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Il Folklore e la Politica: La Ripresa delle Feste Popolari nel Fascismo - Prof. Cavazza, Appunti di Storia Contemporanea

La ripresa delle feste popolari compiuta dal fascismo, non solo come aspetto della politica di formazione del consenso, ma come un fenomeno più complesso. Esplora la categoria di cultura popolare come concetto operativo per identificare le culture delle classi subalterne e come strumento di rafforzamento dell'unità nazionale. Anche della seconda funzione ideologica del folklore, dei valori interclassisti e di pacificazione sociale, dell'enfatizzare un valore pratico delle tradizioni popolari per ottenere un riconoscimento istituzionale e della politicizzazione della società italiana avviata dal regime.

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 18/03/2024

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Scarica Il Folklore e la Politica: La Ripresa delle Feste Popolari nel Fascismo - Prof. Cavazza e più Appunti in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! PICCOLE PATRIE Il libro analizza la ripresa delle feste popolari compiuta dal fascismo, non solo come aspetto della politica di formazione del consenso perché il fenomeno è più complesso (testimone il fatto che il folklore sia stato rivalutato anche in diversi sistemi politici). I fascisti hanno usato il folklore a sostegno del proprio dominio. La riesumazione del folclore è un effetto dell’accelerazione dei processi di modernizzazione e delle trasformazioni tecnologiche nel mondo del lavoro ma assume caratteri specifici nel fascismo. Le feste non erano obbligatorie, ma un rito legato alla sfera del tempo libero. Non era l’indottrinamento politico la funzione primaria, erano bensì percepite come occasione di svago e di fuga dalla quotidianità (per la loro ricreatività erano più pericolose della propaganda)  veicolo ideologico più sottile della propaganda, più adatto a diffondere valori che messaggi politici. Il folclorismo si integra nella cultura locale di riferimento, assolvendo a funzioni specifiche, prevale l’elemento organizzato e le finalità turistiche. “POPOLARE” può identificare: - la nazione/etnia, -classi subalterne, -cultura. In questo libro la categoria di cultura popolare verrà usata come concetto operativo per identificare le culture delle classi subalterne. Fu tra gli intellettuali provinciali, dediti allo studio dello spazio culturale regionale e municipale, che maturarono tra le due guerre mondiali i propositi di rivoluzione del folclore. 1. DAL REGIONALISMO AL FOLKLORISMO FASCISTA. 1. Regionalismo e identità culturale. Gli storici hanno finora identificato la questione regionale con il dibattito sul decentramento amministrativo. Le richieste di autonomia/decentramento erano giustificate - da antiche appartenenze regionali dettate da percezioni antropologiche o etnografiche differenti riconducibili alla configurazione geografica della penisola - dall’esigenza di avere un ordinamento conforme alle divisioni “naturali” del paese. Nel primo dopoguerra Luigi Sturzo contesta l’ente regionale perché troppo ampio per consentire al funzionario statale di conoscere la realtà su cui intervenire: la ripartizione amministrativa non era solo un problema di ordinamento territoriale, perché la regione era una unica unità etnica che aveva una sua fisionomia e vitalità, che nessuna legge poteva distruggere. Argomento ideologico: naturalità regione (configurazione secolare) contrapposta all’artificialità della suddivisione provinciale. Le regioni percepite come piccola patria dai suoi abitanti, in realtà sono entità meno definite, sono il risultato di processi storici e culturali e non di condizioni geografiche e/o naturali. Neanche il senso di appartenenza degli abitanti è istintivo, ma è un processo costruito. Il regionalismo appare un processo che richiede una produzione culturale, la produzione di elementi di auto-riconoscimento radicati nel territorio. Costruire con l’azione degli intellettuali un campo culturale all’interno del quale la tradizione unisce presente e passato Il regionalismo era uno strumento nelle mani di ceti intellettuali e di élites locali per consolidare il proprio potere e/o per esprimere protesta verso il centro, fu stimolato dalle tendenze antiunitarie e dalla volontà di trovare nell’identità regionale una forma primaria di aggregazione politica. 1861 l’Italia presentava livelli di regionalizzazione differenziati tra nord e sud (ruolo efficacie città). CAMPANILISMO: sentimento spontaneo di attaccamento alla propria città/paese, riconducibile alle dinamiche di contrapposizione tra piccole comunità. REGIONALISMO: processo più elaborato, produzione culturale che modella la mentalità collettiva offrendo elementi di auto-riconoscimento radicati nel territorio che confluiscono nell’identità. MUNICIPALISMO: processo culturale strutturato intorno a valori e miti che crea ideologie articolate (più facile di R perché città è la patria più sentita). Con l’allargamento del suffragio 1882 la necessità di penetrazione ideologica delle élites favorisce l’interesse per la dimensione locale (testimonianza i periodici amministrativi che si servono del dialetto per comunicare con i nuovi ceti sociali). La riscoperta dell’Italia regionale maturava nel clima di ostilità verso il sistema giolittiano. La simpatia per la regione era la conseguenza della polemica contro l’inefficienza e la corruzione romana. Secondo Luisa Mangoni “La Voce” finì per diventare espressione della provincia italiana, tentativo di rifondare una cultura nazionale tramite la regione. La rivista di Prezzolini difende un sano regionalismo: scrivere tante storie locali, senza spirito campanile, come antidoto al centralismo. Attenzione alla scuola: l’idea di una funzione pedagogica del dialetto. Neo-regionalismo non come regione che rinasce ma come regione che muore, che cessa di esistere solamente come regione per vivere come elemento della nazione. Neo-regionalismo individuato da Augusto Monti: riscoprire la regione significava ritrovare l’individualità regionale come momento di un più generale processo di re-individuazione della società e della cultura contro le tendenze generalizzanti e universalistiche del positivismo. Esigenza di inventare una ritualità pubblica destinata alla civiltà moderna per lo scomparire delle feste cattoliche e per il ruolo assunto dalle masse: assenza di un sistema di ritualità simboliche. Il conflitto mondiale contribuì alla nazionalizzazione (la trincea aveva distrutto il campanile) ma rafforzò