica del proprio sé). Si opera una trasformazione. La cura è interpretazione, è trasformazione umana. Questo prendersi cura deve però anche essere assunto all’interno delle istituzioni /agenzie educative per formatori, educatori sottolineando ancora una volta il lato pedagogico dell’autobiografia nonché il suo valore formativo. L’autobiografia come pratica di cura ha la valenza di: – abituare il soggetto ad ascoltare se stesso e da lì l’altro – definire attraverso gli eventi un senso, – gestire poi il senso dato in modo consapevole, critico; aperto e responsabile, – dare al processo formativo un traguardo personale e vissuto intenzionale. L’autobiografia quindi: a) cura il soggetto b) fissa il paradigma del prendere in cura c) si dispone in pratica formativa in tutte le professioni educative e non solo poiché libera il soggetto permettendogli di pensare svincolato da pregiudizi d) fissa il dispositivo stesso della cura, che è fatto di ascolto e di dialogo ma anche di auto-trascendenza di intenzionalità, di scommessa sul futuro, di rinnovamento, di rinascita interiore. La forma educativa e ri-educativa dell’autobiografia è oggi ben sottolineata da tutta una gamma di studi, restituendo al paradigma della “cura sui” un valore epocale e universale perché è essa che fa l’uomo, l’uomo umano affermandolo come fattore della propria identità. Con la cura di sé, l’autobiografia ci rimanda direttamente alla problematica dell’educare con il primato del formare/formarsi ma sempre con scarti, zone d’opacità, resistenze e ci vincola a pensare tale processo come configurarsi oggettivo e fissarsi nella coscienza. Operando cosi tra pedagogia e autobiografia una sorta di “doppio legame”. 5. Sul “doppio legame” e la “cura dell’anima” Tra pedagogia e autobiografia corre un doppio legame con il passaggio dall’uno all’altro. Tutto questo ricolloca l’autobiografia in quel percorso interiore del costituirsi come persone. L’autobiografia si colloca in una funzione di “cura dell’anima” che è la frontiera della formazione spirituale, che è il focus della pedagogia. Attraverso l’autobiografia il sapere si fa interiorità, nesso tra “essere” e “vita”, il soggetto si fa persona, sempre più persona. L’autobiografia ha una funzione medicinale, cura, risveglia gli anticorpi, dà supporto e fa terapia. Il doppio legame dell’autobiografia è che è si comunicativa perché da un messaggio ad un interlocutore ma è altresì auto comunicativa perché permette all’anima di venire alla luce. L’autobiografia non produce filosofia ma saggezza. Cap. 3 La formazione estetica nell’autobiografia. Scrittura e sguardi su di sé 1. La competenza autobiografica: ragioni di un interesse Da quando ha subito recentemente una rivalutazione in ambiento educativo, il genere narrativo autobiografico non cessa di aprirsi a nuove analisi, di avere consensi unanimi sia a livello teorico, sia a livello pratico. La scrittura è un atto maieutico che richiede 2 cose: 1. la conoscenza di sé 2. la modalità per arrivarci. Per i pedagogisti, ciò può avvenire attraverso strategie e tecniche quali riaffezionarsi a se stesso (indulgenza, tranquillo, sereno e coraggioso) e al proprio passato, nonché una attività di carattere metacognitiva, autoriflessiva, coscienziale e introspettiva. Sia l’autobiografia, sia l’autoritratto sono opere che parlano di sé. Nell’autobiografia, ciò che interessa al pedagogista è mostrare quali sono i passaggi esistenziali che contrassegnano la formazione dell’identità umana. Nell’autoritratto, ciò che interessa il pedagogista è il lavoro mentale che gli autobiografi compiono per raccontarsi, per spiegare chi sono e cosa si aspettano della vita. Requisito → buon rapporto con se stesso e con la propria memoria, abilità del racconto autologico. Strumenti → agende, diario, appunti, contatti narrativi online (capaci di fermare i ricordi). Due sono le questioni pedagogiche da mettere a fuoco: a) l’importanza di considerare la vita, anzi una vita alla volta (esperienza, maestri, eventi apicali amorosi o dolorosi che fanno crescere), b) l’attività mentale indispensabile alla sua rappresentazione giorno dopo giorno (bilancio esistenziale che portano alla scrittura autobiografica o altre narrazioni). somigliano. Ci iniziamo al fascino della pedagogia dell’immaginario di sé sia al passato che al presente-futuro. Chi ha cercato di scrivere lo ha fatto nella concretezza della tela o del libro per riconciliarsi con il proprio doppio, di non avere più paura di vivere con sensi di colpa. La capacità di sopportare la divisione, il dualismo si esercita laddove con la tecnologia di sdoppiamento da noi indicata, la scissione e non solo sopportabile ma feconda e generativa. Pertanto la scrittura e la pittura di un duplicato impossibile, bensì una rappresentazione altra di sé arricchisce la mente e genera alterità ovvero oggettività, il non-io. Se la pedagogia è una dimensione dell’estetica, la produzione di immagini mentali, di scritture, di figure diventa una via indispensabile allo scopo di evitare ogni rischio di frattura Nell’autobiografia, come nell’autoritratto, nell’innocenza degli autori, la verità nasce dalle profondità di una mente che per prima cosa venne inventata dissimulando il reale cosi leggendo di qualcuno o ammirandone il ritratto, questa falsa verità ci consente di accedere timidamente a una verità ben più complessa. La finzione serve alla ricerca dell’originale al confronto, all’impegno della mente che non si trova nei mondi metafisici ma nei fenomeni i quali sono apparenze, imitazioni, riflessi della realtà. La mimesis è l’arte di imitare il modello ideale o naturale, è un’antica tecnologia pedagogica. Non significa soltanto imitare ma anche rendere somigliante. L’uomo per comunicare utilizza segni e simboli e l’artista ma chiunque con l’aiuto della mimesis cerca il nuovo e conduce l’altro attraverso l’opera ad un ampliamento del concetto di realtà. In questo modo la realtà si intride di illusorietà. Chi fa mimesis, non fa imitazione della realtà ma imitazione già operata dall’occhio e dal pensiero. La mano che scrive, dipinge o disegna porta all’estremo l’illusorietà fino a creare un’altra realtà, quella che il pensiero umano cerca di spiegare qualcosa. 