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Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

Riassunti del libro di Michael Baxandall

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento 1. LE CONDIZIONI DEL MERCATO (risposte, più o meno consce, del pittore alle condizioni del mercato dell’arte) Oggi viviamo in una società con un diverso tipo di organizzazione commerciale rispetto a quella del XV secolo. Il Quattrocento fu un periodo di pittura su commissione Un dipinto del XV secolo è la testimonianza di un rapporto sociale tra il pittore, che faceva il quadro o lo sovraintendeva, e il committente il quale forniva il denaro per la realizzazione e decideva il modo in cui usarlo. Entrambe le parti influivano sulle forme dell’opera e il committente specificava le caratteristiche del prodotto. Soprattutto le pale d’altare e gli affreschi erano eseguiti su commissione (le opere già pronte invece si limitavano a Madonne e cassoni nuziali decorati). Il cliente pagava per il lavoro ma investiva il denaro secondo l’ottica del Quattrocento e ciò poteva influire sul carattere dei dipinti. Il rapporto che sta alla base del dipinto era un rapporto di tipo commerciale e alcune consuetudini economiche dell’epoca si ritrovano abbastanza concretamente nei dipinti. Nella storia dell’arte il denaro ha una grande importanza; esso agisce sul dipinto non solo perché c’è chi è disposto ad investire denaro per un’opera, ma anche per quanto riguarda i particolari criteri di spesa. I criteri adottati nel ‘400 per stabilire il prezzo dei manufatti, e le diverse forme di pagamento, hanno entrambi una profonda incidenza sullo stile dei dipinti come li vediamo noi oggi. I dipinti sono, fra l’altro, dei fossili della vita economica. I dipinti erano progettati ad uso esclusivo del cliente secondo motivazioni individuali: Un buon cliente per i pittori era il fiorentino Giovanni Rucellai il quale provava una grande soddisfazione nel possedere oggetti di qualità. Riferendosi alle sue ingenti spese per costruire e decorare chiese e palazzi, Rucellai suggerisce tre ulteriori motivi: •onore di Dio •onore per la città •memoria di sé stesso Questi devono avere avuto un peso determinante nella commissione di molteplici dipinti (una pala d’altare in una chiesa si prestava a soddisfare tutti e tre) A questi introduce altri due motivi: •che l’acquisto di questi oggetti procura il piacere e il merito di spendere bene, piacere maggiore di quello di “fare denaro”. Per un uomo facoltoso, spendere denaro per abbellire il patrimonio culturale pubblico, era un merito e un piacere, un giusto risarcimento alla società. •non direttamente espresso da Rucellai, ma la nota di piacere che deriva nel guardare i bei dipinti. Piacere del possesso, attiva devozione e desiderio di lasciare un ricordo di sé e farsi pubblicità. In conclusione, basti sapere che l’uso primario del dipinto era quello di essere osservato: era progettato per il cliente e per la gente da cui si voleva fosse ammirato. Il suo scopo era quello di fornire stimoli piacevoli. Nel XV secolo la pittura era troppo importante per essere lasciata ai pittori: essi non dipingevano ciò che ritenevano meglio andando dopo alla ricerca di un acquirente. Una distinzione tra “pubblico” e “privato” non si addice molto alla funzione della pittura nel XV secolo. Le commissioni di privati avevano spesso un ruolo pubblico poiché spesso erano destinate a luoghi pubblici (pale d’altare per cappelle di una chiesa ad esempio). BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento Una distinzione più pertinente si ha tra le commissioni controllate da grosse istituzioni corporative (come le cattedrali), e le commissioni di singoli individui o piccoli gruppi di persone. Il pittore di solito era assunto da una persona o un piccolo gruppo mentre in questo differiva dallo scultore che invece lavorava per grandi imprese comunali (es. Donatello x Arte della Lana). Nel 1457 Filippo Lippi dipinse per Giovanni di Cosimo de’ Medici un trittico destinato in dono al re Alfonso V di Napoli. Spesso quest’ultimo si trovava fuori Firenze e Filippo cercava di tenersi in contatto epistolare con lui. In fondo alla lettera forniva uno schizzo del trittico di cui richiedeva in particolar modo l’approvazione per la composizione architettonica. La lettera è un esempio per rendersi conto del peso dell’intervento del cliente. Esiste una categoria di documenti legali che mettono in luce elementi essenziali del rapporto che stava alla base di un dipinto, accordi scritti circa gli obblighi di entrambe le parti; alcuni sono contratti veri e propri redatti da un notaio, altri sono “ricordi” meno elaborati come dei promemoria per entrambe le parti. Non esistono contratti che si possono definire tipici perché non vi era una forma fissa. ►esempio del contratto tra Domenico Ghirlandaio e il priore dello Spedale degli Innocenti riferendosi all’Adorazione dei Magi; il contratto contiene i tre temi principali di questi tipi di accordo: -specifica ciò che il pittore deve dipingere; -è esplicito per quanto riguarda i modi e i tempi di pagamento; -insiste sul fatto che il pittore debba usare colori di buona qualità (oro e azzurro ultramarino) Le istruzioni circa il soggetto del dipinto non erano in genere nei particolari. La somma concordata in un contratto non era del tutto rigida e se un pittore si fosse trovato in perdita rispetto al contratto avrebbe potuto solitamente rinegoziarlo. Spesso la preoccupazione maggiore espressa nei contratti era circa la qualità dei colori, specialmente ora e azzurro ultramarino il quale era il più costoso ma garantiva una maggiore qualità dell’opera. I pittori e il loro pubblico erano molto attenti a tutto ciò. Non tutti gli artisti però lavoravano con contratti di questo tipo; alcuni lavoravano percependo uno stipendio (come, ad esempio, Andrea Mantegna per i duchi Gonzaga di Mantova e vi sono anche dei documenti che lo attestano, spesso svolgendo anche altre funzioni per loro, non solo pittura). La sua posizione era piuttosto insolita rispetto agli