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PIANETA VARDA (Malavasi e Masecchia), Appunti di Storia Del Cinema

Riassunto del libro Pianeta Varda

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 06/09/2023

silviabruno16
silviabruno16 🇮🇹

4

(3)

21 documenti

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Scarica PIANETA VARDA (Malavasi e Masecchia) e più Appunti in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! Luca Malavas i e Anna Masecchia INTRODUZIONE Les Plages d’Agnés (2008) rappresenta il punto d’arrivo di un’attitudine alla riflessione autobiografica e al ritorno sulle immagini già fotografate, riprese, montate, narrate, archiviate durante tutto il corso della sua vita. Il film non si limita a mettere in ordine perché racconta di un’estetica: Varda di fronte alle immagini che ride, si sorprende, si commuove, si incuriosisce. Si tratta del film dal quale partire per conoscere la regista. Varda por Agnès (festival di Berlino 2019) è l’ultima chiacchierata con noi. Nella locandina lei è seduta di spalle, rivolta verso il mare e invita a guardare al futuro. Per lei, in origine storica dell’arte e fotografa, il cinema è la messa in movimento dell’immagine fissa. Le tre parole fondamentali attorno a cui nasce e si sviluppa il suo percorso artistico sono: ispirazione, creazione e condivisione. Una porzione di realtà (un luogo, una persona, un fatto storico) o un sentimento (amore, paura, ribellione) catturano la sua attenzione, la ispirano e stimolano la sua immaginazione, il processo creativo. Le inquadrature di Varda sono cornici e finestre sul mondo, partono da uno sguardo oggettivo per sollecitarne uno soggettivo. Così, grazie al filtro sentimentale e soggettivo di chi filma, creano un dialogo con lo spettatore, innescando un meccanismo di condivisione. Il volume Pianeta Varda si struttura in 22 parole che compongono l’immagine della regista come in una sorta di collage. AMERICA L’interesse di Varda per l’arte, la società ed il cinema statunitensi non è una rarità nel contesto parigino degli anni ’60. Tuttavia, Varda si reca realmente in America per due volte e la traduce in film. Arriva a Los Angeles col marito Demy, perché a questo è offerta la possibilità di realizzare un film per la Columbia Pictures. Dal primo soggiorno fa uscire due cortometraggi documentaristici e un lungometraggio di finzione. • Onclè Yanco (1967): su un lontano cugino, appartiene al genere prediletto da Varda, quello del ritratto ma rappresenta l’occasione per un’esplorazione di San Francisco e del suo versante hippy, giovane, artistico in rivolta. Attraverso Yanco, Varda prende posizione contro il governo Johnson, l’ossessione per il denaro e il successo, la guerra in Vietnam; per lei stare in America significa stare con gli americani, con gli intellettuali liberi e quelli più arrabbiati (la subcultura di un altro colore). • Black Panthers (1968): prodotto dalla tv di stato francese ma mai trasmesso perché considerato troppo radicale. Documenta le proteste per l’arresto dell’attivista Newton, fondatore del Black Panther Party. L’influenza del cinema-verité è evidente: il dovere è documentare. Tra un comizio e una marcia riesce a scavare una parentesi femminile, grazie soprattutto all’intervista a Kathleen Cleaver: la questione si sposta verso il corpo, l’orgoglio per i capelli afro, i canoni della bellezza nera. • Lions Love (1969): ispirato al cinema sperimentale di Warhol. Ha come protagonisti Hollywood, le sue star e le sue contraddizioni. Fa quello che molti registi della New Hollywood stanno cercando di fare: un film americano che sembri girato da una regista della Nouvelle Vague. Sabota continuamente il meta-cinema entrando in scena per spiegare l’azione alla collega. Vuole che il film esprima due grandi temi americani: il sesso e la politica, ma è