5. Educare alla virtù dell’apparenza: una pedagogia della cautela L’illusorio porta a un altra illusorietà in una catena di giochi discorsivi e riflessivi tendenti non alla perfezione ma all’invenzione perenne. Idealismo → diverso dall’illusorio perché cerca di costringere le idee della realtà al proprio interno Illusorio → tutto diventa relativo e incorporeo, trasparente e inconsistente, incostante celandosi sotto le apparenze dalla coscienza funzionale. Esercitare alle pratiche autobiografiche e autoritrattistiche equivale a iniziarsi e a consolidare quanto è carattere distintivo della specie umana, non l’unione ma bensì la trasformazione del sé e la separazione autobiografica. Educa alla cautela, alla prudenza, al rispetto, al pensiero antisostanziale. Secondo Freud, la scrittura è strumento prezioso di riparazione di una psiche in frantumi in quanto quando scriviamo oltrepassiamo l’esistente, ci traghettiamo per vivere meglio, sognando, progettando un mondo migliore, con la speranza di poter essere diversi. Occorre imparare a mimare tante cose per scoprirsi altri. La teoria della mimesis si espone ad un’analisi di carattere artistico. Si contrappongono i pensiero tra Platone che condanna il piacere che traiamo dall’amore per le immagini dipinte e vede la mimesis come l’immagine di un’immagine ovvero la copia degradata dalla realtà e Aristotele che invece ammette e genera altre riflessioni sul piano pedagogico. Platone ha ragione, non inseguiamo immagini senza scopo ma anche Aristotele ha ragione questo inseguimento può trovare dimora soltanto nell’empiricità dell’estetica dei sensi, alla poetica della catarsi derivante da questa scoperta. Se manca il momento capace di generare sensibilità, l’educazione sarà incapace di formare al possibile, all’eventuale, all’ipotetico. Il messaggio è allora di non attenere mai al lavoro, alla verità del maestro, le sue sono soltanto suggestioni, il vero lavoro lo si può condurre soltanto discutendo delle stesse verità, svelandone la temporaneità, l’intima mutevolezza. Non possiamo pretendere di svelare alcune realtà, muta il modo di accostarsi agli altri, al sapere, a se stessi in quanto educatori sempre discreti. Dalla pedagogia dell’inconsistenza (dell’illusorietà) nasce un modo di stabilire le relazioni e la comunicazione tra gli umani, con la natura e con le stesse idee, cosi ci rende più cauti, prudenti, leggeri ed ironici. Le apparenze comunicano fra loro come fantasmata e il maestro è consapevole che quando insegna è un simulacro. Platone condanna proprio i creatori di fantasmata perché crede nell’unica verità dei modelli, l’educatore diafano si avvale invece dei modelli e delle illusioni che sono l’unica verità ontologica. Chi dipinge se stesso o chi scrive di se stesso non imita la propria fisicità o la proprie storia, ne inventa nella seconda o nella prima manifestazione una nuova aggiungendo apparenze, finzioni e illusione. Il rapporto con le cose a questo punto diventa fittizio, la pittura come la scrittura se hanno il compito di rammentarci l’illusorio, possono abbandonarsi nel tentativo di cogliere l’invisibile. Il dipinto e il testo autobiografico sono traccia non di un’interiorità psicologica del soggetto che cerca la propria forma ma della manifestazione dell’illusorio che è il vero segreto, la vera libertà e grandezza di ciascuno di noi, enfatizzano la somiglianza all’originale che cerca di giustificare la propria esistenza. Se si persegue questo scopo altro non si realizzerà che ulteriore apparenza che avrà all’inizio tutto della bellezza estetica con mille rinvii della continua interpretazione aperta. Cap. 4 Autobiografia e coscienza della corporeità 1. L’auto-bio-grafia come dispositivo pedagogico L’autobiografia quasi sempre è vista come il compimento remoto con il divenire futuro, quasi sempre contenitore di turbamenti e incertezze. Si rivela come un sistema di accorpamento e di sintesi della costituzione morale del sé in grado di unificare. Il racconto autobiografico si presenta con le caratteristiche dell’invenzione letteraria, capace di disgiungere l’io che sta raccontando dell’io di cui si racconta. Il dispositivo autobiografico scandaglia il sé per leggere il suo ruolo nel mondo, il suo essere per scelta o per necessità, il suo vivere. Tra i molti strumenta vitae, l’autobiografia va alla ricerca di un modello di sé, di una propria immagine per non disperdersi come identità. La centratura sul soggetto nel racconto di sé fissa un io multiplo e unitario che abita nella dialettica che è plurale. Raccontarsi diventa una risposta al bisogno di assegnare, evidenziare la propria forma, spiegare l’itinerario della propria vita, elaborare e costruire la propria identità, formalizzare il proprio vissuto, raccogliere e organizzare l’immagine di sé, esercitare il pensiero attivando le abilità cognitive ed emotive, sviluppare il piacere dell’interrogazione, della sfida, della riflessione, del dubbio, porre in relazione la capacità diagnostica della scrittura con la sua reale efficacia terapeutica, salvare dentro di noi la vita, il pensiero, il corpo. Tutti frammenti lacunosi questi da presidiare attraverso la “cura di sé”, la tecnica della memoria, la sofistica della rievocazione, il metodo formativo. L’autobiografia rappresenta un esempio significativo che va dalla scrittura di “gente comune” a: → Proust che fa dell’autobiografia il “varco per dire il mondo e coglierne il senso” → Sant’Agostino con la sua scoperta del “genere confessione” → Montaigne che pone lo studio al centro del saggismo → Rousseau che coglie attraverso l’autobiografia la nostra precarietà e la nostra incertezza → Gide nell’autobiografia smaschera le “pulsioni originarie” dell’io. All’interno dell’ambito pedagogico, l’autobiografia può essere definita come un vero e proprio genere di scrittura che permette al