altri pittori del Quattrocento. Ciò che regolava il carattere del mecenatismo del ‘400 era la pratica commerciale documentata nei contratti. I dettagli di questi variavano molto da caso a caso e nel corso del secolo si verificano molti cambiamenti; ciò che era importante nel 1410 già non lo era più nel 1490. Mentre i colori preziosi perdono il loro ruolo in primo piano, assume maggior rilievo la richiesta di abilità pittorica. Nel corso del secolo si parla sempre meno nei contratti dell’oro e dell’azzurro ultramarino. Continuano sì ancora ad essere menzionati, ma essi sono sempre meno il centro dell’attenzione e l’oro viene sempre più riservato alla cornice. L’attenuarsi di questa preoccupazione per i colori preziosi è piuttosto evidente nei dipinti come li vediamo oggi. I clienti cominciano a badare sempre meno all’esigenza di fare sfoggio, di fronte al pubblico, di una preziosità dei materiali fine a sé stessa. Il ruolo meno rilevante dell’oro nei dipinti fa parte di una tendenza generale in tutta l’Europa occidentale dell’epoca, verso una limitazione dell’ostentazione che si manifesta anche in molti altri tipi di comportamento (negli abiti si nota particolarmente questo cambiamento). Il generale abbandono dello splendore dorato deve aver avuto origini complesse e differenti (esempio la netta diminuzione della disponibilità dell’oro nel XV secolo) comportando una BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento 2. L’OCCHIO DEL QUATTROCENTO (il modo in cui la gente del Quattrocento, pittori e pubblico, prestava attenzione all’esperienza visiva in maniera tipicamente quattrocentesca, e di come le caratteristiche di tale attenzione divennero parte del loro stile pittorico) Un oggetto riflette un disegno di luce sull’occhio. Attraverso vari procedimenti di natura biologica, il cervello assimila le informazioni necessarie relative alla luce e al colore. A questo stadio del processo, nell’uomo gli strumenti della percezione visiva smettono di essere uniformi e cambiano da individuo ad individuo. Il cervello ha il compito di interpretare ciò che avviene sia grazie a delle capacità innate, sia grazie a quelle che gli derivano dall’esperienza. Ma ciascuno di noi ha avuto un’esperienza diversa e quindi avrà anche una conoscenza e una capacità di interpretazione leggermente diverse. Ognuno, infatti, elabora i dati dell’occhio servendosi di strumenti differenti. Il fatto di tendere a dare un’interpretazione piuttosto che un’altra può dipendere da molte cose, ma non meno dalla capacità interpretativa che ciascuno possiede. Le varie influenze che agiscono sulla percezione, cioè sullo stile conoscitivo, condizionano in chiunque anche il modo di percepire un dipinto. esempio: Annunciazione di Piero della Francesca ad Arezzo La comprensione del dipinto, in primo luogo, si fonda sul riconoscimento di una convenzione rappresentativa imperniata sul fatto che il pittore dispone i colori su un piano bidimensionale per rappresentare qualcosa che è tridimensionale. È difficile che ci si possa ingannare a tal punto da credere che un dipinto di questo genere sia vero, ma la convenzione consisteva nel fatto che il pittore rendesse la sua superficie piatta in modo da richiamare il più possibile un mondo tridimensionale e gli veniva attribuito il merito di tale capacità. Per l’Italia del XV secolo osservare tali rappresentazioni era una specie di istituzione che comportava una serie di aspettative: queste variavano a secondo della collocazione in cui era destinato il dipinto, ma un’aspettativa restava comunque costante: il fruitore si aspettava il talento. È importante notare come l’uomo del Quattrocento si impegnava a fondo nel guardare un dipinto; sapeva che in un buon dipinto ci doveva essere abilità e spesso era convinto che il dare un giudizio su di essa fosse compito del fruitore colto. Il dipinto risente dei tipi di capacità interpretativa che la mente gli fornisce; la capacità umana di riconoscere un certo tipo di forma o un rapporto di forme, influisce sull’attenzione che l’uomo dedica all’osservazione di un quadro. Se ad esempio, sempre nel caso dell’Annunciazione, si possiede una certa abilità nel notare i rapporti proporzionali, questa porterà ad una lettura dell’opera diversa da quella di gente priva di tali capacità. È chiaro, infatti, che ci sono delle capacità percettive che sono più adatte di altre ad un certo dipinto (ad esempio una conoscenza sul funzionamento della muscolatura umana sarebbe poco utile in questo caso). Buona parte di quello che noi chiamiamo gusto dipende dalla corrispondenza tra analisi richiesta da un dipinto e capacità di analisi del fruitore. L’uomo, infine, si trova davanti al dipinto con una quantità di informazioni e opinioni tratte dall’esperienza generale. La nostra cultura è più vicina al Quattrocento da permetterci di accettarne buona parte del patrimonio senza avere la sensazione di fraintendere i dipinti. Questo dimostra quanto la nostra comprensione del dipinto dipenda dalle nostre conoscenze personali. BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento Se dalla nostra conoscenza prescindesse quella che ci permette di distinguere l’architettura e la storia narrata, sarebbe molto difficile per noi riuscire a dedurre ciò. Noi supponiamo, per logica, che la loggia sporga ad angolo retto dalla parete di fondo ed eliminando questa ipotesi ci si ritrova in uno stato di incertezza sull’intero schema spaziale della scena. Lo stesso principio è applicabile per la storia; se non si sapesse che è quella dell’Annunciazione a Maria sarebbe difficile distinguere cosa stava accadendo. Come sottolineato da un critico, se si fosse persa la dottrina cristiana della scena, una persona avrebbe potuto supporre che le figure dell’arcangelo e di Maria rivolgessero una devota attenzione alla colonna. Questo però non vuol dire che Piero avesse raccontato male la scena, ma solo che egli nel rappresentarla avesse fatto affidamento alla conoscenza del fruitore circa la scena narrata con un’immediatezza tale. Ciò è riscontrabile, inoltre, nella