l’intreccio tra idea di regione e idea di patria. Lo sviluppo dei grandi quotidiani e la nascita delle edizioni Treves e Sommaruga avevano portato a marginalizzare i ceti intellettuali locali. La cultura provinciale era resa marginale dall’emergere dell’asse romano-milanese, dove Roma aveva a cuore il consumo della borghesia burocratica e Milano la letteratura di massa. L’identità, regionale o municipale che sia, può essere utilizzata in funzione politica con l’intento di rafforzare l’unità nazionale (come Sighele: utilità nel senso di appartenenza locale, es. Milano) Il nazionalista Fabio Bargagli Petrucci si fece addirittura paladino delle varietà regionali, idea di un decentramento di funzioni  nazionalismo e regionalismo potevano convivere. Corradini: l’unità nazionale non è nemica della libertà regionale e nemmeno di quella individuale (visto in contrapposizione alla massa). Panunzio (ex socialista confluito nel fascismo): spirito regionale funzione nazionalizzatrice e utilità pedagogica. Lo stesso fascismo ebbe inizialmente una posizione indefinita sul tema. Fallito tentativo di conciliare decentramento e fascismo, MA decentramento burocratico di tipo funzionale: mantenere il controllo del centro sulle periferie. 1923 il ministro Acerbo si pronunciò contro l’istituzione delle regioni, anche Arnaldo Mussolini giudica pericolo proporre tesi autonomistiche. La regionalizzazione burocratica toccò alle stesse strutture del partito con l’istituzione 1925 da parte del Gran Consiglio di gruppi regionali di deputati per sottoporre al governo problemi delle singole regioni. Fu mantenuta la ripartizione provinciale, eliminando rappresentanza con la nomina dall’alto degli amministratori, in particolare podestà. Tra i fascisti si pensò di far leva anche sull’amore per la regione e non solo sulla piccola patria. Il regime separava nel regionalismo il dato culturale da quello politico : espulsa dalla sfera politica la regione poteva essere punto di riferimento ideologico. Perfino Acerbo aveva riconosciuto che la regione continuava ad avere un ruolo come fattore geografico ed etnografico, il ministro della Pubblica Amministrazione Gentile pensava che si potesse coltivare il regionalismo senza preoccupazioni per lo stato nazionale. Sardegna 1923 Mussolini aveva detto che il fascismo pur essendo unitario tutelava gli interessi materiali e morali della regione. La cultura regionale poteva servire come antidoto ideologico al campanilismo, contribuendo a superare i contrasti locali. Arturo Gallo contro il dialetto: (variava il dialetto da zona a zona – si finiva per insegnare il vernacolo del capoluogo, le regole di trascrizione fonetica erano spesso poco chiare. In campo fascista stava prevalendo un purismo linguistico, lanciato nel manifesto di Tommaso Tittoni. Nel fare un bilancio della riforma, Crocioni nel 1930 contestò che i libri destinati alle scuole erano spesso compilati da incompetenti, rendendo oscuro lo stesso concetto di cultura regionale. 5. La difesa del valore della tradizione Punti di riferimento del regionalismo culturale italiano: Mistral e al felibrismo. Mistral rappresentava il poeta- contadino ideale, narratore di una vita conosciuta come esperienza. Era stato il fascismo a consentire una rinascita regionale, slegata da rivendicazioni di autonomia politica e inserita in un quadro di subordinazione gerarchica. Questo regionalismo nazionalista era compatibile con la concezione dello stato fascista e si accompagnava al rigetto della cultura esterofila, dei troppi cubismi stranieri al pensiero e alle caratteristiche nazionali. In sostanza, la meccanizzazione e la standardizzazione dei consumi avevano impoverito la cultura italiana distruggendone la spiritualità. A questo processo non c’era altra via che la cultura regionale. La regione fungeva così da antidoto a questa decadenza. E in effetti negli anni venti si registrò un ritorno a modelli paesani e folkloristici in tutta la cultura europea. Anni ’20, due schieramenti, paralleli al fascismo: sostenitori della modernità, dall’altro quelli della tradizione e dello strapaese. Ordine e misura, evidente richiamo al classicismo, con la perentoria affermazione che il fascismo non era il nemico della modernità: ritorno all’arte realistica, un realismo come quello di Alceo o di Fidia. Futurista Volt complimentava l’ingegnere moderno, che faceva arte senza accorgersene. La tradizione non significava indentificarsi con l’antico. (l’arte non era mai stata tradizionale). Il fascismo aveva cercato di organizzare gli interessi intellettuali. Nel ’23 presiedeva la corporazione del lavoro intellettuale in seno ai sindacati fascisti. Verso la fine degli anni ’20 i sostenitori dello strapaese e delle culture regionali conobbero il primo momento di maggior forza, fallendo però nell’obiettivo principale di ottenere dal fascismo il primato culturale. 2. FOLKLORISMO FASCISTA. 1. Il ritorno al folklore. Molti regionalisti speravano di riesumare feste storiche. Nel 1924 la “Rivista Campana” diretta dal folklorista Nicola Borrelli propose l’istituzione di una festa dell’agricoltura, ad imitazione di antichi riti propiziatori. Nel 1925 l’assessore Milanese Radice Fossati aveva ispirato la riesumazione dell’offerta dell’olio santo, a Venezia “La gazzetta di Venezia” organizzò la regata storica. Successo del Cantamaggio Ternano. La contemporanea ripresa di riti religiosi (anche in zone di tradizione anticlericale) era stata vista come segno di ritorno ai valori conservatori e la letteratura (Storia di Cristo di Papini) aveva registrato un incremento di vendite. Riesumare le feste folcloristiche per molti voleva dire ripristinare un sistema di valori fondato sulla tradizione, l’interclassismo e la fede. Il bisogno di nuove e belle manifestazioni intreccio tra: turismo + commercio + lo svago. Il folklorismo fu alimentato prima di tutto dalla necessità, vitale soprattutto per i piccoli centri, di stimolare i piccoli commerci attirando spettatori da paesi vicini. Tutto ciò alla vigilia del turismo di massa, quando i festeggiamenti diventavano uno strumento di propaganda per le città (pubblicizzare le piccole località). Inoltre vi era una crescente domanda di svaghi dei lavoratori dal momento in cui si era cominciato a ridurre l’orario di lavoro (chiesto soprattutto dai cittadini di provincia). La festa aveva anche una funzione ludica quindi si costituirono comitati per organizzare festeggiamenti o stabili società ricreative. I bisogni di svago diventavano una questione sociale non limitata ai ceti borghesi: Per rispondere