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PITTURA ED ESPERIENZE SOCIALI NELL'ITALIA DEL QUATTROCENTO - M. Baxandall, Sintesi del corso di Storia Dell'arte

Riassunto completo ed esaustivo di "Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento" di M. Baxandall. Questo riassunto mi è stato molto utile sia per l'esame di "Storia dell'arte moderna" con Irene Graziani, sia per quello di "Storia dell'arte medievale" con Fabrizio Lollini.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 20/06/2021

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Scarica PITTURA ED ESPERIENZE SOCIALI NELL'ITALIA DEL QUATTROCENTO - M. Baxandall e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! PITTURA ED ESPERIENZE SOCIALI NELL’ITALIA DEL QUATTROCENTO Michael Baxandall Un dipinto del XV secolo è la testimonianza di un rapporto sociale. Abbiamo da un lato un pittore che faceva il quadro, o per lo meno sovrintendeva alla sua esecuzione, dall'altro qualcuno che lo commissionava, forniva il denaro per la sua realizzazione e, una volta pronto, decideva in che modo usarlo. Entrambe le parti lavoravano all'interno di istituzioni e convenzioni – commerciali, religiose, percettive, sociali in senso più lato – che erano diverse dalle nostre e influivano sulle forme dell’opera che artista e committente creavano insieme. Le pale d'altare e gli affreschi venivano eseguiti su commissione e sia il cliente che l'artista stipulavano di comune accordo un contratto legale in cui quest'ultimo si impegnava a consegnare quanto il primo, in modo più o meno dettagliato, aveva concepito e progettato. I criteri adottati nel Quattrocento per stabilire il prezzo dei manufatti, così come le diverse forme di pagamento in uso per maestri e prestatori d'opera, hanno entrambi una profonda incidenza sullo stile dei dipinti come li vediamo noi oggi: i dipinti infatti sono, fra l'altro, dei fossili della vita economica. In definitiva, nel XV secolo la pittura era ancora troppo importante per essere lasciata ai pittori. Una distinzione fra “pubblico” e “privato” non si addice molto alla funzione della pittura nel XV secolo. Le commesse di privati avevano spesso un ruolo decisamente pubblico, sovente erano destinate a luoghi pubblici; una pala d'altare o un ciclo di affreschi nella cappella laterale di una chiesa non si possono affatto definire privati. Una distinzione più pertinente si ha tra le commesse controllate da grosse istituzioni corporative come le “fabbriche” delle cattedrali e le commesse di singoli individui o di piccoli gruppi di persone: dunque da un lato le imprese collettive o comunali e dall’altro le iniziative private. In questo differivano pittori e scultori: mentre i primi lavoravano di sovente per qualcuno chiaramente identificabile, i secondi lavoravano spesso per grandi imprese comunali. In particolare, alcuni artisti lavoravano per dei principi da cui percepivano uno stipendio. Ciò che regolava il carattere del mecenatismo del Quattrocento era la pratica commerciale documentata nei contratti. Tuttavia, gli stessi contratti nel corso del secolo incorsero in graduali cambiamenti nel porre l'accento su questo o quell’aspetto. In particolare, mentre i colori preziosi persero il loro ruolo di primo piano, la richiesta di abilità pittorica assunse maggiore rilievo. Nell’arte del Quattrocento il legame tra queste due caratteristiche consiste in un rapporto inverso. L’attenuarsi di questa preoccupazione per i colori preziosi è piuttosto evidente nei dipinti come li vediamo oggi. Questo fenomeno fa parte di una tendenza generale propria di tutta l'Europa occidentale dell'epoca verso una sorta di limitazione selettiva dell’ostentazione che si manifesta anche in molti altri tipi di comportamento. È necessario sottolineare che l’ostentazione in quanto tale continuava, ma con un diverso orientamento. A mano a mano che nei contratti il largo uso di oro e di azzurro ultramarino perdeva importanza, esso veniva sostituito da indicazioni relative all'uso altrettanto consistente di qualcos'altro: l'abilità tecnica del pittore. La dicotomia fra qualità del materiale e qualità dell’abilità tecnica dell'artista era il motivo che ricorreva in modo più frequente ed evidente in qualunque tipo di discussione sulla