figura di Maria la quale è colta in un momento particolare della storia (un momento di riserbo nei confronti dell’angelo) che la gente del Quattrocento era in grado di cogliere e poteva fare delle distinzioni più acute circa gli stadi di successione della scena dell’Annunciazione. Poiché si riteneva che le persone colte dovessero essere in grado di dare giudizi sull’interesse dei dipinti, la gente del Rinascimento vi si impegnava a fondo. Ciò assumeva una preoccupazione per la ricerca dell’abilità del pittore, preoccupazione che, come visto, era strettamente legata a certe convenzioni economiche. L’unico sistema per esprimere pubblicamente dei giudizi è quello verbale: il fruitore del Rinascimento era quindi spinto a trovare dei termini adatti a definire l’interesse di un oggetto. L’uomo del Rinascimento era uno che abbinava dei concetti allo stile pittorico. Oggi esiste una categoria di persone iperculturalizzate che, pur non essendo pittori, possiedono una gamma piuttosto estesa di definizioni relative all’interesse pittorico. Anche nel XV secolo c’erano alcune persone di questo genere, ma in confronto disponevano di pochi concetti specifici (forse solo a causa della scarsa letteratura artistica dell’epoca). La maggior parte della gente per cui il pittore lavorava possedeva una mezza dozzina i queste categorie relative alla qualità dei quadri, e al di là di queste si trovava a dover attingere alle sue risorse conoscitive generali. Tuttavia, bisogna distinguere fra capacità visive più correnti e quelle più specifiche che riguardano direttamente la lettura delle opere d’arte. Le capacità di cui siamo più consapevoli non sono quelle che abbiamo assorbito nell’infanzia, ma quelle che abbiamo appreso in modo formale e che ci sono state insegnate. Quando parliamo dello stile conoscitivo del pubblico del Quattrocento, non parliamo di tutto il pubblico, ma di quelle persone la cui reazione alle opere d’arte era di importanza fondamentale per l’artista (le classi dei committenti potremmo dire). I contadini e i cittadini poveri avevano un ruolo irrilevante nella cultura del Rinascimento. Anche all’interno delle classi committenti c’erano delle differenze, che erano anche diversificazioni per gruppi. Un uomo del Quattrocento trattava affari, frequentava la chiesa, conduceva una vita sociale e da tutte queste attività acquisiva delle capacità di cui si serviva per osservare i dipinti. In conclusione, alcuni deli strumenti mentali con cui un uomo organizza la sua esperienza visiva, possono variare e buona parte di questi strumenti sono relativi al dato culturale, sono determinati dall’ambiente sociale che ha influito sulla sua esperienza. Un fruitore deve utilizzare nella lettura di un dipinto le capacità visive di cui dispone, ed è incline ad usare quelle che sono più apprezzate dalla società in cui vive. BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento Il pittore è sensibile a tutto questo e deve fare i conti con la capacità visiva del suo pubblico. Egli stesso fa parte della società in cui opera ed è quindi partecipe all’esperienza visiva e alle abitudini di questa società. È necessario quindi esemplificare i tipi di capacità visiva di cui era dotata una persona del Quattrocento, e cercare di mostrare come questi fossero connessi alla pittura. La maggior parte dei dipinti del XV secolo erano dipinti religiosi; il termine “dipinto religioso” si riferisce a qualcosa di più che a una certa gamma di soggetti. Significa che i dipinti erano creati in funzione di fii istituzionali che fornivano il contributo di una specifica attività intellettuale e spirituale. Qual era quindi la funzione religiosa dei dipinti religiosi? Dal punto di vista della Chiesa, le immagini dovevano avere un triplice scopo: i dipinti dovevano dare stimoli lucidi, vividi e immediatamente accessibili che inducano l’uomo a meditare sulla Bibbia e sulle vite dei santi. Il dipinto deve raccontare una storia in modo chiaro per la gente semplice utilizzando appieno tutte le emozioni che la vista può suscitare. Tuttavia, vi erano delle situazioni di abusi, sia nelle reazioni del pubblico di fronte ai dipinti, sia nel modo in cui i dipinti venivano fatti. L’idolatria rappresentava pur sempre una preoccupazione costante per la teologia: ci si rendeva conto che la gente semplice poteva facilmente confondere l’immagine della divinità o dei santi con la divinità o la santità stessa e quindi adorarla. Ma l’idolatria non assunse mai le proporzioni di un pressante problema di pubblico scandalo. Si era concordi nel riconoscere che in una certa misura l’abuso esistesse, ma questo non spingeva gli uomini di chiesa a adottare concezioni nuovo o agire nei confronti del problema. Per quanto riguarda i dipinti, la Chiesa si rendeva conto che talvolta c’erano degli errori nella loro concezione che andava contro la teologia e il buon gusto. Questi errori furono riassunti da Sant’Antonino, arcivescovo di Firenze, e consistevano in: • soggetti con implicazioni eretiche • soggetti apocrifi • soggetti trattati in modo frivolo e indecoroso e perciò meno chiari Alcuni esempi: la storia apocrifa di san Tommaso e della cintura della Vergine che fu un soggetto ampiamente rappresentato nella scultura come ad esempio la porta della mandorla a Firenze, Cristo mostrato mentre imparava a leggere, l’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano che ritrae scimmie, cani e costumi elaborati considerati vani e superflui. Quando sant’Antonino guardava i dipinti del suo tempo, può darsi che abbia sentito che, nel complesso, le tre funzioni assegnate dalla Chiesa ai dipinti erano rispettate, dato che la maggior parte dei dipinti era chiara, attraente e indimenticabile, e rappresentava toccanti scene sacre. La domanda inziale, quindi, ora può diventare: quale tipo di pittura il pubblico religioso avrebbe trovato lucida, indimenticabile e toccante? Per il pittore, la traduzione di storie sacre in immagini era un compito professionale. Nel suo pubblico, era richiesta una notevole capacità di concepire visivamente almeno gli