a questi bisogni, intorno al 1925 viene istituita l’Opera Nazionale del Dopolavoro. Soltanto alla fine del 1927 il folklore fece ingresso nel programma dell’OND. Il folklorismo secondo Hobsbawm aveva due caratteristiche proprie delle tradizioni: 1) l’espressione in forme simboliche della coesione sociale di gruppi e comunità e 2) la trasmissione di valori e norme. - La prima funzione si ritrova nelle feste che celebravano le identità municipali (a Terni nel 1902 con le celebrazioni curiane si voleva sottolineare il rapido sviluppo della città). - La seconda funzione ideologica risiedeva nei valori interclassisti e di pacificazione sociale, attribuiti alle tradizioni popolari. Le funzioni fondamentali del folklorismo (ludica , turistica , ideologica ) erano presenti in quasi tutte le manifestazioni, sia pure con un peso specifico diverso da luogo a luogo. La diffusione di queste feste era una conseguenza proprio di quei fenomeni di modernizzazione che venivano detestati dai fautori del folklorismo e del regionalismo. I processi di urbanizzazione accrescevano il bisogno di divertimenti e il mutamento di usanze e costumi spingeva all’idealizzazione del mondo contadino preindustriale, il folklore come antitesi del mondo reale, di negazione del presente. Molte società ricreative/comitati per le feste nati autonomamente vennero assorbiti dall’ OND (ad esempio Cantamaggio ternano) mentre in altri casi quest’ultima fu decisiva per la nascita di manifestazioni (ad esempio “festa del costume valdesiano” nel 1927, promossa dal segretario federale di Vercelli). Assumendo il controllo l’OND in alcuni casi provocò tensioni con le iniziative esistenti, anche in ambienti filofascisti (ad esempio con “La Società Filologica Friulana” che attraverso la mediazione riuscì a non vedersi ridotta la propria autonomia) Alla fine nel 1927 il folklore fece il suo ingresso ufficiale nel programma dell’OND perché da esso si potevano trarre benefici per l’educazione delle masse attraverso l’organizzazione di mostre regionali, la raccolta di canti e leggende, la riproduzione cinematografica di scene di vita popolare... Sempre nel 1927 il quotidiano Mussoliniano “Popolo d’Italia” propose una riduzione delle feste per: 1) Rendere più facile il controllo sulle manifestazioni restanti 2) Alleggerire i bilanci delle amministrazioni locali 3) Mantenere l’efficacia simbolica delle feste. A stimolare l’interesse dell’OND per il folklore (in quanto parte della cultura rurale) fu dettato dalla SVOLTA RURALE del regime: c’era il bisogno di rallentare il processo di modernizzazione culturale, così facendo si mise in primo piano la cultura rurale, antidoto contro l’urbanesimo e la degenerazione culturale della civiltà moderna. L’OND voleva esaltare ideologicamente le virtù rurali e della provincia, depositaria di valori sani e morali, contraria infatti alle “soprastrutture americane e pariginizzati delle città”. La prima iniziativa del regime fu la mostra del costume popolare (tenutasi a Roma, 1927). L’anno seguente 1928 l’OND – con la supervisione di Augusto Turati – convocò un raduno nazionale dei costumi a Venezia con in palio premi per oltre 100.000 lire, obiettivi: 1) Rivendicare l’italianità delle terre da poco annesse all’Italia 2) Lanciare nuovi tipi di costumi che armonizzassero vecchio e nuovo Queste feste reinventate avevano il fine di accrescere l’amore per il proprio paese, inquadrando l’orgoglio delle piccole patrie nella grande patria fascista - primo documento del folklore: Sentinella della Patria, 1929, dedicato al Friuli - (distogliere gli italiani dall’imitazione di cose straniere richiamandoli a servirsi delle proprie). I risultati furono contraddittori: i folkloristici lodarono con cura le ricostruzioni, ma lamentarono la confusione tra costumi ancora in uso e altri in disuso, il criterio di classificazione degli abiti che non teneva conto delle differenze sociali. Nel gennaio 1930 venne organizzato un secondo raduno nazionale di costumi per festeggiare le nozze del principe di Piemonte, di cui facevano parte sia élite periferiche che gerarchi fascisti. Dal punto di vista simbolico si distribuirono equamente gli emblemi della monarchia e del fascismo. Oltre al corteo era previsto il coro di 6000 voci bianche che eseguirono l’inno fascista, canti sardi, l’inno a Roma e Giovinezza. La manifestazione tentava di riproporre una sorte di “monarchia popolare” accentuandone la componente populista e di facciata, insistendo sul saldo legame tra monarchia e regime. Per sviluppare l’azione folkloristica l’ODN istituì all’interno della sezione cultura popolare un apposito ufficio denominato “italianamente” popolaresca. Esso doveva valorizzare: il costume regionale, le tradizioni popolari, canti e danze folkloristiche (rievocare le “belle tradizioni”). Dopo 3 anni (dal 1927) il loro numero salì a 2.534. Il direttore generale dell’OND Beretta affermò che non v’era paese in Italia che non avesse ripreso le proprie usanze. La disciplina delle tradizioni popolari si sviluppa notevolmente tra Otto e Novecento. Nel 1910 fondata Società di Etnografia Italiana che nel 1911 I° Congresso per celebrare cinquantenario dell’Unità  espressione di una diversità regionale non più pericolosa per l’unità d’Italia, i demologi differivano in quanto anche loro prevedevano una rapida scomparsa del folklore ma lo consideravano uno strumento utile per conoscere meglio il popolo, es. la mafia. La Grande guerra fu una cesura segnando la fine della Società Etnografica Italiana ma fornisce nuovi materiali demologici “ folklore di guerra ” (scomparsa delle tradizioni popolari favorita dal processo di nazionalizzazione indotto dal conflitto) il mito del popolo della trincea consentono l’idealizzazione del folklore. Nel dopoguerra nuove iniziative: - Numismatico Memmo Cagiati fonda nel 1923 la rivista “folklore italiano” e Istituto Napoletano di demopsicologia - 1929 nascita a Firenze di Commissione Nazionale per le Tradizioni Popolari (CNTP) - 1929 nascita in concorrenza dell’Istituto Nicolò Tommaseo per la poesia dialettale, diretto da Raffaele Corso = queste due si fondono nel Comitato Nazionale Arti Popolari (CIAP) alle dipendenze dell’OND. A favorire l’incontro tra demologi e OND fu l’orientamento antimoderno e populista. Il Dopolavoro estese la sua azione anche al settore degli studi trovando la collaborazione dei folkloristici. L’OND basava la sua azione sullo sfruttamento delle competenze già esistenti ma spesso i cultori locali erano privi di una adeguata preparazione filologica (ricostruzione e corretta