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Periodi del diritto romano - Istituzioni Di Diritto Romano , Dispense di Istituzioni di Diritto Romano

dispensa completa di istituzioni di diritto romano - libri: Sanfilippo, Marrone

Tipologia: Dispense

2012/2013

Caricato il 24/01/2013

ginoraso
ginoraso 🇮🇹

4.4

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Scarica Periodi del diritto romano - Istituzioni Di Diritto Romano e più Dispense in PDF di Istituzioni di Diritto Romano solo su Docsity! DIRITTO ROMANO. L’espressione diritto romano designa l’ordinamento giuridico vigente durante i 13 secoli della storia di Roma, compresi tra la data tradizionale della fondazione dell’Urbe (754 a.C.) e quella della morte dell’imperatore Giustiniano (565 d.C.). I Romani furono giuristi e il diritto fu l’espressione più originale e alta della loro civiltà, la quale, proprio in virtù del diritto in cui si era espressa, sopravvisse al crollo del potere politico di Roma e sopravvive tuttora. Poiché il diritto romano, attraverso una tradizione millenaria, è stato trasfuso nelle sue linee essenziali nei nostri codici, non potrebbe il giurista moderno rettamente intendere e interpretarli senza risalire alle loro origini. Il corso di Istituzioni di diritto romano studia l’ordinamento giuridico dei Romani dal punto di vista interno, in quanto ne descrive i singoli istituti, ossia i singoli gruppi e sistemi di norme tendenti al regolamento dei rapporti sociali, con particolare riferimento a quelli che hanno avuto una maggiore influenza sugli ordinamenti di derivazione romanistica, cioè gli istituti del diritto privato. Non si tratta di un diritto romano, ma di una serie di successivi sistemi giuridici sovrapposti nel tempo, collegati sempre da un unico filo conduttore, che, però, si sostituivano progressivamente in base ad una legge evolutiva. Il diritto, infatti, non è un sistema di norme immutabili ed eterne, fondato su una ratio scripta e perciò valido in tutti i tempi e per tutti i luoghi; il diritto è invece un fenomeno sociale che si evolve e muta con l’evolversi e il mutare delle condizioni ambientali: una norma giuridica, sorta in determinate circostanze di tempo e luogo, diviene disadatta e superata con il cambiare di quelle circostanze che ne determinarono l’emanazione. In tal caso essa viene abrogata e sostituita da un’altra norma più efficace, oppure si modifica e si adatta alle nuove esigenze. In conseguenza della particolare mentalità dei Romani, così saldamente legata alla tradizione nel campo politico e in quello giuridico, religioso, familiare, e così aliena da ogni repentina innovazione, tutto il diritto di Roma, pubblico e privato, si svolge, senza esplicite riforme, continuamente, ma lentamente per via di un’interna evoluzione. Pur non ripudiandosi i vecchi principi, anche se divenuti arcaici e inadeguati rispetto alle nuove condizioni sociali, si costruisce su quella vecchia ossatura tutto un complesso sistema di deroghe, deviazioni, eccezioni evolutive in modo tale da piegare gli antichi istituti a nuove funzioni. PERIODI DEL DIRITTO ROMANO Una periodizzazione abbastanza diffusa è quella che identifica nella storia di Roma 4 periodi, denominati rispettivamente arcaico dalle origine fino alla fine della Monarchia (754-367 a.C.), preclassico età della repubblica fino all’avvento di Ottaviano Augusto (367-27 a.C.), classico epoca del principato fino all'impero di Diocleziano (27 a.C.-284 d.C.) e postclassicodalla costituzione del dominato fino alla caduta dell’impero romano d’occidente (284-565 d.C.). Periodo Giustinianeo corrisponde all’attività legislativa di Giustiniano imperatore dell’impero romano d’oriente. Si ritiene, però, più opportuna una partizione in periodi fondata sul succedersi delle grandi crisi e delle conseguenti trasformazioni subite dalla società romana nei suoi elementi economici, morali e spirituali e nelle sue concezioni familiari. A queste grandi crisi e conseguenti trasformazioni della vita sociale corrispondo, infatti, altrettante crisi e trasformazioni del sistema giuridico. Seguendo questo orientamento, si possono individuare 3 fasi principali nel corso evolutivo del diritto privato romano. A)PRIMA FASE. Nel periodo che va dalle origini di Roma (754 a.C.) alla distruzione di Cartagine e Corinto (146 a.C.) l’ordinamento giuridico dei Romani è arcaico e rigorosamente formalistico. Tutto il diritto riposa sulle consuetudini degli antenati (mores maiorum, ius non scriptum) e la sola codificazione compiuta, quella delle XII tavole, non ha la pretesa di soppiantare i mores maiorum, limitandosi a raccogliere e precisare alcune delle principali norme di diritto pubblico, privato e processuale. Nell’interpretazione sia delle leggi sia degli atti privati non s’indaga lo spirito delle norme giuridiche o la volontà dei privati autori, ma semplicemente ci si attiene al significato letterale delle parole usate. L’errore nell’impiego di una sola parola del formulario utilizzato rende nullo l’atto compiuto o determina la perdita della lite. Lo ius civile è quella parte del diritto romano derivato dai mores maiorum, dalle XII tavole e dalla loro interpretatio e sviluppatosi poi nel periodo preclassico per opera soprattutto dei giuristi. Esso è la evoluzione laica dello Ius Quiritium, il diritto più antico dei Romani, strettamente connesso con la religione e rivelato dai pontefici. Verso la fine del periodo preclassico anche il diritto sorto da una lex o da un plebiscito aveva finito con l'essere incluso nello ius civile, mentre nel corso del I secolo d.C. questo venne a comprendere anche il diritto derivante da un senatoconsulto o da una costituzione imperiale, ritenuti atti con forza di legge. B) SECONDA FASE: dalla distruzione di Cartagine e Corinto (146 a.C.) all’impero di Diocleziano (284 d.C.). Il ius civile Quiritium risulta inadeguato rispetto alle esigenze determinate dall’espansione mediterranea dell’Urbe. Sotto i colpi delle nuove idee crollano tutti gli antichi idoli: si disintegra la saldezza originaria dell’organismo familiare e si infrolliscono i costumi. Ma, di fronte a questi risultati negativi, altri positivi e rilevanti sono prodotti dalla crisi dell’ultimo periodo repubblicano, e la società si trasforma da agricola in mercantile e si diffonde la cultura superiore del mondo ellenico. Quel che è caratteristico del diritto romano è che l’evoluzione dell’ordinamento giuridico non procede in Roma per via di successive riforme legislative: l’evoluzione si compie per opera di vari fattori che vi collaborano in maggiore o minore misura. Il ius honorariumo ius preatorium)è il sistema di norme che nel periodo successivo al 367 a.C. venne introdotto dai magistrati romani (principalmente dal praetor) al fine di colmare le lacune dell'ormai obsoleto ius civile, sempre più inadeguato a regolare la crescente società di Roma in un periodo di grande espansione geografica, militare ed economica. L'attributo honorarium trae origine dall'honor di cui erano forniti i magistrati romani, come ci confermano gli stessi giuristi romani. Con Ius Honorarium s'intende però anche quella porzione di capacità giuridica di diritto pubblico, per un liber civis a venir eletto Magistrato; ad esempio le donne ne erano completamente sprovviste. Processo di norme create di volta in volta dal pretore, per regolare casi concreti non direttamente disciplinati dal ius civile, attraverso una procedura snella e priva, per quanto possibile, di formalismi. Oltre a supplire le lacune del ius civile, il ius honorarium, talvolta, vi apportava correttivi, onde impedire la rigida applicazione di norme ritenute non più accettabili in un mutato panorama storico politico. Nei casi in cui il ius honorarium si contrapponeva al ius civile, questo non era formalmente abrogato, non avendone il magistrato il potere, ma solo reso inoperante: in pratica il dualismo, si componeva con la prevalenza del ius honorarium, poiché il magistrato rendeva il ius civile inattivo nel caso concreto. [1] La nascita del diritto onorario può collocarsi nel periodo successivo al 367 a.C. data di creazione della figura del praetor urbanus, un magistrato dotato del potere di imperium e di iurisdictio (da iuris dicere, dirimere controversie), che all'inizio di ogni anno, al momento di entrare in carica, soleva emanare un edictum nel quale esponeva ai cives romani il suo programma, ed in particolare le regole in base alle quali avrebbe amministrato la giustizia. Essendo dotato di imperium, il pretore urbano, pur non potendo modificare lo ius civile, considerato immutabile nella tipica mentalità dei romani, poteva apportarvi delle deroghe per casi eccezionali nei quali l'applicazione sic et simpliciter dello ius civile avrebbe comportato giudizi iniqui. Il ius gentium. Accanto al praetor urbanus, viene istituita, attorno al 240 a.C., un’altra magistratura analoga, il praetor peregrinus, al quale è attribuita la iurisdictio relativa alle controversie fra Dalla lettura della costituzione Imperatoriam si evince che le principali fonti utilizzate dai redattori dell'opera sono state: Istituzioni di Gaio; Res cottidianae di Gaio; Istituzioni di Paolo alii multi commentariidai quali sono tratti numerosi frammenti. Struttura dell'opera e come veniva utilizzata La struttura dell'opera riprende la distinzione in quattro libri delle Istituzioni di Gaio. Il primo libro tratta delle Personae Il secondo libro tratta delle Res(la proprietà e le successioni testamentarie). Il terzo libro tratta delle Obligationes(la successione legittima e le obbligazioni da atto lecito -obbligazioni contrattuali-). Il quarto libro tratta delle Actiones (obbligazioni da atto illecito - delitti -, le azioni e il diritto criminale). Ciascun libro è suddiviso in titoli, ogni titolo ha una rubrica. Questa opera alcune volte veniva usata per la pratica forense ma il suo utilizzo maggiore era per gli studenti di primo anno di diritto Il DIGESTO(in latinoDigesta o Pandectae) è una compilazione in 50 libri di frammenti di opere di giuristi romani realizzata su incarico dell'imperatore Giustiniano I. Promulgato il 16 dicembre533 con la costituzione imperiale bilingue entrò in vigore il 30 dicembre dello stesso anno. Il Digesto è una parte del Corpus iuris civilis, una raccolta di materiale normativo e giurisprudenziale. Le altre parti sono le Institutiones e il Codex. Una quarta parte, le Novellae Constitutiones, fu aggiunta successivamente. Il termine "Digesto" deriva dal verbo latino "digerere", che significa "disporre ordinatamente, razionalmente"; il termine equivalente con cui viene indicato il Digesto, "Pandette" ha invece etimologia greca, che significa "che riceve o comprende tutto", per indicare la completezza della compilazione. La gestazione dell'opera ha inizio il 15 dicembre530, data in cui Giustiniano I promulga la costituzione Deo auctore ("Con l'aiuto di Dio"), con la quale dà incarico a Triboniano, quaestor sacri palatii (ministro della giustizia), di raccogliere in un'unica opera i frutti della secolare produzione della giurisprudenza romana.Per compiere l'immane opera di selezionare il vastissimo materiale giurisprudenziale, Triboniano forma una commissione composta da un lato da docenti universitari, dall'altro da eminenti avvocati di Costantinopoli. La commissione risulta così composta da: Triboniano, che la presiede, Costantino, ministro del tesoro o comes sacrarum largitionum, i professori di CostantinopoliTeofilo e Cratino, i professori di Berytus (l'odierna Beirut) Doroteo e Anatolio, ed undici avvocati . Giustiniano conferisce ai compilatori la facoltà di apportare le modifiche ai testi giuridici ritenute necessarie al fine di eliminare le contraddizioni e di adeguarli al diritto vigente (c.d. interpolazioni). I Digesta vengono quindi promulgati da Giustiniano il 16 dicembre533 con la costituzione bilingue latino-greca Constitutio Tanta. L'entrata in vigore viene fissata per il 30 dicembre del medesimo anno. Sono punite le opere di rielaborazione del testo di legge, tuttavia, sono ammesse le traduzioni letterali in lingua greca, visto il loro carattere innocuo. Il Digesto è composto da 50 libri. Ciascun libro è diviso in titoli, ogni titolo ha una propria rubrica indicante l'argomento trattato. All'interno dei titoli sono ordinati i frammenti delle opere della giurisprudenza romana. I frammenti sono preceduti dalla inscriptio con il nome del giurista che ne è l'autore, l'opera e il numero del libro dal quale è tratto. I frammenti più lunghi sono stati divisi, dagli interpreti medioevali in principium e successivi paragrafi. Unica eccezione è costituita dai libri 30, 31, 32 che non sono divisi in titoli ma ricompresi nell'unico titolo De legatis et fideicommissis. Il giurista maggiormente citato è Ulpiano. Questa opera veniva utilizzata sia per la pratica forense sia per la scuola, infatti era oggetto degli studi degli studenti di diritto dal 2º al 4º anno. La suddivisione è tale: I - IV - Principi Generali V - XI -Tutela della proprietà e dei diritti reali XII - XIX - Obbligazioni e Contratti XX - XXVII - Diritto di Famiglia XXVIII - XXXVI - Successioni testamentarie XLIV - Successioni del possesso e pretoria XLV - L - Diritto Criminale Il CODICE GIUSTINIANEO(in latinoCodex Iustinianus) è una raccolta ufficiale di costituzioni imperiali redatta per ordine dell'imperatore romano d'OrienteGiustiniano, ad opera di una commissione da lui nominata. Fa parte della raccolta di leggi e massime di diritto nota come Corpus iuris civilis. Di esso furono redatte due edizioni: la prima, il Codex Iustinianus primus o vetus del 529, è andata perduta, mentre la seconda, il Codex Iustinianus repetitae praelectionis del 534, ci è pervenuta integralmente Codex Iustinianus primus o vetus non ci è pervenuto, ma esso fu verosimilmente un ampliamento del Codice Teodosiano. Tale ipotesi è giustificata soprattutto dall'esiguità del tempo occorso per la redazione dell'opera. IL CODEX IUSTINIANUS REPETITAE PRAELECTIONIS Giustiniano credeva che il suo codice fosse completo, immutabile ed eterno. In realtà, dopo l'entrata in vigore del Digesto e delle Istituzioni, l'opera risultava già obsoleta, in quanto conteneva norme ormai superate e non conteneva importanti disposizioni emanate nel frattempo, come le Quinquaginta decisiones. Il Codex Iustinianus repetitae praelectionis è l'unica edizione del Codex ad essere pervenuta fino a noi. L'opera è divisa in 12 libri, contenenti ognuno numerosi titoli. Le costituzioni in ogni titolo sono in ordine cronologico. Complessivamente si contano oltre 1600 costituzioni, di cui oltre 1200 appartengono all'imperatore Diocleziano. Le costituzioni conservano l'inscriptio, contenente il nome dell'imperatore e del destinatario, e la subscriptio con la data e il luogo di pubblicazione. L'opera è divisa per argomenti: libro I: diritto ecclesiastico libri II-VIII: diritto privato libro IX: diritto penale libri X-XII: diritto amministrativo e finanziario Con il termine Novellae Constitutiones si intendono le costituzioni imperiali emanate dall'imperatore bizantinoGiustiniano nel periodo che va dal 535, anno successivo alla pubblicazione del Codex Iustinianus repetitae praelectionis, fino alla morte dell'imperatore, avvenuta nel 565. Il termine NOVELLAEsignifica nuove, e sottolinea appunto che si tratta di costituzioni nuove rispetto a quelle contenute nel Codex. Alcune di esse sono in greco, altre in latino. Nell'aspetto esteriore le Novellae differiscono molto dalle costituzioni presenti nel Codice Giustiniano. Di esse infatti abbiamo il testo pressoché integrale, preceduto da una prefazione in cui si illustrano i motivi che hanno richiesto l'intervento imperiale, e seguito da un epilogo con le consegne per l'entrata in vigore. Delle costituzioni facenti parte del Codice, al contrario, abbiamo solo i passi selezionati dai commissari. Le Novellae venivano pubblicate ogni sei mesi in raccolte ufficiali; tuttavia Giustiniano giunse al momento della morte senza aver provveduto a riunire le sue nuove costituzioni in un unico Codex. Questa circostanza spingerà i privati a farsi carico della raccolta. A questo proposito noi conosciamo almeno tre raccolte private una greca che circolò solo in Oriente e due latine, e erano: Raccolta greca di 168 novelle ma solo 158 sono le novelle di Giustiniano Epitome Iuliani, con 124 novelle Authenticum, con 134 novelle Le norme giuridiche del periodo arcaico di Roma non derivarono dalla volontà di un legislatore, ma dai mores maiorum. Furono regole di condotta tramandate di padre in figlio, con il convincimento della loro necessità e obbligatorietà, in quanto il loro fondamento risaliva alla volontà divina (FAS) e in quanto gli antenati che le avevano osservate e tramandate era divenuti, morendo, essi stessi dei (manes). per garantire ordine e coesistenza, in principio fu sufficiente un certo numero di divieti religiosi (nefas), colpiti dalla vendetta divina e dalla sanzione degli uomini. Ciò che non era nefasera, di conseguenza, fas(lecito). Da questo derivò la convinzione dell’immutabilità del ius civile. Tuttavia, i mores maiorum avevano bisogno di essere interpretati e adattati ai singoli casi pratici della vita quotidiana e a questo provvide l’interpretatio. Nel periodo della giurisprudenza pontificale, cioè del patriziato (alla cui classe appartenevano proprio i pontefici), l’interpretatio si prestava ad arbitri della classe dominante ai danni della plebe. Da ciò le agitazioni e le secessioni, fino a quando l’esigenza della certezza del diritto fu appagata con la concessione da parte dei patrizi delle prime leggi scritte, le XII Tavole. Il complesso delle norme derivanti dai mores maiorum (ius in senso stretto) e dalle leges comiziali, elaborato dalla giurisprudenza in sistema unitario, costituì il ius civile, cioè il diritto applicato esclusivamente ai cives romani. Nell’età postclassica, scomparsi tutti gli organi della costituzione repubblicana e del principato, unica fonte del diritto fu la volontà del monarca, dominus e non più princeps. Il termine LEX, prima sinonimo di volontà popolare, divenne sinonimo di constitutio imperatoria. L’imperatore si degnò di riconoscere valore di norma giuridica agli scritti dei più famosi giureconsulti dell’età classica, scritti che furono denominati collettivamente iura. Iura et leges furono i due termini che ricompresero in sé ogni fonte del diritto. Nell’uso romano, il termine IUS, oltre alle accezioni di diritto oggettivo e diritto soggettivo, ricorre comunque in numeroso altre accezioni: come rito o forma solenne da osservare (Gaio qualifica ius la mancipatio); come situazione soggettiva di capacità patrimoniale; come condizione giuridica complessiva di un soggetto; oppure ancora come luogo in cui, dinanzi al magistrato, si svolge la prima fase del processo privato.IL IUSè uno sviluppo del fas.Nel quadro di quanto era considerato fassi formò il ius, ossia l’insieme delle consuetudini ataviche degli antenati (i mores maiorum). Soltanto in epoca storica avanzata il binomio fas/nefasfece esclusivamente riferimento alla sfera divina, mentre il iussi riservò quella umana. Le norme del diritto furono raggruppate dalla giurisprudenza, per fini sistematici, in varie categorie: A) Ius publicum e ius privatum. Questa distinzione allude a due aspetti dell’unica funzione che ha l’ordinamento giuridico romano. Esso, infatti, tende alla regolamentazione di un’ordinata vita sociale, nell’interesse dell’intera collettività e quindi del singolo; ma tale fine è raggiunto, da un lato mediante una serie di norme che disciplinano il modo di essere (status) e il funzionamento dell’organizzazione sociale, dall’altro, mediante un’altra serie di norme che si rivolgono ai singoli privati in quanto tali, nell’interesse immediato di questi ultimi. L’utilità dei privati non è contrapposta a quella dello Stato perché le norme di diritto privato, per quanto dettate nell’interesse immediato dei singoli, attuano sempre, per riflesso, un’utilità indiretta o mediata dell’intera collettività, mentre, d’altro canto, le norme di diritto pubblico si risolvono, in definitiva, nell’attuazione di un’utilitas per tutti i privati. Conseguenza del riconoscimento del carattere pubblico o privato di una norma è il fatto che le norme LA PERSONALITÀ GIURIDICA. Capacità giuridica. L’attitudine che la persona ha ad essere titolare di diritti e destinatario di doveri è detta ―capacità di diritto o capacità giuridica‖. I Romani non avevano termini tecnici idonei ad esprimere i concetti di ―soggetto‖ e di ―capacità giuridica‖; essi impiegavano espressioni varie che, pur potendo apparire analoghe a quelle moderne, non hanno invece valenza tecnica o significato comune corrispondente: è il caso, ad esempio, di espressioni come homo e caput (che designano sia il libero che lo schiavo) o anche persona, che, pur avvicinandosi all’attuale espressione tecnica di soggetto, mira anch’essa però, nel suo significato più diffuso, a designare solo l’essere umano in ogni sua possibile condizione. Categorie di soggetti. Persone fisiche e persone giuridiche. La capacità giuridica non spetta unicamente alla persona fisica, poiché il diritto riconosce la capacità giuridica anche ad alcuni enti astratti, detti enti morali, che non sono essere umani, ma che, riguardo alla materia patrimoniale e sotto determinate condizioni, sono considerati alla stessa stregua degli uomini, cioè come essi titolari di diritti e obblighi. Si suole allora qualificare il soggetto-uomo come ―persona fisica‖ e il soggetto-ente come ―persona giuridica‖. .Requisiti per la capacità giuridica delle persone fisiche. A) L’esistenza fisica: inizio e fine. Mezzi di prova. Presupposto per il riconoscimento della capacità giuridica di una persona fisica è la materiale esistenza di quest’ultima. Affinché una persona sia in essere è sufficiente che sia nata viva, anche se la vita duri un solo istante. Almeno dall’ultima età repubblicana l’individuo si considerava nato nel momento del suo distacco dalla madre, avvenuto spontaneamente o provocato attraverso intervento chirurgico. Al fine della prova della vita, requisito essenziale poiché il nato morto si considerava come mai esistito, si considerava sufficiente che il nato avesse dato un qualsiasi segno di vita, oppure era richiesto che avesse emesso un vagito. Se la nascita era requisito per il riconoscimento della soggettività, non per questo tuttavia il semplice concepito (conceptus) era privo di considerazione giuridica. Vi erano casi (ad esempio, quando il nascituro avesse aspettative ereditarie) nei quali esso si considerava come già nato e poteva perciò essergli nominato un curatore (curator ventris), al quale spettavano poteri analoghi a quelli di un tutore. La persona fisica cessava di esistere con la morte. La prova delle vicende legate alla nascita, alla vita e alla morte degli individui si dava attraverso dichiarazioni private (testationes). Solo a partire dal II sec. d.C. si introdusse l’obbligo di ciascun cittadino di denunciare presso appositi funzionari la nascita dei propri figli. Altro fatto importante per i giuristi romani era la valutazione del nato deforme( mostrum portentum), che non veniva considerata persona, addirittura Romolo, li faceva mettere a morte dopo la nascita. La persona fisica cessa di esistere con la morte GLI STATUS PERSONAE Secondo lo ius civilis, il fatto dell’esistenza fisica di un soggetto, non era sufficiente per avere riconosciuta la capacità giuridica. Occorreva che esso si trovasse in una determinata situazione ― STATUS‖ questa situazione doveva avere tre requisiti: 1. Status libertatis 2. Status civitatis 3. Status familiae Cioè occorreva che la persona fosse: libero, cittadino Romano e capo famiglia. Nel sistema romano gli uomini erano: Liberi Servi o schiavi I liberi erano: Cives ( cittadini Romani) Latini Peregrini Tra i cittadini Romani ( Cives) si distinguevano in: Suis iuris ( pater familias di sesso maschile) Alieni iuris ( sottoposti ad altri Filii Familias e le Donne) In manu ( mogli) Liberi in mancipio Le modificazioni di Status comportano l’estinzione dei vincoli agnatiti, i Romani parlano di capits deminutio. La capis diminutio era distinta in: 1. Maxima quando è conseguenza della perdita della libertà 2. Media quando è conseguenza della perdita della cittadinanza romana 3. Minima quando implica un mutamento dello status familiae ( adrogatio, adoptio, conventio in manu Cause che limitano la capacità giuridica di diritto privato delle persone fisiche. Per quanto un soggetto potesse avere , lo status libertatis, civitatis e familiae, poteva trovarsi in situazioni che erano causa di limitazioni della sua capacità giuridica. Queste cause erano: Disistima sociale, ignominia ed infamia Addictio e nexum Redemptio ab hostibus Auctoramentum Sesso femminile Classi e condizioni sociali Religione Disistima sociale – ignominia ed infamia L’ordinamento giuridico romano nelle varie epoche sancì diverse limitazioni della capacità giuridica a carico di persone per svariati ragioni di disistima sociale e morale. Le XII tavole, prevedevano: improbus interstabilisque cioè perdeva la stima sociale chi avendo partecipato ad un atto come teste, si rifiutasse successivamente a testimoniare al riguardo. Instabilitas che comprendeva tanto l’incapacità di fungere da testimone, quanto l’impossibilità di adibire altri come testimoni nel proprio interesse, produceva praticamente l’esclusione dal ius commerci In età classica si parlava di ignominia o d’infamia venivano colpiti da infamia tutti coloro che per atti considerati immorali perdevano la pubblica stima. L’infamia veniva distinta in: infamia mediata: come conseguenza di una condanna per certi delitti infamanti ( furto, dolo) o di una condanna per certi dilitti civili basati sulla buona fede ( frode) o infine per morosità debitoria e vendita da parte dei creditori del patrimonio del debitore. Infamia immediata: che colpiva persone che avevano compiuto azioni ignominiosi quali – esercizio di mestieri turpi ( attore teatrale, gladiatore, donne che si sposavano in seconde nozze prima di un anno dallo scioglimento del primo matrimonio). L’infamia nel campo del diritto pubblico, comportava la perdita dello ius suffragii e dello ius honorum il quale vietava agli infami di stare in giudizio in luogo d’altri come avvocato e vietava loro di farsi rappresentare in giudizio. Addictio e nexum Addictio: riguardava il debitore inadempiente che veniva dal magistrato assegnato ( addictus) al creditore, il quale poteva tenerlo in catene nel suo carcere privato o venderlo come schiavo o ucciderlo ( pratica scomparsa in età classica) oppure si procedeva alla vendita del patrimonio del debitore. Nexum riguardava la persona del debitore, che veniva sottoposto al creditore come