episodi fondamentali della vita di Cristo e di Maria. Si potrebbe dire che le visualizzazioni del pittore erano esteriori mentre quelle del pubblico interiori. L’esperienza quattrocentesca di un dipinto non si limitava soltanto al dipinto che noi vediamo oggi, ma comprendeva anche il processo di visualizzazione che il fruitore aveva precedentemente operato sull’argomento raffigurato nel dipinto stesso. BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento Non ci sono dizionari sul linguaggio dei gesti del Rinascimento; ci sono però delle fonti che offrono delle indicazioni sul significato di un gesto. Possiamo prendere in considerazione due tipi di persone che hanno lasciato una descrizione di alcuni dei loro gesti: i predicatori, e i monaci votati al silenzio. Di questi ultimi soprattutto, abbiamo solo pochi cenni che consistono in elenchi del linguaggio dei segni elaborati nell’ordine benedettino per essere usati duranti i periodi di osservanza del silenzio (vedi pag.69 elenco latino). Attraverso questi elenchi, siamo spinti a leggere, ad esempio, La cacciata dei progenitori dal Paradiso terrestre di Masaccio in modo più preciso: è Adamo che esprime vergogna (pudore: attraverso il coprirsi dalla luce con le dita), Eva (dolore: premersi il palmo sul petto) soltanto dolore e nella coppia di figure si combinano due aspetti della reazione emotiva. Ogni lettura di questo tipo dipende dal contesto, ed è possibile che la stessa gente del Quattrocento potesse sbagliarsi sul significato di un gesto o di un movimento. Ad esempio, San Bernardino da Siena lamentava in uno dei suoi sermoni che i pittori della Natività mostrassero san Giuseppe con il mento appoggiato alla mano, per indicare malinconia. Sebben questo gesto spesso indicasse veramente malinconia, come ad esempio al capezzale di un morente, viene anche usato nel senso di meditazione, come dovrebbe suggerire un contesto di Natività. Naturalmente talvolta può avere entrambi i significati. Una fonte più utile e anche più autorevole ci viene dai predicatori, dotati di notevoli capacità mimiche con una gamma di gesti codificati. Nella terza edizione del Mirror of the World del 1520 c’è un breve elenco inglese dei principali gesti tradizionali. Trattando lo stesso argomento dei predicatori, i pittori inserivano nel dipinto le espressioni fisiche del sentimento secondo lo stile usato dai predicatori. I gesti erano utili per diversificare una serie di santi e spesso servivano a introdurre nella raffigurazione di un gruppo un ulteriore elemento che ne arricchisse il significato narrativo. Un esempio adatto e utile per la lettura di alcuni dipinti è un gesto usato nella seconda metà del secolo per indicare invito ed espressione di benvenuto (può essere studiato in una xilografia del 1493 che illustrava un’edizione fiorentina del Liber scaccorum un’allegoria medievale. Grazie a questa incisione possiamo riscontrare come questo gesto abbia una sua parte in molti dipinti; anche se sappiamo già che il quadro rappresenta un incontro, il fatto di conoscere il gesto ci aiuta a leggerlo in modo più chiaro perché il gesto si presta a diverse inflessioni espressive. Nelle storie una figura interpretava la sua parte ponendosi in relazione con le altre nella composizione dei gruppi e negli atteggiamenti il pittore era solito suggerire rapporti e azioni. Egli, tuttavia non era l’unico a ricorrere all’arte di creare dei gruppi: gli stessi soggetti erano spessi rappresentati anche in drammi sacri di vario genere (non in tutte le città però, ad esempio a Venezia erano vietate mentre a Firenze durante il XV secolo ve ne era una grande fioritura). Dove però esistevano, esse avevano contribuito non poco ad accrescere nella gente la capacità di visualizzare gli avvenimenti rappresentati e, a quell’epoca, venne notato un certo rapporto fra queste e la pittura. Nel 1439 un vescovo russo in visita a Firenze, vide e descrisse la rappresentazione de l’Annunciazione e dell’Ascensione e notò la somiglianza di questo o quel particolare con la pittura. Ma queste descrizioni dei drammi sacri non ci danno molte indicazioni sul modo in cui un attore si rivolgeva fisicamente ad un altro. Tuttavia, le descrizioni delle rappresentazioni sacre che abbiamo, spesso sottolineano la loro dipendenza da effetti spettacolari che hanno poco a che fare con la raffinata suggestione narrativa del pittore. Queste rappresentazioni spesso raggiungevano il loro scopo servendosi di elaborati meccanismi. Le rappresentazioni delle storie nelle strade invece, come le celebrazioni a Firenze BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento descritte da Matteo Palmieri nel 1454, sembrano più vicine alla pittura perché l’elemento verbale aveva scarso rilievo e avevano un più marcato carattere da tableau vivant; anch’esse, tuttavia, si fondavano sull’imponenza numerica dei personaggi. Ma il pittore, ricorrendo ad una sapiente e compressa composizione di gruppi di poche figure, riusciva a suggerire un avvenimento drammatico. Nelle rappresentazioni, quelle che noi consideriamo convenzioni antidrammatiche piuttosto che realismo interpretativo, erano introdotte da una figura corale, il festuaiolo, spesso impersonato da un angelo che restava sulla scena durante lo svolgimento dello spettacolo come un tramite tra il pubblico e le vicende: figure corali di questo tipo, che mettono a fuoco l’azione centrale, vengono spesso usate anche dal pittore (e sono consigliate anche dall’Alberti nel suo Della Pittura). Il fruitore del Quattrocento avrebbe percepito tali figure corali attraverso la sua esperienza del festuaiolo. Ancora, gli spettacoli venivano recitati da figure che normalmente non lasciavano il palcoscenico tra un’apparizione e l’altra, sedevano su delle sedie sul palco e si alzavano per recitare la propria parte con battute e gesti. Anche questa convenzione ha il suo corrispettivo nella logica dei dipinti: ad esempio, nel dipinto La Vergine e il Bambino con i santi di Filippo Lippi, le figure dei santi assistono sedute in attesa del loro turno per alzarsi e