anche su moltissime altre cose. Si tratta di tre progetti costruiti sul principio dell’incontro, sull’esplorazione incerta di una terra sconosciuta. Il secondo soggiorno americano è più breve e comprende due progetti: • Mur Murs (1980): ideale continuazione di Daguerréotypes o, meglio, ne ripresenta lo spirito poiché anche qui il cast è rappresentato dalla gente del posto (Los Angeles), dalle tracce, dai segni lasciati sui muri. È attratta dal ruolo politico e identitario dei murales, dalla loro natura di immagini narrative, che a volte ingannano l’occhio e altre volte stabiliscono incastri o scambi tra finzione e realtà. Arte espansa, collettiva, popolare, fragile, mutevole e democratica. • Documenteur (1981) nasce dall’immagine finale di Mur Murs: una donna e suo figlio di fronte al murale Isle of California, una visione mistica della regione ormai divenuta isola a causa del Big One, il terremoto atteso che potrebbe separare la California dal continente americano. Face è la parola ossessivamente pronunciata all’inizio del film, al mistero del volto tornerà più volte. A definire il film, in teoria di finzione ma in pratica un intreccio di ricerca documentaria e invenzione narrativa, è il dialogo tra l’identità della regista e quella dell’attrice/montatrice. È uno sdoppiamento e un rispecchiamento. ARCHIVIO Varda ha fatto della raccolta (glaner) un metodo creativo. L’Opéra Mouffe (1958) è un primo esempio di doppio percorso: da un lato raccoglie le immagini e le riscrive in una sequenza di montaggio intellettuale, dall’altro le archivia in un atlante visivo che produce significato. Film successivi (Ulysse o Les plages d’Agnès) sono strutturati in questo modo e rappresentano momenti di vita che vengono raccolti e si traducono in immagini, suoni, volti e luoghi. Les Cent et une nuits (1995) è un omaggio al cinema e ai suoi cento anni. Il protagonista, Simon Cinéma, è un uomo ricco che ha accumulato nel suo castello macchine da presa, locandine, fotografie, cercando di perpetuare la memoria e sopravvivere alla fine imminente attraverso la conservazione di oggetti. La tendenza a raccogliere si amplifica con la morte di Demy nel 1990, quando Varda inizia a riconfigurare le sue immagini e il suo immaginario: ricostruisce il lavoro del marito. Con l’avvento del digitale l’immagine analogica si smaterializza e la svolta verso l’inconsistenza dell’immagine stimola Varda alla catalogazione di sé, all’auto-archiviazione sino alla costruzione di un proprio archivio. La Ciné-Tamaris, casa di produzione fondata dai coniugi con sede in rue Daguerre, è la sede di questa operazione (sempre vissuta e organizzata come una casa d’artista). Sorta di film-testamento, Les plages d’Agnès (2019) traduce definitivamente in immagini audiovisive un lavoro più complesso di archiviazione, conservazione e promozione della propria opera e di quella del marito, portato avanti alla Ciné-Tamaris (raccoglie e archivia tutta la documentazione sui film suoi e del marito). Dopo la morte di Demy avviene uno spostamento dall’archivio come fonte all’archivio come soggetto: non è più solo il luogo di conservazione ma espressione dell’archiviante. Varda manifesta un uso sentimentale dell’archivio: da un lato colmare una perdita, in primo luogo la morte di Dmey ma anche lo scorrere del tempo, in un tentativo di mettere in comunicazione il passato e il presente, aprendosi verso il futuro (nello specifico l’immagine della sua opera per le generazioni successive). Dall’altro lato, l’archivio si pone tra il soggetto e il mondo esterno: è lo spazio di transazione dell’identità, luogo di raccolta dell’esperienza personale, strumento attraverso il quale compie una ricognizione autobiografica e un’inchiesta sociologica. Daguerréotypes è archiviazione di una memoria collettiva: l’esperienza privata della regista si intreccia