pittura e sulla scultura, e ciò avveniva sia che questa fosse di carattere moralistico, quando si deplorava la fruizione edonistica delle opere d'arte da parte del pubblico, sia che essa fosse asseverativa, come nei trattati teorici sull’arte. Il cliente accorto aveva a disposizione vari modi per trasferire il suo denaro dall'oro al “pennello”. Ad esempio, come sfondo alle figure poteva specificatamente richiedere, in un dipinto da lui commissionato, dei paesaggi invece della doratura; oppure si tendeva ad attribuire, per qualunque tipo di prodotto e all'interno di ciascuna bottega, un valore notevolmente diverso al tempo del maestro rispetto a quello degli assistenti. Nel 1490 le persone illuminate che acquistavano l'abilità, spinte dalla consapevolezza che l’individualità dell'artista diventava sempre più significativa, erano abbastanza numerose da far sì che l'atteggiamento del pubblico nei confronti dei pittori fosse ben diverso da quello che si era avuto nel 1410. È inoltre opportuno esaminare le testimonianze relative alla reazione del pubblico di fronte alla pittura, purtroppo di queste si ha a disposizione un numero molto scarso di documenti. Il primo problema che si pone in merito a questa analisi riguarda il fatto che sia il pittore che il suo pubblico appartenevano a una cultura molto diversa dalla nostra e alcuni campi della loro attività visiva venivano in buona parte condizionati da essa. Il fatto di tendere a dare un’interpretazione piuttosto che un'altra può dipendere da molte cose – in particolare dal contesto dell'immagine – ma non meno dalla capacità interpretativa che ciascuno possiede e cioè le categorie, i modelli e le abitudini di deduzione e analogia: in breve ciò che si può definire lo “stile conoscitivo” individuale. In pratica però non si tratta di elementi che operano uno di seguito all'altro, ma insieme; il processo è indescrivibilmente complesso e ancora oscuro nei suoi dettagli fisiologici. L'uomo del Quattrocento si impegnava a fondo nel guardare un dipinto, sapeva che in un buon dipinto ci doveva essere abilità e spesso era convinto che il dare un giudizio su di essa e talvolta anche l’esprimerlo verbalmente, fosse compito del fruitore colto. Buona parte di ciò che noi chiamiamo “gusto” consiste nella corrispondenza fra l'analisi richiesta da un dipinto e la capacità di analisi del fruitore. Questo è uno dei fattori che rendono tanto importante per la fruizione rinascimentale dei dipinti il tipo di influsso che, come si è detto, la cultura ha sulla percezione. Abbiamo cercato di dare una definizione dello stile conoscitivo del Quattrocento, cioè del corredo critico con cui il pubblico di un pittore del XV secolo affrontava dei complessi stimoli visivi quali potevano essere i dipinti. Non si sta parlando di tutta la gente del Quattrocento in generale, ma di quelle persone la cui reazione alle opere d'arte era di importanza fondamentale per l'artista – potremmo dire le classi dei committenti. Per riassumere: alcuni degli strumenti mentali con cui un uomo organizza la sua esperienza visiva possono variare, e buona parte di questi strumenti sono relativi al dato culturale, nel senso che sono determinati dall'ambiente sociale che ha influito sulla sua esperienza. In essi rientrano le categorie per mezzo delle quali egli classifica i suoi stimoli visivi, le conoscenze cui attingerà per integrare il risultato della sua percezione immediata, e l'atteggiamento che assumerà di fronte al tipo di oggetto artificiale che gli si presenta. Il fruitore deve utilizzare nella lettura di un dipinto le capacità visive di cui dispone, e dato che di queste sono pochissime di solito quelle specifiche della pittura, egli è incline a usare quelle capacità che sono più apprezzate dalla società in cui vive. Il pittore è sensibile a tutto questo e deve fare i conti con la capacità visiva del suo pubblico. Quali che siano le sue capacità professionali specifiche, egli stesso d'altronde fa parte della società in cui opera e quindi partecipa all’esperienza visiva e alle abitudini di questa società. Vediamo ora i tipi di capacità visiva di cui era specificatamente dotata una persona del Quattrocento, e come questi fossero connessi alla pittura. La maggior parte dei dipinti del XV