interpretazione dei doc letterari) in quanto autodidatti non avevano preparazione metodologica (il dilettantismo era legato anche alla debolezza del paradigma scientifico della demologia italiana, troppo legata a schemi positivistici e poco permeabile all’innovazione metodologica): La prima befana fascista fu organizzata a Roma nel 1922 dove 500 bambini ricevettero una cartolina e un dono, spesso di contenuto patriottico, come il presepio con la scritta: “Bambina mia, chiunque tu sia, grida con me sempre viva l’Italia”. La prima manifestazione nazionale però venne organizzata nel 1928 ad opera dei fasci femminili e insegnanti elementari (si integrava tutto nelle attività assistenziali del regime che furono coordinate dal 1930 da comitati di assistenza invernale, confluiti nel 1931 nel nuovo Ente Opere Assistenziali). In occasione del Natale fu organizzata anche una distribuzione di alimenti alle famiglie povere, in seguito denominata “Natale del Duce”, quale segno della pietà fraterna fra i fascisti e i cittadini. Dal 1937 passo tutto nelle mani dal partito all’Ente Comunale di Assistenza. Per avere i regali bisognava presentare una domanda agli uffici del fascio o gruppi rionali. I destinatari erano bambini in condizione disagiata, le visitatrici fasciste avevano l’obbligo di verificare le condizioni dei richiedenti. (anche il dopolavoro distribuiva doni per i figli dei dipendenti) La propaganda fascista sottolineava che la Befana non era quella carità (egoista e borghese), ma il risultato di una scelta politica nazionale, mirante al “riadattamento professionale dell’individuo”. Quella fascista si distingueva da quella esibizionista e snobista dell’età liberale. I doni comprendevano: vestiti, frutta e dolciumi, mentre erano meno frequenti giocattoli, destinati ad essere rotti quando arrivava la noia. Si privilegiavano cose utili. La crisi del ’29 acuì i problemi sociali e l’impegno assistenziale del regime. Ad es. Ferrara 1934 il pacco conteneva una foto del duce, 1kg di riso, dolciumi, una maglia, calzettoni di lana e un paio di scarpe. I beneficiari crebbero notevolmente, nel ‘38 vennero distribuiti un milione e mezzo di pacchi. Anche i soldati diventarono destinatari della befana: si trattava di pacchi da un chilo che le famiglie potevano acquistare al costo di 10 lire. Durante la guerra non mancarono Befane destinate ai feriti per dimostrare la loro solidarietà fascista e di tutto il popolo. Attraverso la befana il partito si presentava al paese come una grande famiglia che guardava ai suoi figli con amorevole vigile cura. Tendenza del regime di andare verso il popolo, Mussolini (che donava) era come un grande padre, padre di tutti, recitava la didascalia nella foto donata ai bimbi nel ‘33. A Firenze la consegna dei doni avvenne sotto il Ceppo Fascista (antica tradizione toscana). - Componente folkloristica: La befana (come il presepe) era una tradizione italiana in contrapposizione con l’albero considerato elemento nordico. - Componente politica: mobilitare i bambini all’interno della ritualità fascista. Nel 1928 Turati prescriveva la rappresentazione di una fiaba prima della distribuzione dei doni dall’intento pedagogico e propagandistico. La distribuzione dei doni era preceduta da discorsi che esaltavano il regime, spesso accompagnato da bande o spettacoli (elemento ideologico si mescola con quello ludico). La rappresentazione insisteva sul contrasto vecchio e nuovo: la vecchia befana era vecchia e premiava solo i signorini, befana fascista era bella e giovane come un ringiovanimento naturale attribuito all’opera del duce. 4. La Festa dell’Uva. Le sagre dedicate ai prodotti tipici erano frequenti in Italia come stimolo ai commerci e forma di intrattenimento popolare. La Sagra dell’Uva era nata a Marino nel 1926 diventata famosa grazie alla stampa. Il fascismo fornì sostegno e pubblicità come per la sagra della fragola o la giornata del pane. La festa nazionale dell’uva però nacque dopo il ’30, a seguito di un periodo di crisi del settore vitivinicolo: acuito dai dazi eccessivi, imposte fondiarie e propaganda antialcolica. Il sottosegretario all’Agricoltura Marescalchi propose nel 1930 di fare una “giornata dell’uva” per favorire lo smercio di sovrapproduzione dell’uva e aiutare anche il settore artigianale impiegando cestini di vimini. Ribattezzata da Mussolini “Festa dell’Uva” fissata 28 settembre: affidò alle autorità fasciste e agricoltori la promozione, con la raccomandazione di indire almeno una gara per la miglior offerta del vino. Se le fiere avevano scopi commerciali, il folklore assumeva la funzione di garanzia di tipicità dei prodotti, per promuovere la vendita bisognava puntare sull’elemento caratteristico regionale facendo riemergere il legame tra regionalità e cultura. Inoltre, la propaganda sostenne che il vino in dosi moderate era un valido alimento e aiutava a migliorare la razza. C’era anche una partecipazione turistica e gare fra i venditori per i migliori allestimenti di banchi. La componente folkloristica della Festa dell’uva era costituita dai costumi tradizionali indossati dalle venditrici, dal corteo e dalla gara dei carri allegorici, che rappresentavano temi legati all’uva o alla campagna. Con la festa dell’uva la vendemmia diventava da avvenimento contadino a grande festa autunnale di tutta la nazione e “una delle manifestazioni più tipiche della politica economico-agraria del governo fascista”. L’immagine di gioiose contadine era ben lontana dalla dura realtà dei campi ma si accordava con la propaganda dei valori rurali. Frequente l’uso di simboli politici: - 1930 ad Arezzo sfilò un cesto ricolmo d’uva retto da 6 fasci littori, - a Taranto si invitò di allestire carri con argomenti di attualità e di carattere patriottico, - 1936 nella festa dell’uva aretina metà dei carri facevano riferimenti all’Etiopia. Con l’autarchia e poi la guerra si incentivò di più il consumo dell’uva. Nel 1941 per la “sobrietà” imposta dal conflitto, il corteo folkloristico fu abolito e il ricavo delle vendite dell’uva fu devoluto ai feriti ricoverati negli ospedali. 