al ritratto di amici, vicini e commercianti. Varda passa dalla fotografia al cinema poiché la prima non basta a soddisfare la sua curiosità per le storie e le persone. Ha realizzato film sempre diversi tra loro, non si è mai accontentata di ripetere la stessa formula per tutta la sua carriera ma è stata sperimentatrice e pioniera, sempre a passo con i tempi ha saputo vedere subito le possibilità offerte dal digitale che le hanno permesso di realizzare opere a metà tra il diario e il saggio. È sempre nei luoghi in cui le cose stanno accadendo e cambiando, in grado di inserire gli avvenimenti in presa diretta. Ad esempio, è la prima a parlare della guerra in Nord Africa in Clèo dalle 5 alle 7 (1961). Inoltre, utilizza il cinema come strumento politico, soprattutto negli anni ’70 a fianco delle femministe. Varda ha una visione totale del cinema, quella dell’artigiana dove sovrintende a tutte le fasi. Lo frequenta tutto: le autoproduzioni, l’ambiente produttivo francese più istituzionale, il cinema di finzione a basso costo, il cinema impegnato politicamente, persino Hollywood seppur in maniera indipendente, cortometraggi e lungometraggi, documentari e restauro di opere di Demy. COLORE L’impiego connotativo e psicologico del colore rientra nella prassi abituale di Varda. Dichiara una predilezione verso il bianco, spesso associato all’amore e alla morte (è bianca la luce che illumina le stanze, gli arredi, le strade, gli alberi e le foglie in Cléo dalle 5 alle 7). Sceglie, invece, i toni freddi del verde e del marrone per accentuare la solitudine di Mona in Senza tetto né legge; mentre preferisce il rosso per caratterizzare la passione di Kung-Fu Master. Nel bilanciamento tra luoghi, oggetti e temi della memoria e dell’immaginario, spiccano la questione del colore e della luce e il loro ruolo nella costruzione del visibile. In Cléo dalle 5 alle 7 (1962) sceglie di affidare a una sequenza a colori il compito di tracciare il possibile futuro della protagonista, tratteggiandolo fra i tarocchi di una cartomante. Nel film, interamente girato in bianco e nero, la lettura si riduce ad un incontro di mani e carte su un piccolo tavolo, ricoperto da un tessuto scuro. Il primo giro di carte esibisce una considerevole presenza di azzurro e verde; nel secondo giro di carte, i colori si scaldano: appaiono il rosso e il giallo. La palette cromatica cambia in relazione alla maggiore tensione emotiva della donna e culmina nell’apparizione della carta della morte, un profilo lugubre ocra e nero. Le mani di Cleo si scagliano sulle carte e le mischiano e l’incipit a colori si chiude. In questo caso, il contrasto fra colore e bianco e nero enfatizza la drammaticità dell’avvio della vicenda. Il colore colloca l’incontro con la cartomante in una dimensione sospesa, possibile ma non ancora reale (racconto di finzione), diversa dalla vera vita di Cleo, presentata in bianco e nero. In Garage Demy, Varda ripercorre l’infanzia e l’adolescenza del compagno. La storia collocata fra gli anni ’30 e ’40 è girata in bianco e nero, mentre sono presentate a colori le sequenze tratte dai suoi film e le immagini di Demy e Varda nel presente. In questo dichiara fedeltà al compagno. Il verde prato dell’amore è un film in cui tutto è illuminato dai toni accesi e dalle sfumature decise su esempio degli Impressionisti. Varda descrive il ciclo vitale di un amore che si esaurisce: il matrimonio tra Francois e Therese sbiadisce nel passaggio dall’estate all’autunno, il rosso e l’arancio lasciano il posto ai toni freddi del marrone. I colori riflettono la condizione personale e sentimentale dei personaggi: il blu caratterizza l’egoismo e la felicità di Francois, il giallo la fedeltà di Therese, il celeste l’indipendenza di Emile. L’incipit è significativo: dopo l’apertura in dissolvenza rossa, si staglia al centro un