recitare. Tuttavia, queste notizie sugli spettacoli non sono sufficienti per spiegare il problema della qualità, quello interessante nella pittura, e di come cioè in un dipinto la posizione di due figure, rivolte l’una verso l’altra, sia in grado di evocare nettamente un rapporto intellettuale o emotivo ad un livello meno esplicito di un vero e proprio “assalto”. Il pittore lavorava per sfumature: sapeva che il suo pubblico aveva elementi per riconoscere , con piccoli suggerimenti da parte sua, una figura rispetto ad un’altra; la sua opera era di solito una variante sul tema noto al fruitore, escludendo la brutale rappresentazione di una cosa scontata (questo modo di rappresentare attenuato fece però crescere una più rozza tradizione popolare, documentata in alcune xilografie, presentando gruppi di figure vigorose, popolaresche e molto eloquenti che ci danno una chiara indicazione del tipo di azione in corso). Nella versione pittorica, questo carattere allusivo era attenuato, ma persino Piero della Francesca, che era il pittore più contenuto in questo genere di cose, faceva assegnamento sul fatto che il fruitore fosse disposto a leggere i rapporti che c’erano all’interno dei gruppi. Esempio: nel Battesimo di Cristo c’è un gruppo di tre angeli che vengono usati per un artificio a cui spesso Piero ricorreva; una delle figure sta fissando direttamente noi (o un punto sopra di noi). Questa situazione stabilisce tra noi e la figura un rapporto tale che ci sentiamo attratti da essa e dal suo ruolo, quasi come fosse un festuaiolo. Spesso, la sua testa si trova vicino ad altre teste le quali invece fissano con grande attenzione il punto centrale della narrazione. In questo modo siamo invitati ad unirci al gruppo di figure che assistono all’evento; a fasi alterne siamo dunque fruitori, quando guardiamo l’azione stando di fronte, e attori, quando instauriamo un rapporto personale con il gruppo di angeli. Diventiamo parte attiva dell’avvenimento. Un’attività del XV secolo abbastanza simile alla composizione dei gruppi in pittura, è la danza. I danzatori erano concepiti e classificati in gruppi di figure, in schemi. Già si era parlato di come Alberti ed Ebreo avessero entrambi la preoccupazione per i movimenti fisici come riflesso dei moti mentali. Come tutto ciò fosse legato allo stile usato dai pittori nel creare dei gruppi è di solito molto più evidente nei dipinti di soggetto neoclassico e mitologico che non in quelli religiosi. Nei primi, il pittore era costretto ad inventare qualcosa di nuovo in un linguaggio quattrocentesco, invece di limitarsi ad affinare i modelli religiosi tradizionali. Quando aveva a che fare con un soggetto neoclassico, privo di qualsiasi tradizione prestabilita riguardo all’impostazione e di qualsiasi certezza, il pittore poteva far danzare le figure in modo da esprimere palesemente il loro rapporto. BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento Abbiamo già visto come le rappresentazioni che i pittori davano dei personaggi venivano stabilite in base ai modelli desunti dall’esperienza di gente reale. Le figure dei pittori e il loro ambiente, allo stesso tempo, erano anche dei colori e delle forme molto complesse. Riunire i colori in serie simboliche era un gioco tardo medievale ancora in uso nel Rinascimento. Sant’Antonino e altri, elaborarono un codice teologico: -bianco: purezza -rosso: carità -giallo/oro: dignità -nero: umiltà Alberti e altri fornirono invece un codice relativo ai quattro elementi: -rosso: fuoco -blu: aria -verde: acqua -grigio: terra C’era anche un codice astrologico, sul quale si basava Leonello d’Este, per la scelta quotidiana degli abiti. Ce n’erano anche altri naturalmente e il risultato era quello di elidersi ampiamente a vicenda. Ciascun codice poteva essere operante solo all’interno di limiti molto ristretti. Ma il riferimento a un codice non poteva far parte del normale modo di vivere l’esperienza visiva. Infatti, i simbolismi legati ai codici non sono importanti in pittura, anche se talvolta ci sono degli elementi che vi corrispondono. Non ci sono codici segreti che valga la pena di conoscere a proposito del colore usato dai pittori. La cosa che più si avvicina ad un codice è quella di una sensibilità maggiore ai diversi gradi di preziosità delle tinte che permettevano al pittore di usarle per porre qualcosa in evidenza. Le tinte non erano tutte uguali, e non venivano percepite come uguali, e il pittore e il suo cliente cercavano di tenere il più presente possibile questo fatto. Quando Gheraro Starnina si atteneva alle istruzioni di usare un azzurro da 2 fiorini per la Vergine e un azzurro da un fiorino per il resto del dipinto, sottolineava una distinzione teologica. Ci sono tre livelli di adorazione: -“Latria” massimo grado di adorazione dovuta solo alla trinità (espressa con l’oro) -“Dulia” reverenza per l’eccellenza e cioè ciò che dobbiamo ai santi, angeli e padri della chiesa -“Hyperdulia” forma più intensa della precedente dovuta solo alla Vergine (veniva misurata 2 fiorini l’oncia). L’enfasi data da un colore prezioso non venne però abbandonata dai pittori una volta che essi e i loro clienti ebbero remore nell’ostentare ampie quantità di colori per il loro prestigio. A Firenze, un ragazzo delle scuole laiche riceveva due gradi di istruzione. Per circa quattro anni, a partire dai sei, frequentava una scuola elementare o botteghuzza, dove imparava a leggere, scrivere, e alcune nozioni base di corrispondenza commerciale e formule notarili. Poi, per circa quattro anni, a partire dai dieci, la maggior parte proseguiva gli studi in una scuola secondaria, l’abbaco, dove la maggior parte dell’insegnamento era basato sulla matematica. Per buona parte della gente appartenente alla borghesia, le nozioni matematiche acquisite nella scuola secondaria costituivano il nucleo centrale della loro formazione intellettuale e della loro cultura. Si trattava di matematica commerciale strutturata sulle esigenze del mercante, ed entrambe le sue principali nozioni sono profondamente inserite nella pittura del