5. La polemica antiregionalista. Nel luglio del 1932 l’Associazione tra emiliani e romagnoli si sciolse (con il plauso, entusiastica approvazione di Mussolini) e la proclamazione definitiva del tramonto del regionalismo. L’anno precedente (1931) Polverelli aveva emanato le prime disposizioni antidialettali . In passato sia il regime sia lo stesso Mussolini non erano ostili al dialetto (negli anni Venti aveva a cuore la sua cultura romagnola) tuttavia negli anni Trenta il duce mostra una profonda avversione e invita all’uso della lingua italiana: questo marcato mutamento è legato all’evoluzione del regime  si associa alla progressiva megalomania del duce. Una causa di lungo periodo va ricondotta alle origini piccolo-borghesi di Mussolini, cresciuto in una famiglia dove si parlava esclusivamente italiano contribuì a rafforzare questo atteggiamento. Inoltre il crescente ruolo della romanità e dell’impero divenne propaganda nel corso degli anni trenta, il fascismo cercava un italiano grande come i miti romani a cui attingeva: il dialetto quindi poteva rappresentare al massimo una fase transitoria. Tra gli elementi contingenti possiamo collocare la scomparsa di Arnaldo Mussolini, più legato rispetto al fratello alla terra natìa e verso esponenti del regionalismo culturale filofascista. (fu Arnaldo a proteggere dai fascisti locali il poeta Aldo Spallicci) Un secondo elemento è di natura politica: l’incontro di settori di fascismo emarginati dal potere nel 1931 Vita Italiana e Il Regime Fascista di Farinacci creano tensioni: il giornale di Farinacci fu sequestrato per ben tre volte. Farinacci criticò aspramente lo scioglimento dell’associazione dei romagnoli – non era separatismo, era tendenza umana a ricercare tradizioni. La polemica antidialettale diventa scontro politico: Farinacci (“il regime fascista”) e vertici del partito, dei quali lamentavo lo scarso spirito fascista. Questo spinse Mussolini a varare una svolta antidialettale del regime che comporta la repressione contro associazioni e riviste dialettali, come “La Piè” nel 1933. Un articolo di poesia dialettale apparso sul “Rubicone” costrinse il funzionario ad ammettere che “per nostra fortuna il teatro dialettale va esaurendosi” perché il fascismo doveva dar vita ad un clima rigidamente italiano anche nelle più alte manifestazioni dello spirito e dell’arte  intento di accentuare le componenti nazionalistiche nelle tradizioni popolari. Non vi fu mai una vera e propria campagna antidialettale (avrebbe avuto scarse possibilità di successo) molte soppressioni/autoscioglimenti di riviste dialettali si riconducono alla mancanza di protettori nelle gerarchie fasciste. Mentre in precedenza l’unità era vista come il risultato della fusione di componenti regionali, ora l’accento si spostava alla ricerca di una matrice comune, latina e mediterranea. Il purismo linguistico sostituì il termine “folklore” con vocabolo italiano “popolaresco” e le riviste furono obbligate ad abbandonare la terminologia straniera. L’ostracismo al regionalismo non poteva essere totale però, perché le correnti modernizzanti ed europeistiche non potevano offrire un progetto culturale adeguato al regime, sia perché con la loro tendenza alla critica minavano le basi della dittatura fascista, sia perché offrivano un sistema di valori troppo elitario e in potenziale conflitto con lo stile fascista. In ogni caso, la polemica antiregionalista non impedì che le pubblicazioni fasciste continuassero a richiamarsi al localismo, privilegiandone però la componente municipale. Vi furono addirittura segni di un possibile rifiorire della cita culturale delle regioni verso la fine degli anni Trenta, con la nascita della rivista “Trebbo”, fatta da giovani che sposavano un fascismo integrale, propugnavano il regionalismo unitario. (secondo il dizionario del PNF 1940 il regionalismo era “l’eredità di un passato vinto dall’unificazione”) La riabilitazione del regionalismo non mirava a rifondare la cultura nazionale, ma a testimoniare l’eredità della stirpe etrusco-romana ed era dovuta anche alle esigenze di mobilitazione bellica. Era un richiamo ai valori delle piccole patrie per salvare la grande patria. 6. La burocratizzazione del folklore al servizio della propaganda. Negli anni ’30 l’intervento dopolavoristico si intensificò: 1938 gruppi folkloristici e 5.535 feste. La terza fase del folklorismo ( 1932-35 ) crebbe l’importanza della componente turistica, al punto di far prevalere l’esigenza di una razionalizzazione dell’offerta festiva. Nel settembre 1933 una circolare di Mussolini alle commissioni per il turismo per  coordinamento territoriale per evitare eventi concorrenti, o manifestazioni troppo brevi fra di loro. Il crescente impiego del folklorismo come elemento coreografico di accompagnamento alle manifestazioni dopolavoristiche di ogni genere. Importanza attribuita allo sport per la sanità della razza e l’esigenza di diversificare l’offerta turistica, l’elemento folkloristico di contorno. Aspetto caratteristico fu quello di costruire manifestazioni imponenti (es. la festa della neve nel ‘36 a Milano ospitava 150 carri e 50mila dopolavoristi) che indebolirono la componente culturale del folklorismo, a vantaggio del mito della romanità. Inoltre, la contrapposizione tra danze folkloristiche e balli moderni (per limitare il jazz e tutelare le tradizioni musicali italiane, stipulata una convenzione fra SIAE e dopolavoro per esentare i balli di carattere folklorico dal pagamento dei diritti d’autore) considerati dannosi per la salute, portarono il governo ad emanare alcuni provvedimenti restrittivi, senza successo, tanto che nei locali dopolavoristi si continuò a danzare al suono di jazz. Alla I mostra del dopolavoro nel 1938 le tradizioni popolari ebbero un ruolo circoscritto (relegato in una sezione di ricostruzioni dell’ambiente). Il controllo totale dell’OND sulle manifestazioni significò per il folklorismo la diffusione degli stessi modelli organizzativi, garantiva un alto standard qualitativo ma l’inquadramento burocratico comportava la riduzione della loro informalità e spontaneità. (Questo significava attribuire ai comitati direttivi la scelta dei temi e delle scenografie, in qualche caso ciò portò alla professionalizzazione dei partecipanti es. Viareggino artigiani pupazzi anche per committenti esteri). Parallelamente si accentuò l’uso dei simboli politici nelle manifestazioni (come lo stemma sabaudo sostenuto da fasci littori per simboleggiare il sostegno del fascismo alla monarchia e la baionetta per ricordare l’attività lavorativa della comitiva). modello della “settimana” che offrisse prezzi convenienti, concordati fra albergatori e l’Ente per il Turismo. Per difficoltà finanziarie e per un maggior controllo, l’organizzazione del carnevale passò all’OND. (es. Siena le esigenze commerciali camuffate da valorizzazione del contenuto etico, il segretario federale Sampoli introduce la formula “settimana” per prolungare il soggiorno dei turisti). Negli anni TRENTA massiccio ricorso ai mezzi di comunicazione di massa (1934 addirittura collegamento con l’America) valorizzava la tipicità dei luoghi (puntava sull’effetto esotico e sullo straniamento). 