girasole che si rivolge alla macchina da presa; appaiono poi le silhouette rosse di Francois, Therese e i bambini che avanzano verso la macchina da presa. Il film si sviluppa come una successione di quadri che descrivono diverse declinazioni della felicità: coniugale, domestica; si tratta, tuttavia, di una critica a questa precisa costruzione di felicità. Il film contrappone due coppie: quella composta da Francois e Therese rappresenta la relazione tradizionale, della famiglia felice relegata alla vita in campagna; quella di Francois ed Emile rappresenta la relazione moderna, accompagnata dai poster e dai divi della metropoli. La fine del film ripete specularmente l’inizio: circondati da coloni autunnali Francois ed Emile camminano verso il bosco uniformandosi cromaticamente a esso, passando dai toni caldi del rosso a quelli freddi del marrone. DEMY Demy e Varda sono due universi diversi ma intrecciati, complici e indispensabil i l’uno all’altra. Filmare è un’esperienza vitale per entrambi. Si incontrano mentre studiano per creare attraverso le immagini, lei fotografiche e lui cinematografiche. È una coppia inconsueta: il regista non è un Pigmalione e la moglie non è un’attrice, né tanto meno la su Musa. Sono due autori che si confrontano, si integrano, divergono per poi ritrovarsi. In una delle interviste (dalle quali emerge il contrapporsi a stereotipi), Varda dichiara che la donna non debba scegliere fra famiglia e lavoro. La casa di rue Daguerre, dove ha sede la Cine Tamaris, rappresenta un focolare domestico che le permette di coltivare entrambe le sue dimensioni. Se si confrontano le donne nelle opere dei coniugi, ci si trova di fronte a visioni opposte: da un lato la Lola di Demy che aspetta il ritorno del suo primo amore, del padre di suo figlio; dall’altro Cleo di Varda, donna moderna che non aspetta l’uomo ma prende in mano il suo destino. La scomparsa prematura di Demy segna il resto della carriera di Varda. Nei film a lui dedicati, Varda celebra la sua vita e la sua creatività artistica. Oltre al trittico, Demy è presente in tanti altri passaggi dei suoi film, soprattutto autobiografici. DONNE La filmografia di Varda può essere letta come esplorazione di immagini ed esperienze femminili. La regista non ha offerto allo spettatore un tipo generico di donna, si rifiuta di classificare le donne in categorie restrittive ed è interessata a creare una varietà di immagini e rappresentazioni, come una variazione musicale che differisce per tono, portata e accento. In La Pointe courte (1954), gli spettatori sono posti davanti a una bella parigina in vacanza nel sud della Francia e alle vedove e figlie dei pescatori del luogo. Il film alterna i dialoghi sofisticati degli amanti e le scene documentaristiche delle lotte per la sopravvivenza. Anche visivamente vi è contrasto fra la figura scultorea dell’attrice e le sue inquadrature studiate e le azioni immediate e meno artificiose delle donne del luogo. Il film non presenta nessuna donna come più interessante o importante, ma le pone le une a fianco alle altre perché mostrare la loro vita significa abbracciare la diversità e contraddizioni. La cineasta si interessa i corpi di tutte le età. Ne Salut les Cubains (1965) cattura delle giovani cubane che ballano per strada, il suo intento è quello di catturare un insieme di donne; in Jane B. par Agnès V. (1988) decide di concentrarsi sulla sola immagine della famosa attrice e cantante Jane Birkin in occasione del suo quarantesimo compleanno; in Les glaneurs et la glaneuse (2000) contempla la sua mano rugosa zoomando sulle macchie della pelle e invita a ragionare su quanto raramente il cinema contempli la rappresentazione dell’invecchiamento. Nell’installazione immersiva Les veuves de Noirmoutier (2005) consente a un gruppo di vedove di condividere la propria esperienza e