Quattrocento. BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento Diversamente da molti fiorentini, Santi è consapevole della bella pittura prodotta a Venezia e nel Nord Italia, e riconosce anche la buona qualità della pittura olandese, conosciuta ad Urbino. Tuttavia, il maggior peso viene attribuito, ovviamente, a Firenze ed è sempre a Firenze che bisogna fare capo per trovare la miglior critica. Cristoforo Landino era uno studioso di latino e un filosofo platonico, un esponente della lingua volgare e docente di poesia e retorica all’Università di Firenze. La sua professione consisteva nell’esatto uso della lingua. Altri due elementi lo mettevano in grado di pronunciarsi sui pittori: era amico di Leon Battista Alberti, ed era il traduttore della Naturalis Historia di Plinio. La Naturalis Historia fu scritta nel I secolo e comprende nei suoi libri la più completa storia critica dell’arte classica che ci sia giunta dall’antichità. Nel 1473 venne pubblicata la traduzione fatta da Landino. Così, quando nel 1480 Landino si trovò a descrivere gli artisti del suo tempo, ci si aspettava che usasse i termini di Plinio. Essi sono infatti termini sottili, ricchi e precisi per descrivere l’arte. Egli, tuttavia, non usò i termini di Plinio, bensì il “metodo” dei termini di Plinio; come Plinio anche egli fece uso di metafore, o coniate da lui o appartenenti alla sua cultura, riferendo aspetti dello stile pittorico del suo tempo allo stile social o letterario della sua epoca. Come Plinio, anch’egli usa termini ricavati dalla bottega degli artisti che hanno in sé l’autorità del pittore. Questo resoconto sugli artisti si trova nell’introduzione al suo commento alla Divina Commedia in cui egli sostiene la lealtà di Dante e l’eccellenza della città di Firenze parlando degli uomini della città che si erano distinti in vari campi. La divide in quattro parti: 1) arte antica, 2) Giotto e alcuni pittori del Trecento, 3) pittori fiorentini del Quattrocento, 4) alcuni scultori. ►MASACCIO •Imitatore della natura Masaccio è l’unico dei pittori del Quattrocento a cui Landino attribuisce questa qualità. Questa e imitatione del vero sono varianti di una delle espressioni critiche del Rinascimento di cui è più difficile riconoscere la portata; si poteva dire che un pittore “rivaleggiava o superava la natura stessa”. Questo genere di frasi rappresentavano la più semplice e consueta forma di lode che si potesse usare e proponevano un generico realismo come livello qualitativo. La natura e la realtà sono cose diverse per ciascuno. Anche Leonardo da Vinci avrebbe detto di lì a poco una cosa analoga; in termini negativi una caratteristica dell’imitatore della natura è il fatto di essere relativamente autonomo verso libri che presentavano modelli e formule precostruite che facevano parte del repertorio della tradizione pittorica. Altrove, Leonardo fornisce una descrizione in positivo del modo in cui il pittore imita la natura centrando il punto: Leonardo parla di prospettiva e di luce e ombra attraverso cui noi percepiamo le forme degli oggetti ed è appunto la sua maestria in “prospectiva” e “rilievo” che Landino continua a usare lodando Masaccio Possiamo quindi dire che l’imitatore della natura è il pittore che si distacca dai libri che presentavano modelli con le loro formule e soluzioni precostruite, per cogliere gli oggetti reali così come si presentano; egli si basa sullo studio e la rappresentazione del loro aspetto reso proprio attraverso la loro prospettiva e il loro rilievo. •Rilievo BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento Masaccio è il principale esponente del “rilievo”; “gran rilievo universale” e “rilievo delle figure”. Alberti, che usa “rilievo” per tradurre la parola latina “prominentia”, spiegava che questo è l’apparire di una forma modellata a tutto tondo, ottenuta trattando abilmente e discretamente i toni sulla superficie. Il termine era tecnico e proprio del linguaggio di bottega e Cennino Cennini lo usava liberamente nel suo Trattato della Pittura dell’inizio del Quattrocento; mette in evidenza uno degli aspetti più efficaci del “rilievo” di Masaccio e dà delle indicazioni su come lo si debba guardare: è un luogo comune che ci sia un momento del giorno, intorno alle undici del mattino, in cui la luce è in qualche modo giusta per osservare gli affreschi del Masaccio nella cappella Brancacci e noi, a nostra volta, ci uniformiamo a questo. La luce piena e le ombre vengono percepite come forma solo quando si abbia un’idea chiara di dove venga la luce. •Puro “Puro” è uno dei latinismi di Landino e conserva il senso in cui la critica letteraria aveva usato il termine per definire uno stile “disadorno” e “laconico”. Ciò fa di un concetto negativo - “senza ornamento” - uno positivo - “conciso e chiaro”. Nella concezione critica classica e rinascimentale, a “ornato” si poteva contrapporre tanto il concetto positivo di “semplice” che quello negativo di “povero”: quindi non bastava dire che qualcosa era “senza ornato”. “Puro” ci dice che Masaccio non era né ornato né spoglio. Il termine assume significato dal suo contrasto con “ornato”: e ciò che Landino intende per “ornato” è un problema che si chiarisce meglio quando usa questo termine in senso positivo per altri pittori. •Facilita Questo termine è qualcosa a metà tra le nostre “facilità” e “abilità”, ma senza la connotazione negativa della prima. Era molto usato nella critica letteraria e, in senso stretto, veniva spiegato come il prodotto di 1) talento naturale e 2) capacità acquisibili sviluppate attraverso 3) l’esercizio. La scioltezza che derivava in pratica dalla “facilita” era una delle qualità più apprezzate dal Rinascimento. Alberti ne individua correttamente l’origine nel talento sviluppato con l’esercizio. Essa si manifesta in un dipinto che appare completo ma non è ancora rifinito: i suoi nemici sono i “pentimenti” o le correzioni, una certa riluttanza a smettere di lavorare ad un’opera. Tutto ciò riguarda specificamente più l’affresco che non il dipinto su tavola. Gli affreschi di Masaccio sono ciò che si