pegno in virtù di una speciale applicazione della mavipatio. Il nexum fu abolito dalla lex petilia paperia nel 326 A.C. Redemptio ab hostibus. Chi è stato riscattato dalla prigionia di guerra si trova in posizione quasi servile rispetto a colui che ha sborsato la somma del riscatto. Il riscattato rimarrà presso il riscattante quasi a titolo di pegno, fino a quando avrà restituito la somma oppure l’avrà scomputata con il suo lavoro. Auctoramentum È il contratto con cui i gladiatori ( auctorat) venivano reclutati dall’impresario ( lanista ) nei giuochi, all’atto del reclutamento, si impegnavano a sostenere i giuochi nei circhi a costo della vita. I gladiatori in virtù del loro mestiere turpe ― infames‖ praticamente erano servi dell’impresario: Sesso femminile La posizione della donna romana ( mater familias) era inferiore a quella dell’uomo. La donna romana non aveva nessun diritto nel campo pubblico ( ius suffragii ius honorum) ma ha una capacità limitata nel diritto privato. La donna: Non può essere titolare di patria potestas sui figli anche in assenza del padre; Non può adottare figli; Non può adottare l’ufficio di tutrice; la lex voconia del 169 A.C. limitava la sua capacità di ricevere da persone titolari di patrimoni superiori a 100.000 assi. Il senatus consultum velleianum del 46 D.C. vietava alla donna di assumere garanzie in favore di altri. Classi e condizioni sociali La storia di Roma è caratterizzata dalla formazione di stratificazioni sociali con privilegio politico di una classe rispetto alle altre. Cosi si contrappose patriziato e plebe nell’età regia e nella prima età della repubblica; Nobilitas, ordo equester e plebs ( Nobiltà, cavalieri e plebe) nell’ultima età della repubblica e la prima dell’età imperiale. erano associazioni aventi finalità di culto; i secondi perseguivano finalità sociali o professionali. La giurisprudenza elaborò il principio per cui non potesse costituirsi corporazione senza una pluralità di associati, che fu determinata nel numero minimo di 3. Il successivo venir meno di tale pluralità non impediva la sussistenza della corporazione. La capacità giuridica delle associazioni riguardava i diritti patrimoniali in genere, ma si riconobbe loro talvolta la titolarità di diritti di contenuto anche personale (come il patronato). Fondazioni. Una persona fisica può proporsi un fine benefico cui vuole destinare un complesso di beni o una somma di denaro, preoccupandosi di vincolare a quel fine, anche dopo la sua morte, questi valori patrimoniali. Per assicurare l’adempiersi in perpetuo di tale volontà, il diritto moderno talvolta distacca il patrimonio dalla persona del disponente e fa vivere ad esso una propria vita, personificandolo. In tal modo, il patrimonio è considerato esso stesso come un soggetto, avente come fine da perseguire quello impostogli dal fondatore; il patrimonio-soggetto agisce attraverso le persone fisiche degli amministratori che si succedono nel tempo e che agiscono non in nome proprio, ma quali organi del soggetto giuridico che è la fondazione stessa. La personificazione del patrimonio richiede un maggiore sforzo di astrazione di quello che non sia necessario per la personificazione delle corporazioni: per tale ragione, il concetto di fondazione era estraneo al diritto romano classico. I classici usavano fare un lascito preferibilmente ad una corporazione (che, per il suo carattere perpetuo, assicurava il perpetuo adempimento della volontà del disponente) e gravare la corporazione, onorata del lascito, dell’onere (modus) di destinarne il reddito a quel fine determinato. Nell’epoca cristiana, invece, si pongono le premesse per il sorgere del concetto moderno di fondazione. OGGETTO DEL DIRITTO. LE COSE. Per quanto riguarda le cose (res) occorre sottolineare che non tutte formano oggetto di diritto, ma solo quelle che hanno un valore patrimoniale, che possono essere raggiunte e utilizzate dall’uomo per uno sfruttamento economico. Il diritto considera come ―cosa‖ quella parte della natura che, nella coscienza economico-sociale e in relazione al singolo diritto che su di essa si vuole attribuire, è considerata come oggetto a sé stante, suscettibile di un autonomo rapporto patrimoniale. Nozione di patrimonium. Res corporales e incorporales. Secondo la giurisprudenza romana, il patrimonium è il complesso degli elementi (bona) che attribuiscono ad un soggetto privato vantaggi economici. Per Gaio, il patrimonium è costituito da res corporales e res incorporales. Le prime sono le cose materiali, che si possono toccare, mentre le seconde sono situazioni giuridiche soggettive, come i diritti di servitù o di credito. Tale distinzione serve a Gaio come premessa per spiegare il fatto che le res corporales possono acquistarsi al patrimonium anche attraverso comportamenti materiali come la traditio, mentre le res incorporales possono entrare di norma nel patrimonio di un soggetto solo attraverso specifici atti o fatti giuridici (mancipatio, contractus, successio). Res mancipi e res nec mancipi. Le res costituenti oggetto di patrimonio erano distinte in res mancipi e res nec mancipi, secondo che si richiedesse o meno per il loro acquisto lo speciale atto della mancipatio. Come precisa Gaio, erano res mancipi corporales i fondi e gli immobili urbani situati in suolo Italico, gli schiavi e gli animali da soma; invece, le res mancipi incorporales erano le servitù rustiche. Tale distinzione andando perdendo gran parte della sua importanza con il progredire dell’economia mercantile per essere abolita completamente nel diritto giustinianeo. Res in patrimonio ed extra patrimonium. Res quarum commercium non est. Dal fatto che non tutte le res corporales fanno parte di un patrimonio, scaturiscono due distinzioni: alle res in patrimonio si contrappongono le res extra patrimonium, a seconda che esse costituiscano o meno attualmente oggetto di un diritto patrimoniale; alle res in commercio si contrappongono le res quarum commercium non est (extra commercium), a seconda che esse siano potenzialmente suscettibili o meno di essere ricomprese in un patrimonio. Le due distinzioni non coincidono tra loro: ad esempio, una cosa di nessuno (res nullius) non è in patrimonio di alcuno, ma è in commercio, potendo costituire in futuro oggetto di rapporti privati. Per vedere quali cose sono extra patrimonium bisogna prendere le mosse da un’altra distinzione (definita da Gaio summa divisio): quella che si pone tra res divini iuris (cose di diritto divino) e res humani iuris (cose di diritto umano); le prime sono tutte quante escluse dal commercium e quindi necessariamente extra patrimonium, mentre le seconde sono di regola in commercio e quindi possono entrare nel patrimonium, con l’eccezione delle res publicae. Res divini iuris. Queste si distinguono in 3 sottospecie: a) Res sacrae. Sono quelle destinate al culto degli dei superi: i templi, le are, le statue degli dei. Mediante una cerimonia pubblica, e con il consenso del popolo romano, esse uscivano dalla disponibilità privata ed erano considerati talora appartenenti alla corporazione cui era affidato il culto al quale esse consentivano di provvedere; tuttavia, potevano ritornare nella disponibilità privata mediante cerimonia pubblica contraria. b) Res religiosae. Sono i sepolcri, dedicati agli dei inferi e quasi in loro proprietà. Se il sepolcro non può essere oggetto di diritti, ciò non toglie che in relazione ad esso possano esistere alcuni rapporti giuridici inerenti alla sua funzione. Così esiste un ius sepulchri, che comprende il diritto di seppellire il cadavere e di celebrare sul luogo i sacrifici funebri. I sepolcri si distinguono in hereditaria, per i quali il ius sepulchri si trasmette di erede in erede senza aver riguardo dei vincoli familiari, e familiaria, per i quali invece il ius sepulchri si trasmette di discendente in discendente, con esclusione dell’erede estraneo. c) Res sanctae. Sono le mura e le porte della città. Gaio afferma che tali cose sono in certo qual modo di diritto divino; tali res sono, infatti, nella proprietà dello Stato e i privati non possono farne oggetto di proprie pretese (come il sovrapporvi una costruzione). È punito con l’esclusione dalla protezione cittadina (sacertas) chi rechi alle res sanctae offese, o ne manifesti disprezzo. Res humani iuris quarum commercium non est. Le res humani iuris sono, di regola, sia in patrimonio sia in commercio. Restano escluse, però, dalla possibilità di costituire oggetto di rapporti giuridici privati le res publicae, cioè le cose che appartengono allo Stato, al populus romanus. Esse escono dalla disponibilità privata mediante la publicatio, oppure sono direttamente acquistate dallo Stato come bottino di guerra. Nel diritto romano tanto le res in usu populi (strade, terme, fori), quanto le res in pecunia populi (fondi, schiavi dello Stato) sono esenti dalle regole del diritto privato. Alle res publicae sono equiparate le res universitatis, cioè le cose pubbliche che appartengono non allo Stato, ma alle singole comunità politiche (universitates) distinte dallo stato: civitates, municipi, coloniae. Classificazione delle res in commercio. A) Cose mobili e cose immobili. Una prima distinzione è quella che si pone fra cose immobili (il suolo e tutto ciò che vi inerisce stabilmente) e cose mobili (animali, schiavi e cose trasportabili). L’importanza della distinzione cresce a partire dall’epoca postclassica, anche in relazione alla scomparsa della contrapposizione tra res mancipi e res nec mancipi. B) Cose di genere e di specie. Cose fungibili e infungibili. Le cose che formano oggetto di negozi giuridici possono venire in considerazione per la loro individualità specifica (species: un’opera di un certo artista), oppure in quanto facenti parte di un genus (un quintale di grano). La distinzione è rilevante in materia di modi di estinzione delle obbligazioni (adempimento, impossibilità sopravvenuta). Conseguenza di tale contrapposizione è che le cose di ―genere‖ si presumono dotate tutte della stesse caratteristiche qualitative essenziali e presentano quindi un’illimitata possibilità di sostituzione nell’ambito del genus, nel senso che ogni quantità di esse è sostituibile con altrettanta quantità prelevata dallo stesso genere, mentre le cose di ―specie‖ non si prestano ad essere sostituite o surrogate da altre, costituendo ciascuna di esse un unicum. Nei casi in cui (ad esempio nel mutuo) il genere considerato è costituito da cose che per loro natura (denaro) o per volontà delle parti sono da ritenere identiche fra loro, esse vengono in rilievo quindi solo per la quantità; i Romani parlavano di cose che vengono in considerazione a peso, a numero e a misura; i moderni, parlano in questo caso di cose fungibili contrapposte alle cose infungibili. C) Cose consumabili e inconsumabili. Vi sono delle cose il cui uso consiste proprio nel distruggerle. Tali sono tutte le derrate e tale è anche il denaro, non nel senso che si distruggono le singole unità metalliche, ma nel senso economico, per cui il denaro si usa con lo spenderlo, cioè, riguardo al soggetto che lo uso, con il distruggerne il valore. Vi sono, invece, altre cose che, pur deteriorandosi più o meno lentamente, non si distruggono al primo uso e sono perciò dette inconsumabili (ad esempio, una macchina). D) Cose divisibili e indivisibili. Dal punto di vista economico-sociale non tutte le cose sono divisibili, poiché per molte di esse la divisione equivale alla distruzione. Si dice allora che sono giuridicamente divisibili tutte quelle cose, le cui parti risultanti dalla divisione continuano ad adempiere alla medesima funzione economico-sociale della cosa intera (come i fondi). E) Cose semplici, composte e collettive. Dal punto di vista economico-sociale, alcune cose sono considerate dall’uso comune come unità, tali che le parti che le compongono non hanno una loro indipendente esistenza, non esistono, cioè, come cose a sé stanti: si parla in questo caso di cose semplici. Altre cose, invece, sono tali che le parti costitutive sono individuabili e distinte, e conservano la propria essenza, salvo che in seguito all’unione nella quale hanno perduto la loro autonomia funzionale per formare un tutto che abbia una propria funzione, diversa da quella delle parti componenti: sono queste le cose composte. Tale distinzione ha importanza perché, mentre riguardo alle cose semplici non si possono concepire rapporti giuridici autonomi sulle singole parti componenti, riguardo alle cose composte può concepirsi l’esistenza sulle parti componenti di diritti e rapporti che rimangono allo stato di quiescenza finché dura la congiunzione, ma si manifestano in tutta lo loro efficacia qualora la congiunzione cessi (reviviscenza). Vi sono, infine, altre cose non materialmente congiunte, che perciò mantengono la loro identità e autonomia, rappresentando ciascuna una cosa a sé stante, ma che, tuttavia, sono tenute insieme dalla funzione collettiva alla quale adempiono: sono queste le cose collettive, come il gregge di pecore. mutuo: perché possa esserci un mutuo è necessario che ci sia la somma di denaro (o altro bene fungibile). Negozio giuridico formale e non formale. Questa classificazione è un po’ più complessa. La forma si riferisce alla manifestazione di volontà, è il modo con il quale la volontà viene manifestata: su questo punto l’ordinamento giuridico può lasciare libertà alle parti oppure imporre delle regole. La presenza o meno di queste regole fonda questa distinzione: nel negozio giuridico formale la manifestazione della volontà deve avvenire secondo determinate regole. Nell’ordinamento giuridico romano sono formali e solenni alcuni negozi giuridici, di derivazione molto antica. Le forme sono per lo più orali, sebbene vi siano alcune forme scritte, come il nomen transcripticium, di istituzione più recente. In questi negozi, se non viene rispettata la forma, il negozio è nullo e non produce effetti. I principali negozi giuridici formali del diritto romano arcaico, che richiedono una forma orale, sono: gesta per aes et libram, in iure cessio e sponsio. Gesta per aes et libram. Si tratta di atti posti in essere a mezzo del bronzo (aes) e della bilancia(libram). La bilancia serve per pesare il metallo. Queste gesta si dividono in tre sottocategorie: nexum, solutio per aes et libram e mancipatio. In comune hanno il fatto di essere negozi giuridici arcaici, risalenti ancora a un’età nella quale non esisteva ancora la moneta coniata e si rendeva necessario pesare il bronzo. In essi era richiesta la presenza (oltre che delle parti) di cinque cittadini romani puberi quali testimoni e di una sesta persona (libripens) con la funzione di reggere la bilancia e pesare il bronzo. Dei primi due negozi si sa invero molto poco, perché il nexum è già scomparso nell’età classica, mentre la solutio per aes et libram si conserva, ma con una funzione diversa da quella che aveva in origine, diventata una specie di remissione del debito da applicarsi solo in ambiti di applicazione molto limitati, cioè solo per certi tipi di debito (legati o sentenze). Il nexum era un negozio con il quale si prestava il bronzo dopo che era pesato sulla bilancia; da questo prestito nasceva un vincolo giuridico sulla cui natura non sappiamo granché. La solutio per aes et libram serviva per sciogliere questo vincolo di natura incerta; era l’atto contrario al nexum, con il quale si restituiva il bronzo avuto in prestito. LA MANCIPATIO è di gran lunga il negozio più importante e si tramanda per tutta l’età classica. Va subito detto che la mancipatio è un negozio giuridico che nel corso del tempo si trasforma, perché originariamente nasce come la vendita di una res mancipi. A questo proposito vale la pena chiarire la contrapposizione fra res mancipi e res nec nancipi. Le prime sono quelle considerate tali tassativamente, e che nell’economia primitiva erano le più preziose; più precisamente erano quattro: gli schiavi, gli animali da traino e da soma, i terreni e i fondi situati sul suolo italico e le quattro più antiche servitù di passaggio. Tutte le altre cose erano res nec mancipi. Per trasferire la proprietà delle cose res mancipi era necessario avvalersi del negozio giuridico della mancipatio. La mancipatio nasce come una vendita di res mancipi e serve per trasferirne la proprietà dietro contestuale pagamento di un prezzo rappresentato dal bronzo. Vediamo ora quale era il rituale. La mancipatio si svolgeva alla presenza di cinque testimoni e del libripens. L’acquirente doveva pronunciare una certa formula (―io affermo che questa cosa è mia per diritto dei Quiriti e che da me è stata acquistata con questo bronzo e questa bilancia‖), dopo di chè il libripens pesa il metallo e l’acquirente consegna il bronzo pesato all’alienante, il quale in questo rituale non dice nulla e si prende il metallo. In questo modo le due parti concludono in accordo una vendita reale: l’accordo è dato dal fatto che l’alienante tace e non reagisce all’affermazione di proprietà dell’acquirente ed accetta il bronzo che gli dà la controparte come affermazione della proprietà dell’acquirente e implicitamente dando il consenso alla vendita. È un accordo su una vendita reale, vale a dire con effetti reali immediati. La mancipatio produce subito il trasferimento della proprietà fra le parti. In questa fase originaria la mancipatio rappresenta un atto d’acquisto di una res mancipi a titolo oneroso, ma tutto cambia con l’avvento della moneta coniata. Il rituale resta inalterato, però la pesatura del bronzo diventa meramente simbolica, è sufficiente infatti che l’acquirente tocchi la bilancia con un pezzettino di bronzo o una monetina, da consegnare all’alienante, senza effettuare la pesatura vera e propria. Ormai si tratta solo di una vendita fittizia (imaginaria venditio), il pagamento del prezzo è ormai ridotto a un mero elemento della forma, non ha più il valore intrinsecamente economico: il pezzetto di bronzo è solo il simbolo del prezzo. Di essenziale rimane l’affermazione di proprietà dell’acquirente, mentre l’allusione alla causa dell’acquisto (di essere proprietario per aver comperato con il bronzo e con la bilancia) ha ormai perso il suo significato. Da un punto di vista giuridico, l’evoluzione della mancipatio comporta che essa a questo punto non è più una vendita reale, un modo di acquistare la proprietà di una res mancipi a titolo oneroso, ma diventa un possibile modo di acquisto della cosa che prescinde dallo scambio che è causa della vendita. In pratica la mancipatio diventa un atto vólto a trasferire la proprietà che può venir realizzato anche per qualsiasi altra operazione economica che comunque comporti un trasferimento della proprietà, come può essere la dote. La mancipatio in questo senso diventa un negozio giuridico astratto, non ha più una causa tipica. IN IURE CESSIO. Anche questo è un modo per trasferire la proprietà, è un negozio giuridico con effetti reali. La cessione avviene in tribunale (in iure cessio = cessione in tribunale) e si tratta di un impiego fittizio dell’antica legis actio sacramento in rem, che era stata inventata dai pontefici per utilizzare quello schema processuale a scopo negoziale. La legis actio sacramento in rem mirava al riconoscimento della proprietà: l’attore, di fronte al convenuto in iure, afferrava la cosa controversa con una mano, con l’altra teneva una festuca per difenderla e contemporaneamente esponeva la vindicatio (diceva che la cosa era sua), ma soprattutto affermava di avere una causa che legittimava la sua difesa della cosa. Analogamente la controparte affermava le stesse cose all’attore (controvindicatio). La in iure cessio è un’applicazione a scopo negoziale di questa forma processuale; in essa le parti interessate al trasferimento della cosa instaurano la fase in iure della legis actio sacramento in rem, con alcuni adattamenti, costituiti dal fatto che l’acquirente davanti al magistrato afferma la prima parte della formula (―affermo che questa cosa è mia per diritto dei Quiriti‖, senza fare riferimento alla causa che la giustifica). Dopo questa vindicatio, il magistrato si rivolge alla controparte/alienante e gli chiede se vuole fare a sua volta la controvindicatio; questi rifiuta oppure resta in silenzio. A questo punto, il magistrato aggiudica la cosa a chi l’ha rivendicata affermando di esserne proprietario, mediante l’addictio (aggiudicazione). Questa procedura non è accessibile agli schiavi e ai filii familias, trattandosi di soggetti che non hanno capacità giuridica e, non potendo essere titolari di diritti e di doveri, non possono rivendicare nulla. Si può utilizzare sia per le res mancipi che per le res nec mancipi, pertanto almeno fittiziamente si tratta di un processo, perché la proprietà viene trasferita mediante addictio, per ogni cosa che possa venir rivendicata. La in iure cessio è un negozio giuridico astratto, perché il trasferimento della proprietà discende da una forma dalla quale risulta solamente la volontà concorde delle parti di trasferire e acquistare la proprietà, ma non risulta il motivo che la determina, tanto che nella formula di chi rivendica la proprietà non vi è riferimento diretto alla causa della proprietà (come avveniva con la legis actio sacramento in rem) . Questa procedura ci è stata esposta da Gaio, che specifica altresì come in realtà essa non fosse mai utilizzata per trasferire la proprietà delle cose perché era poco pratica: in effetti, era inutile andare davanti a un magistrato per compiere quanto si poteva fare comodamente in altro luogo davanti a degli amici tramite la mancipatio. Quest’ultima considerazione vale a maggior ragione per la traditio, un negozio privo di forma che trasferisce la proprietà con la semplice consegna. La in iure cessio veniva adoperata per costituire i diritti reali limitati (usufrutto e servitù), perché anche questi diritti potevano essere oggetto di rivendica. L’ultimo negozio giuridico del diritto romano arcaico con forma orale solenne è la SPONSIO. Si tratta della forma primitiva della stipulatio ed è, diversamente dalla mancipatio e dalla in iure cessio, un negozio giuridico con effetti obbligatori e reali. La forma è quella della domanda e della risposta, da parte del futuro creditore al futuro debitore: la risposta deve avvenire utilizzando lo stesso verbo utilizzato per la domanda e sponsio infatti deriva dal verbo spondere, che significa ―promettere‖ (lo stipulante formulava una domanda del tipo ―prometti che mi si dia cento?‖ e l’altro rispondeva ―prometto‖ [spondeo]). In questa primitiva forma, con il verbo spondere, la sponsio resta limitata ai cittadini romani, mentre con la successiva stipulatio vengono inseriti altri verbi e l’impiego verrà consentito anche agli stranieri (rimane comunque l’obbligo di usare nella risposta lo stesso verbo della domanda). In ogni caso è una domanda per chiedere una prestazione: se il promittente accetta nasce l’obbligazione ad eseguire la prestazione. È una forma molto semplice e il contenuto della domanda può essere molto vario (qualunque tipo di prestazione: dare, fare etc.). Deve inoltre esserci a prova di nullità la congruità fra la domanda e la risposta; ad esempio, se alla domanda ―prometti di darmi lo schiavo Stico oppure lo schiavo Panfilo?