2. Culto del paesaggio e culto del folklore. La riscoperta del paesaggio artistico e naturale è un fenomeno di dimensioni europee riconducibile all’influenza dei modelli romantici e agli effetti dell’industrializzazione. In Europa la tutela dei monumenti e quella del paesaggio avevano proceduto di pari passo (in Germania conservazione e tutela del paesaggio si intrecciava con la difesa delle tradizioni popolari). C’era però una carente tutela statale del patrimonio artistico che favoriva l’esportazione clandestina di opere d’arte/sventramenti edilizi, per reazione a questo si erano costituite associazioni a tutela dei monumenti “Brigate degli amici dei monumenti” (amanti dell’arte che visitano luoghi artistici dimenticati, da esempio per il resto della popolazione). A ciò si aggiungevano i problemi estetici sollevati dall’introduzione di novità tecniche (cartelloni pubblicitari o fili elettrici) e dall’architettura pubblica dello stato postunitario (le amministrazioni liberali avevano trascurato il problema dell’inserimento di edifici e monumenti nel contesto urbano  polemica contro la “monumento mania” dell’età liberale). Fabio Barbagli Petrucci nella polemica antiburocratica (la moltiplicazione delle funzioni statali aumentava gli impieghi elevando i mediocri a discapito dei migliori) propone: l’abolizione burocrazia, la costituzione di commissioni gratuite di vigilanza sui beni artistici e un improbabile ritorno al mecenatismo aristocratico (spiegabile dalla sua origine sociale, idealizzazione del mecenatismo rinascimentale). Nel 1901 propone petizione a Siena per la nascita di un ufficio regionale (sul modello di Ravenna 1894) e nel 1903 Società senese degli amici dei monumenti. A Laurenziana 1908 Angiolo Orvieto sostenne che la Brigata non era un organismo burocratico bensì un’aggregazione fra spiriti liberi dediti al culto della bellezza, nacque l’idea di dar vita a una federazione toscana tra le confederazioni affini (primo passo per una federazione nazionale). A Bologna si era costituita un’Associazione per la difesa del paesaggio trasformatasi nel 1913 in Associazione Nazionale per i paesaggi e i monumenti pittoreschi d’Italia, dichiaratamente apolitica. Nel 1924 nascita dell’Unione Artistica Nazionale in cui si intrecciavano anche le esigenze di rappresentanza sindacale della categoria degli artisti. La battaglia per la conservazione dei monumenti si accompagnava al rilancio dell’arte e dell’educazione estetica, non bisogna sottovalutare il ruolo giocato dal culto del paesaggio in queste vicende. Soprattutto in Toscana esso era legato ad una particolare concezione dei rapporti tra città- campagna, che si ricollegava alla tradizione ruralista, anti industriale e anti urbana del moderatismo toscano. Attribuire al paesaggio una funzione di ispirazione significava coltivare l’idea che l’arte dovesse sgorgare dal legame con la propria terra, svalutando il ruolo dei contatti culturali e del cosmopolitismo ai fini della creazione artistica. Secondo Mario Tinti il rapporto con la natura era stato all’origine del pittore toscano Fattori rimasto isolato, per colpa della borghesia che aveva cambiato i propri ideali spostandosi sull’arte moderna, si era rivolto al suo ambiente nativo (il suo classicismo non era quello europeo ma discendeva dal suo naturalismo). Dal culto del paesaggio a quello della regione il passo è breve perché il primo amore per le bellezze naturali era considerato quello per il paesaggio del luogo natio. Dietro questo atteggiamento vi è una concezione mistica della natura, il paesaggio come manifestazione del divino (es. Barfucci: l’incontro con montagna porta serenità perché contatto con la divinità, Spallicci: la bellezza del paesaggio è sacra quanto il pane). Il culto della regione, del paesaggio e dei monumenti erano ben intrecciati e convergenti nel rifiuto della modernità e nella ricerca di uno nuovo stile nazionale. Berto Ricci: partendo dall’idea di un nesso organico tra natura e cultura, la conservazione del paesaggio e del folklore in un orizzonte ideologico anti urbano e antimoderno. La speranza del rilancio artistico italiano veniva anche nella ripresa dell’ artigianato tradizionale . I tradizionalisti auspicavano un rilancio delle botteghe d’arte come strumento di educazione artistica, sostenendo l’arte popolare come tesoro di forme tradizionali. (non mancavano voci discordi di chi ricordava il ruolo positivo della macchina per alleggerire il carico di lavoro agli operai) La principale attività delle associazioni di tutela era comunque la promozione dei restauri (nuovo artefice) che seguiva un preciso modello ideologico-artistico genericamente definibile come medioevale. Nell’Italia fascista il modello medioevale influenzò anche le nuove costruzioni pubbliche, opere fasciste di valore simbolico vennero costruite riadattando edifici esistenti (es. torre littoria aretina, rialzando di 4metri una torre nel tentativo di collegarsi alle tradizioni cittadine). Il modello urbanistico dell’Italia fascista rimase differenziato, in parte per esigenze di bilancio in altri casi per l’elite culturale: se coincideva con quella politica era favorevole al ripristino stilistico. Il ripristino di un’identità locale fondata sui valori della tradizione si realizzava anche attraverso la revisione e la conservazione toponomastica auspicata da “La res”, ritorno alle antiche denominazioni viarie e geografiche. Toscana sempre capostipite con proposta senese: da “persone insignificanti” a “nomi di figli di Siena e d’Italia degni di essere ricordati”. Questi interventi non vanno sottovalutati perché modificano il sistema di riferimenti simbolici entro cui i membri di una comunità agiscono. (caso estremo Sud Tirolo in cui Tolomei cancella ogni segno di appartenenza linguistica tedesca, cerca di far emergere tradizione latina) Nel caso toscano il nuovo modello di sviluppo aveva anche una elaborazione teorica: Petrucci delineava per Siena, in mancanza di corsi d’acqua e buone linee ferroviarie, uno sviluppo sulla tradizione artistica locale, idea funzionale al mantenimento dell’egemonia dell’elites senese che l’industria avrebbe indebolito. Il modello di sviluppo alternativo non nasceva dal conflitto con la modernità nel suo insieme (il turismo è frutto della società moderna), ma con quella industriale collegata a valori universalistici e massificatori, tentativo di coniugare sviluppo economico e conservazione dell’egemonia sociale delle elites locali. 