dice “buon fresco” o autentico affresco, dipinti quasi interamente su intonaco fresco. In questo essi differiscono dalla maggior parte degli affreschi del Quattrocento, che non sono affatto autentici affreschi ma “fresco secco”, dipinti per lo più su intonaco secco. Così la “facilita” del Masaccio è misurabile dal numero straordinariamente ridotto di parti di affresco che hanno lasciato il loro segno sulle pareti della cappella Brancacci. •Prospectivo Si tratta di qualcuno che si distingue nell’uso della prospettiva. Antonio Manetti, un amico di Landino, come nota nel suo Vita di Filippo di Ser Brunellesco, la prospettiva pittorica è legata alla “scienza della prospettiva”, un settore che potremmo chiamare ottica. I fondamenti matematici della prospettiva attrassero alcuni pittori che videro in essi ciò che la rendeva una scienza sistematica. Non si sa chi sia stato ad adattare l’ottica alla pittura, ma Landino suggerisce il nome di Brunelleschi; ma forse se Brunelleschi ne fu l’inventore, Alberti fu colui che la sviluppò e la spiegò. BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento I princìpi base della prospettiva del pittore del Quattrocento erano piuttosto semplici; le linee parallele che si allontanano dal piano della superficie del dipinto sembrano incontrarsi in un singolo punto all’orizzonte, il punto di fuga; le linee parallele al piano del dipinto invece non sono convergenti. Masaccio seguì un’accurata e dettagliata costruzione nella sua Trinità, palesemente ma non del tutto coerentemente calcolata per essere guardata dal basso, ma egli lavorò senz’altro in modo più libero nella cappella Brancassi. Noi stessi non abbiamo bisogno di disegnare una costruzione prospettica del Tributo per renderci conto che il punto di fuga è dietro la testa del Cristo e corrisponde alla focalizzazione sul Cristo. ►FILIPPO LIPPI •Gratioso Parola che costantemente oscillava tra un senso più oggettivo e uno più soggettivo: 1) che possiede “grazia” e 2) piacevole in generale. La prima era la più diffusa e precisa, ma la seconda attraeva gli intellettuali. “Grazia” è l’accezione che noi terremo presente; è anche la qualità per la quale viene lodato nell’epigrafe che Poliziano dettò per lui. In Landino stesso c’è un intrecciarsi dei due significati da cui prendere spunto, dato che un altro artista, lo scultore Desiderio da Settignano, viene lodato per avere “somma gratia”. I dipinti di Filippo e i rilievi di Desiderio formano un accoppiamento immediatamente comprensibile. A livello minimale è chiaro che entrambi gli artisti producevano ritratti a mezzo busto di Madonne con visi dolci e “gratiose” in tutti e due i sensi del termine. Secondo una descrizione che darà qualche anno dopo Leonardo, chi volesse rappresentare figure con “gratia”, dovevano dimostrare «leggiadria, membra gentili e distese e senza dimostratione di troppi muscoli, e quei pochi di fargli dolci, cioè di poca evidenza». Ecco perché Filippo Lippi, così dotato di “gratia”, abbia meno “rilievo” di Masaccio: le due qualità non sono infatti del tutto compatibili. Più tardi, nel XVI secolo, filosofi e teorici dell’arte tentarono con grande sforzo di definire la “gratia”, cercando specialmente di metterne in evidenza la differenza dalla bellezza. Ma una definizione utile, e anche adatta al contesto in cui scriveva Landino, era quella dei critici letterari neoclassici; secondo loro “gratia” era il prodotto di 1) “varietà” e 2) “ornato”. E sono proprio queste due qualità che Landino più avanti attribuisce a Filippo Lippi. •Ornato Il termine ci richiama molto i fronzoli e l’applicazione di abbellimenti fini a sé stessi; per noi “ornato” sta ad indicare un elemento decorativo. Ma nel Rinascimento ciò era solo una piccola parte dell’”ornato” che abbracciava invece molto di più. Le formulazioni più chiare su cosa fosse l’ornato ci vengono dalla critica letteraria neoclassica, specialmente dal libro VIII delle Institutiones oratoriae di Quintiliano. Per i critici letterari le prime due qualità del linguaggio erano la chiarezza e la correttezza a cui si aggiungeva l’ornato. Buona parte di ciò che crea una produzione artistica è ornato. Per Landino i dipinti di Filippo Lippi e del Beato Angelico erano “ornati”, mentre Masaccio era “sanza ornato” perché perseguiva altri valori. Filippo e il Beato erano acuti, nitidi, ricchi, ilari, giocondo e accurati, mentre Masaccio sacrificava queste virtù a favore di una chiara e corretta imitazione del reale. Quando il Quattrocento usava questo termine nel contesto di motivi particolari nei dipinti, intendeva molto spesso riferirlo all’atteggiamento o al movimento di una figura. E in questo il Rinascimento non si discostava molto dall’antichità classica. BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento prospettiva”: la prospettiva è quindi la scienza o la teoria, gli “scorci” la specifica manifestazione della sua pratica. Infatti, un dipinto può essere costruito alla luce della prospettiva, senza avere alcuno scorcio abbastanza stridente da richiedere un commento sugli “scorci”: Il Tributo di Masaccio ne è un esempio. Un dipinto può anche avere degli scorci vistosi senza rispettare accuratamente alcun metodo di costruzione prospettica. Il termine “scorcio” spesso riveste due tipi di interesse: il primo consiste nello scorcio vero e proprio (una cosa lunga, vista da una parte); il secondo rappresentato dal punto di vista inconsueto Gli scorci, ed altri elementi di questo tipo destinati a suscitare interesse, erano considerati difficili da vedere e da capire, dato che l’abilità del pittore esigeva abilità da parte del fruitore. Era lo sforzo richiesto ciò che richiamava l’attenzione. Una differenza fondamentale tra il Quattrocento e il Cinquecento consiste proprio nel fatto che il primo se ne rese conto, mentre il secondo, con il suo gusto per la dolcezza, non lo fece. •Prompto Landino ha già detto come Andrea del Castagno fosse un amante delle difficoltà e ha attirato la nostra attenzione sui suoi “scorci” e “rilievi”: definendolo ora “vivo e prompto” egli completa