‖ seguiva la risposta ―prometto di darti lo schiavo Stico‖, non si ravvisava lo congruità fra domanda e risposta, pertanto la stipulatio era nulla. Per queste ragioni la stipulatio è uno dei negozi più utilizzati nella pratica. Anch’essa ha una forma da cui discende l’effetto voluto dalle due parti, che è quello di obbligare il promittente ad eseguire una certa prestazione, senza indicarne la causa, il perché. Anche in questo caso di tratta quindi di un negozio giuridico astratto. Privi di forma solenne sono anche i negozi più recenti, soprattutto i contratti consensuali, che si perfezionano con il consenso comunque manifestato. Essi sono la compravendita, la locazione/conduzione, la società e il mandato. Ma va ricordato che privi di forma solenne sono anche i contratti reali, nei quali non è sufficiente l’accordo, ma occorre che ci sia anche la consegna di una cosa: questi sono il mutuo, il deposito, il comodato e il pegno. In questi negozi giuridici nei quali la manifestazione della volontà non è soggetta a una forma solenne, assume un ruolo fondamentale la causa per la quale essi vengono posti in essere. La struttura reale potrebbe far pensare che questi contratti abbiano una forma vincolata nella consegna, ma in realtà la consegna è qualcosa di diverso dalla forma, perché nei negozi formali la forma di LA CONDICIO Condizione: evento futuro e oggettivamente incerto dal quale si fanno dipendere gli effetti del negozio più clausola che contempla l’evento. Un negozio con condizione sospensiva non produce i suoi effetti fino a che non si verifichi l’evento; un negozio con condizione risolutiva produce i suoi effetti e cesserà di farlo quando si verificherà l’evento. Il negozio soggetto a condizione si definisce condicionalis, quello senza condizioni puro. Gli actus legitimi sono negozi che non tollerano l’aggiunta di condizioni, la quale comporta l’invalidità dell’atto. Sono actus legitimi la mancipatio, l’in iure cessio, l’acceptilatio, la manumissio vindicta… negozi che si compiono dietro pronuncia di certa verba. Condicio iuris: condizione implicita, non è soggetta al regime giuridico della condizione negoziale. Gli effetti di certi atti sono di per sé subordinati al verificarsi di certi eventi (es. legati subordinati alla morte del testatore e all’efficacia del testamento). Condiciones in praesens vel in praeteritum conlatae: fa dipendere gli effetti del negozio da eventi attuali o passati. Il negozio a cui viene aggiunta questa clausola è subito efficace se l’evento dedotto risulta verificato, altrimenti non viene nemmeno ad esistenza nel mondo giuridico. Condizioni impossibili: l’impossibilità materiale o giuridica della condizione comporta, nei negozi inter vivos, l’invalidità del negozio (non potendosi verificare l’evento dedotto in condizione, il negozio non produrrà mai effetti). Nei negozi mortis causa la condizione si considera come non apposta, quindi il negozio mantiene validità ed efficacia. Condizioni illecite: nei negozi inter vivos di buona fede l’aggiunta di una condizione illecita da luogo a nullità, nella stipulatio da luogo a invalidità iure praetorio (età classica nullità ipso iure). Condizioni positive (subordinano gli effetti del negozio al verificarsi dell’evento dedotto in condizione) o negative (non verificarsi dell’evento). Condizioni potestative (il loro avveramento dipende da un atto volontario di persona interessata), casuali (l’avveramento dipende dal caso o dalla volontà di terzi) e miste (l’avveramento dipende sia dalla volontà della persona interessata, sia dal caso o dalla volontà di terzi). Si ritenne nullo il negozio con condizione potestativa il cui avveramento dipendesse dalla pura e semplice volontà della parte che vi ha interesse contrario. Condizioni potestative negative (l’avveramento è rimesso alla circostanza che la persona che dal negozio trarrebbe vantaggio non adotti in futuro un determinato comportamento, es. se non affrancherai alcun servo). Se non è posto un termine, bisogna attendere la morte dell’interessato, il quale potrebbe far mancare la condizione sino all’ultimo istante di vita  durante la vita dell’interessato il negozio non potrà mai produrre effetti. Condictio pendet (la condizione pende, non si è verificata ed è tuttora incerto se si verificherà, il negozio non produce i suoi effetti e non si sa se li produrrà, il debitore che adempia in pendenza della condizione avrebbe potuto pretendere la restituzione), deficit (la condizione viene a mancare, il negozio resterà senza effetti) e extitit (la condizione si è verificata, il negozio comincerà a produrre i suoi effetti, gli effetti decorrono ex nunc – dal momento dell’avveramento della condizione o ex tunc – dal momento del compimento del negozio, retroattivi). Condizioni risolutive: eccezioni a cui si ricorre nella costituzione di usufrutto con deductio o legato per vindicationem. Se aggiunte ad una stipulatio si ritengono come non apposte e la stipulatio resta valida e pura. Il pretore concede l’exceptio pacti conventi contro l’azione dello stipulante esercitata dopo l’avveramento della condizione, dandole efficacia iure pretorio  trattata come un patto. Patti risolutivi sospensivamente condizionati si poterono aggiungere ad altri negozi: se aggiunti a negozi che davano luogo a giudizi non di buona fede, sarebbe stati tutelati solo in via di exceptio; se aggiunti a negozi che davano luogo a giudizi di buona fede avrebbero avuto anche tutela in via di azione. IL DIES Termine: clausola che prevede un avvenimento futuro e certo dal quale si fanno dipendere gli effetti del negozio. Se termine iniziale, il negozio non produce effetti fino alla scadenza in cui si verifica l’evento. Se termine finale il negozio produce immediatamente effetti, i quali cessano alla scadenza. Alcuni negozi non tollerano l’apposizione di termini, in alcuni comportano la nullità dell’atto (. actus legitimi), in altri si considera come non apposto (es. traditio e stipulatio). Nella stipulatio il pretore da rilevanza al termine finale concedendo l’exceptio pacti conventi contro lo stipulante che agisce dopo la scadenza del termine. Prima della scadenza i negozi con termini iniziali non producono gli effetti tipici. Scaduto il termine iniziale il negozio comincia a produrre i suoi effetti automaticamente (ipso iure), con decorrenza dal momento della scadenza. Nei negozi con termine finale gli effetti già prodotti cessano alla scadenza, con decorrenza dalla scadenza stessa e ipso iure. IL MODUS imposizione al destinatario di un atto di liberalità di adottare un comportamento determinato (simile alla condizione potestativa, ma questa subordina gli effetti del negozio all’avveramento della condizione, se questa non si verifica, il negozio non produce effetti). Il negozio modale è immediatamente efficace e lo rimane a prescindere dall’adempimento del modus, il beneficiario sarà obbligato a compiere quanto il modus gli impone. Il modus aggiunto a un legato può comportare prestazioni in favore di terzi, talché l’erede può non avere interessi ad opporre l’exceptio doli al legatario. Se aggiunto ad un istituzione di erede, se più sono gli eredi ciascuno di essi può pretendere l’adempimento del modus al momento della divisione dell’eredità. Donazionereale: il donante trasferisce al donatario la proprietà del bene che dona, il trasferimento avviene attraverso negozi astratti (mancipatio, in iure cessio, traditio). Se si stabilisce un modus a carico del donatario, può apparire come causa dell’atto di trasferimento  in sostanza ha luogo una datio per una causa che, se venisse a mancare (l’onerato non esegue il modus) legittimerebbe il donante all’esercizio della condictio per la restituzione del donato. IMPUTAZIONE DEGLI EFFETTI NEGOZIALI gli effetti principali si imputano di solito alle parti del negozio. Il nuntius è un semplice portavoce, che riferisce solo quanto è stato invitato a riferire – non può essere detto l’autore del negozio perché non dichiara una volontà propria. I negozi formali e solenni non possono essere compiuti tramite nuntius perché esigono la presenza delle parti. I rappresentanti legali agiscono come organi di una collettività alla quale viene riconosciuta soggettività giuridica. Questi esprimono una volontà propria, gli effetti dell’atto però si producono direttamente ed esclusivamente in capo all’ente rappresentanzaorganica. I negozi di acquisto conclusi da soggetti alieni iuris sono validi ed efficaci, ma l’acquisto avviene in capo all’avente potestà  gli alieni iuris sono organi di acquisto. Responsabilitàadiettizia: gli effetti principali del negozio si imputano direttamente agli autori del negozio, se in determinate circostanze le obbligazioni con atto lecito vengono assunte da un alieni iuris, ne è vincolato anche l’avente potestà. RAPPRESENTANZA: un soggetto autonomo, giuridicamente capace (rappresentante) conclude un negozio ed esprime una propria volontà in nome e per conto di un altro soggetto, con effetti in via immediata diretta ed esclusiva in capo al rappresentato. R. volontaria: i poteri al rappresentante sono conferiti dal rappresentato con un suo atto volontario. R. legale negli altri casi. Il nuntius non è un rappresentante perché non esprime una volontà propria. Non vi rientra la rappresentanza organica perché a concludere il negozio non è un soggetto autonomo, no responsabilità adiettizia perché in essa gli effetti negoziali si imputano sia al dichiarante sia a un terzo. Rappresentanza indiretta: conclusione di un negozio per conto altrui ma in nome proprio con effetti che si imputano al dichiarante, salvo trasferire al terzo per conto del quale aveva concluso il negozio i diritti acquistati ed il dovere del terzo di addossarsi gli obblighi assunti in nome proprio dal dichiarante. Deroghe: la legittimazione ad acquistare e trasferire il possesso con effetti diretti in capo ai proprio amministrati fu riconosciuta al tutor impuberis, ai curatores furiosi e prodigi, al curatore del minore di 25 anni, al procurator omnium bonorum. Nell’età classica si giunse ad ammettere che ogni persona libera, agendo a nome di un terzo, potesse acquistargli il possesso, persino a sua insaputa. Patti e contratti in favore di terzi: vietati, pena la nullità. Deroga in età classica avanzata con la concessione di actiones utiles e in factum a terzi in materia di donazioni, deposito, dote e pegno. COGNITOR: sostituto processuale nominato direttamente dalla persone che desiderava farsi sostituire nel processo, con pronunzia orale e solenne rivolta direttamente all’avversario. Partecipa al giudizio nomine alieno, in nome altrui. Contesta la lite con una formula con trasposizione di soggetti (nell’intentio si trova il nome del dominus litis, soggetto legittimato all’azione, il nome del cognitor figura solo nella condemnatio). Gli effetti preclusivi della litis contestatio si producono direttamente nei confronti del dominus litis, come gli effetti conservativi. Una volta emanata la sentenza di condanna, l’actio iudicati sarebbe spettata direttamente al dominus litis o contro di lui. PROCURATOR AD LITEM: nominato informalmente, anche in assenza dell’avversario. Formula con trasposizione di soggetti, litis contestatio e sentenza non hanno effetto nei confronti nel dominus litis. L’avversario che sostiene la lite nel ruolo di convenuto solitamente pretende che il procurator presti la cautio ratam rem dominum habiturum (promessa che il dominus litis ratifichi l’iniziativa del procurator, non riproponendo l’azione); l’avversario attore pretende dal irrilevante perché, stante l’accordo fra le parti, non vi è errore in corpore, mentre altri lo ritengono rilevante e quindi causa di nullità; f) error in qualitate: l’errore non verte sulla composizione sostanziale, bensì su una qualità della sostanza (si pensi all’esempio del braccialetto d’oro, ma di una lega inferiore, o un vassoio di legno di un’essenza meno pregiata rispetto a quanto ci si aspettava). Ovviamente non è un errore rilevante. A questi tipi di errore che riguardano la sostanza o la qualità della sostanza si riconduce la casistica della vendita degli schiavi; se nel comprarne uno si verifica un errore sul sesso (maschio/femmina), questo è causa di nullità, mentre se, trattandosi di una femmina, la si ritiene vergine mentre in realtà non lo è, il contratto è valido (l’errore sulla verginità è un errore sulla qualità). Se vi è l’accordo sull’identità della cosa e vi sono stati dissensi solo sulla qualità della cosa, il contratto è valido, ma il venditore deve risarcire il compratore del danno che questi ha subito comperando a un prezzo superiore. g) errore sui motivi: il motivo è l’impulso individuale che spinge un soggetto a compiere un negozio giuridico e che è diverso dalla causa. Di regola è irrilevante. I requisiti generali dell'error facti, ivi considerato, sono la sua essenzialità e la sua scusabilità: secondo questi esso doveva essere determinante dell'invalidità del negozio e comunque grossolanamente riconoscibile come derivante dall'ignoranza dell'autore. Ma in alcune ipotesi l'errore aveva la funzione di rendere valido un negozio che (senza l'errore) sarebbe stato invalido: ad esempio, se una cittadina romana sposava uno straniero che era privo di ius connubi, ritenendolo per errore un cittadino romano, il matrimonio sarebbe stato nullo se la donna, con l'erroris causa probatio, non avesse chiesto la convalida del matrimonio e l'acquisto per il marito della cittadinanza romana. Vediamo ora gli altri vizi della volontà : dolo e violenza. IL DOLO è inteso in questo caso come un raggiro posto in essere da un soggetto per far cadere in errore un altro soggetto con circostanze non vere e per indurlo a compiere un negozio giuridico che egli non avrebbe compiuto o avrebbe compiuto a condizioni diverse. Il dolo come vizio della volontà è un raggiro posto in essere da un soggetto per indurre un altro soggetto a concludere un negozio che egli non avrebbe compiuto o lo avrebbe fatto a condizioni diverse. Un esempio in questo senso può essere costituito dal caso nel quale un debitore vada dal suo creditore e gli consegni una lettera, affermando che proviene da Tizio, amico del creditore, nella quale Tizio afferma che pagherà egli stesso il debito. Sulla base di questa lettera il creditore libera il debitore con l’apceptilatio, un negozio giuridico formale e solenne opposto alla stipulatio (in pratica il promittente chiede: ―hai ricevuto la somma di denaro che ti avevo promesso?‖ e l’altro conferma, senza aver ricevuto la somma; è in pratica una quietanza di pagamento). Se si scopre successivamente che la lettera era falsa, è evidente che il creditore è stato raggirato dal debitore. Per lo ius civile questo raggiro è in pratica irrilevante e il negozio posto in essere dal soggetto raggirato resta valido e pertanto il creditore ha perso il credito. Per correggere questa iniquità interviene il pretore che configura il dolo come un illecito penale e concede al raggirato gli strumenti processuali, in particolare due, la exceptio doli (eccezione di dolo)e la actio de doli (azione di dolo). L’eccezione è uno strumento a difesa del convenuto, e presuppone che il raggirato possa ancora essere convenuto in giudizio (che non è sempre possibile, come ad esempio nel caso sopra visto). VIS E METUS Altro vizio della volontà era la vis (violenza fisica), che poteva essere absoluta oppure compulsiva (violenza morale, minaccia). Il principio generale, in base al quale la vis compulsiva (detta anche metus) rendeva il negozio annullabile, IL TIMORE. Esso è quello ingenerato dalla violenza altrui, non tanto una violenza fisica, bensì una violenza morale, cioè una minaccia che induce a volere e si ha quando un soggetto minacci di provocare un male a un altro soggetto se questo non compie un determinato negozio giuridico. Il soggetto minacciato quindi, per timore di subire il male minacciato, compie il negozio voluto dall’autore della minaccia, che egli non avrebbe concluso o concluso a condizioni diverse se non ci fosse stata la minaccia. In altre parole, la vittima della minaccia nell’alternativa fra il male minacciato e il negozio giuridico a lui pregiudizievole preferisce la conclusione del negozio giuridico. Anche qui non c’è divergenza fra volontà e manifestazione della volontà, però la volontà è viziata dalla minaccia. Questa minaccia che induce a volere è irrilevante per diritto civile, e quindi per esso il negozio giuridico è comunque valido: deve intervenire pertanto il pretore a concedere ancora una volta i necessari strumenti processuali, con un regime simile a quello del dolo. Gli strumenti processuali sono tre: exceptio metus, actio metus e retitutio in integrum propter metum. Questi rimedi sono accordati dal pretore in presenza di due presupposti: a) il male minacciato deve essere grave, tale da far paura a un uomo non vile; b) deve trattarsi di un male ingiusto, deve essere diretto cioè a far compiere alla vittima della minaccia un atto che la vittima non è tenuta a compiere (ad esempio, ―se non prometti di trasferirmi la proprietà dello schiavo Stico ti ammazzo‖). Viceversa non sarebbe ingiusto il male minacciato dal creditore al debitore che non paga (―se non mi dai quanto mi devi ti ammazzo‖), perché in questo senso non è un male ingiusto, essendo diretto a far compiere al debitore un atto che egli è tenuto a fare, cioè pagare. La exceptio metus viene concessa alla vittima della minaccia nel caso in cui la persona minacciata sia chiamata in giudizio per l’adempimento del negozio giuridico estorto con la minaccia; è quindi necessario che la vittima possa ancora venire chiamata in giudizio per l’adempimento del negozio giuridico chiuso con la minaccia. Questa eccezione può essere opposta dalla vittima della minaccia non solo all’autore ma anche a un terzo (mentre l’eccezione di dolo era opponibile solo all’autore del raggiro): ad esempio Tizio minaccia Caio di bruciargli la casa se egli non promette a Sempronio di trasferirgli la proprietà dello schiavo Stico. Se egli fa la promessa a Sempronio, ma non esegue la prestazione in seguito e Sempronio, di fronte all’inadempimento, lo chiama in giudizio, Caio potrà opporre a Sempronio l’ exceptio metus. L’actio metusè lo strumento processuale accordato alla vittima della minaccia quando questa abbia già dato esecuzione al negozio giuridico estorto con la minaccia. Se, nell’esempio sopra visto, il promittente ha anche già consegnato lo schiavo Stico, sarà lui a proporre l’azione. Anche l’actio metus è pretoria; è in factum; è penale, ma diversamente dall’actio doli prevede una pena pari al quadruplo del danno arrecato, purché l’azione sia esperita entro un anno dalla minaccia; è arbitraria e perciò il giudice ha il potere di ordinare al convenuto di rimettere le cose come prima, cioè di risarcire il danno all’attore, con il che il convenuto potrà evitare la condanna del quadruplo. L’actio metuspuò essere esperita solo contro l’autore della minaccia. La restitutio in integrum propter metus è un rimedio stragiudiziale concesso dal pretore; è uno strumento che ha la funzione di togliere di mezzo gli effetti prodotti dal negozio giuridico estorto con la minaccia. Il risultato si ottiene fingendo che il negozio giuridico non sia stato compiuto. Ad esempio, Tizio minaccia Caio di bruciargli la casa se non trasferisce la proprietà della sua casa e questi, per paura della minaccia, pone in essere una mancipatio. A questo punto, per eliminare gli effetti del negozio giuridico, Caio non può esperire la reivindicatio perché non ha più la proprietà, e deve chiedere la restitutio in integrum propter metus al pretore. Questo rimedio può essere esperito dalla vittima della violenza anche contro chi non sia l’autore della minaccia. Anche per questi rimedi concessi dal pretore per la violenza valgono le stesse considerazione fatte per il dolo, quando la minaccia abbia portato a concludere un negozio giuridico tutelato con azioni di buona fede (es. il negozio di compravendita): in questo caso non c’è bisogno di questi strumenti pretori. Prendiamo l’esempio di una compravendita: ―se non mi vendi lo schiavo Stico ti ammazzo‖; il venditore vende lo schiavo Stico per paura di essere ucciso, ma dopo non lo consegna e quindi non esegue il suo obbligo. Quando il compratore lo chiama in giudizio, il giudice deciderà che il convenuto non deve nulla perché è il comportamento del compratore che chiama in giudizio il venditore è contrario a buona fede. Lo stesso discorso vale per il caso in cui il venditore abbia anche consegnato lo schiavo, potrà agire con l’azione di vendita senza attuare l’actio metus. L'INVALIDITÀ DEL NEGOZIO L'invalidità dei negozi giuridici poteva dipendere da varie cause: mancanza di qualche requisito essenziale contrasto con la legge incapacità del soggetto indisponibilità del diritto inosservanza delle forme prescritte vizi della volontà A seconda della gravità del difetto, il negozio poteva essere ipso iurenullo o annullabile o rescindibile. ANNULLABILITÀ Al diritto romano era sconosciuto il concetto di annullabilità, perché non era ammissibile che un negozio si potesse trovare in una situazione di efficacia precaria: quod initio vitiosum est, non potest tractu temporis convalescere. Tuttavia, l'ordinamento romano non poteva ignorare i casi in cui il negozio, pur essendo valido, fosse iniquo; questo problema fu affrontato come al solito dal diritto pretorio, che concesse al danneggiato l'esperibilità di alcune exceptiones. NULLITÀ In età classica, l'invalidità assunse il duplice aspetto della nullitàipso iure e della contestabilità ope exceptiones (se l'excepio non veniva opposta, si mutava l'efficacia del negozio da contestabile in definitivo). Se l'exceptio veniva opposta con successo, non poneva nel nulla il negozio ma ne paralizzava gli effetti sul terreno del diritto pretorio, escludendo una condanna del convenuto. Vi era quindi differenza con l'attuale azione di annullamento (che pone nel nulla l'atto). tuttavia un accenno sul il concetto di annullabilità dalla fusione dello ius civile con lo ius honorarium. Guarino distingue tra invalidità ipso iure e invalidità ope magistratuus; inoltre, distingue tra invalidità totale e parziale, perché non sempre la mancanza o il vizio di un requisito sono tali da far venir meno tutto il negozio (utile per inutile non vitiatur), e il negozio invalido poteva APUD IUDICEM (davanti al giudice): in origine questo giudice era un sacerdote, perché era chiamato a giudicare una persona che sicuramente aveva giurato il falso. Gradualmente viene meno il carattere religioso del sacramentum, per diventare una vera e propria scommessa, nella quale chi perde la lite deve versare una somma di denaro; è a questo punto che il giudice sacerdotale viene sostituito da un privato nominato dal pretore, solitamente un privato cittadino che riveste il ruolo di giudice o arbitro. Nelle liti di libertà o ereditarie giudicano organi collegiali pubblici  raccogliere le prove ed emanare la sentenza. Non è necessaria la presenza di entrambe le parti però ―post meridiem litem praesenti addictio‖  se la parte non si presenta entro mezzogiorno, otterrà la ragione la parte presente. La legge delle XII Tavole è una tappa fondamentale, come già visto. Essa recepisce le due fasi sopramenzionate, ma è importante anche perché introduce una nuova legis actio di cognizione (la legis actio per iudicis arbitrive postulationem, legis action per richiesta di un giudice o di un arbitro). Questa innovazione è importante perché si conclude non più con un giuramento o con una scommessa, bensì con una richiesta rivolta dall’attore al magistrato (la richiesta della nomina di un giudice o di un arbitro). Ormai a questa nuova legis actio è ormai estraneo ogni connotato religioso e si avvia il processo di laicizzazione. Esaminiamo ora i copioni a carico delle parti nelle singole legis actiones. Ad eccezione della legis actio per pignoris capionem, che si svolge al di fuori del tribunale, esecutiva, non richiede la presenza né del magistrato né dell’avversario, si può svolgere anche nei giorni nefasti. Il creditore pronuncia certa verba e prende in pegno cose del debitore. tutte la altre iniziavano con un atto (in ius vocatio): l’intimazione che l’attore fa al convenuto affinché egli lo segua davanti al magistrato. Se il convenuto non lo segue in tribunale, l’attore chiama dei testimoni, e con questo atto è autorizzato a trascinarlo ivi con la forza. Questo ius vocativo è il primo atto processuale con il quale si traduce in termini pratici il concetto di contraddittorio, fondamento di ogni processo di cognizione. Il processo di cognizione origina quasi sempre da una lite fra due parti e deve stabilire quale di esse sia dalla parte della ragione; pertanto, è necessario che chi è chiamato a decidere ascolti entrambe le parti, che devono pertanto poter essere libere di esprimersi. Siccome il processo civile si instaura nell’interesse dell’attore, un altro principio fondamentale è che esso procede per impulso dell’attore: sarà costui che dovrà compiere tutti gli atti necessari affinché il processo inizi e poi prosegua. L’attore è colui che deve provvedere a tutti gli atti processuali, a partire dalla chiamata in giudizio. Nel nostro ordinamento il principio di contraddittorio è attenuato, in quanto è sufficiente che il convenuto sia stato regolarmente citato in giudizio perché il processo possa celebrarsi, anche in assenza dello stesso. Invece, per il diritto romano, il principio di contraddittorio è applicato in modo rigorosissimo, nella fase in iure, sia per le legis actiones che per quelle per formulas. Nella fase apud iudicem, la legge delle XII Tavole stabiliva che tutti gli atti dibattimentali dirette dal giudice dovevano svolgersi in presenza di entrambe le parti. Se una parte non compariva, si aspettava fino allo scoccare del mezzogiorno, dopodichè il giudice avrebbe deciso con una sentenza a favore della parte presente. A questo punto, ottenuta la presenza del convenuto in tribunale, possiamo esaminare singolarmente le procedure di ogni legis actio. Legis actio per manus iniectio: (manus iniectio significa imposizione violenta della mano). Si tratta di una procedura esecutiva, diretta a ottenere la realizzazione materiale di un credito che l’attore vanta nei confronti del convenuto. Ottenuta la presenza del convenuto in iure, l’azione cominciava con una prensione materiale del convenuto da parte del creditore, che lo afferrava per una parte del suo corpo, ad es. un braccio, e rivolgendosi a lui, affermava la causa per la quale gli metteva le mani addosso. Al tempo delle XII Tavole questa causa poteva essere costituita da una precedente sentenza di condanna (iudicatum, prevista nella legis actio sacramento) oppure da una precedente confessione giudiziale del proprio debito fatta dal debitore oppure infine dal fatto che l’obbligato fosse stato colto in flagranza di furto. La fraseologia poteva essere ad esempio: poiché tu sei stato condannato a pagare 10 mila sesterzi a mio favore e non mi hai pagato, io ti faccio una manus iniectio a mio favore. Con questa forma il convenuto non poteva eccepire o contestare la causa della manus iniectio. La causa poteva essere contestata da un terzo, chiamato vindex, che interveniva a togliere la mano di dosso (vellere manum). In questo caso si apriva un nuovo processo di cognizione per accertare la fondatezza della causa dichiarata nella manus iniectio. Riprendendo l’esempio suesposto, il vindex poteva affermare che la persona non era stata condannata al pagamento della somma, oppure che la somma era minore, oppure che aveva già pagato. Siccome però le cause che consentivano la manus iniectio godevano di una vastissima notorietà sociale, il vindex, quando interviene, entra direttamente in un procedimento molto notorio (al punto che esso consente anche l’uccisione), per evitare che le contestazioni siano poste in essere per scopi dilatori si stabilì che se il vindex non fosse riuscito a provare l’infondatezza della causa ostativa, sarebbe stato condannato al pagamento di una somma pari al doppio di quella relativa alla causa originaria (litiscrescenza). Se la causa non viene contestata dal vindex, oppure dal convenuto nei casi previsti, il magistrato pronuncia l’addictio, con cui aggiudica al creditore il debitore, riconoscendo la legittimità della manus iniectio e autorizzando il creditore a compiere la duxio, cioè portarselo a casa propria per tenerlo legato in catene. Ovviamente, se il debitore (o un terzo) soddisferà il creditore, dovrà essere liberato, in caso contrario il creditore è obbligato a esporre il debitore per tre mercati successivi, indicando la somma necessaria affinché un terzo possa liberarlo. Dopo questo passo il creditore poteva vendere il debitore come schiavo trans Tiberim oppure disporne in altri modi (anche ucciderlo). In sostanza questa norma legalizza una violenza privata organizzata, una sorta di autodifesa privata all’interno di una norma pubblica. LEGIS ACTIO SACRAMENTO: poteva essere in rem oppure in personam. La modalità IN REM era destinata a tutelare diritti assoluti (come la proprietà o la petitio hereditatis, chiamata in eredità). Ottenuta la presenza del convenuto in tribunale, l’attore afferrava con una mano la cosa ovvero un simbolo di esso (ad es., una zolla di terreno per un fondo) e con l’altra mano teneva una bacchetta di legno (festuca), che simboleggiava una lancia, o un’arma in genere, con la quale toccava la cosa oggetto della proprietà. Il rituale dell’arma era una vestigia della difesa dalla controparte. Contemporaneamente l’attore affermava che la cosa era sua (vindicatio). A questo punto il convenuto poteva assentire, anche solo tacendo o non ponendo in essere alcun comportamento, e in questo caso il magistrato assegnava la cosa all’attore, oppure, poteva fare opposizione, ripetendo le stesse azioni e frasi dell’attore (contravindicatio). A questo punto, le parti si trovano in una situazione di contesa materiale e deve intervenire il re, in qualità di tutore della pace pubblica, rivolgendosi ad entrambi e ordinando loro di lasciare la cosa. Continuano in ogni caso le contestazioni verbali, che terminano con un giuramento sulla veridicità delle proprie opinioni fatto da ognuna delle due parti. Questo giuramento col passare del tempo si trasformerà