soggetto di produrre una ricostruzione significativa degli eventi vissuti nell’ambito di un doppio processo in cui il narrarsi si unisce col formarsi. Il dispositivo autobiografico attiva narrazione in cui gli eventi assumono un ruolo cruciale. Il compito della narrazione non è una trascrizione fedele dei fatti accaduti ma risulta, dopo una decisione sulle strategia di racconto, un’opera di convenzione piuttosto che un resoconti di eventi reali. L’autobiografia può essere intesa sia come interrogazione sull’identità propria, come travaglio individuale, come auscultazione dell’io ma anche come assunzione del proprio sé, come rielaborazione di una traiettoria di senso, come cassa di risonanza del foro interiore, come dispositivo di amplificazione della soggettività. L’autobiografia può essere assunto come metodo formativo per genere, stile, itinerario e modello per una pedagogia che analizza l’educare e il formare oltre i vincoli del sociale e del politico, per interpretarli sulla base dell’esperienza del soggetto- individuo-persona. Ne risulta una pratica “doppia” dunque di tipo analitico-critico e critico-ermeneutico che mette a fuoco tanto il bisogno dell’io quanto uno strumento di ricerca dell’identità come pure un modello di un progetto su-di-sé. L’autobiografia rappresenta quindi un stemma formativo che è necessario sottrarre alle derive della pragmatizzazione, della miniaturizzazione e del narcisismo per ripensarlo in tutto il suo valore/significato pedagogico. Interessanti sono i legami che emergono da una ri- lettura dell’autobiografia e dei suoi metodi che viene rappresentato dal legame tra il narrarsi e il formarsi. L’autobiografia è formazione perché scrivere di sé implica l’attivazione di un processo di formazione in grado di produrre una netta saldatura tra interpretazione, scrittura e costruzione di sé. Un metodo formativo che ci rimanda ad una lettura assai efficace del processo autobiografico per cogliere la storia, le dinamiche, gli approdi, il senso, il travaglio, l’attualità. La pedagogia autobiografica si colloca alla quota di una filosofia dell’educazione di grandi ascendenze culturali e storiche e si pone al servizio di un’educazione pratica che ponga i soggetti a centro motore di ogni processo formativo, prendendo cosi le distanze da oggi pedagogia istituzionalizzata, funzionalistica, sociologica, ideologica, economicistica… Cosi, la scrittura di sé diviene una condizione fondamentale per determinare la condizione dei fatti, degli eventi, dei fenomeni mediante ri-costruzione filologica del loro vissuto all’interno di una visione autobiografica. Il movimento di interiorizzazione salvaguarda dentro di noi il pensiero, il corpo, la voce, il volto e l’anima dell’altro ma lo fa sotto la forma di hypomnemata (taccuini nell’antichità), segni, simboli, memoranda, immagini, rappresentazioni mnestiche, frammenti lacunosi da vagliare attraverso l’arte della memoria, la sofistica della rievocazione, la tecnica dell’interpretazione. L’approccio autobiografico coinvolge l’essere nel passaggio dell’identità ontologica dell’io alla funzione performativa dell’altro. L’autobiografia non è solo un fatto narcisistico, è una testimonianza antichissima, l’arte dell’ereditarietà che ci appartiene da migliaia di anni, rispecchiamento dell’identità, sempre orientata nella sua mutevolezza alla ricerca del tempo perduto. riesce ad arrivare, esistono il tono della voce, il movimento del corpo e non a caso le difficoltà di apprendimento nascono da una mancata riposta ai messaggi del corpo, da una scarsa sensibilità nei confronti dei canali che possono essere ricondotti alle classiche categorie della logica linguistico-matematica. Lo sviluppo della conoscenza di sé, legato alla capacità di tenere insieme, non può essere affidato alla solitudine del travaglio personale, al mito dell’autoconsapevolezza, della volontà individuale, soprattutto quando nel suo farsi si evocano situazioni conflittuali. La conoscenza di sé e la conoscenza dell’altro sono irriducibilmente interdipendenti: la costruzione della nostra identità dipende dalle immagini di noi stessi che gli altri ci rinviano e viceversa. Nelle relazioni adulto questo processo passa attraverso il linguaggio della riflessione e della comunicazione verbale. Nel lavoro con i bambini e ragazzi si impone il bisogno di attivare linguaggi più coinvolgenti capace di renderlo più comunicativo. La scuola deve comunque guardare al funzionamento delle qualità espressive peculiari dei vari canali comunicativi, quanto al trasferimento dei contenuti di sé da un canale all’altro per rilasciare processi di autoriflessività altrimenti compromessi. Le conoscenze intorno al corpo e alla mente che quotidianamente si trasmettono a scuola riguardano perlopiù un corpo e una mente resi da subito oggetti. Occorre ritrovare il modo di mettere in scena il corpo e la mente viventi, soggettivi, vissuti. Necessario è pensare a una didattica coinvolgente, capace di mettere gli alunni nelle condizioni di sperimentare l’esperienza corporea in quanto siamo innanzitutto corporeità e ci rappresentiamo attraverso il corpo. Il descrivere i ricordi di casa si fa con il ricordo dei volti e dei corpi che ci hanno generato, abbracciato, punito, accarezzato, circondato… Tutti i corpi hanno una posa diversa che abbiamo conosciuto e frequentato e di cui abbiamo sentito parlare. La memoria non è separabile dalla percezione della corporeità, essa nasce dal movimento che intercorre tra sedimentazione (continuità) e innovazione (discontinuità). Il corpo diventa theatrum memoriae, repertorio di segni, di storie, di cicatrici e nella costruzione della significazione con un piano espressivo di origine estero-recettivo e un piano del contenuto di origine intero-cettivo. Coscienza corporea e reminiscenza costituiscono un’unità combinatoria, recettiva e creativa, svolta da un circuito cognitivo e immaginativo. L’autobiografia ci pone di fronte ad una effettiva propriocettività che collega l’io al mondo. 