secolo sono dipinti religiosi, essi vengono utilizzati come stimoli rispettivamente lucidi, vividi e immediatamente accessibili che inducono l'uomo a meditare sulla Bibbia e sulle vite dei santi. Esistevano chiaramente soggetti con implicazioni eretiche, soggetti apocrifi, soggetti resi meno chiari dal fatto di essere trattati in modo frivolo e indecoroso ma nel complesso, le tre funzioni assegnate dalla chiesa alla pittura venivano rispettate: dato che la maggior parte dei dipinti era 1) chiara, 2) attraente e indimenticabile, 3) rappresentazione toccante di storie sacre. L'esperienza quattrocentesca di un dipinto non si limitava soltanto al dipinto che noi vediamo oggi, ma comprendeva anche il processo di visualizzazione che il fruitore aveva precedentemente operato sull’argomento raffigurato nel dipinto stesso. Una mediazione che visualizzi così dettagliatamente le storie da arrivare quasi ad ambientarle nella propria città e a utilizzare come personaggi i propri conoscenti è un tipo di esperienza che oggi manca alla maggior parte di noi. Quell’abitudine dava una funzione curiosa alle visualizzazioni esteriori del pittore. Il pittore di regola cercava di evitare di caratterizzare nei particolari le persone e i luoghi: se lo avesse, fatto ciò, avrebbe costituito un’interferenza nella personale visualizzazione di ognuno. convenzione di proporzione armonica. È possibile che le qualità pittoriche che ci sembravano teologicamente neutrali – proporzione, prospettiva, colore, varietà, per esempio – in realtà non lo fossero. Una cosa imponderabile è l'occhio morale spirituale, atto a interpretare diversi tipi di interesse visivo in termini morali e spirituali. Uno dei metodi adottati dai pittori era quello di prendere un certo numero di fenomeni ottici abbastanza comuni – per esempio un bastone immerso per metà nell'acqua che sembra piegato e il fatto che se si mette un dito di fronte alla fiamma di una candela si vedono due dita – per trarne delle considerazioni morali. Se si uniscono questi due tipi di pensiero – l'esperienza geometrica sufficiente percepire una costruzione prospettica complessa e una cultura religiosa per fare di questa un’allegoria – emerge un’ulteriore sfumatura che caratterizza la rappresentazione narrativa dei pittori del Quattrocento. Gli episodi di virtuosismo prospettico perdono la loro gratuità e assumono una diretta funzione drammatica. Questo tipo di prospettiva non viene considerata soltanto come un tour de force, ma anche come una forma di metafora visiva. Questo tipo di spiegazione è troppo teoretico per interpretare delle opere individuali, ma ha lo scopo di ricordarci l'origine dell'eventuale inafferrabilità dello stile conoscitivo del Quattrocento. Nel XV secolo non vi era uno schema netto dei pittori che spiccavano sulla massa, come era stato per la pittura del Trecento, ma ognuno propendeva per quelli che avevano lavorato nella sua città. L'elenco più distaccato e più ricco di informazioni generali si trova nel componimento poetico di un pittore che lavorò ad Urbino, Giovanni santi. Egli aveva sia il vantaggio della conoscenza professionale, sia quello di una prospettiva neutrale. Qui il maggior peso viene attribuito a Firenze, ed è sempre a Firenze che bisogna far capo per trovare la miglior critica. Cristoforo Landino era uno studioso di latino e un filosofo platonico, docente di poesia e retorica all'università di Firenze; in breve la sua professione consisteva nell’esatto uso della lingua. Fu egli a definire i principali termini usati nel Quattrocento per esaminare i dipinti dell'epoca, in particolare illustrò sedici concerti utilizzati per descrivere Masaccio, Filippo Lippi, Andrea del Castagno e Beato Angelico. Altri due elementi lo mettevano in grado di pronunciarsi sui pittori: era amico di Leon Battista Alberti, autore del trattato Della pittura (1435) ed era il traduttore della Naturalis Historia in di Plinio (77 d.C.). Tuttavia, a Landino va il merito di non aver utilizzato i termini di Plinio, con i loro riferimenti a una cultura generale molto diversa da quella della Firenze del 1480, bensì il “metodo” dei termini di Plinio. Come Plinio egli fece uso di metafore, o coniate da lui o appartenenti alla sua cultura, riferendo aspetti dello