in una scommessa destinata al pagamento di una somma di denaro da versare all’Erario da parte del soccombente. In questa situazione, almeno una delle due parti ha giurato il falso, e in questo diritto romano lo spergiuro è considerato un crimine. Interviene il re, in qualità di capo della giustizia criminale, per stabilire la parte che ha ragione. Questo compito sarà poi del sacerdote e infine del giudice privato. Il giudice deve stabilire quale dei due sacramenta sia vero; pertanto, è solo indirettamente che si riconosce quale delle due pretese su cui si fonda il processo sia corretta, perché il giudice si pronuncia solo sulla giustizia o meno del giuramento. L’aspetto singolare è che le parti parlano solo fra di loro e non si rivolgono mai al re o al magistrato. Questo fa propendere la tesi per la quale questo procedimento, quando è stato instaurato da parte dei pontefici, le controversie erano poste al di fuori della normale competenza del re e non esisteva un processo civile privato; tale spiegazione inoltre spiega anche il simulacro della lotta iniziale. La legis actio sacramento IN PERSONAM serviva per il riconoscimento di un credito. Ottenuta la presenza del convenuto in iure, l’attore chiede di ammettere o di negare questo obbligo. Se il convenuto confessa, il magistrato autorizza ad agire contro di lui con la manus iniectio. Se invece egli contesta la pretesa dell’attore, le due parti allora si sfidano a un reciproco sacramento, con le modalità sopra viste. carattere esecutivo, realizzazione di posizioni giuridiche soggettive per cui una legge vi abbia fatto rinvio. Esperibile per l’esecuzione di un giudicato manus iniectio iudicati per il creditore in favore del quale viene emessa una sentenza per cui l’avversario è stato riconosciuto debitore di una somma o per il confessus (convenuto che in iure ammette il proprio debito). Manus iniectio pro iudicato per lo sponsor che ha prestato garanzia, ha saldato il debito e il debitore garantito non lo ha rimborsato entro 6 mesi. Manus iniectio pura per gli eredi contro i legatari che percepiscono un legato di più di mille assi (lex Furia testamentaria). Procedimento: dinanzi al magistrato il creditore enuncia la causa del credito che pretende spettargli, l’importo e dichiara di manum inicere, afferrando il debitore. Il debitore può indicare un vindex per sottrarsi alla manus iniectio, se no il pretore pronuncia l’addictio del debitore in favore dell’attore (può tenerlo in catene per 60 giorni). Nella manus iniectio pura il debitore può sottrarsi anche se non interviene nessun vindex e può negare il debito affermato dall’attore  in caso di soccombenza condanna in duplum. LEGIS ACTIO PER IUDICIS ARBITRIVE POSTULATIONEM: è una legis actio di cognizione più recente, nota anche nelle XII Tavole, esperibile dal creditore per far valere un suo credito nascente da una sponsio (la sponsio era la forma più antica con la quale si faceva la stipulatio; era praticamente uguale a questa, con la differenza del verbo spondere). Ottenuta la presenza del convenuto in iure, l’attore afferma l’esistenza del credito sulla base della sponsio; se il convenuto nega, l’attore si rivolge direttamente al magistrato per rivolgergli la propria richiesta di un provvedimento per la nomina di un giudice. In questa azione si vede che per la prima volta il magistrato è titolare di una iurisdictio. L’attore non sfida il convenuto in un giuramento, ma si rivolge a un magistrato per richiedere un giudice. È questa la prima volta di un’idea moderna di processo, nella quale non vi sono più residui della possibilità di farsi giustizia da sé. damnum infectum e alle cause in cui giudicava un collegio di centumviri (cause di eredità, impugnazioni di testamento ecc..) In seguito già sotto Augusto altri settori furono sottratti al processo formulare e devoluti ad un nuovo processo: le Cognitionies per le nuove situazioni nascenti e riconosciute dal diritto imperiale derivanti dai fedecommessi ecc.. oppure in merito a controversie (come quelle attinenti alla libertà del soggetto) che si erano di competenza del p. formulare ma si ritenne meritassero maggiore attenzione e quindi una cognitio. Per quanto riguarda invece il territorio applicato anche fuori da Roma, nelle province, nei municipium e nelle coloniae. I MAGISTRATI E LE PARTI Magistrati :principali erano i 2 pretori. Se la fase in iure si svolgeva davanti al p. urbano anziché quello peregrino gli atti erano nulli, infatti la competenza era limitata non solo sulla base della cittadinanza ma anche territorialmente. In pratica la territorialità del p. urbano si estendeva in tutta Italia ma se il convenuto risiedeva in una colonia o in un municipium in cui risiedevano magistrati con iurisdictio la sua competenza si limitava a giudicare in materie che non potevano essere giudicate dai magistrati locali. A Roma oltre i pretori aveva la iurisdictio: gli edili curuli ma solo in merito a controversie nascenti da vendite di schiavi o animali e da lesioni o danni a cosa causati in luoghi pubblici da cani, animali. Nelle province invece avevano la iuridictio: i governatori = praetores aggiunti a quelli di Roma poi propretores e proconsules (scaduti dalla carica e destinati a ulteriore compito dal senato). In Egitto: il praefectus. Altri magistrati collaboravano con il prefetto e spesso erano dei suoi delegati. Parti : il p. formulare poteva essere promosso solo dal soggetto interessato purchè capace, incapaci erano coloro che non potevano avere diritti propri nonché coloro che erano sottoposti a tutela e curatela. Se lo status controverso era quello di libero o schiavo era necessario che altri (adsertor in libertatem) stesse in giudizio al posto dell’interessato. Il tutor sostituiva lìinfans o lìimpubere assente o impedito altrimenti interponeva l’auctoritas = questa occorreva anche alla donna ma ormai solo in caso di legis actio o di iudicium legitimum. Il curator sostituiva sempre il furiosus, il malato di mente il prodigo interdetto. Il ricorso a dei rappresentanti era necessario in ogni caso ai soggetti diversi dalle persone fisiche (popolo romano) e se il rappresentante era un magistrato non si applicava né il dir privato né il processo formulare; se invece era un cittadino privato si applicava il p. formulare. Municipes e coloni stavano in giudizio o tramite un loro cittadino o un magistrato o un apposito actor_anche per i collegia. Anche le persone fisiche capaci potevano farsi sostituire da un cognitor_per quella specifica causa o da un procurator bonorum o in mancanza da un procurator ad litem specifico. Il convenuto poteva essere sostituito dal defensor. AZIONI E FORMULE Sebbene gli atti con cui l’attore iniziava e portava avanti il processo non erano formali, nella fase in iure seguivano un certo modello = i modelli erano chiamati actio , ognuna specifica per ciascun situazione ed era contrassegnata dalla formula che conteneva gli elementi essenziali di tale situazione. Le actiones erano elencate negli editti dei pretori, degli edili curuli e dei governatori, esse erano quindi tipiche e corrispondevano ciascuna ad una situazione giuridica, ma la loro tipicità non era insuperabile perché i magistrati fino al periodo classico poterono concede con un decreto un’actio capace di tutelare situazioni giuridiche nuove. Le formule infatti erano adattabili. Ad ogni schema o modello elencato nell’editto corrispondeva un’actio come potere di compiere quell’atto_ poteri che spettavano solo a chi era titolare di quella situazione giuridica. LA STRUTTURA DELLA FORMULA Il processo per formulas prende il nome da un documento scritto, detto appunto formula (o iudicium), concordato dalle parti (attore e convenuto) innanzi al magistrato giusdicente, e indirizzato a un giudice privato, unico o collegiale, che avrebbe dovuto emettere la sentenza. Il giudice, infatti, avrebbe dovuto condannare o assolvere il convenuto basandosi sui termini della controversia trasfusi nella formula così come essa veniva concessa dal magistrato giusdicente alla fine della prima fase del processo (fase in iure). La formula, quindi, era il programma di giudizio, rivolto al giudice, sul quale si fondava il processo; e anzi il processo si considerava istituito soltanto quando, con la litis contestatio, il magistrato munito di iuris dictio concedeva la formula (iudicium dabat) così come essa risultava concepita per accordo delle parti in causa, le quali, a loro volta, avrebbero partecipato alla litis contestatio: l'attore infatti iudicium dictabat (recitava la formula) e il convenuto iudicium accipiebat (accettava la formula). Va precisato che nel processo formulare la condanna, come ricorda Gaio nel quarto commentario delle sue Istituzioni, era sempre pecuniaria, e doveva dunque essere espressa in una somma di denaro, non essendo prevista la possibilità di una condanna in ipsam rem, ossia in forma specifica. Le formule sono dunque programmi di giudizio, rivolti al giudice privato che dovrà emettere la sentenza, fondamentalmente strutturate come un discorso ipotetico e alternativo; vi erano, però, anche schemi verbali strutturati diversamente, come per esempio i praeiudicia, in cui al giudice si imponeva semplicemente di verificare una determinata circostanza (le cosiddette azioni di mero accertamento), di fatto o di diritto, senza procedere ad alcuna condanna (Gai. 4.44). I modelli delle formule erano previsti negli editti dei magistrati muniti di iuris dictio: fondamentalmente, in quelli dei due pretori (urbano e peregrino), ma anche degli edili curuli. Oltre a queste formulae, il magistrato giusdicente avrebbe potuto accordare, di volta in volta, anche altri programmi di giudizio concepiti in funzione del caso concreto prospettatogli dalle parti, e in tali ipotesi gli schemi formulari si dicevano actiones in factum. Quando lo avesse ritenuto opportuno, inoltre, il magistrato avrebbe potuto anche modificare gli schemi formulari delle azioni previste nell'editto (cosiddette azioni dirette), inserendovi, a seconda dei casi, alcuni adattamenti (per esempio, fictiones), allo scopo di aiutare, supplire o correggere il ius civile (adiuvandi velsupplendivel corrigendi iuris civilis gratia). Nel processo formulare, comunque, le azioni erano tipiche; e tipica era anche, in età classica, la tecnica con la quale le formule delle azioni previste nell'editto erano costruite. Analizzando la struttura delle varie formule i giuristi romani ne individuarono gli elementi costitutivi (partes formulae) e la tecnica con cui essi potevano esser fra loro combinati, distinguendo alcune parti che ricorrevano più frequentemente nella pratica, e che oggi vengono comunemente dette parti ordinarie. Gaio ci elenca quattro partes formularum nelle sue Istituzioni fornendo di ciascuna la definizione: Le parti delle formule sono queste: demonstratio, intentio, adiudicatio, condemnatio. LA DEMONSTRATIO (fatti da cui è nata la controversia) Indicava il fatto o i fatti da cui era nata la controversia, veniva inclusa nelle formule in cui né l’intentio né altre clausole davano al giudice gli elementi per stabilire se condannare o assolvere il convenuto L’INTENTIO (pretesa dell’attore in forma ipotetica) Riproduce il forma ipotetica la pretesa dell’attore sempre come oggetto dell’accertamento del giudice. Pretesa enunciata come condizione della condanna del convenuto. Prima intentio = riferita da Gaio era determinata ricorreva nelle formule delle azioni con cui si chiedeva la tutela di un credito o cosa determinata Terza intentio = riferita da Gaio era determinata e ricorreva nelle rei vindicatio a tutela della proprietà. Entrambe erano pericolose per il convenuto perché se dichiarava che gli erano dovute somme maggiori o cose in numero e dimensioni maggiori di quanto fosse effettivamente oppure se gli apparteneva solo una parte della cosa commetteva pluris petitio e perdeva la lite. Determinata era anche l’intentio delle azioni introdotte ex novo dal pretore. Seconda intentio = riferita da Gaio era indeterminata e apparteneva alla categoria di quelle che davano una formula incerta. A causa della sua indeterminatezza doveva doveva essere preceduta da una demonstratio. Variante di questa si aveva nei casi in cui il rapporto era fondato solo sulla fides. Il iudicium che derivava da una formula indeterminata fu chiamato iudicium bonae fidei L’ADIUDICATIO (potere del giudice di attribuire a ciascuno parte di beni e diritti) Era la parte della formula con si attribuiva al giudice il potere di attribuire una cosa a qualcuno dei litiganti: es. se i coeredi agivano per avere la divisione dei beni dell’eredità. Era una clausola tipica delle formule divisorie e il giudice con questa aveva il potere quindi di attribuire diritti proporzionalmente alla misura in cui la parte partecipava all’eredità. Le parole quantum aiudicari oportere limitavano limitavano il potere del giudice che si doveva attenere alla misura della partecipazione di ciascuna parte all’eredità ma gli lasciavano cmq un margine di discrezionalità in quanto poteva stabilire se le porzioni dovessero essere stabilite in modo matematico o se fosse più opportuno assegnare una parte maggiore a un coerede obbligandolo a pagare la differenza. Stesso vale per il regolamento di confini_traccavano lo linea di confine. LA CONDEMNATIO (potere del giudice di condannare o assolvere_conclusione logica a cui portavano le altre clausole) Conferiva la giudice il potere di condannare o assolvere, ed era la conclusione logica a cui portavano le altre clausole della formula. Oggetto della condemnatio era sempre una somma di denaro_per evitare l’esecuzione sulla persona e poi perché era facilmente procurabile da parte del convenuto. Condemnatio certae pecuniae = indicava precisamente la somma di denaro a cui il giudice se c’erano i presupposto doveva condannare. di Aulo Agerio)  il giudice stabilisce secondo criteri di buona fede quali sono gli obblighi a carico del convenuto. Sono azioni di buona fede quelle nascenti dai quattro contratti consensuali (compravendita, locazione, società, mandato). Iudiciastricta: azioni civili in personam, dovere giuridico di adempiere da parte del debitore espresso nell’intentio con un oportere puro e semplice, non ex fide bona. Azioni pretorie sono rimedi supplendiiuriscivilisgratia: tutelano rapporti iure civili non specificamente tutelati. Azioni utiles: azioni nelle cui intentio si fa riferimento allo ius civile. Azioni infactum: prescinde del tutto dal ius civile, nella formula la condanna o assoluzione si fa dipendere dal verificarsi o no di certi eventi. Manca ogni riferimento a iusQuiritium, ius, oportere… Actionesficticiae: nell’intentio il giudice è incitato a giudicare sulla base di una finzione, come se esistesse un elemento in effetti mancante, ma che secondo il ius civile sarebbe stato necessario per dar luogo ad una situazione riconosciuta e tutelata. Azioni con trasposizioni di soggetti: per dar modo al giudice di condannare il convenuto nonostante il difetto nell’attore di legittimazione attiva, si indica nell’intentio il nome del soggetto effettivamente legittimato e nella condemnatio il nome della parte che sta effettivamente in giudizio al posto del legittimato. Azioni in rem: la pretesa dell’attore è erga omnes affidandosi al giudice, nell’intentio, il compito di accertare la spettanza all’attore di un potere assoluto sulla cosa per cui si controverte. Nell’intentio figura solo il nome dell’attore, nella demonstratio figurano quello del convenuto e dell’attore insieme. La persona del convenibile con azioni reali si determina al momento della litiscontestatio, non a priori  l’azione reale segue la cosa – è proponibile contro chi possieda il bene che ne è oggetto (es. rei vindicatio). Azioni in personam: l’attore si afferma creditore ed assume che l’avversario è tenuto verso di lui ad un certo comportamento. La pretesa attrice è specifica verso un soggetto determinato, il nome del convenuto figura già nell’intentio con il nome dell’attore. La figura del debitore è determinata sin dal momento in cui sorge la relativa obbligazione (es. condictio, giudizi di buona fede, azioni penali). Es. formula condictio = intentio + condemnatio (actiocertaecreditaepecuniae se il credito è costituito da una certa somma di denaro). Diverso regime processuale. In caso di indefensio nelle azioni in personam il pretore può dare corso all’esecuzione patrimoniale (missio in bona di tutti i beni dell’indefensu) o all’esecuzione personale. In caso di azioni reali il convenuto deve consentire all’avversario l’esercizio di fatto del diritto che questi reclamava translatio possessionis – sanzioni se il convenuto non soddisfa neanche l’onere del trasferimento del possesso – actio ad exhibendum per beni mobili, inderdicta vari per beni immobili. Se una volta si agisce con actio in personam (intentio in iusconcepta) la lite non è ripetibile ipso iure. Nel caso di azioni reali l’azione è ipso iure ripetibile, ma il convenuto avrebbe opposto validamente l’exceptio rei iudicataevel in iudiciumdeductae. Azioni arbitrarie: azioni la cui formula contiene una particolare clausola per cui il giudice, verificata l’intentio, prima di procedere alla condanna pecuniaria avrebbe dovuto invitare il convenuto a restituire, e condannarlo sono in caso di mancata restituzione (condanna sempre espressa in denaro) – giova a entrambe le parti (l’attore consegue il vero oggetto della sua pretesa con la restituzione e il convenuto evita la condanna ad un pagamento che potrebbe non essere in grado di affrontare). Se il convenuto su invito del giudice non restituisce, l’importo della condanna pecuniaria è stabilito dall’attore sotto giuramento – sicuramente avrebbe giurato un valore superiore a quello di mercato, aggiungendo un valore affettivo. Se manca la clausola restitutoria il giudice deve condannare il convenuto pure se dopo la litiscontestatio questi soddisfa le giuste pretese dell’avversario  riferimento alla situazione giuridica al tempo della litiscontestatio. La clausola restitutoria esiste solo nelle azioni reali. Azioni penali: azioni in personam, poenampersequimur. Il privato, vittima di un illecito, ne persegue l’autore con una pena corporale o pecuniaria (nel processo formulare solo pecuniaria). Azioni reipersecutorie: rem persequimur, persegue la res = ogni interesse patrimoniale che si assumeva leso, chi agisce pretende di essere reintegrato  funzione risarcitoria. Le azioni penali sono tutte reipersecutorie, quelle in personam no  riferimento al regime giuridico dell’azione. Le azioni penali sono passivamente intrasmissibili (non si possono esercitare contro gli eredi dell’autore dell’illecito) e sono cumulabili (in caso di + autori dell’illecito, l’azione può essere esercitata per intero contro ognuno di essi, tutti devono pagare l’intera pena obbl. solidale cumulativa). Nelle azione reipersecutorie il cumulo è escluso: l’interessato che esige una volta il risarcimento per intero deve ritenersi soddisfatto. Pena e risarcimento non sono incompatibili: è quindi possibile cumulare azione penale e azione reipersecutoria se nascenti dallo stesso illecito; è impossibile cumulare più azioni reipersecutorie. Le azioni penali possono essere civili o pretorie (queste sono annali – entro un anno dall’illecito); possono essere esperite in via nossale (es. azioni penali per gli illeciti commessi da soggetti a potestà  l’azione viene data come noxalis contro l’avente potestà, il quale, se soccombente, è posto davanti all’alternativa di pagare la pena prevista o dare a nossa il colpevole soggetto alla sua potestà tramite mancipatio) noxa caput sequitur: la responsabilità penale per i delitti segue la persona del colpevole. Dagli inizi del principato inizia un processo di depenalizzazione del diritto privato:  in id quodpervenit: contro gli eredi del colpevole può essere proposta azione non penale nei limiti dell’arricchimento;  deroghe al principio del cumulo tra azioni penali e reipersecutorie  nossalità solo per schiavi e non più per filiifamilias Actio iudicati: per l’esecuzione della sentenza nel processo per formulas soccorre l’actio iudicati, actio in personam che presuppone una sentenza di condanna espressa in denaro, con conseguente obligatio iudicati, e che il debitore non abbia adempiuto entro 30 giorni. Avviata la fase in iure dell’actio iudicati, se il convenuto riconosce di essere tenuto, il pretore da corso all’esecuzione. Il convenuto può anche negare i presupposti dell’actio, opponendo che non vi fosse stata alcuna valida sentenza di condanna, che i termini per l’adempimento non fossero ancora trascorsi o di avere già adempiuto  azione di accertamento  l’infitiatio comporta la condanna in duplum se la contestazione è infondata. Procedure esecutive contro il iudicatus Esecuzione personale: il pretore pronunzia addictio del debitore in favore del creditore, autorizzandolo a condurre il debitore nelle proprie carceri e tenerlo in stato di assoggettamento fino a quando altri non lo avesse riscattato o lo stesso debitore non avesse riscattato il debito con il suo lavoro. Esecuzionepatrimoniale: inizia con la missio in bona, mediante la quale il pretore immette il creditore nel possesso di tutti i beni del debitore  custodia e conservazione patrimonio. Il pretore dispone anche la proscriptio, per dare notizia della procedura in corso a tutti gli altri eventuali creditori e dar loro l’opportunità di intervenire (procedura concorsuale). Passati 30 giorni dalla proscriptio senza che il creditore fosse stato soddisfatto, il debitore diviene infame. Intervenuti i creditori e trascorsi i termini della proscriptio, il pretore può nominare un curator bonorum per gestire in via provvisoria il patrimonio del debitore. I creditori designano un magisterbonorum, che prepara la vendita all’asta del patrimonio, stabilendone le condizioni  approvazione del pretore. Vince l’asta chi offre di pagare la più alta percentuale di debiti = bonorumemptor subentra dal lato attivo e da quello passivo nella situazione giuridica patrimoniale del debitore, considerato successore iure pretorio del debitore. Le azioni sono le stesse che spetterebbero al debitore, adattate attraverso una fictio (formula in cui si invita il giudice a giudicare come se il bonorumemptor fosse l’erede del debitore) o attraverso una formula con trasposizione di soggetti. Procedure esecutive in assenza di giudicato: si può dar luogo alle procedure esecutive anche a prescindere dal preventivo esercizio dell’actio iudicati (es. per i convenuti che ricusano di se difendere nelle azioni in personam, vocatus in ius che non segue l’attore nel luogo del giudizio, assenti per cui nessuno assume la defensio…) Cessiobonorum: cessione volontaria di tutto il patrimonio ai creditori, consentita al debitore insolvente perché sfortunato  avranno luogo procedura concorsuale, vendita all’asta e acquisto dei beni ad un bonorumemptor, ma non proscriptio, esecuzione personale e infamia. Distractiobonorum: il pretore nomina un curator bonorum per alcuni incapaci, il quale provvede a vendere singoli cespiti ereditare fino a soddisfare i creditori con il ricavato. Interdicta: ordini processuali che vietano determinati comportamenti, emessi su domanda di un privato contro altro privato. Agli inizi di trattava di divieti perentori del magistrato, poi divennero ordini condizionati: proibitoria, restitutoria o exhibitoria. Il pretore procede ad esame sommario delle ragioni degli interessati ma l’interdictum è molto articolato, facendo riferimento ai presupposti che lo giustificano  se l’intimato riconosce l’esistenza di quei presupposti, obbedisce all’ordine del magistrato. Se no si da luogo ad un accertamento. Gli interdicta sono tipici, previsti nell’editto caso per caso. In integrumrestitutio: rimedio pretorio corrigendi iuriscivilisgratia. Comporta il ripristino della situazione giuridica quale era prima dell’evento i cui effetti giuridici il pretore vuole rimuovere. Procedimento: contradditorio tra le parti, il pretore accerta se sussistono o no le ragioni per la concessione della restitutio. Il pretore non avrebbe potuto rendere nulli effetti giuridici già prodotti iure civili, concede solo mezzi giudiziari tali da neutralizzare gli effetti senza formalmente annullarli. I casi in cui il pretore avrebbe fatto ricorso ad in integrumrestitutio sono solitamente indicati nell’editto. Cautiones (stipulationspraetoriae): espedienti pretori per colmare le lacune del ius civile, vi si ricorre in casi determinati per i quali manca un obbligo giuridicamente sanzionato al compimento di una certa prestazione e il pretore ritiene equo che quell’obbligo ci sia. Su istanza dell’interessato compiuti gli accertamenti, il pretore impone alla parte contro cui è stata avanzata l’istanza di obbligarsi con stipulatio, promettendo all’avversario la prestazione  nasce obligatioiuriscivilis, sanzionata da actio ex stipulatu – l’obbligo giuridicamente mancante scaturisce così da un contratto riconosciuto iure civili. I contenuti della cautiones sono previsti nell’editto pretorio. momento. Ogni fatto che avvenga successivamente alla litis contestatio non può più essere preso in considerazione dal giudice nella decisione che prenderà. Facciamo l’esempio delle obbligazioni nate da delitto. L’obbligazione è un vincolo giuridico che lega due soggetti e può nascere (fonte dell’obbligazione) da atto lecito (contratto) o illecito (furto, danneggiamento, ingiuria). In quest’ultimo caso l’obbligazione ha per oggetto una somma di denaro, che nell’esempio del furto il ladro deve pagare al derubato. Questa somma viene pagata come pena, con come risarcimento del danno. Per far valere ciò, il derubato ha a disposizione l’azione di furto. In generale, quando una persona muore gli obblighi e i diritti si trasmettono agli eredi, ma non le obbligazioni che nascono dal delitto (il figlio non deve pagare per il delitto del padre). L’azione di furto va esperita solo contro il ladro, non contro il suo erede. Se il derubato ha agito con l’azione di furto e il ladro ha accettato la formula, se il ladro muore prima della sentenza di condanna, ma dopo la litis contestatio, l’azione si trasmette in eredità. Come visto, la litis contestatio si svolge in due atti, necessari affinché il processo possa proseguire. L’attore deve dictare iudicium e il convenuto deve accipere iudicium, nella quale egli può opporsi alle pretese vantate dall’attore oppure confessare l’esistenza del diritto (confessio in iure, la quale, come già visto, vale come una condanna soltanto se la pretesa dell’attore consiste in una somma in denaro). Negli altri casi il processo deve continuare, perché il giudice deve stimare il valore della lite: nel processo per formulas, lo ricordiamo, le pretese possono essere fatte valere solo per somme