invita lo spettatore a mettere sempre in discussione categorie ed etichette. Reponse de femmes (1975) è invece un film politicamente impegnato, che vuole spingere il pubblico a pensare ai cambiamenti della società francese e spiegare cosa significa vivere nel corpo di una donna. Senza tetto né legge (1985) ha come protagonista Mona, una vagabonda. Partendo dalla sua morte, viene ricostruito un mosaico della sua figura. È una donna che rifiuta un’esistenza convenzionale, di sottomettersi a uomini autoritari e che si gode la libertà di scegliere la propria strada. L’autrice indica la necessità delle donne di scegliere il loro modo di vivere. In questo modo, Varda vuole farci vedere le cose in modo nuovo: nei film si sente un desiderio costante di rendere giustizia alle tante voci delle donne, sovvertendo gli stereotipi. FOTOGRAFIA La fotografia segna l’apprendistato artistico di Varda e la cattura poiché da un lato è uno strumento mimetico con cui documentare il reale, dall’altro pratica artistica. Inizia a fotografare quadri, sculture, luoghi di Parigi e a documentare, dal 1947, l’attività dell’amico Jeand Vilar che lavora al Theatre National Populaire. Lavorando con lui e gli attori, apprende l’arte della messa in quadro e del dosaggio della luce. Non basa guardare bene: bisogna imparare a eliminare dall’inquadratura porzioni di visibile, rinunciare a qualcosa e nasconderlo. Sin dalle prime fotografie Varda delinea uno spazio della rappresentazione centripeto e centrifugo, che rimanda a una logica narrativa interna ma implica un’apertura al fuori campo. Il suo primo lungometraggio, La Pointe courte, presenta uno stile ibrido che coniuga l’immediatezza del reportage antropologico e la cura estrema con cui Varda costruisce lo spazio dell’azione. I confini tra reale e finzione sono messi in discussione, esibendo costantemente il lavoro della regista. Nel 2004 Varda raccoglie sotto il titolo CinéVardaPhoto 3 cortometraggi realizzati in un arco temporale ampio. Il cortometraggio Ulysse (1982) presenta un’ulteriore tensione tra osservazione documentaria e ricostruzione artistica. Dopo i titoli di testa, si apre l’inquadratura fissa di una fotografia scattata da Varda il 9 maggio 1954 a Saint-Aubin su Mer: su una spiaggia di ciottoli un uomo nudo di spalle scruta l’orizzonte, un bambino guarda verso di noi e in primo piano vi è il corpo di una capra morta. Subentra la voce di Varda, la quale afferma che si trattava di una domenica in riva alla manica. È, dunque, l’io autoriale a guidare lo spettatore verso la decifrazione dell’immagine inizialmente sospesa nell’indeterminatezza spazio-temporale. La fotografia rimanda alla cosa necessariamente reale posta dinnanzi all’obiettivo: ciò che vediamo si è trovato là, è stato presente. La fotografia Ulysse di per sé non rimanda a spazio o tempo definiti: la nudità dei corpi, il bianco e nero, il paesaggio marino non consentono di datare o collocare ciò che vediamo. Eppure, i soggetti sono stati là e impressi dalla fotografia. Fuori dal campo ci sono la storia ed il tempo passato (inclusa la fotografa). Il fuori campo è progressivamente colmato dalle informazioni fornite dalla voce narrante e dalle immagini che accompagnano la ricostruzione del contesto in cui la foto è stata scattata. La relazione fra ciò che è rappresentato nella fotografia e ciò che lo spettatore aggiunge mentre la guarda, attingendo alla propria esperienza e memoria, viene moltiplicata attraverso le foto del giovane con i suoi genitori e con lei. In Le glaneurs et la glaneuse (2000) Varda si misura per la prima volta con il digitale che le permette di sperimentare una nuova messa in quadro. Cita le inquadrature di Degas, i cui personaggi sembrano sul punto di uscire dal quadro, e invita lo spettatore a immaginare ciò che non vede (“in un’immagine si vede ciò che si