stile pittorico del suo tempo allo stile sociale o letterario della sua epoca. Come Plinio anch’egli usa termini ricavati dalla bottega degli artisti, non così tecnici da esseri sconosciuti al lettore comune, ma che hanno in sé l’autorità del pittore. Masaccio 1. Imitatore della natura L’imitatore della natura è il pittore che si distacca dai libri che presentavano dei modelli con le loro formule e soluzioni precostituite, per cogliere gli oggetti reali così come si presentano; egli si basa sullo studio e la rappresentazione del loro aspetto reso proprio attraverso la loro prospettiva e il loro rilievo – una “realtà” riveduta e corretta e una “natura” selettiva. 2. Rilievo È l’apparire di una forma modellata a tutto tondo, ottenuta trattando abilmente e discretamente i toni (luci e ombre) della superficie. Tuttavia, la luce piena e le ombre vengono percepite come forma solo quando si abbia un'idea chiara di dove venga la luce; se non abbiamo questa idea, come può capitarci in condizioni di laboratorio, perfino dei corpi veramente complessi vengono visti come superfici piatte macchiate di luce e di chiazze scure. 3. Puro “Puro sanza ornato” è quasi pleonastico, dal momento che “puro” praticamente significa “sanza ornato”. “Puro” viene utilizzato per definire uno stile disadorno e laconico, ma il punto è che questo termine fa di un concetto negativo – “sanza ornamenti” – uno positivo – “conciso e chiaro” – con un elemento di connotazione morale. 4. Facilita Questo termine è qualcosa a metà tra le nostre “facilità” e “abilità”, ma senza la connotazione negativa della prima. Era molto usato nella critica letteraria e, in senso stretto, veniva spiegato come il prodotto di 1) talento naturale e 2) capacità acquisibili sviluppate attraverso 3) l'esercizio, sebbene naturalmente esso venisse di solito usato più liberamente e disinvoltamente. Gli affreschi del Masaccio sono ciò che si dice “buon fresco”, o autentico fresco, dipinti quasi interamente su intonaco fresco, poiché esso veniva dato sul muro pezzo per pezzo ogni volta che si riprendeva dipingere. In questo esse differiscono dalla maggior parte degli affreschi del Quattrocento, che non sono affatto autentici affreschi, ma “fresco secco”, dipinti per lo più sintonia col secco. 5. Prospectivo Prospectivo è semplicemente qualcuno che si distingue nell’uso della prospettiva. Come dice Manetti la prospettiva pittorica è legata alla “scienza della prospettiva”, un settore cui la ricerca accademica si era intensamente dedicata nel tardo Medioevo e che potremmo chiamare ottica. I fondamenti matematici della prospettiva attrassero alcuni pittori che videro in essi ciò che la rendeva una scienza sistematica. Se Brunelleschi ne fu l'inventore, Alberti fu colui che la sviluppo e la spiegò. La prospettiva sistematica porta apparentemente e naturalmente con sé la preparazione sistematica: la prima permette al pittore di provvedere alla seconda. La migliore prospettiva del Quattrocento è spesso intuitiva, come quella di Masaccio. Filippo Lippi 6. Gratioso Questa parola oscillava costantemente tra un senso più oggettivo e uno più soggettivo: 1) che possiede “grazie” e 2) piacevole in generale. Filippo Lippi, così dotato di “gratia” ha meno “rilievo” di Masaccio o di Andrea del Castagno, in quanto le due qualità non sono del tutto compatibili. Secondo i critici letterari neoclassici la “gratia” era il prodotto di 1) varietà e 2) ornato. E sono precisamente queste due qualità che Landino più avanti attribuisce a Filippo Lippi. 7. Ornato Nella critica letteraria neoclassica e specialmente nel libro VIII delle Institutiones Oratoriae di Quintiliano le prime due qualità del linguaggio erano la chiarezza e la correttezza, che tuttavia non bastavano di per sé a ottenere un brillante risultato e tutto ciò che si aggiungeva alla chiarezza e alla correttezza era ornato. Questo termine veniva spesso riferito all’atteggiamento o al movimento di una figura. In un famoso brano Quintiliano, nel tentativo di spiegare l'effetto di figure ornate in retorica, usa come paragone una statua; la rigida statua eretta con le braccia che sembrano incollate alla figura, manca di “gratia” e di ornamento, mentre una posa curva, mobile e varia ha “gratia” ed è l'equivalente della prosa ornata. 