3. Il modello senese. Siena era una città d’arte e tradizioni, in cui la civiltà si univa alla tradizione antica, conservata da tutti con cura gelosa (Papini: gigantesca lezione fatta di pietra e mattoni). La conservazione architettonica era dunque la conseguenza di una comunità spirituale che ricollegava direttamente la città al medioevo (culto della Siena medioevale formatosi nell’800 romantico). In questo processo di costruzione dell’identità senese varie componenti: 1. Il palio e le contrade “eredi del patrimonio di memorie, glorie e grandezze” aspetti caratterizzanti. 2. L’ideologia patriottica : l’incontro tra il mito della Grande guerra e la memoria storica risorgimentale (sacrificio della battaglia di Curtatone e Montanara di una brigata di studenti). Il fascismo assorbì il mito di Curtatone e Montanara legandolo al culto dei martiri fascisti, in particolare Rino Daus morto a Grosseto durante una spedizione squadrista. Il fascismo si inseriva nella storia d’Italia come momento finale delle vicende storico- politiche precedenti. Spesso emergevano anche elementi di carattere religioso: il sangue come richiamo al sacrificio cristiano. 3. Religiosa : radicata nei ceti popolari nel 1924 era stata ripristinata “l’offerta del cero votivo da parte dei terzi cittadini”. 3 elementi significativi:  l’intreccio tra religione e culto del passato espresso dalla presenza dei gonfaloni dell’antico stato senese  la partecipazione delle organizzazioni giovanili fasciste  la presenza dei rappresentanti di contrada. Nei primi decenni del secolo si intensifica il culto cateriniano, anche sotto il profilo della ricerca erudita e della pubblicistica (la folklorista Bernardy: la santa ispirava le “giovani italiane”), nel ventennio fascista alla santa viene riservato maggiore spazio accentuando gli aspetti del culto che si integrano nel clima ideologico del regime (rafforzamento della nazione) strumentalizzazione di Santa Caterina. (Papini sulla santa: popolana e fiera, ricca di materna e verginale dolcezza, Hilda Festa Montesi: santità delle nozze, nascite e grandezza maternità, patrona della gioventù femminile del littorio). Nessuno dei fondatori del Fascio Senese era originario della citta e il peso della vecchia classe dirigente massonica era considerevole, spesso nel fascismo senese c’erano scontri di fazione: - gruppo di Rugani, deputato Mezzetti e storico Chiurco - ex nazionalisti: guidati da potestà Petrucci (all’inizio degli anni trenta le fazioni si allearono per togliere a Bruchi il controllo sul Monte dei Paschi di Siena) Il palio costituiva una risorsa economica di rilievo per il turismo e un importante fenomeno socioculturale, contribuendo al radicamento popolare del municipalismo. Le contrade erano organismi di controllo sociale sul territorio. Il fascismo assorbì quest’ultime nel dopolavoro conservando però l’autonomia formale delle contrade vere e proprie. Un certo grado di autonomia fu ottenuto grazie al rettore del magistrato delle contrade il conte Chigi-Saracini che evitò un coinvolgimento troppo scoperto nel fascismo come movimento politico. In definitiva l’autonomia fu fittizia a causa della presenza di molti fascisti negli organi dirigenti e anche perché il conte favorì l’avvicinamento indiretto al regime attraverso la mediazione della lealtà allo stato monarchico (“vocazione istituzionale” delle contrade). Gli organismi dirigenti favorirono l’identificazione del palio con le istituzioni o, per meglio dire, il binomio patria e religione  spingendo la festa nel patriottismo monarchico. Insistere sull’apoliticità era funzionale ma non significava escludere la politica dalla vita ufficiale delle contrade (ad es. mobilitazione a sostegno della Grande guerra filtrata attraverso “vocazione istituzionale”). L’avvicinamento al fascismo avvenne quindi attraverso una vocazione istituzionale delle contrade, cioè attraverso l’identificazione tra regime e stato più che tramite l’esplicita politicizzazione della festa. La vocazione istituzionale copriva così l’avvicinamento al fascismo. Ci furono molti esponenti del regime nominati a protettori onorari, le autorità fasciste cercarono di conquistarsi la benevolenza delle contrade, orientando la propria simpatia per la festa senese: dal sostegno economico all’opposizione della riforma dei costumi (creava malumori tra l’opinione pubblica). I tentativi di controllo della manifestazione si fecero evidenti negli anni ’30 quando si cercarono di garantire stabili finanziamenti e il segretario Sampoli fece iscrivere la Federazione Fascista come protettrice. I fascisti amavano soprattutto la carica agonistica dei contradaioli come spirito guerriero, senso di gerarchia e attaccamento alla patria. (Bodrero: popolo, non volgo, cosciente della propria posizione sociale. Giannelli: grandezza del comune ieri, travaglio del risorgimento, grandezza della patria fascista oggi) L’introduzione di simboli fascisti fu abbastanza rapida nella vita della contrada, più lenta nel palio. La pressione del regime divenne più forte nel 1927, dopo la nomina a podestà di Barbagli- Petrucci, il fascio littorio comparse nel palio, solo nel ‘34 si chiese si far inserire i simboli fascisti Bargagli-Petrucci (lettura nazional patriottica del medioevo): il proliferare delle magistrature nell’età medievale come elemento di complicazione nella pubblica amministrazione, era il riflesso della polemica conservatrice contro la burocrazia giolittiana. Nel dopoguerra si rivalutò il ruolo centrale delle signorie (come momento di superiore unione della patria) a scapito dell’età comunale. In campo cattolico, contro l’immagine del Medioevo come secolo buio, la cultura cattolica aveva proposto un’immagine del periodo come sintesi della civiltà romana e di quella cristiana. Sul piano ideologico c’erano evidenti legami tra suggestioni medioevali, rinascimentali e propaganda del regime (es. calcio fiorentino per onorare Francesco Ferrucci: mito del condottiero, prodezza guerriera, come precursore dell’Italia fascista, 1931 museo in sua memoria). Sul piano estetico e culturale, nella scelta dei costumi e ambientazioni, il modello per le riesumazioni era quello Rinascimentale. Sul piano ideologico i due elementi si potevano integrare: perché il Medioevo comunale era stato il momento della lotta contro lo straniero e dell’affermazione della lingua volgare, mentre il Rinascimento costituiva il periodo di maggiore fioritura artistica del paese e di progresso verso l’unità della nazione, soprattutto dal punto di