4. Il corpo tra parole e immagini: postille pedagogiche → 2 itinerari formativi, notevoli per la loro audacia pedagogica e la loro esemplarità didattica: a) il corpo “narrato”: occasione proficua per riflettere attorno al nesso tra narrazione, anche di sé, corporeità, esistenza. I grandi classici (autobiografie di Sant’Agostino, Montaigne, Rousseu, Proust…) ma anche in tempi più recenti (Gide, Mishima, Gibson, Banks, Fusini, Maraini, Covito, Pontiggia, Yoshimoto, Grossman, Scarpa…) possiamo rintracciare notevoli punti di riferimento in grado di veicolare attraverso la letteratura una serie di indicazioni/suggestioni attorno all’esperienza corporea. La narrazione della corporeità è centrale nella letteratura contemporanea: – André Gide “Se il grano non muore” (1920-1924) presenta delle situazioni contraddittorie e dei sentimenti ambigui, è uno sguardo sulle dinamiche del passato che testimoniano le pulsioni originarie dell’io al di là delle maschere e delle apparenze cominciando da momenti dell’infanzia (figura imperiosa della madre, rivivendo con incredibile naturalezza le emozioni legate ai ricordi con memoria sentimentale, prime crisi nervose, disagi in collegio, legame con la madre sempre più forte, soggiorno con amici in Africa, l’orientamento sessuale). – Yukio Mishima “Confessioni di una maschera” (1949), opera dolce, crudele, struggente dove l’autore ripercorre l’infanzia e l’adolescenza fino ai primi anni dell’età adulta segnata dall’impossibilità di realizzarsi in rassicurante “normalità”. – William Gibson “Neuromante”(1984), presenta il mondo della finanza e dell’elettronica, un mondo attraversato da autostrade informatiche e hacker. – Ian M. Bank “Corpo a corpo” (1986), parla della dimensione immateriale di un cervello imprigionato in un corpo ferito da un incidente (ripescato dalle acque dopo un incidente). – Nadia Fusini “La bocca più di tutto mi piaceva” (1996), ella affronta il problema dell’inedia volontaria, una storia fatta di ricordi e memorie (bambina selvatica e riottosa, l’amore per il padre, l’attrazione per la morte…). – Dacia Maraini “Un clandestino a bordo” (1996), affronta il linguaggio dei giovani corpi femminili (perdita e nascita dei figli, maternità, aborto, significati mitologici, erotici, mercantile del corpo femminile, linguaggio della seduzione, la violenza, lo stupro, la prostituzione, il piacere, il senso di colpo, la verginità, il matrimonio…). – Carmen Covito “Benvenuti in questo ambiente” (1997), racconta di un giovane immigrato che scopre la figura di una madre (che non ha mai avuto) attraverso un computer. – Giuseppe Pontiggia “Nati due volte” (2000), riflessioni sul concetto di malattia e di normalità, qualcosa succede in una famiglia quando nasce un figlio diversamente abile (paure, speranze, angosce…). – Banana Yoshimoto “il corpo sa tutto” (2000), 13 racconti che descrivono il percorso dal dolore alla guarigione (il corpo è cosi attaccato al dolore da opporsi alla guarigione perché ad ostacolare la guarigione è solo la paura di nuovi dolori, di altri ostacoli… traumi infantili, ricordi dolorosi). – David Grossman “Col corpo capisco” (2002), uno dei più grandi autori della narrativa israeliana contemporanea. Egli parla della relazione di una madre con la propria figlia e quella di una donna con il ragazzo molto più giovane di lei. Romanzo dell’identità perduta e ritrovata, esaltazione del potere dell’immaginazione per trascendere i propri limiti e le proprie inibizioni, rinnovarsi e ricrescere. – Tiziano Scarpa “Corpo” (2004), evoca sperimentazioni estetiche del post-umano, fascino dell’inorganico, tema della disseminazione dell’io e del suo superamento attraverso il corpo atomizzato passa il mondo intero e tutto ciò che è raggiungibile dei sensi e della coscienza. b) il corpo “ dipinto”: Questo itinerario coglie il legame tra autoritratto e autobiografia guardando il ritratto come una autobiografia, un’interpretazione di sé, una raffigurazione dell’io. Si approfondirà questo itinerario con autoritratti dal 500 ad oggi. Nella modernità, l’artista guarda sempre di più intensamente dentro se stesso e non soltanto al mondo che lo guarda. – “Il ritratto di un giovane” Lorenzo Lotto (1506), Vienna → oltre all’identità viene rappresentata anche l’intimità – “Doppio ritratto” Raffaello Sanzio (1518-1519), Parigi → emerge il tema dell’amicizia, dello scambio, della ricerca dell’altro, della condivisione, del decentramento dell’autore. – “Autoritratto allo specchio” Francesco Mazzola (1523-1524),Vienna → nuove soluzioni di prospettive con deformazione dei volti allo specchio, inganni visivi. Raffaello ha dipinto se stesso per investigare le sottigliezze dell’arte. – “Autoritratto” Johannes Gumpp (1646), Firenze → giochi di rimandi, di somiglianze, di sguardi tridimensionali con 3 soggetti dipinti (il pittore, lui stesso nello specchio e la sua immagine riflessa dallo specchio). Con questo, il pittore ha voluto mostrare l’azione della pittura che media tra verità e rappresentazione. – “Autoritratto” Harmenszoon Van Rembrandt (1669), Londra → più o meno 80 ritratti che si distinguono per abilità tecnica, intensità espressiva e introspezione psicologica. Il genere è particolarmente significativo a carattere religioso, mitologico e storica in cui il pittore pone i suoi tratti in personaggi biblici, dei e eroi. – “Autoritratto” Rosalba Carriera (1709), Firenze → particolarmente interessante per il suo realismo, l’esplicitazione della professione, la meticolosità della tecnica. – “Autoritratto” Francisco Goya (1815), Madrid → oramai quasi completamente sordo, offre un’immagine non auto-celebrativa, scevra da qualsiasi idealizzazione, si presenta cosi com’è con tutti i segni che il tempo e le ossessioni hanno lasciato sul suo volto ma colpiscono la vivacità dei tratti (come se l’artista volesse parlare) e la sorprendente immediatezza visiva e psicologica. – “Autoritratto con il cappello di paglia” Vincent Van Gogh (1887), Detroit → egli ha dipinto 36 autoritratti. In questo ritratto ha realizzato un’indagine