8. Varieta Alberti si occupò di mettere a punto la nozione di varietà e di differenziarla dalla pura e semplice abbondanza di materiali. Egli perciò distingueva tra due tipi di interesse: 1) “copia”, chi è una profusione di soggetti, e 2) “varieta”, che è invece la diversità dei soggetti. La varietà è un valore assoluto, mentre la copiosità non lo e, come spiega Alberti, la varietà risiede particolarmente in due fattori: primo in una diversità e contrasto di tinte; secondo, e soprattutto, in una diversità e contrasto degli atteggiamenti delle figure. 9. Compositione Il termine “composizione” è inteso come l’armonizzazione sistematica dei vari elementi del dipinto volta ottenere l'effetto complessivo desiderato. I dipinti sono composti di corpi, che sono composti da parti, che sono composte, a loro volta, di superfici piane: le superfici si compongono nei membri, i membri nei corpi, i corpi nei dipinti. Con questa teoria il Quattrocento poteva analizzare a fondo la composizione di un quadro, esaminando minuziosamente la sua articolazione, rifiutando il superfluo, e mettendo in relazione i mezzi formali con i fini narrativi. 10. Colorire Con “colorire” Landino intende lo stendere il colore. Il fenomeno di ricevere la luce da parte di un oggetto si presentava al pittore come l'arte di trattare il bianco e il nero da un lato e il rosso, blu, verde e gli altri colori, dall'altro: toni e tinte. Ma “colorire” raggiunge la pienezza di significato quando viene contrapposto all'elemento che Landino cita subito dopo, non per Filippo Lippi, ma per Andrea del Castagno e cioè “disegno”. Andrea del Castagno 11. Disegnatore Il termine veniva riferito alla rappresentazione degli oggetti basata sulle linee di contorno contrapposta a quella fondata sul tono. Vi è una profonda distinzione tra “disegno” e “colorire. “Colorire” (Filippo Lippi) è unito a pennello, toni, rappresentazione di superfici, “rilievo”; “disegno” (Andrea del Castagno) è unito a matita, linee, rappresentazione di contorni, prospettiva. La dicotomia tra “disegno” e “colorire”, tra linee toni che si è andata approfondendo sempre di più nella cultura europea relativa all’esperienza visiva ha creato in noi una sensibilità curiosamente sdoppiata tagliandoci fuori da ciò che è rappresentato per esempio dalla pittura e dalla critica cinese. È stato il Rinascimento a dare a questa attitudine analitica le sue formulazioni sistematiche e a fare del disegno e della pittura, e cioè dei contorni e delle superfici, delle linee e dei toni, il “fondamento dell’arte della pittura” come veniva insegnata e come viene oggi esaminata. 12. Amatore delle difficulta L'esecuzione di cose difficili era apprezzata di per se stessa, come una dimostrazione di abilità e di talento. Il buon pittore fa con facilità cose difficili. Questo falso paradosso affascinava i critici del Rinascimento. Le difficoltà che Andrea del Castagno si imponeva non erano sterili imprese di destrezza, ma degli artifici intesi a enfatizzare la vicenda e, secondo Landino, e se consistono particolarmente nei suoi “scorci”. 13. Scorci Gli scorci sostituiscono l’oro quale mezzo per richiamare l'attenzione; il loro carattere circoscritto, la concezione cioè della difficoltà o dell'abilità come di un qualcosa che si applica in certi determinati punti, è una sopravvivenza della sensibilità all’enfasi ottenuta prima con l’oro, cui si era poi andata sostituendo l'abilità. D’altra parte, ciò era sgradevole per il tardo Rinascimento come l'uso dell'oro lo era divenuto per il Quattrocento. Gli scorci sono un'applicazione particolare della prospettiva. Landino disse di Paolo Uccello che gli era “artificioso negli scorci, perché intese bene di prospectiva”: la prospettiva è quindi la scienza o la teoria, gli scorci la specifica manifestazione della sua pratica. Ma in pratica il termine scorci spesso riveste due tipi di interesse. Il primo consiste nello scorcio vero e proprio – una cosa lunga, vista da una parte, dà all'occhio l’impressione d'essere corta e il dedurre il lungo dal corto costituisce un piacevole esercizio mentale e, il secondo è rappresentato dal punto di vista inconsueto. È difficile che un volto umano visto al suo
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