di denaro. Il pretore potrebbe anche non concedere l’azione, con la denegatio actiones, perché si accorge che il processo sarebbe inutile. Un primo effetto della litis contestatio è quello di fissare gli estremi della controversia in quel momento, rendendo irrilevanti per il giudice tutti i fatti che potrebbero verificarsi successivamente. Un’eccezione a questa regola è data dal pagamento effettuato dal convenuto dopo la litis contestatio. A rigore non dovrebbe essere preso in considerazione dal giudice, che dovrebbe condannare comunque il convenuto. In questo caso vi era discordanza di interpretazioni fra la scuola proculeiana e quella sabiniana. La prima non dava rilevanza al pagamento, ma prevalse la dottrina della scuola sabiniana, che riteneva che il pagamento dovesse venir considerato dal giudice e quindi questi doveva chiudere la sentenza con l’assoluzione. Altro effetto della litis contestatio è quello preclusivo, cioè di precludere la possibilità che la stessa azione potesse venir aperta in futuro: la stessa controversia non poteva riproporre in seguito (bis de eādem re ne sitactio: non vi sia due volte azione per la stessa controversia). Tutte le ipotesi finora fatte finora danno per scontato che vi sia l’accordo nella litis contestatio; ma può accadere che il convenuto non accetti la formula nella fase in iure, impedendo la litis contestatio. Questo caso si chiama indefensio, un contegno del convenuto che non può andare esente da sanzioni, che sono diverse a seconda che l’atteggiamento passivo sia su azioni in rem (su diritti reali) o su azioni ad personam (su diritti di credito). I diritti reali sono diritti sulle cose (da res, cosa) che assicurano al loro titolare un utilizzo più o meno ampio dell’oggetto. Essenziale per definire un diritto reale è che esso vale erga omnes, nei confronti di tutti: impone cioè a tutti i terzi non titolari del diritto, un dovere unicamente negativo, quello di non impedire l’esercizio del diritto al titolare, senza portare ingerenze. Ne sono esempi il diritto di proprietà, le servitù prediali, l’usufrutto (e i diritti affini di uso e di abitazione), il diritto di pegno. È un diritto erga omnes: chiunque non rispetti l’esercizio del diritto di proprietà può essere convenuto in giudizio, con l’azione dell’attore sulla cosa (azione in rem) e contro chiunque turbi il suo diritto di proprietà (erga omnes). Ovviamente poi l’azione sarà fatta in concreto contro un determinato soggetto. L’azione di rivendica (reivindicatio) è usata contro lo spossessamento illegittimo, per il diritto di proprietà sulla cosa. L’actio negatoria servitutis è l’azione che il proprietario del fondo può esercitare contro chiunque tenga quel comportamento, provando di essere il proprietario, il quale ha il diritto di negare la servitù di passaggio contro la sua volontà. Anche questa è un azione erga omnes. È sotto la legittimazione passiva che un diritto reale si diversifica da un diritto di credito. L’obbligazione è un vincolo giuridico che lega due soggetti, in base al quale il debitore è vincolato ad eseguire una certa prestazione a favore del creditore. Nel rapporto obbligatorio il creditore vanta una pretesa verso un soggetto ben determinato, anche se ha per oggetto una cosa, ad esempio nel contratto di deposito. Il deponente deposita una cosa presso il depositario; dalla consegna di questa cosa nasce l’obbligazione di restituirla. In questo caso il deponente è il creditore, il depositario è il debitore: il diritto è di credito, la pretesa della restituzione (della cosa). Ciò significa che diversamente dall’interesse del diritto reale l’interesse del creditore sarà soddisfatto quando il debitore eseguirà la prestazione dovuta. Il titolare del diritto di credito ha bisogno della cooperazione del debitore per la soddisfazione del suo interesse. Può pretendere che venga eseguita la prestazione, altrimenti può portarlo in giudizio con una azione in personam (contro la persona, cioè contro il debitore, per far valere il rapporto obbligatorio). Come si vede, il legittimato passivo è una persona ben determinata. Vi sono sanzioni a carico del convenuto nell’ipotesi in cui esso impedisca la litis contestatio e renda impossibile il processo, a seconda che si tratti di indefensio in actio in rem oppure di indefensio in actio in personam. Nell’indefensio in azione in personam, il pretore autorizza l’attore a procedere esecutivamente contro il debitore. Questa è una sanzione gravissima, perché il pretore autorizza a procedere sul patrimonio del debitore (indefensus), rilasciando un provvedimento detto missio in bona, l’immissione dell’attore nei beni del debitore. L’indefensioin rem è meno grave e il convenuto perde il possesso della situazione giuridica contestata dall’attore, con un’inversione dell’azione possessoria. Per esempio, nella reivindicatio il pretore prende la cosa controversa e la assegna all’attore, cioè gli dà il possesso di quella cosa di cui egli si professa proprietario e la dà all’attore, che può quindi esercitarvi il diritto del quale il convenuto si dichiarava titolare; il diritto sarà esercitato dall’attore senza processo e senza alcuna prova da parte dell’attore del diritto di proprietà. L’attore è liberato dall’onere della prova, perché il processo non ha luogo. Se per ipotesi il convenuto ha deciso di non difendersi dopo l’aggiudicazione della cosa all’attore e si verifica un ripensamento del convenuto tramite un’azione di rivendica verso l’attore attuale possessore, l’onere della prova sarà invertito, come del resto era invertita l’azione, che parte dall’ex convenuto, e sarà costui a dover provare la sua proprietà. Riassumendo, mentre nelle azioni in personam il convenuto ha l’obbligo di difendersi, in quelle in rem ha solo un onere di difesa GLI EFFETTI DELLA LITIS CONTESTATIO La litis contestatio aveva prima di tutto l’effetto processuale di sottoporre al giudice la controversia esistente tra le parti = se ne fissavano così i termini, domande e difese delle parti erano inserite implicitamente o esplicitamente nella formula in modo non più modificabile e si poneva il sigillo definitivo. Punto di riferimento del giudice era la situazione esistente al momento della litis contestatio a meno che la formula non gli prescrivesse diversamente. Se quindi la situazione di cui l’attore chiedeve tutela esisteva al momento della ltis contestatio, fatti estintivi posteriori non dovevano essere presi in considerazione. Aveva anche effetti più profondi infatti sottometteva le parti alla sentenza del giudice e nel contempo riconosceva al giudice il potere di incidere con la sua pronuncia sulle loro situazioni giuridiche. Poiché il convenuto non poteva essere vincolato da due obbligazioni contemporaneamente quando il giudice pronunciava la sentenza cadeva il vincolo della litis contestatio e nascevano quelli della sentenza APUD IUDICEM, davanti al giudice, si svolgono gli atti dibattimentali, con le prove delle affermazioni delle due parti. Vengono assunte soprattutto prove testimoniali, con le arringhe degli avvocati. Ciascuna parte deve provare le proprie affermazioni: l’onere della prova grava su colui che afferma e non su colui che nega. Il convenuto dovrà provare le eccezioni in senso tecnico; ma il giudice potrebbe decidere la controversia anche sulla base di prove acquisite d’ufficio da parte sua. Ad esempio attraverso una quietanza di pagamento depositata presso un terzo: il giudice può tenerne conto anche non provata dal convenuto. Nella fase apud iudicem vi sono anche altre attività da parte del giudice (arbitratus de restituendo). Il processo si chiude con la sentenza, che può essere: - di mero accertamento; - costitutiva; - di condanna (sempre e solo in una somma di denaro [pecunia] nel processo formulare); - di assoluzione. Nella formula, e in particolare nella condemnatio, il pretore indica al giudice in base a quali criteri il giudice dovrà stimare il valore della controversia. Vediamo ora la procedura esecutiva nel processo per formulas. Il convenuto è stato condannato a pagare una certa somma; se non vi si attiene, vi è la procedura esecutiva che consente all’attore di ottenere la soddisfazione materiale del diritto da lui vantato nel processo di cognizione, nel quale il convenuto è stato condannato. Facciamo il caso di una stipulatio di una somma di denaro. Qualora il promittente non adempia all’obbligo concordato, può essere chiamato in giudizio dall’attore. Dopo il processo l’obbligazione rimane la medesima, ma fondata sulla sentenza di condanna del convenuto, detta obligatio indicati (obbligo del giudicato). La procedura per ottenere l’esecuzione materiale della sentenza è la seguente. Il convenuto condannato ha trenta giorni di tempo per pagare la somma indicata nella sentenza di condanna. Lo iudicatus è equiparato al convenuto che abbia confermato in iure le pretese dell’attore aventi ad oggetto una somma determinata di denaro e pertanto anche per lui vi è lo stesso termine di tempo. bene nell’inventario del fallito (quello che era stato venduto). A questo punto egli va dal pretore per chiedere la restitutio in integrumvólta a recuperare quel bene presso il terzo, fingendo che l’alienazione non ci fosse mai stata. Se il fallito non aveva mai venduto il bene, questo sarebbe ancora suo e in quanto proprietario egli aveva diritto ad esercitare la reivindicatio. Alla fine si concede la restituzione a colui che ne ha l’interesse, considerando che il negozio non sia mai avvenuto (revoca dell’atto di vendita). La honorum emptor è una procedura esecutiva pretoria universale; questa esecuzione è più adatta a soddisfare le pretese dei creditori; introdotta questa procedura esecutiva sul patrimonio occorre garantire l’integrità del patrimonio: occorre cioè impedire gli atti del debitore che possano diminuire il suo patrimonio allo scopo di frodare le ragioni dei creditori. Il pretore pertanto a questo proposito può dare: - la restitutio in integrum, già vista precedentemente; - l’interdictum fraudatorium: è un altro rimedio del pretore, un ordine concesso ai singoli creditori non soddisfatti dopo la honorum venditio, per la restituzione da parte del terzo che ha acquistato dal fallito. Entrambi questi rimedi venivano accordati dal pretore nel rispetto di tre requisiti: - l’eventus damni: l’atto del debitore deve aver arrecato un effettivo danno ai creditori; - deve sussistere il consilium fraudis, cioè la consapevolezza del debitore di danneggiare i creditori con quel determinato atto di disposizione; - la scienza fraudis: il terzo a favore del quale l’atto e stato compiuto deve essere a conoscenza dell’intento fraudatorio del debitore (connivenza del terzo). La connivenza del terzo acquirente è necessaria solamente se l’acquisto è avvenuto a titolo oneroso, cioè se vi è stato il versamento d’un corrispettivo. Se è stato a titolo gratuito, la revoca dell’atto è sempre possibile. I due rimedi pretori del diritto classico sopravisti vengono unificati dall’impianto giustinianeo con l’actio pauliana (che ritroviamo negli artt. dal 290 al 294 del C.Civ. attuale). 1. LE COGNITIONES CLASSICHE Le ultime provincie imperiali non recepirono tutte il processo formulare, altre lo applicavano con deviazioni, molte provincie, città e altre comunità importante godevano di autonomia e quindi trattavano le controversie nei loro tribunali con la loro procedura e secondo le loro leggi. Solo con la concessione della cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero (212 dc) la procedura romana venne applicata più o meno ovunque. Ciò contribuì in larga misura alla decadenza della procedura formulare. Anche a Roma fin dall’inizio del principato si svolsero processi che non erano formulari né legis actiones ma costituivano autentiche cognitiones. Per queste cognitiones i giuristi trovarono il termine di COGNITIO EXTRA ORDINEMma le fonti classiche riportano il termine di extraordinarie cognitiones. Punto di partenza di queste cognitiones era il potere esercitato già da Augusto di trattare e pronunciare sentenza sia in materia civile che in materia penale, tanto in primo che in secondo grado potere dovuto all’auctoritas principis, ma in linea giuridica trovava fondamento in una legge fatta emanare da Ottaviano nel 30 ac con la quale lo si autorizzava a giudicare su appello di una parte. Questo potere si inquadrò nel 23 a.c nei più ampi poteri conferiti ad Augusto noti come tribunicia potestas e imperium proconsulare maius ed infinitum. Augusto quindi giudicò sia in materia civile che in materia penale ma essenzialmente come giudice di primo grado anche perché l’appello per molti anni non fu possibile se non in sentenze emanate con una cognitio. Principi successivi delegarono questo potere a semplici giudici scelti da loro e il principe spesso dichiarava queste sentenze inappellabili come se fossero pronunciate da loro stessi. La delega poteva essere accompagnata da un parere vincolante. A partire dalla fine del I sec dc il parere del principe potè essere richiesto a proposito di controversie da trattarsi o già trattare dinnanzi ad un organo competente e il principe rispondendo con un rescriptum risolveva la questione in modo vincolante per quell’organo. Il diffondersi dell’appello che aveva determinato il costituirsi di uno stabile tribunale imperiale indusse i principi a delegare ai propri alti funzionari come il praefectus urbi e il praefectus pretorio e a stabilire una gerarchia di organi giudicanti. Le sentenze del principe chiamate decreta furono comprese tra le constitutiones principi e valsero come fonti. 2. ALCUNI ASPETTI PROCESSUALI DELLE COGNITIONES Sebbene le cognitiones erano distinte le une dalle altre si possono delineare alcuni aspetti comuni della procedura delle cognitiones. Il primo aspetto riguarda i modi per ottenere la comparizione del convenuto dinnanzi al giudice. Questi assumono un carattere semi pubblico perché il magistrato spesso vi partecipa e se il convenuto non vi partecipa gli indirizza tre edita con il quale lo avverte che pronuncerà senza la sua presenza. Il convenuto che non compariva nonostante i 3 edicta era dichiarato contumax e di conseguenza si procedeva in contumacia. Un processo in contumacia si poteva avere non solo per l’assenza del convenuto ma anche per quella dell’attore_ quest’ultimo se assente era di necessità soccombente mentre il convenuto lo era solo se l’organo giudicante ne accertava la sua colpevolezza. Il termine cognitio indicava che era priva della distinzione in due fasi del processo formulare, mancava la sua obbligatorietà e il fatto che le due parti collaborassero mediante la litis contestatio all’instaurazione della seconda fase. Il giudice era scelto e nominato dal principe e fungeva da suo delegato. Nella pronuncia della sentenza il magistrato o funzionario godevano di maggiore elasticità. LA COGNITIO NEL PERIODO POSTCLASSICO E GIUSTINIANEO All’inizio del periodo mediopostclassico tutti i processi privati si svolgevano con cognitiones. Nel 342 una costituzione di Costanzo e Costante vietò l’uso del processo formulare. Da Costantino in poi si ha un modello uniforme e quindi si può parlare di cognitio e non più cognitiones. CARATTERI DELLA COGNITIO POSTCLASSICA E GIUSTINIANEA L’accrescimento dei poteri del funzionario esercitante la iurisdictio si manifestò: a)negli atti introduttivi del processo, in particolare nella chiamata in giudizio del convenuto; b)nella scelta e nomina del giudicante; c)nell’istruzione probatoria; d)nelle specie di condanne che potevano essere pronunciate; e)nei tipi di esecuzione forzate. Ma accanto ai poteri dei giudici si accrebbero anche i poteri dei suoi ausiliari che operavano soprattutto nella chiamata in giudizio e nell’esecuzione forzata. La forza fisica del privato venne sostituita dalla forza fisica degli ausiliari del giudice. L’aumento dei poteri del giudice non era però sintomo di una maggiore discrezionalità anzi la scomparsa del potere creativo significò l’abolizione di qualsiasi discrezionalità nella concessione o denegazione dell’azione nel caso concreto. La discrezionalità del giudice fu inoltre limitata dal moltiplicarsi delle norme che predeterminavano gli effetti dei vari atti processuali, il valore delle prove. Il giudizio del giudice era ormai soggetto al controllo di un giudice superiore e dopo la riforma di Diocleziano vi fu un complesso sistema di organi sovrapposti in modo gerarchico. Gli appelli quindi non si fecero più al tribunale imperiale ma all’organo superiore gerarchicamente. Inoltre fu aggiunta un altro mezzo di impugnazione: la supplicatio all’imperatore. L’introduzione dei vari mezzi di impugnazione serviva a rendere più giuste le decisioni finali anche se questo risultato non sembra sia stato raggiunto: infatti la scala gerarchica stabilita tra organi giudiziari creò un’eccesiva burocratizzazione della funzione giudiziaria per la quale i giudici e i suoi ausiliari furono indotti a considerare il proprio lavoro come fonte di potere personale e di guadagni sia leciti che illeciti. La nuova procedura inoltre allungò la durata dei processi. I GIUDICI E L’ORGANIZZAZIONE AUSILIARIA L’organizzazione giudiziaria rimase più o meno immutata fino a Diocleziano tranne la scomparsa dei giudici privati sostituiti dal iudex datus (giudice scelto e nominato dal magistrato) che risentì dell’ordinamento provinciale. Le province furono rimpicciolite e raggruppate in diocesi a capo delle quali fu posto un vicarius; le diocesi a loro volta erano riunite in praefecturae sotto un praefectus pretorio. La stessa Italia fu considerato territorio provinciale tranne la zona intorno a Roma che era sottoposta al praefectus urbi, lo stesso regime fu esteso a Costantinopoli. Le provincie dell’Italia furono raggruppate in due sottodiocesi: Milano e Roma benché Roma non facesse parte della sottodiocesi. Una gerarchia fu creata, sulla base di quella fatta territorialmente, tra i capi delle varie province. Giudice di primo grado era il governato della provincia, giudici di appello erano i vicarius o in alcuni casi il prefetto del pretorio competente_ le sue sentenza erano inappellabili davanti all’imperatore. Il tribunale di ciascun giudice comprendeva un officium composto dal personale ausiliario e diviso in reparti ciascuno con una funzione particolare. Altro aspetto della burocratizzazione è l’istituzione di tasse giudiziarie destinate ai vari componenti dell’officium. Giudice d’appello era il funzionario gerarchicamente superiore a quello che aveva pronunciato la sentenza. L’imperatore era il giudice di appello delle sentenze di tutti gli alti funzionari tranne il praefectus pretorio e in qualche caso del praefectus urbi. Lo stesso imperatore poteva delegare il compito ai suoi alti collaboratori. diritti, è una res corporalis e mancipi, anche se sia privo di padrone. Lo schiavo è una cosa sui generis che ha, per la sua stessa natura umana, tutta una serie di attitudini e di capacità naturali o di fatto che le altre cose non hanno. Particolarmente importanti sono le conseguenze giuridiche che il diritto annette all’attività dello schiavo. Si ammette che egli possa validamente manifestare la volontà negoziale del dominus (rientrando nella figura del nuncio), che possa autonomamente compiere alcuni affari del commercio, che nel loro lato passivo non obbligano il padrone, ma per la parte attiva (crediti, acquisti) si riversano automaticamente nel patrimonio del dominus. All’irresponsabilità del dominus per l’operato dello schiavo fanno eccezione i debiti derivanti da un delitto dello schiavo, per i quali il padrone è posto nell’alternativa tra l’assumere la responsabilità o l’abbandonare il servo delinquente all’offeso. In molti casi, poi, era d’uso che il padrone concedesse allo schiavo il godimento di fatto e l’amministrazione di un peculium, un gruzzolo di varia entità donato dal padrone o raggranellato dallo schiavo e del quale il padrone restava, dal punto di vista giuridico, proprietario. Nei limiti del peculio, lo schiavo traffica liberamente, coperto, di fronte alla fiducia di terzi, dall’eventuale responsabilità del domino introdotta dal pretore (actio de peculio); può così entrare in rapporto di affari perfino con il padrone. Infine, nell’età imperiale, lo schiavo fu ammesso direttamente a far valere extra ordinem le proprie ragioni nei confronti del dominus, in relazione all’acquisto della libertà. Cause della schiavitù. Servi si nasce o si diventa: bisogna quindi distinguere cause della schiavitù inerenti alla nascita e cause posteriori alla nascita. Cause inerenti alla nascita. Nasce schiavo il figlio della schiava (partus ancillae); infatti, l’unione con la schiava è un semplice rapporto di fatto, che non può produrre relazioni giuridiche tra il padre e la prole. Tuttavia, durante il principato fu ammesso il principio secondo cui doveva considerarsi nato libero (ingenuus) il figlio della schiava che fosse stata, anche per poco, libera tra il concepimento e il parto. Cause posteriori alla nascita. a) Prigionia bellica. La prigionia bellica è la prima causa della schiavitù. Affinché essa comporti schiavitù occorre che la prigionia derivi dall’esistenza di un bellum iustum, cioè di una guerra conforme alle regole del diritto internazionale. Secondo la concezione romana, questa causa di schiavitù riposa su un fondamento comune a tutti i popoli contemporanei, perciò è iuris gentium e ha carattere di reciprocità. Quindi anche il Romano caduto prigioniero del nemico subisce la perdita della libertà; tuttavia, in favore dei Romani, il ius civile ammetteva un beneficio speciale (ius postliminii) per cui il Romano prigioniero, che fosse tornato in patria con l’intenzione di restarsi, si consideravaipso iure reintegrato nella situazione giuridica di cui godeva prima della prigionia. Non si reintegrano però con tale beneficio il matrimonio e il possesso, poiché entrambi non sono considerati come diritti, ma come rapporti fondati su presupposti di fatto. b) Cause iuris civilis. Una conseguenza della schiavitù fu la creazione della legge Cornelia di Silla (80 a.c. anni in cui Roma affronta i latini italici e poi la guerra civile) con cui si stabilisce che il testamento del cittadino romano fatto prigioniero e che sia morto in schiavitù presso il nemico è valido perché si considerava che il cittadino fosse morto nel momento in cui è stato catturato. Le altre cause di schiavitù posteriori alla nascita appartengono al ius civile e possono quindi colpire solo i Romani. Divenivano schiavi: il debitore inadempiente, il renitente alla leva (indelectus),chi si sottraeva all’obbligo di censimento (incensus),il ladro flagrante che era addictus al derubato. Nel diritto classico divengono schiavi: l’uomo libero maggiore di 20 anni che dolosamente si sia fatto vendere come schiavo per dividere il prezzo con il venditore; la donna libera, che mantenga una tresca con uno schiavo altrui, nonostante la diffida del dominus; il condannato ai lavori forzati nelle miniere o ad altre gravi pene. CAUSE ESTINTIVE DELLA SCHIAVITÙ. Gli atti per revocare lo stato di schiavitù erano 2: 1. manomissio civili 2. manomissio pretori Il servo acquista la libertà (diventando liberto), mediante l’atto volontario del suo padrone che lo scioglie dalla dominicia potestas (manumissio). A) MANOMISSIONE CIVILE. La manomissio civili prevdeva sia l’acquisto della libertà che l’acquisto della cittadinanza romana e si poteva verificare in 3 modi: 1. Manomissio testamentaria 2. Manomissio Vindicta 3. Manomissio censitoria La prima, mortis causa, è la manumissio testamento, disposta dal testatore in forma diretta e imperativa; poiché lo schiavo liberato resta legato da vincoli di soggezione verso chi lo ha manomesso (patronus), ne consegue che questa forma di manomissione è la più vantaggiosa per lo schiavo, che diventa liberto senza patrono (orcinus), poiché il suo patrono è ormai defunto. La seconda forma civile è la manumissio vindicta; verso la fine della repubblica, essa si svolge davanti a un magistrato competente, in qualunque luogo: il proprietario che decide di liberare lo schiavo si reca con luied un terzo soggetto davanti al pretore (adsentor in libertatem) : il soggetto terzo pronuncia la formula di libertà dello schiavo, il dominus non replica ed il pretore annuncia la libertà.che dichiara solennemente di voler liberare il servo, accompagnando la dichiarazione con gesti rituali, fra cui quello di toccare lo schiavo con la vindicta ( bacchetta), e il magistrato da efficacia a tale dichiarazione, confermandola. Nel diritto giustinianeo, la manumissio vindicta si riduce a una dichiarazione, priva di particolari formalità, resa dal domino al magistrato competente. La terza forma civile, la manumissio censu, consiste nell’iscrizione del servo nelle liste censuali degli uomini liberi, fatta con l’assenso del padrone, in occasione delle operazioni di censimento dei censori. e gli da la possibilità di entrare a far parte di esercito e comizi. B) MANOMISSIONE PRETORIA. A partire dalla fine dell’epoca repubblicana si affermarono le manomissio pretorie, esse sono manomissio che hanno meno requisiti formali rigidi, hanno formule meno solenni, ed i pretori quando ne sentono il bisogno le inseriscono nei propri editti, una volta liberato lo schiavo il dominus non può più tornare indietro. A differenza di quelle civile quelle pretorie comportano l’acquisto solo della libertà e non della cittadinanza e sono caratterizzate tutte o da una prova tangibile o dalla presenza di testimoni. Esse sono: Manomissio per epistola: lettera per esprimere la volontà del padrone. Manomissio per mensam: durante un banchetto e alla presenza di testimoni il dominus esprime la sua volontà di liberare lo schiavo. C) ALTRI TIPI DI MANOMISSIONE. Il dominus poteva, facendo testamento, anziché manomettere direttamente lo schiavo, pregare l’erede o il legatario, cui lo avesse attribuito, di manometterlo: lo schiavo diveniva libero solo con l’atto di manomissione conseguente. In epoca cristiana, è ammesso un altro tipo di manomissione (in sacrosanctis ecclesiis), consistente in una dichiarazione resa dinnanzi all’assemblea dei fedeli. Sin dall’antichità la condizione di apolide, libertà ma non cittadinanza, non veniva presa in considerazione dunque in conseguenza di ciò nell’epoca del principato e precisamente nel 19 a.C. fu varata la ―lex iuna norbana‖ con la quale si concedeva a tutti coloro i quali avevano subito una manomissio pretoria la ―latinitas‖, ovvero la condizione giuridica che anticamente contraddistingueva i rapporti giuridici tra gli abitanti di Roma e gli abitanti del Lazio. La distinzione tra manomissioni civili e manomissioni pretorie dura fino alla metà del sesto secolo d. C. e, solamente l’imperatore Giustiniano che abroga formalmente questa distinzione, di