interiore, uno studio di sé con forte tensione interiore che lo condurrà alla follia. Usa il colore come principale mezzo di espressione passando dalle tonalità chiare e intense di timbro impressionista a un cromatismo violento e a una esasperazione quasi allucinata delle immagini. – “L’uomo che passeggia di notte” Edvard Munch (1923-1924), Oslo → viene messa a nudo la condizione della vecchiaia, l’angoscia della morte è quasi palpabile e nei minimi dettagli si sente la fine, il senso di solitudine e di isolamento, la privazione delle emozioni (personaggio che cammina in una stanza vuota, finestre sbarrate). – “Triplo autoritratto” Norman Rockwell (1960) Massachusetts → strategia dell’autopromozione pubblicitaria con spiccato umorismo. Egli mette in evidenza la tripla dimensione di ogni rappresentazione di sé: la ricerca, lo stupore, la metamorfosi. – “Autoritratto” Marc Chagall (1959), Firenze → in questo ritratto Chagall ha inserito tutti gli elementi della sua esistenza (tavolozza, pennelli, donna amata, gallo come simbolo della Russia, Parigi, colore blu intenso). Questi spunti sono proponibili all’interno di un curricolo formativo interdisciplinari, articolati nei diversi gradi scolastici, in una sequenza diacronica (studio e la valutazione dei fatti linguistici considerati secondo il loro divenire nel tempo) ma in una prospettiva sincronica, come spunti specifici che possono essere selezionati, articolati, intrecciati ad libitum facendo valere la loro significatività tematica: la corporeità, la memoria, l’identità, l’amore, il dolore, la malattia, la diversità... Cap. 5 Costruire storie: dal racconto alla scrittura di sé. Tecniche per raccontarsi 1. Per una pedagogia dell’autobiografia Si decide di scrivere un’autobiografia a partire dal momento in cui si capisce chi si è. Se l’educazione permette di cresce e di essere diversi di quello che si era prima allora è necessario aumentare i saperi. L’approccio autobiografico si rivela educativo in quanto promotore di cambiamenti, di consapevolezze, di apprendimenti e di ristrutturazione del sé ovvero un processo di strutturazione complessiva della personalità ottenuto con intenzionalità: passaggio per l’apprendimento, la socializzazione e l’interculturazione del soggetto. Raccogliere storie di vita è un passaggio obbligatorio per comprendere mondi e situazioni. L’approccio autobiografico è una raccolta e un’analisi di materiale verbale e scritto che ricostruisce la storia del soggetto. E’ uno strumento utilizzato a fini di ricerche storiche, sociologiche e pedagogiche. Il metodo delle storie di vita nel rivisitare l’esperienza passata mette in evidenza come il cambiamento pervada tutta l’esistenza. Sono proprio i momenti di mondo del giornalismo, dell’editoria…). Non entrano nel percorso pedagogico dell’autobiografia che ha bisogno di un percorso educativo di riflessione, di interpretazione. Si assiste giustamente a un abuso nei media della forma di narcisismo per un mettersi in mostra. Alla luce di quanto esplicitato, il ruolo dell’educatore e del ricercatore autobiografico è quello di sollecitare, stimolare e accompagnare il processo di narrazione e di comprensione di sé. Possiamo quindi dire che il lavoro di cura non prescinde da un coinvolgimento della sua stessa storia e dalla sua stessa memoria. Il ruolo dell’esperto autobiografico non è quello di trasmettere un sapere ma quello di facilitare il riaffiorare dei ricordi e il ripensamento della propria storia, instaurare un rapporto in cui l’altro è ascoltato e riconosciuto nella sua interezza e nella sua unicità, non deve essere un osservatore neutro ma opera sempre a partire della propria storia e del proprio orizzonte di conoscenze e interessi. Cosi è fondamentale l’attività di formazione agli insegnanti ed educatori che si avvarrà delle stesse tecniche autobiografiche, il momento preliminare di auto-riflessione e auto-osservazione per il docente-formatore è condizione indispensabile per sviluppare capacità di conoscenza di sé e degli strumenti autobiografici proposti, oltre a costituire una sorta di etica professionale dell’approccio autobiografico. Cap.6 L’autobiografia nella formazione dell’insegnante 1. La narrazione autobiografica del sé professionale come funzione di riflessività La riflessione è una procedura che genera una nuova comprensione di: a) azioni/situazioni educative b) di sé stessi in quanto professionisti c) di concezioni, credenze, teorie implicite o date per scontate sulla natura della pratica educativa e sui ruoli degli agenti in essa implicati. L’uso dei dispositivi riflessivi consente: – di entrare in contatto con i processi conoscitivi e i percorsi di riflessività che sostengono l’agire-professionale – di accedere consapevolmente alla strutture di conoscenza (costruiti in lavoro teorico e in percorsi euristici con pianificazione di corsi d’azione) – di evidenziare e ripercorrere i processi di costruzione delle strutture in oggetto – di identificare gli interessi conoscitivi da cui partono i professionisti e le relative forme di razionalità. La fonte di conoscenza in senso deweyano è riconoscibile: – nel contesto dell’azione educativa – nell’articolazione pratica della conoscenza personale e professionale. Si tratta dunque di una conoscenza emergente nel corso dell’agire educativo e della riflessione in esso e su di esso e ha la funzione di trasformare la pratica attraverso la costruzione di nuove modalità di comprensione della stessa e non attraverso percorsi prestabili o modelli calati in situazione. I dispositivi di riflessione utilizzati per la ricostruzione dell’esperienza professionale nella formazione degli insegnanti assumono particolare interesse: → sia in funzione della ricostruzione di azioni in situazione – identificare caratteristiche ignorate di situazioni o assegnare nuovi significati, → sia in funzione della ricostruzione del ruolo professionale – esplicitare la posizione epistemica dei professionisti in situazione e la visione del loro ruolo sulla base delle loro proprie