vuole”). INCONTRI Il cinema di Varda è un continuo girovagare e incontrare persone. Visages Villages (2017) esce fuori dall’incontro con l’artista JR e ritorna sugli incontri col marito Demy, con il fotografo Bourdin e quello mancato con Godard. Daguerréotypes racconta gli fotografia poi attraverso il cinema. È la Parigi degli anni ’50: da un lato offre occasioni professionali e di incontro (capitale), dall'altro rappresenta i limiti familiari (quartiere). L'esplorazione di queste realtà che definiscono Parigi comincia già in Le Pointe courte, in cui la coppia supera i problemi emersi in città solo ritirandosi in provincia; ancora, in L’une chante l’autre pas la capitale da un lato presenta diverse opportunità ma dall'altro non perdona chi non raggiunge il successo: Jerome, fotografo trasferitosi a Parigi, si suicida e Suzanne è costretta a tornare dalla famiglia in provincia. Varda definisce l’Opera Mouffe come un documentario soggettivo perché intreccia una volontà di osservazione etnografica e un’esibita costruzione finzionale. Il film rappresenta il punto di vista di una donna in movimento negli spazi urbani e il nuovo rapporto con il proprio corpo (come Cleo che è soggetto di sguardo, si pensi alle soggettive che stabiliscono cosa si vede e come deve essere interpretato in base allo stato d’animo). Il punto di vista soggettivo è già esplicitato nel sottotitolo del film. La percezione della Varda incinta non chiude il film nella soggettività ma il suo sguardo diventa capace di un’indagine etnografica. Il film assume una valenza politica potente e originale: denuncia le condizioni di povertà della zona e presenta le donne in condizioni di ubriachezza, producendo un livellamento di genere non scontato. Varda si interessa ai quartieri meno esplorati, ai dettagli. Non è mai tentata di filmare la Parigi pittoresca o la Parigi super, le piace piuttosto ciò che non salta immediatamente all’occhio. Daguerreotypes è l'ennesima esplorazione urbana a partire dal corpo femminile. Il titolo esprime la relazione indissolubile fra spazio e individui ma si carica anche di una sottile critica: i “tipi” di rue Daguerre sono vittime di una sorta di immobilismo e di un’identificazione totale con la loro attività lavorativa. In quel momento Parigi sta subendo delle trasformazioni urbane ma rue Daguerre si salva, non viene smantellata, anzi resta un angolo di provincia. Si tratta quindi di una critica indiretta. Otto anni prima, i lavori urbanistici nella capitale avevano ispirato l’episodio girato da Varda per il film collettivo Lontano dal Vietnam, oggi perduto: una donna, assistendo alla demolizione di alcuni edifici nei quartieri popolari, credeva di trovarsi in mezzo a un bombardamento. Lo spazio del cantiere assume rilievo drammatico e simbolico. PETITE CAMERA Nell’ultimo film, Varda spiega come l’avvento delle petites cameras (videocamere digitali) abbiano rivoluzionato la sua vita di cineasta, offrendole la possibilità di girare in modo diverso. Nella realizzazione di Les glaneurs et la glaneuse, le piccole videocamere le permettono di avvicinarsi e di intervistare le persone che ha visto raccogliere gli avanzi al mercato personalmente, senza operatori, fonici e assistenti. Grazie alla sua MiniDv può esserci solo lei e filmare. Una delle 3 parole chiave del suo lavoro è condivisione: nel film racconta di raccoglitori e agisce come raccoglitrice. Nelle sue mani la tecnologia digitale si trasforma in un dispositivo affettivo, veicolo di contatto. L’adozione delle petites cameras rende ancora più ravvicinato il rapporto fra colui che riprende e colui che è ripreso. Les glaneurs sono le persone che vivono di ciò che gli altri scartano, ma la glaneuse è colei che si colloca tra questi e filma, stando accanto a loro, il proprio autoritratto di cineasta. Oltre a essere umana e intima, la