solito i romani non amano abrogare i propri istituti giuridici ma preferiscono farli decadere, il quale inoltre promulga il “corpus iuris civili‖ composto di codice digesto istituzioni e novelle col tentativo di riordinare il sistema giuridico talvolta emana delle costituzioni imperiali in cui abroga formalmente istituti già caduti in desuetudine. In quest’epoca, il primo problema a cui si vuole porre rimedio è quello di evitare che cresca in maniera smisurata le manomissioni a favore della popolazione schiavista. La prima preoccupazione era quella che a furia di manomettere schiavi nascesse una popolazione di origine servile che però aveva guadagnato la libertà. A questo proposito si cita la “lex fufia canina” promulgata da Augusto nel 2 a.c. per limitare le manomissioni testamentarie e fissa un limite massimo alla possibilità di compiere manomissioni testamentarie in proporzione al numero di schiavi posseduto dal testatore sancendo contemporaneamente la nullità delle manomissioni eccedenti tale quota, il limite massimo concesso era comunque 100 in generale. Questa norma muove da ragioni politiche e da ragioni psicologiche-culturali poiché il testamento era un atto molto caratterizzante e, in quest’atto i romani benestanti erano soliti elargire la manomissione degli schiavi per dimostrare quanto fossero filantropi e generosi. Nel 4 d.c., invece, viene varata un’altra legge; la “lex aeia sentia” con la quale si vogliono vietare le manomissioni di schiavi inferiori ai 30 anni di età, o da parte di un proprietario inferiore ai 20 anni di età. Se un proprietario avente meno di 20, avesse voluto effettuare comunque una manomissione, avrebbe dovuto attivare una pratica presso il governatore provinciale di Roma che, dopo un’attenta istruttoria avrebbe potuto annullare la validità della “lex aeia sentia” e permettere quindi di effettuare la manomissione. Con la messa a punto degli istituti di diritto privato e più precisamente con le azioni adiatitie gli schiavi potevano trovare a gestire immensi patrimoni di patrizi e quindi erano possibile operazioni delle frodi con cui lo schiavo cercava di mettere da parte un sostanzioso patrimonio personale da utilizzare quando avrebbe ottenuto la libertà ed è anche per questo che si cercano di limitare la manomissio. Questa manomissioni producono uno status particolare infatti, lo schiavo viene chiamato col nome di “liberto ”ed assume così una particolare posizione nella categoria delle persone libere. Vi sono due tipologie di liberto; gli “ingenui”che erano uomini liberi poiché erano nati liberi, costoro sono diversi dai “liberti o libertini” i quali nascono schiavi e poi vengono manomessi. I latini coloniarii divenivano tali andando a stabilirsi nelle colonie fondate da Roma, perdendo così lo status civitatis originario; la loro posizione ricalcava quella dei latini prisci, pur con qualche limitazione (talora non godevano del ius connubii con i cives romani). La classe dei latini iuniani fu costituita dagli schiavi manomessi con forme pretorie, a cui si aggiunsero altri liberi che per varie ragioni erano esclusi dalla cittadinanza. La loro condizione è peggiore di quella degli altri latini, poiché essi muoiono come servi, nel senso che il loro patrimonio non si trasmette per successione ereditaria, ma ritorna al patrono iure peculii, come avviene per il peculio alla morte dello schiavo. Inoltre, essi sono affetti da una limitata capacità di acquistare per testamento. Peregrini. I peregrini sono esclusi dal godimento del ius civile, ma possono contrarre coi cives relazioni giuridiche riconosciute e tutelate dell’ordinamento speciale del ius gentium. In particolare, sono detti peregrini alicuius civitatis gli abitanti delle regioni conquistate da Roma. Essi, oltre a godere nei rapporti coi romani dell’uso del ius gentium, continuano a godere, nei rapporti interni di diritto privato, del loro ordinamento nazionale. I peregrini dediticii sono, invece, gli abitanti delle comunità che, per aver resistito ad oltranza alla conquista romana, sono state sciolte: essi godono del ius gentium, ma non hanno riconosciuto un proprio ius civile. STRUTTURA DELLA FAMIGLIA ROMANA. La famiglia romana, nel periodo antico, è un aggregato di persone fondato non sulla base della parentela di sangue (cognatio), ma su di un comune vincolo di soggezione giuridica a un capo (adgnatio). La concezione patriarcale della famiglia subì, col passare dei secoli e l'evolversi della società civile, notevoli mutamenti. In epoca arcaica, la Lex XII Tabularum escludeva qualsiasi rilevanza alla discendenza materna, chiamata cognatio; successivamente, la cognatio ebbe rilievo come impedimento al matrimonio, e poi si ammise la possibilità di donazione fra cognati. Solo in materia successoria, allo scopo di evitare il passaggio dei patrimoni di una famiglia all'altra, la resistenza alla successibilità dei cognati fu più dura. In epoca imperiale, due senatus consulta consentirono finalmente la regolare successione tra madre e figli. In età giustinianea, la distinzione fra adgnati e cognati fu abolita, e con il solo termine di cognati vennero chiamati tutti i parenti, sia in linea maschile che femminile. Dalla adgnatio e dalla cognatio occorre tenere distinta la adfinitas, cioè il vincolo tra un coniuge e i parenti dell'altro coniuge; l' adfinitas aveva valore solo come impedimento al matrimonio.a Capo delle famiglia vi è il pater familias, il cui potere assoluto sui membri della familia si esprime col termine potestas, che si differenzia in: patria potestas sui figli e sui discendenti di essi all’infinito, e dominica potestas sugli schiavi. Dal punto di vista patrimoniale, poi, sono giuridicamente sottoposte al pater le donne convetae in manum, entrate cioè a far parte della familia a causa di matrimonio e le persone in mancipio. Alla morte del pater, tutti i discendenti che non abbiano il padre vivo diventano sui iuris, ciascuno di essi a sua volta pater familias: la familia si fraziona allora in tante famiglie quanti sono i discendenti del pater defunto e l’insieme di queste nuove familiae proprio iure, costituisce la familia communi iure. Un gruppo di più vaste dimensioni è poi la gens, costituita dalle familiae che, per ragioni di risalente discendenza, conservano un nomen comune. Mano a mano che lo Stato assume una posizione progressivamente più forte di fronte ai singoli gruppi familiari, questi si disgregano. Decade il vincolo di soggezione giuridica al pater e va di pari passo assumendo riconoscimento e rilievo il vincolo di parentela naturale (cognatio). La patria potestas si attenua e si trasforma nel suo contenuto, adattandosi a una nuova funzione, analoga alla potestà moderna dei genitori. Acquisto e perdita della patria potestas. Il pater familias acquista la potestas sui figli da lui procreati in matrimonio legittimo, fin dal momento della loro nascita; si presumono da lui procreati i figli nati dalla moglie, purché nati non prima di 180 giorni dall’inizio del matrimonio né 300 giorni dopo lo scioglimento di esso. Il pater familias, infine, acquista la potestas anche sui figli naturali mediante la legittimazione. Tuttavia, il pater può acquistare la potestas anche su persone a lui estranee, che gli sono sottoposte in qualità di filii familias mediante un atto giuridico (adoptio). La patria potestas è considerata dall’ordinamento romano perpetua e perciò si estingue con la morte del pater; oltre la morte, però, estinguono la patria potestas anche i fatti che determinano capitis deminutio del soggetto. Infine, un caso speciale di estinzione della potestas sul figlio, è costituito dalla sua emancipatio (proscioglimento dalla potestà paterna). Contenuto personale della patria potestas. Il potere assoluto del pater sui figli si manifesta in alcune facoltà che gli erano riconosciute sin dall’antichità dai mores. Il pater poteva mettere a morte i propri discendenti; l’esercizio di questa facoltà trovava, però, un freno nel costume, poiché era considerata cosa riprovevole per un pater mettere a morte una persona in sua potestà senza aver prima consultato gli adgnati più autorevoli. Quando il freno dei mores divenne insufficiente, intervennero a limitare l’esercizio del diritto di vita e di morte, la legislazione e il controllo dei censori. Al pater spettava il ius noxae dandi, che gli consentiva di mancipare all’offeso il membro della sua famiglia che si fosse reso colpevole di un delitto; in tal modo egli restava esonerato dalla relativa responsabilità che avrebbe potuto sopportare. Il carattere personale della patria potestas si manifesta ancora nella vindicatio filii spettante al pater contro chiunque tenesse presso di sé uno dei suoi sottoposti. Contenuto patrimoniale della patria potestas. Tutti i sottoposti alla potestas del pater non hanno alcuna capacità patrimoniale. Ogni vantaggio patrimoniale che possa loro pervenire, si riversa automaticamente nel patrimonio del pater. Al contrario, il pater non assume alcuna responsabilità per i debiti eventualmente contratti dai suoi sottoposti, ad eccezione di quelli derivanti ex delicto. Nell’età giustinianea appare sovvertito l’originario principio dell’incapacità patrimoniale del filius familias; ogni suo acquisto gli appartiene: il padre ha, sui beni del sottoposto, solo una sorta di usufrutto legale. MATRIMONIO Natura del matrimonio romano. Il diritto romano, in età classica, considera il matrimonio come uno stato di fatto (res facti), anche se produttivo di conseguenze giuridiche. Il matrimonio romano prescinde nella sua essenza da una solennità iniziale: si perfeziona e perdura in quanto di fatto sussistano i due fondamentali elementi della coabitazione (requisito obiettivo) e della maritalis affectio (requisito subbiettivo); quindi si scioglie col venir meno di uno di questi due elementi. Il matrimonio è fondato sulla costante affectio maritalis, che imprime alla convivenza un elevato carattere di dignità. Il venir meno dell’affectio rompe ipso iure quello che ormai sarebbe un mero vincolo. La coabitazione non deve intendersi nel senso materiale della permanente convivenza dei coniugi; affinché la coabitazione sia realizzata occorre solo che, alla stregua degli usi sociali, i coniugi siano considerati come coabitanti: è opportuno comunque che la coabitazione inizi in modo inequivocabile e pubblico, con l’ingresso solenne della sposa nella casa del marito. La maritalis affectio consiste, invece, nella reciproca intenzione dei coniugi di convivere monogamente come marito e moglie in completa comunanza di vita, comunione di diritto divino e umano. Trattandosi di elemento psicologico, la maritalis affectio deve essere desunta, caso per caso, dal comportamento reciproco dei coniugi, dalla posizione di alta dignità che la donna occupa nella casa rispetto ai dipendenti e agli ospiti e dal titolo di mater familias che le è attribuito: il complesso di queste manifestazioni è detto honor matrimonii e differenzia la moglie dalla concubina. Lo iustum matrimonio è l’istituto fondamentale su ciò si costruisce la famiglia propria iure. In epoca arcaica, esistevano due tipi di matrimonio: il matrimonium cum manum conventione il matrimonium sine manu Il primo rappresentava la forma più antica di celebrazione, cui doveva seguire la coabitazione per un anno (usus).. Affinché si realizzasse la Conventio la donna doveva essere nupta, cioè sposata, e l'uomo suo maritus. Nel diritto antico troviamo altri due modi di acquisto della manus sulla donna da parte del marito: la coemptione e la confarreatio. Mentre l'usus era un principio di applicazione dell' usocapione, la coemptione, o coemptio, era un'applicazione della mancipatio e consisteva in una finta compra-vendita della donna. Il maritus pagava il prezzo simbolico di una moneta aquistando la manus sulla donna matrimonii causa. La confarreatio invece era una cerimonia religiosa che si svolgeva davanti a dieci testimoni e al Flamen Dialis, i due sposi spezzavano una focaccia di farro come simbolo della volontà di unirsi in matrimonio. A seguito della Conventio in manum la donna entrava nella famiglia del marito loco filiae, perdendo ogni legame con la famiglia di origine. Il matrimonium sine manu nacque infatti in epoca repubblicana, per evitare i gravi effetti che l'uscita della donna dalla famiglia originaria comportava, ossia la perdita di tutti i diritti successori verso la famiglia d'origine. Secondo una disposizione contenuta nelle XII tavole, la donna può assentarsi, prima del termine di ogni anno, per tre notti consecutive (Trinoctiusurpatio), interrompendo così l'usus da parte del marito ed evitando la manusmaritalis Presupposti del matrimonio. Perché il matrimonio possa sussistere è necessario il concorso di alcuni presupposti essenziali e inderogabili: a) lo status libertatis (l’unione fra schiavi non è matrimonio, ma contubernio); b) lo ius connubii, cioè la capacità giuridica a porre in essere iustae nuptiae. In mancanza di esso non può aversi matrimonio valido iure civili, ma soltanto iure gentium. In alcuni casi, tuttavia, pur essendovi il ius connubii in senso assoluto, esso manca in senso relativo, cioè in relazione ad alcune categorie di persone fra loro (ad esempio, i patrizi non potevano sposare i plebei prima della lex Canuleia). Il connubium poteva mancare anche per ragioni di parentela naturale o adottiva. Costituisce impedimento al matrimonio la parentela diretta all’infinito; la parentela collaterale fino al quarto grado; non comporta un vero e proprio obbligo al matrimonio ma possono nascere delle problematiche per lo più effetti patrimoniali derivanti dai dono scambiati dai soggetti. Nel periodo del principato di Augusto furono approvato delle leggi che violarono la completa liberta di contrarre matrimonio e che apportarono delle modifiche molto importanti: la prima che risale al 18 a.c.la lex iulia de maritadis ordinibus e la seconda che rappresenta un’integrazione della prima emanata nel 9 a.c. la lex papis poppea. La versione finale della legge prevede che gli uomini con età compresa tra i 25 ed i 60 anni e le donne tra i 20 e i 50 anni avessero l’obbligo di risposarsi in caso di divorzio o di vedovandi e sanzionava con la perdita della capacità successoria in ambiti marginali i soggetti che non la rispettavano. Alla base di questa legge vi erano sia motivi etico-politici secondo cui l’imperatore Ottaviano Augusto si era posto l’obiettivo di riformare la classe dominante basandola sull’ambito familiare e poi cercare di sopperire all’ormai crescente calo demografico dovuto in larga parte alla guerra civile che aveva decimato la classe dirigente romana. Scioglimento del matrimonio. A) Cause obbiettive. Lo scioglimento del matrimonio era una diretta conseguenza della concezione classica dell'istituto, secondo cui il vincolo veniva meno per la morte di uno dei coniugi o quando veniva a mancare la cd. Affectio maritalis. Dalle origini fino all'età repubblicana, anche se futile, qualsiasi motivo era valido per divorziare. Dall'età repubblicana, il matrimonio si scioglieva anche per la capitis deminutio maxima subita da uno dei coniugi, ossia quando veniva ridotto in schiavitù oppure diveniva servus poenae per condanna. La capitis deminutio media, che importava la perdita della cittadinanza, non scioglieva il matrimonio ma faceva che esso divenisse iuris gentium. Il matrimonio era sciolto anche quando il marito di una libertina diventava senatore. Giustiniano abolì questa conseguenza e in seguito anche il divieto. Per incesto sopravvenuto: si verifica quando, mediante adozione, si crea una parentela agnatizia tra i coniugi, tale da costituire impedimento alle nozze. B) Cause subbiettive. Cause subiettive di scioglimento del matrimonio sono quelle dipendenti dalla volontà dei coniugi o dei loro patres familias. a)Divorzio. Causa subbiettiva di scioglimento dovuta alla volontà dei coniugi è la cessazione della maritalis affectio, che può essere unilaterale o bilaterale: si parla in tal caso di divortium e, per lo scioglimento unilaterale, anche di repudium, che è l’atto con cui si notifica all’altro coniuge la volontà di interrompere il matrimonio. Con il rilassamento degli antichi costumi e con la dissoluzione del solidoorganismo familiare, dilaga in Roma, alla fine della repubblica, l’abuso dei divorzi, che addirittura diventa una moda. Il divorzio per sua natura non doveva esigere forme, come non ne esigeva il matrimonio. Un semplice avviso per litteras o per messaggio verbale (per nuntium) doveva bastare. La Lex Julia prescrisse che il divortium o repudium fosse comunicato da un liberto alla presenza di sette testimoni, ma i giureconsulti ammettevano lo scioglimento del matrimonio anche in assenza dell'osservanza di questa formalità. In età imperiale, invalse l'uso di mandare la comunicazione per iscritto con un libellus repudii. Impregnato di spirito antidivorzista, Costantino riconobbe tre sole iuxtaecausae per il divorzio: per la donna, se l'uomo era un omicida, violatore di sepolcri o avvelenatore; per l'uomo, se la donna era adultera, mezzana o avvelenatrice. Chi divorziava unilateralmente al di fuori di questi casi, era gravemente punito. Nessun limite sussisteva per il divorzio bilaterale. Nel diritto giustinianeo, si introdusse una quadruplice partizione: 1. il divorzio per mutuo consenso 2. il divorzio unilaterale per colpa dell'altro coniuge 3. il divorzio unilaterale sine causa 4. il divorzio bona gratia (che in senso tecnico indica il divorzio per cause non imputabili né all'uno né all'altro coniuge). Le pene comminate per il divorzio illecito (cioè quello sine causa) sono il ritiro forzato in convento e la perdita della dote e di tutti i propri beni in favore dei figli. Successivamente, queste pene furono estese anche al divorzio lecito. Possiamo riassumere Le cause che possono determinare lo scioglimento del matrimonio sono: morte di uno o entrambi i coniugi; perdita della libertà (come sappiamo può coincidere con la schiavitù per cattura in battaglia, e se un marito riesce a tornare a casa ma la moglie credendolo morto ha contratto nuove nozze esse sono valide); cessazione affetto maritalis (come sappiamo il consenso continuato è la base del matrimonio, ma ovviamente se questo viene a mancare vi è motivo di scioglimento del matrimonio, ma siccome l’accertamento del consenso comporta la creazione di un atto anche lo scioglimento comporta la creazione di un atto del tutto simile questo principio è detto logica del contrarius actum; ripudio unilaterale che avviene mediante un documento scritto e quindi prova tangibile che viene inviato all’altro coniuge; Il repudium sine causa, pur dando luogo allo scioglimento del matrimonio, era colpito da gravi sanzioni. Per quanto riguarda il divorzio consensuale, cioè non fondato su giusta causa ma solo sulla mutata volontà dei coniugi, esso fu considerato lecito e solo Giustiniano lo colpì con sanzioni. Altro discorso è lo scioglimento della manus, in conseguenza del divorzio, nel caso di antichi matrimoni accompagnati dalla conventio in manum. A tal fine, occorreva un atto contrario a quello costitutivo di essa: la diffarreatio, rispetto alla confarreatio; la remancipatio e seguente maumissio, rispetto alla coemptio. b) Volontà dei patres familias dei coniugi. Nei matrimoni sine manu, il pater familias della moglie, avendo conservato su di lei patria potestas, poteva richiamarla presso di sé, rendendo così impossibile la convivenza tra i coniugi che è uno dei due elementi costitutivi del matrimonio. In ogni caso, quando entrambi i coniugi fossero alieni iuris, uno dei patres poteva scioglierne il matrimonio vietando loro la coabitazione. RAPPORTI PERSONALI E PATRIMONIALE Mentre i rapporti personali sono regolamentati per lo più dal costume e dalle prassi i rapporti patrimoniali come penso sia ovvio sono invece sottoposto ad un regime normativo. Tra i rapporti personali quello a maggiore importanza è sicuramente il dovere alla fedeltà: esso rappresenta un dovere sociale che non viene preso in considerazione dalle norme, ma un regime particolare è quello dell’adulterio da parte della donne. Secondo la legge augustea il marito aveva la facoltà di uccidere l’amante se lo coglieva in fragranza. La moglie invece poteva ucciderla solo nel caso in cui fosse il pater familias altrimenti solo quest’ultimo aveva la facoltà di farlo. Nel caso in cui decideva di non uccidere l’amante il marito aveva il diritto- dovere di accusarlo per adulterio. Era un dovere perché se non veniva effettuato il marito rischiava di essere accusato di lenocidio (sfruttamento della prostituzione). Rapporti patrimoniali fra coniugi. La dote. La dote fu un istituto peculiare dei Romani, connesso al matrimonio. Essa consiste in ogni apporto patrimoniale (beni mobili o immobili, crediti e altri diritti) che la moglie, o il suo pater familias o un terzo, fanno al marito per contribuire agli oneri del matrimonio. Costituire la dote era un obbligo puramente sociale, del costume. La dote può essere costituita mediante la promissio dotis (una stipulatio con cui il costituente si obbliga a trasferire al marito i beni dotali in un momento successivo), mediante dictio dotis (un contratto verbale di pari contenuto, effettuabile solo dalla moglie o dal pater familas), oppure ancora mediante la datio dotis (che non consiste in una promessa, ma nell’immediato ed effettivo trasferimento dei singoli beni dotali al marito). DOTE La dote è un istituto che nasce nella prassi romana e che si sviluppa per molti secoli fin ad arrivare alle porte dei giorni nostri. La dote nasce nel matrimonio con manu in quanto la donna con il distaccamento dalla famiglia originaria perdeva ogni aspettative di successione e quindi le veniva data una ricompensa sotto forma di beni materiali a colmare questa perdita. Gli elementi in dote della donna si fondevano con il patrimonio del marito e venivano considerati come un contributo alle esigenze finanziarie per le spese del matrimonio. Man mano che si perfezione la norma sul divorzio i beni dotali assumono la funzione di fronteggiare le necessità economica che la donna si troverà ad affrontare per effetto della separazione dal marito. La dote poteva provenire da soggetti diversi se veniva costituita dal pater familias della donna allora prendeva il nome di dos profectitia; mentre se la dote viene costituita da un terzo o dalla donna stessa prende il nome di dos ad venticia. Soprattutto nelle classe agiate, e questo ancora oggi, viene sentito come dovere sociale e per dare lustro alla famiglia quello di costituire un’ottima dote a favore della propria figlia; l’obbligo di costituzione della dote si sviluppa solo in età molto avanzata. Invece a partire da Diocleziano in poi la costituzione della dote non viene considerato come un obbligo giuridico ma come un obbligo naturale (un determinato comportamento in cui si rileva un carattere di obbligatorietà che però non può essere reso coercibile da un terzo). Caratteristica fondamentale della dote è il modo con sui essa viene costituita: può avvenire infatti tramite negozi ad efficacia obbligatoria o ed efficacia reale. I negozi di primo sono la dotis dictio (diverso dalla stipulatio) e la dotis promiscua (simile alla stipulatio) ed hanno la caratteristica comune di replicare nel funzionamento le modalità di particolari negozi giuridici obbligatori che appartengono alla categoria delle obbligazioni verbali. Il negozio di secondo tipo è la datio dotis che consiste nell’immediata trasmissione delle cose facenti parte della dote stessa. Nel caso di questo negozio bisogna prestare particolare attenzione all’atto che si utilizza se la dote è cositutita da res mancipii (beni dal valore elevato) bisognerà utlizzerà la mancipatio o la iure cessio, se invece si tratta di beni che non rientrano nella categoria sopra citata si utilizza la traditio. Col passare del tempo si perde la linearità della dote soprattutto in concomitanza dell’arrivo dell’età postclassica. Alla dote quindi si affianca la donatio ante nupsias e cioè una donazione che viene effettuata dal marito alla futura moglie prima del matrimonio ma che avrà piena efficacia solo dopo la celebrazione dello stesso. Restituzione della dote. Dalla speciale destinazione per cui la dote è costituita, deriva la conseguenza che, una volta scioltosi il matrimonio, il marito non ha più alcun titolo per ritenere la dote e dovrebbe perciò essere tenuto a restituirla. Questo principio, tuttavia, si affermò gradatamente e il diritto alla restituzione della dote fu inizialmente realizzato con espedienti indiretti. Dall’evoluzione di questi espedienti, sorse, però, alla fine dell’età classica, la concezione opposta al principio originario, per cui la dote appartiene alla moglie patrai potesta. cadeva sotto la patria potestas di quello originaria. Le 12 tavole stabiliscono che se il padre avesse alienato per 3 volte il figlio il padre perdeva la patria potestas sullo stesso. La 4 tavola versetto 2 “si pater filium ter venum du it filius a patre liber est” se il padre ha venduto 3 volte il figlio, il figlio sarà libero tre volte dal padre. Questa norma non è stata utilizzata con grande ricorrenza per ragioni sociali ma viene sfruttata dal collegio dei pontefici a scopi negoziali cioè la piega a rendere possibile l’estinzione della patria potestas originaria e quindi a mettere in condizione il figlio di poter essere adottato. Attraverso questa interpretazione della giurisprudenza pontificale la patria potestas non è più inestinguibile ma rimane intrasmissibile perché un questo procedimento il padre non può trasferire direttamente ma deve compiere un rituale che viene scovato dalla giurisprudenza pontificale sfruttando la quarta tavola per rendere il figlio adottabile in modo tale che un altro soggetto possae sercitare una nuova patria potestas su di lui senza che sia il vecchio pater potestas a trasferirla. Questa pone il figlio in una posizione tale dove da una parte non è più sottomesso alla patria potestas originale e dall’altra si trova in una situazione temporaneo di adottabilità. Il procedimento si struttura in due fasi: nella prima si porcede in una triplice mancipatio, cioè il padre per tre volte vende o trasferisce usando la macipatio ad una persona di sua fiducia; il fiduciario del padre dopo ciascuna delle prime due vendite manomette il figlio ed essendo due le vendite il figlio in entrambi i casi torna sotto la patria potestas del padre originario. Dopo la terza mancipazione non lo manometterà più ma lo emanciperà al padre (rivenderà). Quindi dopo che si sono verificate le 3 vendite il figlio sarà ancora legato col vincolo di sangue ma non col vincolo civile e poi si troverà in un condizione particolare detta in causa mancipii che è una posizione intermediae a questo punto le fonti