cultura, esperienze e revisione delle medesime, → sia in funzione della ricostruzione di credenze, preconcetti, teorie implicite – stabilire le procedure di revisione critica delle condizioni dell’agire professionale sulle cui basi possono essere progettati e costruiti nuovi corsi azione nell’azione quindi attraverso una procedura circolare che prevede la posizione di un problema, la ridefinizione e infine la risoluzione dello stesso. I dispositivi di notevole utilità risultano essere i modelli operativi sulla base di un approccio fenomenologico tra i quali sono particolarmente efficaci i modelli narrativi e autobiografici. Ogni agire umano si colloca in un contesto culturale, storico e sociale che conferisce struttura e significato alle pratiche realizzate e ogni pratica implica uno specifico significato in rapporto ai contesti in cui si iscrive cosi, come dice Bruner, l’interpretazione e la comprensione delle diverse forme di agire richiede un riferimento di geografia culturale che sostiene e dà forma alle esperienze ed alle azioni professionali, senza la quale non vi sarebbe possibilità di comprendere e di interpretarle. Bruner spiega che “il logos e la praxis sono culturalmente inseparabili” è infatti la necessità di “stabilire culturalmente le proprie azioni” che induce ogni agente all’interno di un contesto a diventare narratore allo scopo di progettare, situare, giustificare, spiegare il proprio agire ad una comunità sociale e culturale in cui il soggetto è sia l’attore, sia lo spettatore delle proprie azioni. Attraverso il dispositivo narrativo, l’agire personale e professionale è collocato in uno specifico tempo e spazio, attribuito a un soggetto individuale e sociale, iscritto in un rapporto di causa/effetto e di reciprocità. La lettura della narrazione personale e professionale non è orientata ad una classificazione dei tipi di azione o all’identificazione dei motivi orientati secondo un criterio di regolarità o di Generalizzabilità ma mira a conferire un senso e un significato a specifiche azioni compiute da particolari soggetti in determinati contesti. La narrazione è un dispositivo di descrizione/interpretazione/comprensione (e non un dispositivo di osservazione/analisi/esplicazione) e si rivela particolarmente utile ed efficace in una prospettiva euristica che sia: a) fortemente orientati all’individuazione di elementi di contesti e di implicazioni personale, storiche, culturali e sociali b) focalizzata sulla fenomenologia dell’agire piuttosto che sulla azione intesa come singola unità di analisi. L’uso del dispositivo narrativo e autobiografico attiva le procedure riflessive e autoriflessive che hanno delle ricadute formative perché innescano processi di autoanalisi, di introspezione, di revisione critica partendo dei contesti di pratica mettendo in evidenza la costruzione dell’identità del soggetto in formazione. Attraverso i dispositivi narrativi ed autobiografici, la riflessione risulta funzionale tanto a ricostruire le posizioni di determinate pratiche educative quanto a mettere in evidenza i percorsi che hanno condotti i professionisti a sviluppare fisionomia e rappresentazione del ruolo professionale e le sue funzioni. Tali dispositivi contribuiscono a rendere espliciti e oggetto di revisione critica i processi apprenditivi e conoscitivi che si sono realizzati nel corso delle pratiche e i processi di riflessione che ne sono scaturiti producendo specifiche strutture conoscitive. L’itinerario di riflessione individuale o in gruppo, mediante produzione e analisi di verbalizzazione, resoconti, diari e narrazioni, consente ai professionisti di acquisire competenze riflessive e metariflessive che li aiutano a dare nuovo senso e significato al proprio agire. Un esempio di lavoro formativo preso in considerazione è quello della SISS Toscana (contesto di formazione destinato alla preparazione dei futuri insegnanti): l’insegnante non riesce ad avere l’ascolto dei suoi allievi ma però alla fine della lezione si mostra contenta quando un ragazzo per la prima volta è intervenuto senza che gli sia stato chiesto nulla anche se è stato per dire banalità. E’ stata una lezione di entusiasmo e di umiltà. Questa formazione tramite un difficile processo di ristrutturazione cognitiva vanno ad innestarsi sulle preconoscenze, sulle esperienze, sulle rappresentazioni dei soggetti in formazioni e problematizzate in situazione sulla base del loro impatto con esperienze empiriche, sollecitazioni prassi cooperative, modello di pratica “esperta” di cui si generano nuove strutture conoscitive, in cui entrano in gioco conoscenze e competenze. L’obiettivo del lavoro formativo è la costruzione di una professionalità “riflessiva” con competenze utili a comprendere ed analizzare le condizioni di contesto in cui si opera, a verificare la viabilità e la trasferibilità di strutture di conoscenza teorico/pratica di cui si dispone, a disegnare corsi razionalmente orientati. Il narratore è quindi un apprendista in una comunità di pratiche che usa curricolo formativo istituzionale ma anche condivisione di saperi teorico-metodologici, osservazione di esperienze di “pratica aperta”, ascolto delle storielle e prospettive di significato. In certe situazioni osservate, le locuzione che vengono utilizzate sono “insopportabile”, “scoraggiante” e “sconcertante” rappresentando lo stereotipo di un’adolescenza demotivata, disinteressata al dialogo educativo, alle proposte culturali, priva di strumenti cognitivi per esercitare processi di analisi e di riflessione critica sui contenuti. Il testo è analizzato mettendo a fuoco diverse “prospettive di significato” evidenziando la circolarità tra: - elementi di conoscenze teorica (modelli pedagogici, teorie sulle professionalità docente e sull’agire educativo) - elementi di conoscenza empirica e prassica (osservati nell’agire di un professionista esperto, riflessione delle azioni sulle azioni). L’identificazione delle prospettive interpretative per dare significato alla propria esperienza da cui scaturiscono