nuova tecnologia digitale è veloce, economica e portatile. Inoltre, consente una libertà di pensiero e azione maggiore perché è possibile portarla con sé nei viaggi e filmare qualsiasi cosa si voglia. RÊVERIE Le rêverie è la capacità di perdersi in pensieri e fantasticherie, di sognare a occhi aperti. I film di Varda sono difficili da classificare per molte ragioni; innanzitutto, perché le è sempre piaciuto intrecciare nelle sue produzioni finzionali anche immagini documentarie e viceversa. Durante il montaggio, Varda assembla frammenti di diversa natura perché imita il movimento della mente dello spettatore impegnato a fantasticare e sognare. L’idea di reverie nel cinema di Varda si manifesta nelle associazioni libere fra elementi diversi (elemento surrealista). Elsa la Rose (1965) racconta la vita di Louis Aragon e Elsa Triolet. Il film interrompe il flusso biografico per inserire riflessioni sulla poesia di Aragon: immagini di eventi storici come la guerra civile spagnola, ma anche nature morte (dalla rosa di Aragon al riccio di mare, al carciofo, alla rosa di gesso). Il film non presenta una sola versione della storia d'amore fra i due: Elsa non è solo la musa del marito, ma molto di più; è una donna intelligente e complessa, che non vuole essere considerata solo un oggetto. È un esempio del modo in cui usa la reverie per articolare l’esperienza soggettiva di qualcuno: la poesia di Aragon è simile a un mologo interiore a cui l’autrice attinge. Visages Villages è un diario di viaggio a quattro mani (Varda e JR) che alterna sezioni nella Francia rurale a sequenze più riflessive per strada o a casa di Varda. Ad un certo punto, la regista ammette di aver dimenticato dove hanno scattato le fotografie dei pesci e nel film appare una sorta di flashback che ci mostra il mercato del pesce. Questo è un invito a pensare alla memoria come a qualcosa che può essere riattivata solo se documentata. Nel 2006 Varda realizza un'installazione: la Cabane de l’Hechec, alla quale seguono le Cabanes du Cinema. si tratta di strutture metalliche ricoperte di nastri di immagini in via di deterioramento tratte dal film di minor successo: Le creature. Per alcuni visitatori questo esperimento può far ricordare un tempo in cui le bobine analogiche erano indispensabili per ogni proiezione; chi ha visto il film, invece, può reagire diversamente. È un modo per riflettere sull’idea di nostalgia e sulla natura mutevole delle immagini. In questo caso la reverie si è attivata nel segno di un processo immaginativo e di una creatività che nasce dal già dato, dal vissuto. SCHERMI Nel suo ultimo film, Varda par Agnes, l'ambientazione è quasi sempre un cinema o comunque uno spazio adibito alla proiezione: lo schermo diventa una casa in cui l'autrice ci invita, operando un percorso nei tanti modi di intendere lo schermo. La sua formazione pittorica e fotografica porta al gusto per la moltiplicazione delle cornici, per le immagini che si combinano e si affiancano, per un montaggio che si estende fino alla frammentazione fotografica e al modello del mosaico. Ne Les plages d’Agnes le nozioni di quadro, cornice e schermo sono esplorate in più valenze. Anzitutto la proliferazione di immagini in una stessa inquadratura, che non è costruita solo grazie agli effetti di montaggio ma appare in spiaggia: nel confine fra terra e mare e nel confine fra il suo essere regista (si inquadra in uno specchio) e il suo essere attrice (inquadrata). Les Justes, allestita al Pantheon di Parigi nel 2007, è composta da fotografie disposte in verticale su un padiglione centrale. Attorno abbiamo tre schermi: i due laterali rappresentano coloro che hanno aiutato gli ebrei, quello centrale mostra l'immagine di un albero centenario alternata a due affreschi. Les veuves de Noirmoutier racconta le 13 storie delle vedove intervistate (più la sua) su 14 schermi diversi, così che il visitatore possa decidere quale storia seguire, se vederne solo alcune o seguirle tutte. Lo spettatore realizza un proprio montaggio, un percorso negli schermi, nonostante l'affresco complessivo di dolore e di perdita per manga sempre. La forma dello schermo viene declinata in vari modi. In Varda par Agnes parla dello sfratto degli occupanti di un palazzo abbandonato a Nantes e i loro racconti scorrono in un monitor, incastrati fra 3 oggetti fondamentali per i senzatetto: un materasso, una stufa a legna e un forno a microonde collocato in un carrello per la spesa. Varda giunge fino al corpo-schermo. nella sequenza di Les plages d’Agnes dedicata alla scomparsa del marito, le onde del mare passano lente sul corpo di Varda, seduta di spalle e avvolta in una tela bianca. Il corpo si fa schermo per l'inarrestabile flusso della memoria, incarna e ci restituisce l'implacabile scorrere del tempo e della vita. SPIAGGE Nell'opera di Varda, la relazione fra soggetto e luogo e indissolubile: i luoghi si esprimono attraverso coloro che li abitano e gli individui si definiscono nel rapporto con i luoghi. Così, ad esempio, Les plages d’Agnes è strutturato in blocchi spazio-temporali che ripercorrono la propria esistenza attraverso i territori che l'hanno ospitata. Il paesaggio privilegiato è la spiaggia, da quelle belghe dell'infanzia a quelle del nord della Francia, o ancora quelle della California. La spiaggia è un luogo limite: uno spazio pieno, abitato, un luogo antropologico dotato di identità e oggetto di osservazione etnografica ma anche un palcoscenico vuoto, atta a ospitare la messinscena. Nel suo primo lungometraggio, Le Pointe courte, è evidente questa duplice concezione della spiaggia. L'ambivalenza fra indagini etnografiche e messa in scena è evidente anche nel documentario sulla Costa Azzurra, Du cote de la cote, in cui racconta il turismo di massa con ironia. Molte inquadrature si concentrano sui corpi dei bagnanti bruciati dal sole e sul turismo di coloro che si fanno seppellire nei cimiteri del luogo. In Senza tetto né legge, Mona viene portata su un piano mitologico dalla voce fuori campo che, commentando la sequenza del bagno in mare, immagina che la donna sia nata dalle acque. La fotografia Ulysse presenta su una spiaggia un bambino, un uomo adulto e una capra morta: la spiaggia diventa il luogo ideale per raccontare lo scorrere del tempo. All'inizio di Garage Demy, Demy fa scorrere dei granelli di sabbia fra le mani è alla fine del film scompare, come fosse un granello: la macchina da presa lo lascia per posare lo sguardo sulle alghe lasciate a riva dalle onde. In Les plages d’Agnès (nel quale la spiaggia si fa palcoscenico e luogo di dialogo tra temporalità diverse) il primo nome di Varda, Arlette, scritto sulla sabbia viene cancellato dall’acqua per lasciare il posto a nome che ha scelto una volta maggiorenne. La spiaggia diviene il luogo che permette ad Agnes l’autodeterminazione del sé, ma anche il luogo in cui può camminare a ritroso nel flusso della memoria. TEMPO “Illustrare il tempo è complesso. Il tempo ci sembra diverso se siamo felici o ansiosi. Io lo chiamo tempo soggettivo. E poi c’è il tempo oggettivo, che non possiamo discutere, che si conta in ore, minuti e secondi”. È così che introducendo Cleo dalle 5 alle 7, Varda esprime il suo concetto di tempo. Nel film, combina il tempo oggettivo, scandito dagli orologi, e quello soggettivo, cioè il modo in cui la donna si sente nel corso del film. Anche La Pointe courte oscilla fra tempo oggettivo (quello della comunità di Sete) e tempo interiore (quello della storia d’amore): tutto il racconto è costruito sul rimando e il confronto fra il ritmo del villaggio di pescatori e il tempo della vita di una coppia.
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