considerano possibile il compimento dell’adozione. Quindi ci si deve trasferire davanti al pretore dove il futuro padre adottivo,che spesso è persona totalmente diversa da quella con cui il padre originario ha fatto il suo gioco di mancipazioni, rivendica il figlio adottivo come proprio alla presenza del padre originario che non ha più la patria potestas ma ha solo il potere di mancipium e quindi è possibile l’adozione, il pretore in presenza della non opposizione del padre originario compie l’additio cioè aggiudica il figlio al padre adottivo o meglio ancora pronuncia in conformità del contegno tenuto dalle parti l’avvenuta adozione cioè l’insorgenza di un nuovo vincolo di filiazioni ed quindi un nuovo rapporto potestativo. Non viene pronunciato la patria potestas ma essa è spolo una conseguenza legale della pronuncia di additio. La vendita poteva essere per ottenere un guadagno o per farlo lavorare in altre famiglia, questi erano diritti teorici ma raramente venivano applicati. Anche questo principio non poteva essere sviluppato dalle donne in quanto caratterizzato dalla patria familias che come sappiamo è prerogativa solo maschile. Successivamente verso la fine dell’impero romano e cioè in epoca tardo classica si è andati avanti verso un rituale più semplificato caratterizzato solo da una dichiarazione dei soggetti interessati davanti al magistrato competente ma con effetti analoghi al rituale precedente . Da qui comincia nel diritto delle persone di famiglia una progressiva svalutazione dell’anatio con una sempre crescente importanza del vincolo di sangue (coniatio) ma al tempo stesso questa tendenza si spiega perché molte delle complessità procedimentali del diritto romano progressivamente decadono perché mutando la situazione socio economica le vecchie procedure, schemi, forme non vengono più comprese e viste come antiche e quindi ci si limiti ed accettare delle semplici dichiarazioni e questo si lega ad un altro elemento e cioè la progressiva assunzione di importanza della redazione scritta di un documento. Il diritto romano per lunghi secoli attribuisce al documento scritto prevalentemente efficacia probatoria ad un atto cioè per dimostrare la nascita o estinzione di un vincolo giuridico la cui nascita non dipende dalla redazione dello scritto. Man mano che il centro dell’impero si sposta da Roma verso l’oriente il diritto romano entra in contatto con quelle concezioni giuridiche orientali che nascono dal diritto greco ed ellenistico che attribuiscono all’atto scritto alla redazione il potere e l’efficacia di creare o estinguere vincoli e non semplicemente comprovarne l’avvenuta istituzione o cessazione. L’Adrogatio La adrogatio consiste nell’adozione di un soggetto suis iuris da parte di un altro soggetto suis iuris. E questo non consiste nient’altro che nell’adozione di un pater familias da parte di un altro pater familias. Questo è un atto molto particolare che l’ordinamento giuridico romano conosce fin dall’antichità e per la complessità ed importanza degli effetti è circondata da una serie di cautele non indifferenti. Innanzitutto il collegio dei pontefici guidato dal pontefice massimo deve preventivamente valutare l’ammissibilità di questa operazione, perché questo tipo di adozione determinava alcune conseguenze tra cui l’estinzione della famiglia del soggetto che veniva arrogato che quindi passava interamente a far parte della famiglia del pater familiae arrogatore. Questa arrogazione aveva degli effetti sulla famiglia del soggetto arrogato oltre all’estinzione: sul piano sacrale, ecco perché interveniva il collegio dei pontefici, l’ad rogatio comportava l’estinzione dei riti religiosi e l’adattamento della vecchia famiglia ai riti religiosi della nuova famiglia. sul piano giuridico si estinguevano anche i rapporti giuridici patrimoniali, compresi quelli obbligatori, facenti capo alla famiglia che si è estinta che confluivano indistintamente nel patrimonio del nuovo pater familiae. Pur in mancanza di requisiti rigorosi o legali il collegio dei pontefici istruiva una sorta di indagine preventiva per accertare che in questo atto proprio per le conseguenze che lo connotano non sia determinato indotto o causato da situazioni quanto meno sospette. Per esempio si tendeva a negare questo istituto a: chi avesse già dei figli; chi avesse età inferiore a 60 anni (si tendeva a scoraggiare questo atto e a favorire l’idea che fosse meglio la procreazione naturale o era meglio l’adoptio in senso stretto); arrogazione fra soggetti con notevole differenza di età o dove l’arrogatore fosse più giovane dell’arrogato; L’arrogazione all’apparenza inutile poteva essere dettata per ragioni politiche, o per ragioni di alleanze familiari tanto è vero che una volta che il collegio dei pontefici aveva escluso che un atto del genere fosse messo in essere per ragioni fraudolente veniva convocato il popolo schierato come esercito in battaglia (comizi curiati in cui sono rappresentate le 30 curie cittadine) ed il pontefice massimo chiedeva se voleva approvare o meno questo atto, e solo in caso di risposta positiva poteva verificarsi ma è un atto molto poco frequente nella storia di Roma. Questo è un atto totalmente inaccessibile alle donne, anche nell’adozione era così ma nel corso degli anni ci fu una parziale apertura ad allentare i vincoli che inizialmente vietavano l’ammissibilità delle donne, nell’arrogazione partendo dal fatto che l’ammissibilità era confermata dal collegio pontificio che era composta da soli l’uomini e che l’approvazione veniva dall’esercito anch’esso composto da soli uomini tutto ciò rendeva l’atto totalmente inaccessibile alle donne e agli impuberi (minori). L’arrogazione integra una vera e propria legge e dunque è una legge comiziale in senso proprio che la decreta e con tutte le sue conseguenze. Questa impostazione che è rigorosamente rispettosa dei canoni del diritto romano di epoca arcaica e repubblicano tende progressivamente ad allentarsi nella fine del principato e dal dominato in avanti; ancora con Diocleziano siamo dunque alla fine del terzo secolo a.c. si nota la tendenza dell’imperatore a rispondere negativamente a donne che chiedono di arrogare o adottare all’interno di costituzioni imperiali e questo perché Diocleziano si ispira i canoni del diritto romano classico e perciò non ritiene concepibile che una donna acquisti una situazione giuridica potestativa. Si nota però progressivamente una certa tendenza all’allentamento che anche se con difficoltà trova un’evoluzione leggermente favorevole in epoca giustinianea dal 3° al 6° secolo e si va verso il tentativo di creare un rapporto giuridico fittizio di filiazione si cerca di concedere alla donna una forma di adozione che abbia limitati effetti in ambito successorio senza che questo atto comporti l’acquisto della patria potestas che era una prerogativa di stampo maschile. Da qui in avanti si fa riferimento alla adoptio o ad rogatio per rescriptu principis cioè una forma di arrogazione compiuta e resa possibile grazie e attraverso il rescriptu principis (rescritto imperiale). Il rescripto è una delle 5 forme di costituzionali imperiali che si affermano nel principato e soprattutto nel dominato esso come costituzione imperiale è un provvedimento legislativo emanato direttamente dall’imperatore dotato di potere normativo, tutto il potere legislativo è nelle mani dell’imperatore, si caratterizza per essere quella costituzione imperiale nel quale l’imperatore risponde ad un libero cittadino privato. Si chiama così perché l’imperatore nel suo ufficio si vede recapitato un folgio in cui troviamo nella parte superiore troviamo la richiesta dell’imperatore mentre la seconda parte è lasciata in bianco rescrive cioè risponde al quesito del privato il quale con questo foglio si potrà recare davanti all’organo giurisdizionale competente per ottenere giustizia nel caso concreto in quanto il provvedimento un atto legislativo in senso proprio in quanto emanato dall’imperatore. In caso di arrogazione l’ad rogator (rogare significa chiedere) acquista la pari potestas sull’arrogato e si ha una successione universale tra vivi a favore dell’arrogatore stesso (inter vivos) e siccome come abbiamo detto l’arrogazione comporta l’assorbimento di una famiglia in un'altra e siccome l’ex pater familiae per effetto dell’arrogazione perde il titolo di suis iuris, costui subisce naturalmente una capitis deminutio che si accompagna all’estinzione del patrimonio giuridico e dunque anche dei debiti dell’arrogato. Siccome questo è un evento particolarmente importante sotto il profilo socio-economico e spiega naturalmente perché ci fosse l’attività istruttoria del collegio pontificale, nel 1° secolo a.c. il pretore concede una serie di strumenti giuridici a favore dell’arrogato per cercare di tutelarne le posizioni. Colui che viene arrogato, nella nuova famiglia assume di figlio ed assumendo tale posizione entra in rapporto di parentela civile con gli adgnati dell’arrogatore e cioè con coloro i quali sono legati da una parentela civile che si estende anche i membri dell’arrogato con i quali quest’ultimi mantiene solo ed esclusivamente un vincolo di sangue. Effetti dell'adozione e dell'arrogazione Gli effetti dell'adozione e dell'arrogazione erano perfettamente identici a quelli della procreazione all'interno della famiglia. L'adottato si staccava completamente dalla sua famiglia di origine, nella quale perdeva ogni diritto, e veniva ad acquistare gli stessi diritti ed obblighi dei membri del nuovo gruppo: nome, prenome, culto, agnazione, tribù, ecc La tutela delle donne perdette gradatamente d’importanza e di rigore; rimase formalmente in vita, come tutti gli istituti del ius civile, ma svuotata di pratico valore. I tempi furono presto maturi per l’abolizione dell’istituto: la lex Iulia et Papia dell’età augustea svincolò dalla tutela la donna che avesse 3 figli se ingenua, 4 se liberta; non si hanno più tracce della tutela mulierum dopo l’età di Diocleziano. Curatele. Le XII Tavole conoscevano l’istituto della cura del furioso, per cui l’amministrazione del patrimonio dell’alienato, incapace di agire, era affidata a un curator. Da questo archetipo si svolsero tante altre applicazioni della cura, tutte rivolte ai casi in cui un soggetto fosse bisognevole di assistenza, di controllo o di integrazione delle sue minorate capacità. La differenza rispetto alla tutela stava, nell’antico diritto romano, nel fatto che la curatela consisteva esclusivamente in una protezione e un’assistenza limitate al campo patrimoniale (il tutore si dà alla persona, il curatore al patrimonio). Tuttavia, venuto meno l’originario carattere di potestas della tutela, l’elemento differenziatore più importante fra tutela e cura svanì, in modo che si fusero insieme i due istituti nell’età giustinianea. Le principali specie di cura sono: cura del furioso, cura del prodigo, cura di minori di 25 anni, cura ventris, cura absentis nomine per l’amministrazione del patrimonio dell’assente. DIRITTI REALI Il diritto patrimoniale contempla i vari aspetti dell’attività economica degli individui, tendente alla soddisfazione dei vari bisogni, e disciplina questa attività, riconoscendo ai singoli il diritto di esercitare un potere di godimento e talora di disposizione su determinati oggetti (diritti reali), oppure riconoscendo ai singoli il diritto di pretendere che altri presti in loro favore una data attività economica (diritti di obbligazione o di credito). Nel caso dei diritti reali, il conseguimento di un bene da parte del titolare del diritto si raggiunge direttamente mediante il riconoscimento di un potere immediato che il soggetto esercita sulla cosa e che prescinde dalla collaborazione di altri soggetti. Il diritto reale si limita a pretendere da parte di tutti gli altri consociati un atteggiamento negativo, un’astensione o una non ingerenza riguardo all’oggetto del diritto stesso. Tale pretesa può farsi valere, quindi, erga omnes e la relativa azione giudiziaria a tutela di un diritto reale è un’actio in rem che, mirando ad affermare una pretesa che si rivolge direttamente sulla res che ne è oggetto, può esperirsi contro chiunque entri con la cosa in relazione tale da ledere il diritto del titolare. Nel caso del diritto di obbligazione, il risultato economico si raggiunge, invece, mediante il riconoscimento che l’ordinamento giuridico fa al titolare (creditore) del potere di pretendere che un altro soggetto (debitore) esplichi in suo favore una attività di carattere patrimoniale (dare, facere, praestare). Tale pretesa può farsi valere, perciò, soltanto nei confronti della persona obbligata e la relativa azione giuridica è un’actio in personam. Classificazione dei diritti reali. Un posto preminente spetta al diritto di proprietà, l’unico ad avere per oggetto una cosa che appartiene in modo esclusivo al titolare del diritto stesso. Tutti gli altri diritti reali, invece, oltre ad avere per oggetto una cosa appartenente ad altri (diritti reali su cosa altrui), conferiscono al titolare solo alcuni poteri determinati: sono pertanto detti diritti reali limitati o parziari. Fra questi ultimi, alcuni assicurano in misura più o meno ampia il godimento di una cosa altrui, o comunque qualche vantaggio che si possa trarre dalla cosa altrui: sono diritti reali di godimento (servitù prediali, usufrutto, enfiteusi, superficie). Altri diritti reali, invece, tendono a fornire a un soggetto, titolare di un diritto di credito, una garanzia che maggiormente lo assicuri del soddisfacimento del credito stesso: sono perciò diritti reali di garanzia (pegno e ipoteca). CONCETTO DI PROPRIETÀ. Nella proprietà si possono rilevare due aspetti: quello della signoria, costituito dal potere assoluto, immediato e indipendente che il proprietario esercita sulla sua cosa, e quello della pertinenza, costituito dal fatto che l’oggetto della proprietà appartiene al titolare di essa in modo completo ed esclusivo. Tuttavia, l’ordinamento giuridico può imporre certi confini all’assoluta libertà del proprietario, stabilendo al diritto di proprietà alcune limitazioni nell’interesse pubblico e altre nell’interesse privato. Bisogna porre in rilievo anche un altro carattere peculiare della proprietà, l’elasticità del dominio, per cui il diritto del proprietario, anche se temporaneamente compresso dall’esistenza di diritti altrui sulla cosa, tende ad espandersi automaticamente, riprendendo tutta la sua primitiva estensione, qualora questi diritti altrui cessino. Il diritto di proprietà non si perde per il fatto in sé che non venga esercitato, ma sussiste sin quando non si verifichi un fatto che ne determini l’estinzione, es. usucapione. Il proprietario è anche possessore della cosa propria, ma può non esserlo e restare proprietario. Affermazione di appartenenza – dico che questa cosa è mia (mancipatio, in iure cessio, vindicatio della legis actio sacramenti in rem)  potere legittimamente acquistato e riconosciuto dal ius più antico  dico che questa cosa è mia ex iure Quiritium. Nella tarda età repubblicana compare il dominium ex iure Quiritium – istituto del ius civile riconosciuto e tutelato, con il termine dominus si indica il proprietario. Possono esserne titolari solo i cives, ne sono oggetto res corporales mancipi e nec mancipi, mobili e immobili (solo se res mancipi, quindi sul suolo italico). Origini proprietà immobiliare: le comunità preciviche che contribuirono alla formazione di Roma non conoscevano la proprietà privata, le terre appartenevano alla collettività – ager publicus, lasciate in godimento esclusivo a privati. Da un certo momento delle porzioni di ager publicus cominciarono ad essere assegnate in via definitiva, diventavano propri dei privati ex iure Quiritium  attraverso la limitatio, rito compiuto con magistrato e agrimensore per stabilire i confini + limes, spazio libero tra due fondi che non può essere usucapito, per ridurre al minimo le interferenze tra vicini. Tra aedes (edifici) di diversi proprietari viene lasciato un ambitus libero, non usucapibile. La limitatio cessa di essere indispensabile da età repubblicana, nasce la possibilità di agri arcifinii – fondi direttamente confinanti, l’importantè è che si assicuri ad ogni proprietario un accesso indipendente. La prima idea di proprietà è quella di un ius utendi et abutendi re sua (diritto di usare e abusare della cosa propria). Il diritto romano non conosce un divieto generale degli atti emulativi, comportamenti del proprietario di un fondo nell’esercizio di un proprio diritto senza trarne vantaggio, ma solo per nuocere al vicino – qui suo iure utitur neminem ledit – chi esercita un proprio diritto non lede nessuno. Fino al 292 (Diocleziano) la proprietà civile immobiliare è esente da tributi; il dominio quiritario si estende illimitatamente in altezza e in profondità. Limitazioni legali alla proprietà: alcune interferenze tra immobili di proprietari diversi devono essere tollerate, perché dipendenti da un uso normale del fondo, es rami d’albero del vicino sporgenti nel mio terreno, solo se sono alti più di 15 piedi. In conclusione, si può affermare che la proprietà è la più indipendente e assoluta signoria, in atto o in potenza, riconosciuta su una cosa dall’ordinamento giuridico. Oggetto della proprietà. Esso può essere costituito da ogni cosa, mobile o immobile, purché corporale. Per i beni immobili (in particolare per i fondi) si pone il problema dei confini entro cui si estende il diritto di proprietà. Quanto al suolo, i confini dei campi erano nell’antico diritto romano determinati con una cerimonia sacra (limitatio); per i fondi non limitati, invece, i confini erano segnati da siepi, argini, fossi, steccati e cosi via. Quanto al sottosuolo e allo spazio atmosferico sovrastante, il proprietario del suolo aveva anche la proprietà dello spazio atmosferico sovrastante il fondo, fin dove questo fosse suscettibile di sfruttamento economico, nonché di tutto il materiale sottostante fin dove era possibile l’utilizzazione del sottosuolo. Inoltre, il proprietario del suolo diveniva proprietario anche di tutto ciò che fosse costruito sul suolo stesso, senza limitazioni di altezza. Varie specie di proprietà. Il diritto romano non conosce un concetto unico di proprietà. L’antico ius civile tutela solo il dominium ex iure quiritium, che ha i caratteri rigorosi e formalistici del diritto quiritario; esso è accessibile ai soli cives e si applica soltanto al suolo italico; inoltre, il dominium ha una forza di assorbimento e di attrazione di tutto ciò che è incorporato alla res o che successivamente la incrementi, ed è esente da ogni specie di tributo fiscale. Accanto al dominium, si svolse, a causa dell’espansione territoriale di Roma, la proprietà provinciale; infatti, le terre conquistate fuori della Penisola, non godendo del ius italicum, non potevano formare oggetto di dominium ex iure. Si ritenne, quindi, che la proprietà di tali terre spettasse al populus romanus o, in seguito, al princeps e che i concessionari di esse avessero soltanto un godimento economico in cambio del quale erano tenuti a pagare un canone. Il terzo tipo di proprietà è detto proprietà pretoria o bonitaria; esso si svolse dall’attività del pretore intesa a tutelare il compratore di un res mancipi che non l’avesse ricevuta con la forma solenne della mancipatio. Il pretore tutelò l’acquirente contro l’alienante che, in difetto di mancipatio, era rimasto proprietario ex iure quiritium e che poteva rivendicare la cosa, concedendo all’acquirente una exceptio rei venditae, con cui questo poteva evitare la condanna e trattenere la cosa, adducendo che essa era stata venduta e trasferita. Il pretore tutelò, poi, l’acquirente di fronte ai terzi, concedendogli un’azione reale fittizia, detta Publiciana, con la quale il compratore poteva pretendere da chiunque la restituzione della cosa, come se fosse sua, fingendosi trascorso il termine necessario all’usucapione. A partire dalla fine del III secolo d.C., tende a cessare ogni differenziazione di regime tra dominium (comprensivo di proprietà civile e proprietà pretoria dopo la fusione del ius civile col pretorio) e proprietà provinciale. Dal 275 d.C., inoltre, la proprietas si caratterizza per il solo aspetto della pertinenza. MODI DI ACQUISTO DELLA PROPRIETÀ. Acquisto iurecivili (effetti riservati solo ai cives, mancipatio, in iure cessio, usucapio) e iuregentium (effetti estesi ai peregrini, occupazione, accessione, specificazione, traditio). Acquisti originari (prescindono da ogni relazione tra chi acquista e il precedente proprietario, possono avere come oggetto una res nullius – occupazione o una cosa altrui – accessione, sono modi di acquisto a titolo derivativo perché l’acquisto del dominium nel mancipio accipiens o nel cessionario prescinde dall’esistenza dello stesso potere nel mancipante e nel cedente. Trasferiscono la proprietà sulle res mancipi (effetti reali), ma comportano anche il passaggio di possesso solo per i beni mobili, per i beni immobili si richiede la traditio. Traditio: negozio bilaterale che si tiene con la consegna di una cosa, iuris gentium, oggetto beni mobili o immobili, trasferisce il possesso (solo per res corporales). Quando riguarda res nec mancipi trasferisce possesso e proprietà (se fatta dal proprietario). Si può mancare la consegna materiale, in caso di atteggiamento del tradens quando fa conseguire all’accipiens la disponibilità della cosa. T. symbolica (per consegnare le merci contenute in un magazzino si consegnano le chiavi del magazzino), t. longamanu (traditio del fondo valida con l’indicazione dei confini dall’alienante all’acquirente e dichiarazione di voler trasferire l’immobile), t. brevimanu (l’acquirente tiene già la cosa che l’alienante gli trasmette). Costituto possessorio: l’alienante trattiene presso di sè la cosa che vende (es in affitto) e al compratore non viene fatta una materiale consegna, ma la cosa si intende tradita. È traditio in senso proprio solo la consegna in cui la persona che riceve acquista il possesso; non è traditio la consegna della cosa a scopo di custodia o del locatore all’inquilino. Per il passaggio del possesso occorre la concorde volontà di tradens e accipiens di fare acquistare all’accipiens una posizione indipendente in ordine alla cosa che viene consegnata. Per il passaggio della proprietà si richiede la volontà delle parti di fare acquistare all’accipiens il possesso uti dominus, quale proprietario. Iusta causa traditionis: ragione per cui si procede a traditio che giustifica l’acquisto della proprietà. Definite: causa vendendi, causa donandi, causa solvendi  indice di volere effettivamente trasferire la proprietà. G) Adiudicatio. Si verifica nei 3 giudizi divisori: actio communi dividundo fra i condomini, actio familiae erciscundae tra i coeredi, e actio finium regundorum per il regolamento dei confini tra proprietari di fondi limitrofi. In essi il giudice, per effetto dell’adiudicatio inserita nella formula, ha il potere di attribuire ai litiganti la proprietà delle parti risultanti dalla divisione. Tale proprietà deve considerarsi come un diritto nuovo rispetto al condominio prima esistente. H) Acquisto dei frutti. Finché il frutto è attaccato alla cosa madre (frutto pendente), esso non ha ancora esistenza autonoma e non è suscettibile di separata proprietà. Al momento della separazione, esso cadrà in proprietà del dominus della cosa fruttifera, per effetto della proiezione di quel diritto di proprietà su tutto ciò che della cosa costituisce il reddito. Qualora poi esistesse un particolare diritto alla percezione dei frutti in un titolare diverso dal proprietario della cosa fruttifera (usufruttuario, conduttore), la proprietà dei frutti si acquista con l’esercizio di tale diritto da parte del relativo titolare, cioè con l’effettiva percezione. MODI DI ACQUISTO A TITOLO DERIVATIVO. A) Mancipatio. Consiste in una forma solenne del ius civile applicata all’acquisto non solo del dominum, ma anche di altre situazioni di potere. Dinanzi ad almeno 5 testimoni, cittadini romani, e puberi, e con l’intervento di un libripens (un soggetto, cittadino romano e pubere, che recava in mano una bilancia o libra), l’acquirente (mancipio accipiens) pronunciava determinate parole solenni e compiva gesti rituali. La controparte (mancipio dans) taceva e quindi approvava: in virtù di tale assenso, la controparte rimaneva esposta, in caso di evizione, cioè qualora l’acquirente avesse successivamente perduto l’oggetto acquistato in seguito a una vindicatio esperita vittoriosamente nei suoi confronti dall’effettivo titolare dell’oggetto, ad una responsabilità nei confronti dell’acquirente per il doppio del valore della cosa. In età postclassica, la mancipatio venne svuotandosi da ogni contenuto e trasfondendosi, come una clausola di stile, nel documento scritto, che assunse l’effettiva efficacia traslativa della proprietà o costitutiva di altri diritti; nel diritto giustinianeo, la mancipatio fu formalmente abolita. B) In iure cessio. Si tratta di un modo generale di acquisto di diritti assoluti; quanto alla proprietà, si applica per il trasferimento delle res mancipi e delle res nec mancipi. Consiste in un negozio di origine processuale, che si presenta nella forma come una finta lite che però non prosegue in iudicio. L’acquirente (nelle vesti di attore) e l’alienante (nelle vesti di convenuto) sostanzialmente d’accordo, si presentano al magistrato e il primo finge di rivendicare la cosa come sua e contemporaneamente tocca la cosa, che deve essere presente in iure, con una festuca. L’alienante non si oppone e consente o tace. Con ciò finge di riconoscere vera l’affermazione dell’attore perdendo la lite e ritirandosi (in iure cedit). Formalmente, quindi, la in iure cessio non attua un trapasso di proprietà, bensì il riconoscimento giudiziale di una preesistente proprietà dell’acquirente. Con la decadenza del formalismo del diritto civile, l’atto perde nella forma il suo carattere processuale e diviene semplicemente cessio, cioè cessione di una cosa o di un diritto come quella moderna. C) Traditio.negozio bilaterale che si tiene con la consegna di una cosa, iuris gentium, oggetto beni mobili o immobili, trasferisce il possesso (solo per res corporales). Quando riguarda res nec mancipi trasferisce possesso e proprietà (se fatta dal proprietario). Si può mancare la consegna materiale, in caso di atteggiamento del tradens quando fa conseguire all’accipiens la disponibilità della cosa. T. symbolica (per consegnare le merci contenute in un magazzino si consegnano le chiavi del magazzino), t. longamanu (traditio del fondo valida con l’indicazione dei confini dall’alienante all’acquirente e dichiarazione di voler trasferire l’immobile), t. brevimanu (l’acquirente tiene già la cosa che l’alienante gli trasmette). Costituto