nuovi significati, marcatore di cambiamento e di crescita professionale: - sia nell’ambito della percezione e rappresentazione che il soggetto in formazione ha di sé, della propria competenza, della propria motivazione, della propria sicurezza e insicurezza, della propria efficacia, - sia nell’ambito delle forme e dei modi del conoscere attraverso l’esperienza di pratica, - sia nell’ambiento della codificazione semantica e sintattica dell’esperienza professionale (codici, registri linguistici, termini, locuzioni, diversi e differenti…). Una griglia di analisi è stata messa a punto dai diversi gruppi di lavoro funzionando come procedura euristica, come esperienza professionale, come identificazione e revisione critica delle posizioni degli attori implicati, dei vissuti e delle emozioni in gioco, delle risorse personali e professionali, degli elementi trasformativi. In conclusione, per poter arrivare alla risultati efficaci nella costruzione di una professionalità della figura docente è necessario incidere in modo profondo sui processi di costruzione dell’epistemologia della pratica. Ciò può avvenire solo attraverso dispositivi di riflessione a livello individuale e collettivo come quello narrativo che nelle sue caratteristiche presente un valido strumento di lavoro formativo mettendo a fuoco i delicati e problematici passaggi in cui si determina la appropriandosene con la gioia della scoperta) – un aspetto teatrale che rende verosimile un’azione, dà forza all’intenzionalità, esprime il mondo delle credenze, dei desideri, delle speranze – una capacità d’insegnamento conservando il ricordo o modificando il passato – una modalità per utilizzare il linguaggio. L’uomo ha l’abitudine di organizzare l’esperienza in forma narrativa. Bruner dice che viene da Aristotele (nella “poetica”) perché la mimesis non è solo imitazione ma è il “cogliere la vita in azione”, è un’elaborazione di ciò che accade. Il concetto di significato fondato su una base di principi ha ricollegato l’insieme delle convenzioni linguistiche (le convenzioni linguistiche sono le regole socialmente concordate per interpretare le parole nate all'interno di una comunità linguistica. Le parole hanno significati che possono essere condivisi grazie alle regole o alle convenzioni che li collegano tra loro) con la trama generale. Le narrazioni non sono inserite in un mondo fatto di eventi delimitati nello spazio e nel tempo. Le ampie strutture della narrazione forniscono un contesto interpretativo per i singoli componenti all’interno di questo medesimo contesto. Cosi i significati saranno diversi a seconda del contesto in cui i dati linguistici o le azioni saranno considerate. Una delle più potenti e più diffuse forme di comunicazione è la narrazione, insita nella prassi dell’interazione sociale. Ciò che determina l’ordine di priorità dell’assimilazione delle forme grammaticali nel bambino è proprio la spinta a costruire una narrazione. Bruner deduce dalle considerazione di Propp (riguardo il fatto che le parti di una storia sono funzioni più che elementi) che oltre a possedere una predisposizione innata primitiva per l’organizzazione narrativa, la cultura e il contesto sociale mettono ben presto a disposizione del bambino nuove capacità narrative e nuovi strumenti come la tradizione del racconto e dell’interpretazione (Bruner ha basato le sue ricerche sugli studi di Peggy Miller svolti nei Ghetto neri di Baltimora su bambini in età prescolare, sull’opera di Judy Dunn “The beginning of social understanding” e sulle registrazioni delle narrazioni di Emily e soliloqui registrati fra i 18mesi e 3 anni che divennero poi argomenti per un libro “Narratives of the crib” ). Bruner ha catalogato la narrazione come strumento privilegiato del percorso di appropriazione della cultura che si situa al primo livello del processo educativo prima e formativo poi. Bruner considera le narrazioni precoci come una modalità per attenuare e sopportare tutte le realtà di conflitto, di dolore, di contraddizioni familiari e sociali. Ricoeur dice che la narrazione è un tipo di metafora della realtà e si riferisce alla realtà non per copiarla ma per rendere possibile una nuova lettura (con obbligo di corrispondere a una realtà extralinguistica). Le espressioni verbali sono più ricche a livello di significato del riferimento che la semplice funzione referenziale: richieste, promesse, ammonimenti. Ciò che definisce la possibilità di un’espressione verbale è il contesto d’uso di suddette espressioni. Grice fa rilevare che tutte le convenzioni linguistiche, secondo le quali è possibile l’uso di una determinata espressione verbale, sono ulteriormente vincolate da un “principio cooperativo” ovvero un insieme di precetti concernenti la brevità, la pertinenza, la chiarezza, la sincerità degli scambi conversazionali. I precetti di Grice hanno permesso di comprendere che le analisi testuali formali possono lasciare il posto ad analisi dove, a pieno titolo, è riconosciuta la funzione del linguaggio situazionale come portatore della forza del significato prodotto dalle intenzioni del parlante. Il significato nasce nella relazione fra due o più parlanti, ha un origine culturale e convenzionale non più formale. Propp notò che le parti di una storia sono funzioni di questa storia piuttosto che i suoi elementi. Dunn sostiene che i bambini apprendono la competenza sociale attraverso la prassi prima ancora che si verifichi l’esigenza di una narrazione ovvero attraverso l’azione viene appreso ciò che è ammissibile e ciò che non lo è e solo successivamente la conoscenza acquisita viene trasformata in linguaggio. La narrazione e il racconto vengono allora utilizzati per esprimere ciò che è accaduto conformemente alla giustificazione dell’azione compiuta. Già a 3-4 anni,i bambini usano la loro versione della narrazione per discolparsi, per ottenere ciò che vogliono. Tradurre l’esperienza in termini narrativi non è solo un gioco infantile, è soprattutto uno strumento di creazione di significato che influisce in