la sua caratterizzazione dell’artista come il pittore per pittori, l’artista cioè apprezzato da gente che capiva le capacità artistiche. Il David di Andrea del Castagno testimonia la qualità di atteggiamento “vivo e prompto”; si traduce in una più forte diversificazione della figura, in una maggiore suggestione di particolari movimenti, rispetto alla “gratia” di Filippo Lippi, ma i termini hanno in comune una cosa molto importante. Entrambi implicano un certo grado di fusione tra i due tipi di movimento, il movimento dipinto dalle figure del pittore, ma anche quel movimento della mano del pittore che ne è il presupposto. Ancora una volta la concezione quattrocentesca è di uno strettissimo e immediato rapporto tra corpo e mente: come il movimento di una figura esprime direttamente pensiero e sentimento, così il movimento della mano di un pittore riflette direttamente la sua mente. ►BEATO ANGELICO •Vezzoso Vezzoso era da intere come “delizioso in modo carezzevole”. Non era una qualità maschile e in alcuni casi non era affatto una virtù. Landino non parla di un uomo, ma ancora una volta di una qualità che sta a metà tra il carattere dell’abilità del Beato Angelico e il carattere delle figure umane da lui dipinte. Come per la “gratia”, c’è un riferimento a Desiderio da Settignano, il quale anche è “vezzoso”. Ma a che tipo di qualità formali si riferisce in particolare questo termine nel Beato Angelico? Lasciando da parte il carattere ovviamente “vezzoso” di figure quali gli angeli danzanti, è probabile che il termine sia riferito specialmente ai valori tonali della sua arte. Alberti decide di usare il termine in questo contesto; egli si preoccupava che il pittore non enfatizzasse eccessivamente il contrasto tonale di luci e ombre, particolarmente delle luci. In questo senso, di uno stile in cui forti estremi tonali non siano troppo violenti, “vezzoso” è chiaramente una autentica descrizione della pittura del Beato Angelico; evita i forti contrasti di pittori del “rilievo” come Andrea del Castagno. “Vezzoso” è sia soavemente che gaiamente grazioso. •Devoto Cos’era la devozione? Probabilmente il Beato Angelico e Landino si sarebbero riferiti alla classica testimonianza di San Tommaso d’Aquino: la devozione è la coscienza e la volontà di rivolgere la mente a Dio; il suo strumento è la meditazione; il suo effetto è gioia per l’infinità bontà di Dio. BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento Ma come si manifesta il “devoto” nelle produzioni artistiche che sono, comunque, esposizioni di un argomento religioso? Qui è utile la classificazione degli stili del sermone del tardo Medioevo e del Rinascimento; come abbiamo già visto il rapporto tra predicazione e pittura era molto stretto. Ciò che manca alla pittura del Beato Angelico viene visto come qualcosa a cui egli rinunciò di proposito, come Masaccio rinunciò di proposito all’”ornato”: il termine “devoto” ha la stessa portata del termine “puro” applicato a Masaccio. Con tutti questi termini, Landino offre un bagaglio concettuale di base per rivolgersi alla qualità pittorica del Quattrocento. I suoi termini hanno una struttura: ciascuno si contrappone, o sovrappone ad un altro. Nel corso del Rinascimento parte di questo vocabolario per analizzare criticamente l’arte e la vita si estese dagli studiosi e dagli scrittori, ad altre persone. Questo processo costituì una parte importante del durevole influsso classico sulla cultura europea nel Rinascimento. Avevamo iniziato sottolineando come le forme e gli stili della pittura corrispondessero alle situazioni sociali; abbiamo dedicato attenzione all’esame di aspetti pratici e convenzioni sociali che possono rendere più acuta la nostra percezione dei dipinti. In conclusione possiamo però dire che, in realtà, sono le forme e gli stili stessi della pittura ad acuire la nostra percezione della società. I principali materiali di storia sociale sono molto scarsi: essi consistono in una massa di parole e in alcuni casi, numeri. Riguardano sempre gli stessi tipi di attività ed esperienze e ne trascurano altre. È molto difficile avere un’idea di cosa significasse essere una persona di un certo tipo in una certa epoca e in un certo luogo. Ed è qui che lo stile pittorico è utile. Una società sviluppa le proprie capacità caratteristiche e le proprie abitudini, che hanno un aspetto visivo, ed esse diventano parte degli strumenti espressivi del pittore; analogamente uno stile pittorico consente di risalire alle capacità ed abitudini visive. Un dipinto antico è un documento di un’attività visiva; si deve imparare a leggerlo. Non ci si deve accostare in modo banale ai dipinti considerandoli al livello di una storia illustrata, evitando anche una facile equazione fra ambienti “borghesi” o “aristocratici” e stili “realisti” o “idealisti” dall’altro. Ma accostati nel modo corretto, i dipinti diventano documenti validi quando qualsiasi carta. Se ad esempio osserviamo che Piero della Francesca tende ad un tipo di pittura legata alla misurazione, il Beato Angelico a un tipo di pittura connessa alla predicazione e Botticelli a un tipo di pittura ispirata alla danza, osserviamo qualcosa che riguarda non solo loro, ma la società in cui vivevano. Ciò che offrono è la possibilità di intuire cosa volesse dire, intellettualmente e sensibilmente, essere una persona del Quattrocento. Citando le parole di Feo Belcari, dalle prime righe del suo dramma Abramo e Isacco (1449): “l’occhio si dice che è la prima porta per la quale l’intelletto intende e gusta”. BAXANDALL – Pitture ed esperienze sociali nel Quattrocento BREVE SU BAXANDALL L’edizione del libro è del 1972 ed è il risultato di alcune lezioni tenute presso la scuola di storia dell’Università di Londra, aventi lo scopo di mostrare come lo “stile” dei quadri costituisca un vero e proprio documento di storia sociale. I fatti sociali, portano allo sviluppo di precise capacità e abitudini visive che a loro volta si traducono in elementi chiaramente identificabili nello stile del pittore.
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