vista della conoscenza culturale. La festa medievale-rinascimentale era dunque l’esito finale di un processo di ricostruzione ideologica dell’identità fondata sul passato e sulla tradizione e finalizzata alla conservazione degli equilibri sociali locali. Serviva anche per educare le classi subalterne, accentuando l’amore per la piccola patria e sancire un legame fra passato e presente, esaltando il concetto della bellezza. Serviva anche per esaltare le virtù guerriere e il sentimento religioso, l’intreccio tra feste e religione era evidente non solo nella concomitanza con la festa patronale ma anche nel rituale (es. sfilata aretina preceduta dalla benedizione dei cavalli). La nobiltà che aveva perso il senso della propria funzione all’interno dello Stato poteva ritrovarla all’interno del fascismo: nobiltà coinvolta nelle riesumazioni (es. calcio a Firenze partecipazione aristocratici. In Toscana la partecipazione della nobiltà esprimeva un ideologia che associava l’idea di toscanità ad una concezione elitaria della cultura/società, rifletteva il potere dell’aristocrazia nel blocco di potere fascista). Il regime sfrutta le manifestazioni sul piano propagandistico, presentandole come frutto della civiltà fascista (es. discorso letto ogni anno dall’araldo al termine della sfilata in piazza Signoria: 1931 esalta continuità tra passato e presente, 1935 fascismo più evidente, 1937 aumentano i toni). Fu la guerra d’Africa ad intensificare le componenti ideologiche nelle feste (diffondendo un’immagine cavalleresca della guerra, la giostra contribuiva ad un’estetizzazione, come nel culto del caduto, depurava l’immagine sullo scontro bellico dai suoi aspetti tragici). Ingresso graduale dei simboli fascisti. Il culmine della strumentalizzazione fu toccato in Toscana durante la visita di HITLER in Italia nel 1938: vennero fatte esibire rappresentanze del Palio senese, della giostra aretina e del calcio fiorentino. Negli addobbi c’erano richiami alla tradizione medioevale fiorentina al fine di esaltarne i luoghi artistici di maggiore rilievo. Il ricorso al folklore medioevale-rinascimentale si integrava perfettamente, come affermazione dell’identità locale, all’interno della cornice nazional-patriottica fascista. Conclusioni. Il regionalismo e il municipalismo alimentarono la ripresa delle feste popolari e furono utilizzati per il rafforzamento della coscienza nazionale. Le identità regionali e municipali erano state costruite attraverso il ricorso alla storia e al culto dell’arte e del paesaggio (sistema di valori antimoderno). L’antitesi fascismo e autonomismo per quanto valida è insufficiente alla comprensione della questione regionale intesa come processi di costruzione d’identità. Lungi dall’essere un semplice strumento propagandistico, negli anni Venti il localismo alimentò una proposta di rifondazione della cultura italiana, sostenuta soprattutto dagli intellettuali di provincia. (l’origine di questa proposta, periodo prefascista in settori della cultura laico- democratica, Crocioni) L’idea di usare la cultura regionale come forma di educazione nazionale fu assorbita dal fascismo nella versione moderato-conservatrice e fu sostenuta da alcuni settori filofascisti. Il ricorso all’ideologia localista sembra essere stato maggiore nelle aree in cui le “vecchie” élites sono passate al fascismo (es. Toscana, Friuli). Il fascismo fu il vero elemento di rottura degli equilibri sociali locali. Si può affermare che vi fu una corrente filofascista favorevole al regionalismo come strumento pedagogico e come componente del sentimento patriottico, questa si scontrò con la persistenza diffidenza delle classi dirigenti fasciste nazionali. Si può dire che il regionalismo e il municipalismo hanno alimentato la ripresa di feste e tradizioni popolari, configurate come tradizioni inventate (riesumazioni e non invenzioni complete). Il folklorismo raccoglieva intenzioni: ludiche, ideologiche e turistiche. Le reinvenzioni offrivano occasioni di svago, l’aspetto ideologico consiste nel localismo orientato nell’ottica nazionale e come richiamo a valori contadini preindustriali, permeati da elementi religiosi. Le feste avevano una prevalente ragione turistica, che consisteva nel proporre un’immagine attraente per i forestieri fondata sull’interesse delle culture rurali. Il regime attraverso il dopolavoro configurò un proprio modello festivo, si riproduceva in tutto il territorio grazie alla burocratizzazione delle feste. La linea vincente non fu quella di ripristinare realmente una cultura tradizionale, ma quella di usare tale cultura come strumento di educazione e di comunicazione nei confronti dei ceti inferiori e, su un piano diverso, come forma del consenso degli intellettuali provinciali. Le manifestazioni più importanti erano localizzate in aree dove nella configurazione sociale persistevano élites agrario-tradizionaliste: non significava per forza una leadership economico- politica MA esprimeva una ritrovata egemonia ideologico-culturale in risposta alle tensioni sociali. Folklorismo fascista efficace a unire i ceti intellettuali provinciali tradizionalisti, più difficile valutare la ricezione negli strati popolari (Luisa Passerini mette in dubbio la penetrazione nelle grandi città operaie). Chi partecipava alle feste non era per forza un fascista o aderente al partito, problema del consenso lungamente discusso: non esisteva solo fascisti e antifascisti (che non potevano esprimersi) ma anche persone con un rapporto meno netto con la pratica politica o scarsamente interessate. La strategia fascista mirò a sfruttare l’identificazione monarchia-nazione e confondere la lealtà allo stato con la fedeltà al regime. Jeffrey Herf, storiografico anglosassone, propone il modello di “modernismo reazionario” per interpretare le vicende naziste: la promozione dello sviluppo tecnologico si inseriva in una tradizione nazionalistica e irrazionale fondata sulla contrapposizione tra cultura e civilizzazione, riproponendo valori tradizionali. In Italia elementi di affinità: all’origine dell’amore per il folklore v’erano la tensione verso il passato e tensioni verso il sistema di valori preindustriali che si poneva in aperto conflitto con l’evoluzione coeva dei valori e dei costumi. La modernizzazione era in realtà un processo in corso e, di fronte ai conflitti che essa produceva, le classi dirigenti liberali preferirono affidarsi al fascismo e al tentativo di ricompattamento della nazione al quale anche il folklorismo diede il suo contributo.
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