modo determinante sulle forme di vita e le sue varie fasi La narrazione è: - in un primo luogo collegata con l’azione e l’esperienza personale come è dimostrata dall’acquisizione del linguaggio da parte dal bambino. Infatti il bambino risulta sensibile al raggiungimento degli scopi di una azione e le iterazioni verbali che ne accompagnano il conseguimento, direttamente collegata al fare e al dire e a coloro che si trovano in relazione con il bambino, - il secondo requisito delle narrazioni è l’acquisizione di una sensibilità verso ciò che è canonico e verso ciò che viola i canoni. Ciò significa che un bambino rileva in maniera precoce ciò che è usuale e ciò che è insolito e concentra la propria attenzione sul particolare, inedito ai suoi occhi, - in terzo luogo la narrazione per essere narrazione deve mantenere un ordine sequenziale cosicché eventi e stati siano resi “lineari” in modo usuale. Questo terzo requisito lo si trova in gran parte delle grammatiche naturali conosciute mediante il dispositivo SVO, soggetto-verbo-oggetto. - la quarta proprietà della narrazione riguarda la prospettiva del narratore, una narrazione non può essere priva di voce. La voce è il pianto del bambino nei suoi primi mesi di vita, sono le ecolalie della voce materna, sono le prime articolazioni del linguaggio materno. Stern ha ben illustrato questi passaggi quando ha analizzato le prime relazioni sociali fra madre e bambino. E’ dunque messo in evidenza che le narrazioni sono molto presenti agli esordi della vita quotidiana del bambino per diventare gradualmente passaggio alla formazione, sono l’avvio e lo sviluppo del processo di formazione nel quale ogni membro della famiglia è inserito. La facoltà di narrare è parte di noi. La narrazione è educativa e formativa poi ed entra di forza nella politica di mediazione familiare e scolastica. I bambini: – i lattanti sono particolarmente attenti all’insolito, tanto che quando succede qualcosa di nuovo smettono di succhiare e presentano forti decelerazioni cardiache, - quando compare il linguaggio, i bambini dedicano le loro attenzioni linguistiche proprio a quello che emerge dalla norma, attraverso una maggiore attenzione, con un aumento di gestualità, con emissione di suoni e in una fase successiva con l’uso della parola, – i bambini molto presto imparano a padroneggiare le forme grammaticali e lessicali per collegare tra loro le sequenze che vanno articolando con connettivi temporali come “allora, più tardi, perciò, perché”, – i bambini inventano, creano e comprendono le storie attraverso i racconto e le fiabe e gli studi di Lurja e Donaldson hanno contribuito a confermare che le proposizioni logiche sono apprese più facilmente da un bambino se inserite in una storia. Cosa sono le sequenze della narrazione? Per comprendere un testo bisogna smontarlo, analizzandone singolarmente gli elementi. il primo passo consiste nell'individuare le sequenze e i nuclei narrativi. Le sequenze sono segmenti di testo di lunghezza variabile, che presentano una certa autonomia di contenuto. Il limite tra una sequenza e la successiva è scandito da un cambiamento significativo nello sviluppo del racconto: uno spostamento nello spazio o nel tempo, l'arrivo di un nuovo personaggio, il verificarsi di un nuovo evento, l'inizio di un dialogo. A seconda del particolare significato di cui sono portatrici, le sequenze possono essere: - narrative, quando presentano le azioni dei personaggi e gli avvenimenti in cui essi sono coinvolti; - descrittive, quando illustrano personaggi, stati d'animo, luoghi e ambienti; -riflessive, quando contengono opinioni e commenti; - dialogate, quando è presente un discorso. Le sequenze narrative sono dinamiche in quanto determinano lo sviluppo del racconto; quelle descrittive e quelle riflessive sono invece statiche, poiché comportano un rallentamento, una pausa nella narrazione. L'insieme di più sequenze narrative, accompagnate da sequenze descrittive e riflessive coerenti nel contenuto, costituisce un nucleo narrativo. 3. La storia modella la vita e la vita modella la storia Ciò che l’uomo sa del mondo è dovuto all’esperienza che si è fatto del mondo e nel mondo. Non possiamo interpretare le esperienze degli altri e per solo avvicinarsene è necessario identificare la nostra personale esperienza nell’esperienza espressa dagli altri. White si pone una serie di domande alle quali cerca di rispondere in base a un’ottica psicoterapeutica: a) quale è il processo all’interno del quale si sviluppa una comprensione dell’esperienza umana attraverso il quale gli viene dato un significato? b) quali processi sono coinvolti nell’interpretazione della nostra esperienza? c)come l’esperienza personale vissuta influenza la nostra vita e le nostre relazioni? Sappiamo che le narrazioni forniscono lo schema dominante dell’esperienza vissuta, della sua organizzazione e della sua strutturazione. Gli esseri umani entrano nella loro storia e sono introdotti nelle storie altrui e vivono la loro vita attraverso tali storie. E’ attraverso le storie che l’uomo riesce a percepire il flusso del passato, il fluire del presente e del futuro. Le storie determinano il significato che viene dato all’esperienza e cosi la vita dell’uomo viene strutturata da queste storie. La storia dà forma alla vita umana attraverso il processo di interpretazione dell’esperienza. Secondo White, la vita è una rappresentazione di testi che trasforma la vita delle persone. Bruner afferma che le storie diventano trasformative a partire dal momento in cui sono rappresentate. La rappresentazione implica un concetto di autenticità. Ma come si fa per arrivare all’autenticità? Le storie sono piene di vuoti che ogni essere riempie mediante nuove storie con nuovi sensi. Certo che l’indeterminatezza, l’ambiguità, l’incertezza impegna sempre l’uomo in un percorso di ricerca originale. La ricerca dell’empatia, dell’autenticità e dell’ascolto di se stessi è anche una ricerca di comunicazione con il mondo.
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