possessorio: l’alienante trattiene presso di sè la cosa che vende (es in affitto) e al compratore non viene fatta una materiale consegna, ma la cosa si intende tradita. È traditio in senso proprio solo la consegna in cui la persona che riceve acquista il possesso; non è traditio la consegna della cosa a scopo di custodia o del locatore all’inquilino. Per il passaggio del possesso occorre la concorde volontà di tradens e accipiens di fare acquistare all’accipiens una posizione indipendente in ordine alla cosa che viene consegnata. Per il passaggio della proprietà si richiede la volontà delle parti di fare acquistare all’accipiens il possesso uti dominus, quale proprietario. Iusta causa traditionis: ragione per cui si procede a traditio che giustifica l’acquisto della proprietà. Definite: causa vendendi, causa donandi, causa solvendi  indice di volere effettivamente trasferire la proprietà. D) Litis aestimatio. Nella rei vindicatio del processo formulare, la condanna non ha mai per oggetto la restituzione della cosa, ma il pagamento di una somma di denaro (condanna pecuniaria). L’attore in revindica, non può coattivamente ottenere la restituzione della sua cosa, ma potrà solo, quando il convenuto si rifiuti all’ordine del giudice di restituirla, procedere alla valutazione della cosa (litis aestimatio), mediante uno speciale giuramento, sicché il convenuto, che si accontenti di pagare la aestimatio, acquista la proprietà della cosa litigiosa. E) Legato per vindicationem. Questo modo di acquisto della proprietà appartiene al diritto ereditario. Si tratta di un negozio mortis causa, consistente nella solenne disposizione del testatore, il quale ordina che un singolo bene o un complesso di bene o un complesso di beni siano detratti, dopo la sua morte, dall’asse ereditario e passino alla persona da lui indicata, detta legatario. L’acquisto della proprietà per usucapione. L’acquisto della cosa, pur essendosi verificato in uno dei modi elencati con apparente regolarità, può, in realtà, contenere un vizio tale da escludere l’acquisto della proprietà. In questo caso, l’effettivo proprietario potrebbe sempre rivendicare la sua cosa (evizione), sicché l’alienante dovrebbe sempre rispondere verso l’acquirente. L’usucapione fu introdotta per pubblica utilità, affinché di alcune cose non restasse a lungo e incerta la proprietà, essendo sufficiente al proprietario, per richiedere le proprie cose, il decorso di un tempo determinato. Con riferimento alla proprietà, requisiti perché avesse luogo l’usucapio erano, al tempo delle XII Tavole, il godimento di fatto della cosa o possesso e la durata di tale possesso, che era fissata in due anni solo per i fondi. Ben presto, però, si richiese che l’oggetto dell’usucapione non fosse una cosa rubata o acquistata con violenza, e la giurisprudenza richiese, perciò, che in ogni caso il possessore dovesse essere, al momento dell’acquisto del possesso, in buona fede, cioè dovesse avere la coscienza di non ledere un diritto altrui; inoltre, il possessore doveva vantare anche un fondamento idoneo dell’acquisto del possesso (titolo o iusta causa). L’usucapio, essendo un istituto del ius civile, non poteva applicarsi ai non cives, né ai fondi posti fuori del suolo italico: alle stesse esigenze sopperiva, però, nelle provincie un istituto simile (longi temporis praescriptio). Nell’età postclassica, usucapione e longi temporis praescriptio si fondono in un unico istituto per effetto dell’abolizione della distinzione tra cives e peregrini e tra suolo italico e provinciale. Ne deriva la disciplina giustinianea dell’usucapione o prescrizione acquisitiva, che richiede i seguenti requisiti: res habilis (idoneità dell’oggetto ad essere usucapito), titulus o iusta causa (causa dell’acquisto, idonea a far acquistare la proprietà se non viziata), bona fides (convincimento del possessore di non ledere un diritto altrui), possessio (materiale detenzione della cosa, accompagnata dall’intenzione del possessore di tenerla con sé), tempus (durata ininterrotta del possesso, fissata in 3 anni per le cose mobili e in 10 anni per gli immobili). L’usucapione è un modo di acquisto della proprietà a titolo originario poiché, sebbene la cosa usucapita sia appartenuta prima a un precedente proprietario, tuttavia l’acquisto si verifica indipendentemente dal suo concorso, ex novo, per opera di un fatto obiettivo, cioè il decorso del tempo, e per opera di requisiti soggettivi posti in essere dall’acquirente. Usucapio pro herede: la persona che prende possesso anche di una sola cosa ereditaria, purchè appartenente ad un’eredità giacente, trascorso un anno avrebbe acquistato l’eredità nel suo complesso, pure in difetto di titolo ed anche se in mala fede. Perdita della proprietà. Tutti i modi di acquisto a titolo derivativo della proprietà costituiscono, rispetto all’alienante, altrettanti casi di perdita del suo diritto. Ma, indipendentemente da un trasferimento, la proprietà può estinguersi per altre cause, relative all’oggetto o al soggetto del diritto. Il possessore ad usucapionem, perduto il possesso prima che fosse trascorso il termine per l’usucapione, avrebbe avuto l’actio Publiciana contro ogni possessore attuale (eventualmente anche il proprietario quiritario), ma il dominus ex iure Quiritium avrebbe opposto l’exceptio iusti dominii, respingendo l’azione Publiciana  risolvere la questione a favore del proprietario civile è giusto solo se il possessore ad usucapionem ha acquistato il possesso da un terzo non proprietario. Nel caso in cui il venditore di res mancipi non ne avesse fatto al compratore mancipatio o in iure cessio, ma solo traditio intervenne il pretore, concedendo al compratore, contro la rivendica del dominus alienante, l’exceptio rei venditae ac traditae + possibilità di neutralizzare l’exceptio iusti dominii (in caso di azione publiciana) con la replicatio doli. Proprietà pretoria: il possessore ad usucapionem, legittimato all’azione Publiciana, gode a volte di tutela relativa (prevalendo di fronte ai terzi, ma dovendo cedere di fronte al proprietario civile), a volte di tutela assoluta (anche di fronte al proprietario civile nel caso di res mancipi tradita). Nei casi di tutela assoluta il diritto del proprietario civile è qualificato nudum ius Quiritium, il possessore ad usucapionem tiene la cosa in bonis. Proprietà provinciale: dominium sulle terre dei paesi assoggettati dai Romani e organizzate in province, gravate da imposta  compete al Populus Romanus o all’imperatore, il potere dei privati su di esse si dice possessio. In sostanza si tratta di proprietà, per i contenuti del tutto simili a quelli del dominium ex iure Quiritium sui fondi italici. I fondi provinciali rientrano tra le res nec mancipi, si trasmettono mediante traditio, non si acquistano per usucapione. Praescriptio longi temporis:il possessore di un fondo che lo avesse posseduto per lungo periodo, convenuto con l’azione reale da chi, assumendosene titolare, ne reclamava la restituzione, può opporre una praescriptio – strumento di difesa del convenuto, non è utile per il recupero del possesso perduto e non è modo di acquisto della proprietà. Vi si estendono i requisiti dell’usucapione, tranne il tempus, stabilito in 10 anni inter praesentes e 20 anni inter absentes. Diritto giustinianeo: si torna a distinguere nettamente la proprietà (diritto soggettivo al possesso) dal possesso e da altre posizioni giuridiche reali  istituto unitario, l’imperatore sopprime la qualifica ex iure Quiritium e vi assimila la proprietà pretoria. Non c’è + differenza tra fondi italici e fondi provinciali, tutti assoggettati a imposta fondiaria. Si oscura la distinzione tra negozi astratti di trasferimento e relative causae esterne ad essi: vendita e donazione si considerano al contempo cause e atti causali di trasferimento della proprietà. Costantino istituì una longissimi temporis praescriptio, quarantennale, opponibile, a prescindere da titolo e buona fede, dal possessore di un immobile. Giustiniano riduce il termine a 30 anni, dispone la fusione di usucapio (solo per beni mobili, 3 anni) e longi temporis praescriptio (solo per beni immobili, 10 o 20 anni). L’azione fondamentale a difesa del dominio rimane la rei vindicatio. Consortium ercto non cito: prima manifestazione di comproprietà. Si costituisce automaticamente alla morte del pater familias tra più heredes sui (discendenti soggetti all’immediata potestas del defunto) o si costituisce tramite legis actio fra estranei. Ciascun consorte può, senza il concorso degli altri, sia gestire e fruire delle cose comuni, sia alienarle, disporne per l’intero con effetti verso tutti gli appartenenti al consortium. Per la divisione del consortium: actio familiae erciscundae tra heredes sui e actio communi dividundo tra estranei. Communio di proprietà: volontaria o incidentale (prescinde dalla volontà dei partecipanti, es. per legato per vindicationem in favore di più persone in ordine alla stessa res). Ciascun partecipante – socius – è titolare di una quota ideale del bene  più persone non possono essere proprietarie per l’intero della stessa cosa. Ogni comproprietario quindi può alienare la propria quota senza il consenso degli altri, non oltre; può costituirvi pegno e usufrutto, ma non servitù prediali, partecipa alle spese e fa suoi i frutti, risponde dei danni che la cosa comune provoca ai terzi pro quota. Ius prohibendi: ciascun comproprietario può, senza il consenso preventivo degli altri, operare nella gestione e fruizione della cosa comune  trattandosi di innovazioni, spetta a ciascuno dei contitolari il diritto di veto. Ius adcrescendi: se un socius rinunziasse alla sua quota, questa si accresce agli altri, a ciascuno in proporzione della misura del suo diritto sulla cosa comune. Manumissio del servo comune: la manomissione da parte di uno dei socii non rende lo schiavo libero, ma da luogo ad accrescimento in favore degli altri comproprietari. Lo schiavo diventa libero solo se tutti i socii compiono l’atto di affrancazione. Actio communi dividundo: rimedio per la divisione dei beni comuni, formula con adiudicatio e condemnatio (esigenza di conguagli in denaro). Non può prescindere dalla divisione (per conteggi e saldi bisogna attendere la divisione giudiziale), nel diritto giustinianeo si ammette la possibilità di esercitare l’actio communi dividundo solo per esigere dagli altri contitolari il dovuto in relazione alla gestione della cosa comune, senza dover contemporaneamente procedere alla divisione. IL CONDOMINIO. Anche la proprietà può spettare in concorrenza a due o più soggetti sulla medesima res: si parla in questo caso di condominio o comproprietà (communio e res communis). Il condominio può derivare dal libero accordo di due o più soggetti (comunione volontaria) oppure da cause estranee alla volontà dei condomini (comunione incidentale). Nel condominio che ha ad oggetto una cosa indivisa (communio pro indiviso) ciascun condomino ha l’intero diritto di proprietà sull’intera cosa; ma, poiché egual diritto lo hanno anche gli altri condomini, i diversi diritti di proprietà, eguali e concorrenti, si limitano reciprocamente: ne deriva una divisione in quote ideali, rapportate al valore dell’oggetto, che determina la possibilità di esprimere il diritto del condominio con una frazione avente per denominatore il numero dei condomini. Altra cosa, invece, accade quando concorrono i diritti di proprietà di più soggetti su cose materialmente distinte, ma funzionalmente connesse: in questo caso (communio pro diviso) ciascuno ha la proprietà solitaria su una parte individuata della cosa, cioè sulla porzione a lui pervenuta; la rilevanza della comunione sta solo nel fatto che possono esistere diritti accessori che spettano in comune ai proprietari. Ciascun condomino, libero di compiere da solo gi atti di disposizione che investivano unicamente la sua quota, poteva compiere atti di disposizione giuridica dell’intera res solo con il consenso di tutti gli altri condomini. Quanto alla disciplina degli atti di godimento economico, il principio affermatosi fu che ciascun condomino potesse usare la cosa secondo quanto convenuto in un eventuale regolamento tra i condomini, e in mancanza liberamente, senza poter però mutare l’attuale destinazione economica della cosa; l’inosservanza di tali limiti legittimava ogni condomino a interporre la sua prohibitio. Altra conseguenza della speciale natura del condominio è il diritto di accrescimento (ius adcrescendi): questo consiste in ciò, che qualora una quota di condominio sia lasciata libera da uno dei condomini, il diritto degli altri si espande automaticamente, per via dell’elasticità del dominio, alla quota vacante, che si accresce proporzionalmente a quelle di tutti gli altri condomini (in caso di morte del condomino il diritto sulla quota trapassa ai suoi eredi). Il condominio è, però, uno stato anormale della proprietà ed è considerato sfavorevolmente dal diritto romano; quest’ultimo favorisce perciò lo scioglimento del condominio, che può verificarsi volontariamente o giudizialmente. Lo scioglimento volontario si realizza attraverso in iure cessio della quota ad uno dei condomini, oppure attraverso alienazione della res a terzi. Lo scioglimento giudiziale della communio si realizza, invece, attraverso una speciale azione (actio communi dividundo). DIRITTI REALI DI GODIMENTO SERVITÙ Concetto e principi generali. Le servitù sono diritti reali di godimento su cosa altrui, che conferiscono al titolare un diritto su un immobile altrui a favore del proprio. Si crea così un vincolo di subordinazione giuridica di un immobile (fondo servente), a favore di un altro immobile (fondo dominante), subordinazione che è indipendente dalle vicende che possono colpire gli attuali o futuri proprietari degli immobili e che inerisce agli immobili stessi, investendoli nella loro interezza e costituendone una qualitas. La materia delle servitù, in età classica, è regolata da vari principi fondamentali: a) nulli res sua servit. Poiché la servitù è un ius in re aliena, non può sussistere se non tra fondi appartenenti a proprietari diversi; b) servitus in faciendo consistere nequit. Il contenuto pratico della servitù non può consistere, per la sua natura di diritto reale, in un obbligo di facere, cioè di tenere una condotta attiva, da parte del proprietario del fondo servente. Il diritto grava sul fondo stesso ed è esercitato dal proprietario del fondo dominante, mentre il proprietario del fondo servente deve tenere, rispetto alla servitù, un comportamento puramente negativo, cioè il sopportare l’esercizio della servitù; c) servitus fundo utilis esse debet. Il contenuto della servitù deve rispondere a un’esigenza o un’utilità economica obbiettiva del fondo stesso, aumentandone il valore, non ad un’esigenza personale o soggettiva dell’attuale proprietario del fondo dominante. Non sono ammesse le servitù industriali (il diritto di utilizzare la creta esistente nel fondo vicino per ricavarne vasi da vendere). L’inerenza della servitù al fondo rende anche inammissibile l’alienazione di una servitù, indipendentemente dall’alienazione del relativo immobile; d) perpetuità delle servitù. L’utilità obiettiva che la servitù offre al fondo dominante la rende potenzialmente perpetua, in contrasto con il carattere temporaneo degli altri diritti reali su cosa altrui, costituiti non per l’utilità di un immobile, ma per l’utilità di un determinato soggetto; e) vicinitas dei due fondi. Essa non deve intendersi necessariamente come contiguità, ma come una relazione topografica tale da permettere il rapporto di utile subordinazione di un fondo all’altro. f) indivisibilità delle servitù. Poiché la servitù è inerente al fondo nella sua interezza, non è concepibile una servitù gravante su una parte del fondo servente, o a favore di una parte del acquirente del fondo (prelazione). L’enfiteusi si costituisce per convenzione tra le parti (contratto enfiteutico) o per disposizione di ultima volontà. Si estingue, oltre che per devoluzione, per perimento del fondo, per confusione, per rinuncia o per scadenza di un eventuale termine finale. IL DIRITTO DI SUPERFICIE. Dal carattere assorbente dell’antico dominio, che si estende al sottosuolo, deriva il principio civile per cui tutto ciò che viene edificato su suolo altrui spetta, per accessione, al proprietario di esso. Tuttavia, lo Stato soleva fare a privati una concessione di carattere amministrativo, avente per contenuto il diritto di costruire su suolo pubblico e di godere in perpetuo o a tempo determinato dell’edificio costruito, dietro pagamento di un solarium. Ad imitazione di questo istituto, sorsero tra i privati rapporti analoghi sul suolo privato, concepiti come locazione o come compravendita, a seconda che fosse stabilito un corrispettivo sotto forma di canone annuo o di prezzo versato una tantum. Il pretore, però, per la speciale natura del rapporto, concesse al conduttore o al compratore uno speciale interdetto de superficiebus e un’azione nuova che permetteva la possibilità di riottenere il godimento della superficie da chiunque ne fosse venuto in possesso. Da questa evoluzione, trasse origine un nuovo diritto reale su cosa altrui (superficies) che si configura, nel diritto giustinianeo, come un diritto alienabile e trasmissibile, che attribuisce al titolare (superficiario) il godimento dell’area, dietro pagamento di un corrispettivo. Esso si costituisce per contratto o per atto di ultima volontà e si estingue per le stesse cause dell’enfiteusi, eccetto la devoluzione. DIRITTI REALI DI GARANZIA Pegno e ipoteca. Svolgimento storico. I diritti reali di garanzia tendono a rafforzare la posizione di un creditore, assicurandolo maggiormente della realizzazione del suo credito. Non oltre il III secolo a.C. sorse l’istituto del pegno, consistente nel trasferire al creditore la mera detenzione di una cosa del debitore a garanzia del credito, con la conseguenza che, essendo rimasto il debitore proprietario del pegno, avrebbe potuto rivendicarlo dal creditore pignoratizio quando egli avesse pagato il debito. Per la sua grande utilità il pegno ebbe ben presto ampia tutela giuridica, in quanto fu estesa al creditore pignoratizio la tutela interdittale che compete a un possessore. Nella pratica, intanto, andava svolgendosi, a partire dal II secolo a.C., un altro istituto di garanzia, fondato non sulla consegna di una cosa (pignus datum), ma su un accordo fra le parti (pignus conventum). Nel sistema giustinianeo vigono due distinti istituti: il pegno, gravante su beni, dei quali si trasferisce il possesso (datio pignoris) e l’ipoteca, gravante su beni (immobili, di regola), che rimangono, fino alla scadenza del debito, nel possesso del debitore. Conventio pignoris: patto tra creditore e proprietario di una cosa (debitore) con cui, pur restando la cosa presso il proprietario, si conviene che il creditore ne prenda possesso in caso di inadempimento e la tenga fino all’estinzione del debito. Tutela giudiziaria nella conventio pignoris: interdictum Salvianum, I secolo a.C., data al creditore pignoratizio contro il conduttore di fondi rustici che non paga la mercede convenuta, il creditore prende possesso degli attrezzi di lavoro come pegno a garanzia del pagamento. Interdictum de migrando, spettante al conduttore di immobili urbani contro il locatore che gli impedisca di portare via dall’alloggio le cose ivi immesse, presuppone un regolare pagamento del canone e che le cose non siano state convenute in pegno. Actio Serviana, in factum e di natura reale, esperibile dal creditore pignoratizio contro il possessore attuale della cosa (debitore o terzo), diretta al conseguimento del possesso. Il pegno è validamente costituito da chi abbia la cosa in bonis, ovvero proprietario quiritario o pretorio. Il creditore pignoratizio può avere il possesso utile per la difesa possessoria interdettale, ma non il godimento o l’uso (se avesse usato la cosa, avrebbe commesso furtum usus). Il creditore può trattenere la cosa fino all’estinzione del debito. Patto commissorio: il creditore, inadempiente il debitore, acquista in proprietà il bene pignorato. Vietato da Costantino. Ius vendendi: si tiene tacitamente stabilito in ogni dazione e convenzione di pegno, elemento naturale del rapporto di pegno, escludibile con patto contrario. Il creditore pignoratizio è autorizzato ad alienare la cosa in caso di inadempienza, ma non a emanciparla né a farne in iure cessio – può farne solo traditio. In caso di res mancipi il compratore ne acquista solo il possesso ad usucapionem e la proprietà pretoria; in caso di res nec mancipi ne acquista la proprietà quiritaria. La stessa cosa può essere convenuta in pegno a più creditori, in tempi diversi e per obbligazioni diverse  precedenze tra i creditori – prior in tempore, potior in iure. Prevale il creditore in favore del quale l’ipoteca è stata convenuta prima. Ai creditori di grado inferiore si da il ius offerenti; offrendo di pagare quando dovuto al creditore di rango superiore, il creditore di grado inferiore gli subentra nel rango. Costituzione del diritto di pegno. Può costituire il pegno sia il debitore, sia un terzo, purché il costituente abbia, in ogni caso, la facoltà di alienare la cosa pignorata. Il pegno può essere costituito per volontà delle parti (contratto di pegno) oppure per disposizione del magistrato (pegno giudiziale), o ancora per volontà della legge (pegno legale). Nel diritto giustinianeo il pegno può costituirsi anche per atto di ultima volontà. Contenuto del diritto di pegno. Al creditore pignoratizio compete la materiale detenzione della cosa. Nel pegno essa si acquista con la materiale consegna della cosa medesima fatta dal debitore, mentre nell’ipoteca la detenzione si acquista mediante l’esercizio dell’actio quasi serviana, dopo che, scaduto il termine, il creditore sia rimasto insoddisfatto. In età imperiale si ammise anche che il creditore potesse trattenere presso di sé la cosa oppignoratagli, anche se era stato soddisfatto del credito garantito, come garanzia di altri crediti esistenti verso lo stesso debitore, opponendo al debitore che agisse per la restituzione del pegno una exceptio doli generalis. Il creditore pignoratizio non fa suoi i frutti del pegno; è ammessa un’apposita convenzione (anticresi), in forza della quale i frutti della cosa pignorata sono percepiti dal creditore, quale che ne sia l’ammontare, a titolo di interessi.In origine il creditore pignoratizio non aveva alcun potere di soddisfarsi sull’oggetto del pegno, che poteva solamente essere tenuto fino a quando il creditore non fosse stato soddisfatto. Successivamente, però, si introdusse la pratica di convenire, in occasione della costituzione del pegno, un patto (lex de distrahendo pignore) con cui si dava facoltà al creditore insoddisfatto di alienare il pegno a trattativa privata (pur non essendo il creditore proprietario del pegno), curando di fare gli interessi del debitore, e di trattenere sul ricavato l’ammontare del credito, restituendo l’eccesso al debitore. Estinzione del diritto di pegno. Il diritto di pegno si estingue, essendo venuta meno la sua funzione, con l’estinzione del credito che esso garantisce. Tuttavia, per la sua natura di diritto reale su cosa altrui, può anche estinguersi per perimento della cosa pignorata; per confusione delle qualità di creditore pignoratizio e proprietario del pegno nella stessa persona; per remissione da parte del creditore e infine per prescrizione OBBLIGAZIONI Concetto, contenuto e oggetto dell’obbligazione. Obligatio: vincolo giuridico per cui un soggetto (debitore) è tenuto ad un determinato comportamento (prestazione) nei confronti di un altro soggetto (creditore). Al creditore contro il debitore spetterà un’azione in personam. La prestazione del debitore consiste in un comportamento spesso positivo  il debitore inadempiente incorre di responsabilità (posizione di chi deve render conto, esposto al rischio di dover subire una sanzione). L’unico tipo di reazione ammesso agli inizi contro i comportamenti illeciti era la vendetta: l’offensore doveva essere punito con una poena corporale, inflitta dal pater familias del gruppo familiare offeso  impossessamento immediato dell’autore dell’illecito. L’offeso può rinunciare alla vendetta se l’offensore offre di pagare una composizione pecuniaria  da un certo momento si stabilisce che l’offeso non può rifiutare la composizione pecuniaria offerta dall’offensore  riscatto (no obbligazione perché non è una prestazione a cui è tenuto l’offensore). L’idea di obbligazione nasce per gli atti leciti. L’oggetto della prestazione può consistere in una cosa materiale o in un servigio; in una cosa individuata nella sua identità (species) o compresa entro il genus cui appartiene; in una sola cosa dovuta (obbligazione semplice) oppure in due o più cose dedotte alternativamente; in una cosa divisibile o indivisibile. Oltre all’oggetto principale, il debitore può anche essere tenuto alla prestazione di accessori: di carattere naturale, come i frutti dell’oggetto dovuto, oppure di carattere giuridico, come gli interessi del capitale (sors). In ogni caso, perché sorga un’obbligazione, occorre che la prestazione sia: materialmente e giuridicamente possibile; lecita, cioè non contraria al diritto e ai boni mores; infine determinata, non potendo ammettersi, per mancanza di serio contenuto, un’obbligazione con oggetto indeterminato. È ammissibile, però, un’obbligazione il cui oggetto, se anche indeterminato inizialmente, sia successivamente determinabile in modo obbiettivo, cioè non rimesso all’arbitrio delle parti: la determinazione può essere rimessa a un evento naturale (―il raccolto che si produrrà‖) o all’arbitrium boni viri di un terzo, la cui decisione potrà essere sottoposta al controllo del giudice. Origine e sviluppo storico dell’obbligazione. È certo che la terminologia obligatio non è recente (non compare nelle fonti prima della fine del III secolo a.C.) e che la situazione corrispondente alla moderna obbligazione si presenta con riferimento a varie ipotesi: talora appare relativa al vincolo di soggezione personale (nexum) che lega il debitore inadempiente al creditore e lo espone al dovere di lavorare per quest’ultimo; altre volte, invece, si presenta come relativa a un rapporto meramente giuridico in forza del quale un soggetto (in molti casi diverso dal debitore) è esposto alla possibilità di un’esecuzione personale promossa nei suoi confronti dal creditore insoddisfatto. In questa prima fase è evidente, quindi, la distinzione tra debito e responsabilità, spesso gravanti su due soggetti diversi. In prosieguo di tempo, diviene normale la riunione nella stessa persona delle due figure del debitore e del responsabile,
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